Samuel Beckett (1906-1989) POESIE SCELTE (da Einaudi, 1999) traduzioni di Gabriele Frasca con un Commento politico di Giorgio Linguaglossa

Evtusenko Foto di Vladimir Mishukov

Foto di Vladimir Mishukov

dire oggi arte radicale è lo stesso che dire arte cupa,
col nero come colore di fondo. Molta produzione
contemporanea si squalifica perché non ne prende atto e magari
gioisce infantilmente dei colori […] L’arte di assoluta responsabilità va
a finire nella sterilità, di cui è raro non sentire l’alito nelle opere d’arte
elaborate fino in fondo e in modo conseguente; l’assoluta irresponsabilità
le abbassa a “fun”; una sintesi dei due momenti si condanna da
sé, in base al suo stesso concetto […] L’arte moderna che si atteggiasse
a dignitosa sarebbe ideologica senza misericordia. Per suggerire dignità
essa dovrebbe darsi arie, mettersi in posa, farsi altro da ciò che può essere.

T.W. Adorno

Commento politico di Giorgio Linguaglossa. La poesia del «negativo» di Samuel Beckett

Scrive Samuel Beckett nel saggio su “Proust”:

Il tentativo di comunicare, laddove nessuna comunicazione è possibile, è soltanto una volgarità scimmiesca, o qualcosa di orrendamente comico, come la follia che fa parlare coi mobili. […] Per l’artista che non si muove in superficie, il rifiuto dell’amicizia non è soltanto qualcosa di ragionevole, ma è un’autentica necessità. Poiché il solo possibile sviluppo spirituale è in profondità. La tendenza artistica non è nel senso dell’espansione, ma della contrazione. E l’arte è l’apoteosi della solitudine. Non vi è comunicazione poiché non vi sono mezzi di comunicazione.

foto-samuel-beckett

Beckett fa colazione a Parigi, anni settanta

Leggere oggi queste poesie di Beckett può essere se non utile, direi indispensabile, o almeno salutare per via di quell’imbruttimento allo stadio zero della «comunicazione» (questa orribile pseudo categoria oggi di moda) che la sua poesia recepisce dalla lingua di relazione. Quella di Beckett è una sorta di super lingua, quali sono diventati l’inglese, il francese, l’italiano di uso corrente oggi nelle classi abbienti e meno abbienti, come tutte le altre lingue dell’Europa occidentale. Arte «cupa», lo afferma Adorno, con l’impiego del «fun» a renderla appetibile e digeribile.

Direi che quella di Beckett è, appunto, una poesia di uso corrente, che impiega parole correnti del linguaggio parlato del linguaggio internazionale quale è quello che usiamo nei commerci quotidiani. Direi che è scomodo affrontare un autore che non ci dà alcun appiglio per un discorso critico; un critico dinanzi a queste poesie non può dire nulla, quello che può dire è che esse si sottraggono con tutte le forze a qualsiasi discorso ermeneutico.

Sono poesie anti ermeneutiche. Del resto, tutta l’opera teatrale e narrativa dello scrittore irlandese vuole raggiungere questo obiettivo: sottrarsi alla indagine ermeneutica, sottrarsi al lettore, allo spettatore, al fruitore chicchessia, non offrire nessun appiglio o alibi, porsi come il «negativo» di un pensiero estetico che pensa il «negativo», negativo esso medesimo. Ma già parlare a proposito di Beckett di «pensiero estetico» è un reato di opinione, il «pensiero estetico» presuppone altre categorie quali la Forma, il Tempo, il Soggetto, l’Oggetto, la Scrittura, il Romanzo, la Poesia, la Commedia, etc. Ebbene, l’opera poetica di Beckett si sottrae a tutto ciò, è estranea a queste categorie. Così, il fatto che lui scriva delle poesie non deve indurci in tentazione, queste che presentiamo non sono poesie, né anti poesie come era d’uso pensare nel Novecento delle post-avanguardie, sono nient’altro che scritture del negativo, registrazione burocratica del negativo, e neanche della negazione, perché il negativo beckettiano è estraneo allo stesso concetto di «negazione», che implicherebbe pur sempre un quantum, sia pur esilissimo, di positività.

E certo il primo assunto su cui si basa questa «poetica», diciamo così, è la negazione del concetto di poetica e   di «comunicazione» oggi tanto in voga presso la chatpoetry e il chatnovel, le viandanze turisticamente agghindate, carcasse della sotto cultura ceto-mediatica di oggi. La poesia beckettiana, al pari di tutta la sua opera, si situa al di qua della «comunicazione» e al di là di ogni concetto di «poetica» impegnata politicamente o civilmente, in un certo senso essa è socialmente incivile, infungibile e quindi si sottrae al concetto di «rappresentazione» per approdare ad un deserto assoluto che presuppone la incomunicazione quale categoria di base della scrittura. Il che non vuol dire sguardo pessimistico o negativo sul mondo, quanto un mondo senza sguardo, né interno né esterno, un mondo senza un observer. Un mondo senza una entità che lo osserva, è qualcosa che sta al di qua del senso e del non senso, al di qua del concetto di rappresentazione e al di qua della mera ragionevolezza. Dirò di più, queste poesie sono delle «cose» che non sortiscono da alcun pensiero critico, perché già esso presupporrebbe una esilissima stoffa di positività che nel pensiero di Beckett è invece del tutto assente.

Meglio dunque non dire nulla, come del resto vorrebbe lo stesso Beckett. Ma questo dovevo pur dirlo, cioè non dire alcunché per indicare il «nulla» che queste poesie mostrano ma non perché occorra dare una dimostrazione del «nulla» quanto che il «nulla» si mostra così com’è. E con questo penso di aver dato una interpretazione di Beckett dal punto di vista di una «nuova ontologia estetica».

Ha scritto Adorno:

«Un uomo, che con una forza ammirevole sopravvisse ad Auschwitz ed altri campi di concentramento, opinò appassionatamente contro Beckett, che se questi fosse stato ad Auschwitz, scriverebbe diversamente, cioè con la religione da trincea di chi è sfuggito, più positivamente. Lo sfuggito ha ragione in un senso diverso da quello inteso; Beckett, e chi altri ancora restò capace di controllarsi, là sarebbe stato spezzato e presumibilmente costretto a convertirsi a quella religione da trincea, che lo sfuggito rivestì di parole: voleva dar coraggio agli uomini. Come se si trattasse di una qualche formazione spirituale, come se l’intenzione che si rivolge agli uomini e si organizza secondo loro non gli tolga ciò che potrebbero pretendere, anche quando credono il contrario. Così è finita la metafisica.».1

1 T.W. Adorno Dialettica negativa trad. it. Einaudi, 1970, p. 332

 

morton-feldman-and-beckett

Morton Feldman e Samuel Beckett

da Samuel Beckett – Le Poesie, cura e traduzione di Gabriele Frasca, Einaudi, Torino 1999. 

Gnome

Spend the years of learning squandering
Courage for the years of wandering
Through a world politely turning
From the loutishness of learning

 

Gnomo

Passano gli anni dell’apprendimento
A dissipare il coraggio per gli anni
In cui vagabondare dentro un mondo
Che con garbo si libera ruotando
Da ogni grossolano apprendimento

 

Home Olga

J might be made sit up for a jade of hope (and exile, don’t you know)
And Jesus and Jesuits juggernauted in the haemorrhoidal isle,
Modo et forma anal maiden, giggling to death in stomacho.
E for an erythrite of love and silence and the sweet noo style,
Swoops and loops of love and silence in the eye of the sun and the view of the mew,
Juvante Jah and a Jain or two and the tip of a friendly yiddophile.
O for an opal of faith and cunning winking adieu, adieu, adieu.
Yesterday shall be tomorrow, riddle me that my rapparee.
Che sarà sarà che fu, there’s more than Homer knows how to spew,
Exempli gratia: ecce himself and the pickthank agnus – e.o.o.e.

 

Home Olga

J potrebbe essere allertato da una bagascia di speranza (ed esilio, sai)
A molocchare rimarrebbero Gesù e i Gesuiti nell’isola emorroidale,
Modo et forma vergine anale, ridacchiando a morte nello stomacho.
E sta per eritrite d’amore e silenzio e dolce stil nonovo,
Scorribande e intrecci d’amore e silenzio nell’occhio del sole e vista di gabbiano,
Juvante Jah e uno o due jaini e la soffiata d’un amichevole yiddofilo.
O invece per un opale di fede e maestria palpitante adieu, adieu, adieu.
Yeri sarà domani, risolvimi questa stoccata e fiuta.
Che sarà sarà che fu, c’è più di quanto Omero abbia saputo vomitare,
Exempli gratia: ecce lui proprio e l’acchiappagrazie agnus… e.o.o.e.

 

da: «Oroscopata e altri versi d’occasione»

 

The Vulture

dragging his hunger through the sky
of my skull shell of sky and earth

stooping to the prone who must
soon take up their life and walk

mocked by a tissue that may not serve
till hunger earth and sky be offal

 

L’avvoltoio

Trascinando la fame lungo il cielo
del mio cranio che serra cielo e terra

piombando su quei proni che dovranno
presto riprendersi la vita e andare

irriso da un inutile tessuto
se fame terra e cielo sono resti

 

Enueg II

world world world world
and the face grave
cloud against the evening

de morituris nihil nisi

and the face crumbling shyly
too late to darken the sky
blushing away into the evening
shuddering away like a gaffe

veronica mundi
veronica munda
give us a wipe for the love of Jesus

sweating like Judas
tired of dying
tired of policemen
feet in marmalade
perspiring profusely
heart in marmalade
smoke more fruit
the old heart the old heart
breaking outside congress
doch I assure thee
lying on O’Connell Bridge
goggling at the tulips of the evening
the green tulips
shining round the corner like an anthrax
shining on Guinness’s barges

the overtone the face
too late to brighten the sky
doch doch I assure thee

 

Enueg II

mondo mondo mondo mondo
e il volto austera
nuvola sullo sfondo della sera

de morituris nihil nisi

e il volto a sgretolarsi timido
troppo tardi per tenebrare il cielo
che arrossa nella sera
come una gaffe rabbrividendo via

veronica mundi
veronica munda
da’ noi una pulitina per amor di Gesù

sudando come Giuda
stanco di morire
stanco dei poliziotti
coi piedi in marmellata
copiosamente a traspirare
col cuore in marmellata
fumo addizionato al frutto
col vecchio cuore il vecchio cuore
che prorompe fuori congresso
doch ti rassicuro
sdraiato sull’O’Connell Bridge
a sgranare gli occhi sui tulipani della sera
sui verdi tulipani
che splendono dietro l’angolo come un antrace
che splenda sulle chiatte della Guinness

in sovratono il volto
troppo tardi per rischiarare il cielo
doch doch ti rassicuro

 

foto Le biglieAlba

before morning you shall be here
and Dante and the Logos and all strata and mysteries
and the branded moon
beyond the white plane of music
that you shall establish here before morning

grave suave singing silk
stoop to the black firmament of areca
rain on the bamboos flowers of smoke alley of willows

who though you stoop with fingers of compassion
to endorse the dust
shall not add to your bounty
whose beauty shall be a sheet before me
a statement of itself drawn across the tempest of emblems
so that there is no sun and no unveiling
and no host
only I and then the sheet
and bulk dead

 

Alba

prima che giunga il giorno sarai qui
con Dante e il Logos e tutti i cieli e i misteri
e la luna maculata
al di là della candida superficie di musica
che qui enuncerai prima del giorno

grave soave cantabile seta
chìnati sull’oscuro firmamento di areche
effondi sui bambù fiore di fumo filari di salici

chi mai se anche ti chini con dita di pietà
a sottoscrivere la polvere
non vorrà aggiungere alla tua elargizione
il cui splendore sarà un foglio dinanzi a me
un resoconto della stessa emesso da oltre la tempesta di emblemi
così che non ci sarà sole e né disvelamento
né alcuna schiera
soltanto io e quindi il foglio
e massa inerte

 

Dortmunder

In the magic the Homer dusk
past the red spire of sanctuary
I null she royal hulk
hasten to the violet lamp to the thin K’in music of the bawd.
She stands before me in the bright stall
sustaining the jade splinters
the scarred signaculum of purity quiet
the eyes the eyes black till the plagal east
shall resolve the long night phrase.
Then, as a scroll, folded,
and the glory of her dissolution enlarged
in me, Habbakuk, mard of all sinners.
Schopenhauer is dead, the bawd
puts her lute away.

 

Dortmunder

Nel fantastico omerico imbrunire
oltre la rossa guglia del santuario
io nullo lei maestoso rottame
ci affrettiamo verso la lanterna viola la fievole musica K’in della maitresse.
Mi sta dinanzi erta nel chiosco illuminato
sorreggendo schegge di giada
signacolo sfregiato di segreta purezza
gli occhi gli occhi neri fin tanto che il plagale oriente
risolverà la prolungata frase della notte.
Allora si richiuse come un rotolo,
e la gloria s’ampliò del suo dissolvimento
in me, Abacucco, sterco di tutti i peccatori.
Schopenhauer è morto, la maitresse
mette via il suo liuto.

 

Serena III

fix this pothook of beauty on this palette
you never know it might be final

or leave her she is paradise and then
plush hymens on your eyeballs

or on Butt Bridge blush for shame
the mixed declension of those mammae
cock up thy moon thine and thine only
up up up to the scar of evening
swoon upon the little purple
house of prayer
something heart of Mary
the Bull and Pool Beg that will never meet
not in this world

whereas dart away through the cavorting scapes
bucket o’er Victoria Bridge that’s the idea
slow down slink down the Rindsend Road
Irishtown Sandymount puzzle find the Hell Fire
the Merrion Flats scored with a thrillion sigmas
Jesus Christ Son of God Savior His Finger
girls taken strippin that’s the idea
on the Bootersgrad breakwind and water
the tide making the dun gulls in a panic
the sands quicken in your hot heart
hide yourself not in the Rock keep on the move
keep on the move

 

Serena III

imprimi questo schizzo di bellezza su questa tavolozza
potrebbe chi può dirlo essere l’ultimo

o lascia lei che è il paradiso e poi
felpa imeni suoi tuoi bulbi oculari

oppure sul Butt Bridge arrossa di vergogna
il diverso declinare di quelle mammelle
drizza in su la tua luna tua e soltanto tua
su su fino alla stella della sera
vieni meno sopra l’arcigasometro
lì sull’incarnato nuovo fiammante di Misery Hill
vieni meno sulla piccola porpora
casa delle preghiere
qualcosa come il cuore di Maria
sul Bull e il Pool Beg che mai si incontreranno
almeno in questo mondo

da poi che sfrecci via fra l’impennarsi degli steli
sbriglia sul Victoria Bridge ecco una buona idea
rallenta sguscia giù per Ringsend Road
Irishtown Sandymount esita incerto trova il Fuoco d’Inferno
gli appartamenti Merrion siglati da un trilione di sigma
il Dito di Gesù Cristo Redentore Figlio di Dio
ragazze riprese a spogliarsi ecco una buona idea
sul frangivento e flutti di Bootersgrad
la marea che monta i grigi gabbiani nel panico
accelerano i granelli di sabbia nel rovente tuo cuore
nasconditi ma non nella Rocca e resta in azione
resta in azione

 

Malacoda

thrice he cam
the undertaker’s man
impassible behind his scrutal bowler
to measure
is he not paid to measure
this incorruptible in the vestibule
this malebranca knee deep in the lilies
Malacoda knee-deep in the lilies
Malacoda for all the expert awe
that felts his perineum mutes his signal
sighing up through the heavy air
must it be it must be it must be
find the weeds engage them in the garden
hear she may see she need not

to coffin
with assistant ungulata
find the weeds engage their attention
hear she must see she need not

to cover
to be sure cover cover all over
your targe allow me hold your sulphur
divine dogday glass set fair
stay Scarmilion stay stay
lay this Huysum on the box
mind the imago it is he
hear she must see she must
all aboard all souls
half-mast aye aye

nay

 

Malacoda

venne tre volte
l’addetto alle pompe funebri
impassibile nella sua corazzata bombetta
a misurare
non è forse per questo che lo pagano
questo incorruttibile nel vestibolo
questo malebranca coi gigli fino alle ginocchia
Malacoda coi gigli alle ginocchia
Malacoda malgrado l’esperto sgomento
che feltra il suo perineo mette sordina al cenno
sospirando su per l’aere cupo
dev’essere? deve essere deve essere
si procuri le gramaglie li attiri in giardino
badi a lei che può vedere non deve

a porre nella bara
con altri ungulati assistenti
si procuri le gramaglie attiri la loro attenzione
badi a lei che può vedere non deve

a mettere il coperchio
ma certo copra ricopra per bene
il suo scudo ma la prego trattenga il suo sulfureo
canicolare splendido sereno
e posa Scarmiglione posa posa
adagi questo Huysum sulla cassa
attento all’imago che è lui
badi a lei che può vedere che deve
a bordo tutte l’anime
a mezz’asta maisì maisì

mainò

 

Da Tagte Es

redeem the surrogate goodbyes
the sheet astream in your hand
who have no more for the land
and the glass unmisted above your eyes

 

Da Tagte Es

a questi surrogati addii adempia
il foglio rifluente nella mano
che nulla abbia di più per questo piano
e sui tuoi occhi lo specchio che snebbia

 

Echo’s Bones

asylum under my tread all this day
their muffled revels as the flesh falls
breaking without fear or favor wind
the gantelope of sense and nonsense run
taken by the maggots for what they are

 

Ossa d’Eco

dentro la mia andatura rifugio tutto il giorno
con gazzarre smorzate se la carne decade
senza tema erompendo o favore di vento
vada il guanto di sfida del senso e del non senso
preso dalle sue fisime per quello che mai sono

 

foto-gunnar-smoliansky-1976

foto di gunnar-smoliansky-1976

da: «Ossa d’Eco»

Cascando

1

why not merely the despaired of
occasion of
wordshed

is it not better abort than be barren

the hours after you are gone are so leaden
they will always start dragging too soon
the grapples clawing blindly the bed of want
bringing up the bones the old loves
sockets filled once with eyes like yours
all always is it better too soon than never
the black want splashing their faces
saying again nine days never floated the loved
nor nine months
nor nine lives

2

saying again
if you do not teach me I shall not learn
saying again there is a last
even of last times
last times of begging
last times of loving
of knowing not knowing pretending
a last even of last times of saying
if you do not love me I shall not be loved
if I do not love you I shall not love

the churn of stale words in the heart again
love love love thud of the old plunger
pestling the unalterable
whey of words

terrified again
of not loving
of loving and not you
of being loved and not by you
of knowing not knowing pretending
pretending

I and all the others that will love you
if they love you

3

unless they love you

 

Cascando

1

perché non meramente l’occasione
senza speranze di stillare
parole

meglio non è abortire che essere sterili

plumbee dopo che tu vai via le ore
cominceranno sempre troppo presto
uncinando alla cieca
a dragare il letto del desiderio
recuperando le ossa i vecchi amori
orbite un tempo riempite di occhi come i tuoi
forse che tutto è sempre meglio troppo presto che mai
coi volti bruttati dal nero desiderio
nuovamente dicendo in nove giorni mai riemerse l’amato
né in nove mesi
né in nove vite

2

nuovamente dicendo
se non m’insegni non imparerò
nuovamente dicendo ecco vi è un’ultima
volta persino per le ultime volte
ultime volte per mendicare
ultime volte per amare
per sapere di non sapere fingere
un’ultima anche per le ultime volte
di dire se non m’ami
non sarò amato se non amo te
non amerò

la zangola di parole stantie nuovamente nel cuore
amore amore amore
tonfo del vecchio pistone a pestare
l’inalterabile
siero di parole

nuovamente atterrito
di non amare
di amare e non te
di essere amato e non da te
di sapere di non sapere fingere
fingere

io e tutti quegli altri che ti ameranno
se ti amano

3

sempre che ti amino

Samuel Beckett 1jpgSamuel Barclay Beckett (Dublino, 13 aprile 1906 – Parigi, 22 dicembre 1989) è stato uno scrittore, drammaturgo, poeta, traduttore e sceneggiatore irlandese.

Considerato uno degli scrittori più influenti del XX secolo, Beckett è senza dubbio la più significativa personalità (insieme a Eugène Ionesco, Arthur Adamov e al primo Harold Pinter) di quel genere teatrale e filosofico che Martin Esslin definì come “Teatro dell’assurdo”. Autore sia in lingua inglese sia in lingua francese, le sue opere più famose sono la pièce Aspettando Godot e il cortometraggio cinematografico Film del 1965, con Buster Keaton. Autore di romanzi e di poesie, nel 1969 Beckett venne insignito del Premio Nobel per la letteratura «per la sua scrittura, che – nelle nuove forme per il romanzo ed il dramma – nell’abbandono dell’uomo moderno acquista la sua altezza».

I Beckett erano protestanti, membri della Chiesa d’Irlanda. La dimora di famiglia, Cooldrinagh a Foxrock, quartiere periferico di Dublino, era una grande casa con giardino e un campo da tennis costruita nel 1903 dal padre di Samuel, William, funzionario in campo edile. La casa e il giardino, insieme alla campagna circostante dove spesso andava a passeggiare con suo padre, il vicino ippodromo Leopardstown Racecourse, la stazione ferroviaria di Harcourt Street, sono tutte presenti nelle sue opere.

Samuel Beckett nasce probabilmente il 13 aprile 1906, un venerdì santo, nonostante i registri anagrafici riportino come data il 14 giugno, mentre un altro certificato di nascita indichi il 13 maggio. All’età di cinque anni, Beckett inizia a frequentare la scuola materna locale, dove comincia a studiare musica. Successivamente si trasferisce alla Earlsford House School nel centro della città, vicino Harcourt Street. Nel 1919, Beckett frequenta la Portora Royal School a Enniskillen, nella contea di Fermanagh, dove fu studente anche Oscar Wilde. Ottiene ottimi risultati nello studio del francese, lingua che padroneggerà in modo perfetto in età adulta. Atleta naturale, Beckett eccelle nel cricket come battitore e lanciatore. Più tardi, come giocatore della University of Dublin, gioca due match contro il Northamptonshire, divenendo l’unico Premio Nobel ad apparire nel Wisden Cricketers’ Almanack, il più illustre libro del cricket inglese.

Prime opere

Beckett studia francese, italiano e inglese al Trinity College di Dublino tra il 1923 e il 1927. Nel 1926 viaggia lungamente in Francia, nel 1927 in Italia. Si laurea con un Bachelor of Art e riceve la medaglia d’oro per l’eccellenza dei suoi risultati. Dopo aver insegnato per un breve periodo al Campbell College a Belfast, assume la carica di lecteur d’anglais alla École normale supérieure di Parigi. Qui, grazie a Thomas MacGreevy, un poeta e confidente di Beckett, che lavorava in città, ha la possibilità di conoscere James Joyce. Questo incontro ha una profonda influenza sul giovane Beckett, che assiste Joyce in vari modi, in particolare aiutandolo con altri amici nella traduzione in francese di alcune pagine di quello che sarebbe diventato Finnegans Wake.

Nel 1929, Beckett pubblica il suo primo lavoro, un saggio critico intitolato Dante… Bruno. Vico.. Joyce che sarebbe stato inserito da Joyce nell’antologia Our Exagmination round his factification for incamination of Work in Progress (La nostra analisi intorno alla sua realizzazione per la diffusione del Work in Progress), che include anche le collaborazioni di Eugene Jolas, Robert McAlmon e William Carlos Williams, fra gli altri e che avrebbe avuto il compito di fornire strumenti e risposte ai critici che avrebbero dovuto analizzare l’esegesi del Finnegans Wake[3]. Lo stretto rapporto fra Beckett, Joyce e la sua famiglia, comunque, si raffredda quando respinge la figlia di Joyce, Lucia, che soffriva di schizofrenia. Sempre in questo periodo il suo primo racconto, Assumption, viene pubblicato nel periodico Transition, fondato da Eugene Jolas.

Nel 1930, Beckett torna al Trinity College come docente universitario, ma presto rimane deluso da questa scelta. Esprime la sua avversione facendo uno scherzo alla Modern Language Society of Dublin, leggendo un testo in francese di un autore di Tolosa chiamato Jean du Chas, fondatore di un movimento detto Concentrismo; Chas e il Concentrismo, comunque, erano pura finzione, essendo stati inventati da Beckett per beffarsi dell’eccessiva pedanteria dell’ambiente accademico.

Beckett rassegna le dimissioni dal Trinity College alla fine del 1931, terminando la sua breve carriera di insegnante. Commemora questo punto di svolta nella sua vita componendo il poema Gnome, ispirato dalla lettura del Wilhelm Meisters Lehrjahre di Goethe, e pubblicato dal Dublin Magazine nel 1934:

« Spend the years of learning squandering
Courage for the years of wandering
Through a world politely turning
From the loutishness of learning »

« Gettar via gli anni di apprendimento nel scialacquio
del coraggio al posto di anni di vagabondaggio
attraverso un mondo che educatamente gira attorno
la volgarità di imparare »

Abbandonato l’insegnamento, Beckett comincia a viaggiare per l’Europa. Passa un po’ di tempo anche a Londra, dove nel 1931 pubblica Proust, uno studio critico sull’autore francese Marcel Proust. Nel giugno di quell’anno ha luogo un violento contrasto con la madre, che non approva la sua attività letteraria. Due anni dopo, in seguito alla morte di suo padre, si sottopone a un trattamento di due anni con lo psicoanalista della Tavistock Clinic, Wilfred Bion, che lo fa assistere ad una conferenza di Carl Gustav Jung, un evento che Beckett ricorderà per molti anni, e che influenza i suoi lavori successivi, inclusi Watt e Aspettando Godot. Nel 1932 scrive il suo primo romanzo, Dream of Fair to Middling Women, ma dopo diversi rifiuti da parte degli editori decide di abbandonarlo; il libro sarà poi pubblicato nel 1993. Nonostante l’impossibilità di farsi pubblicare il romanzo, comunque, questo serve come fonte per i suoi primi poemi e per il suo primo libro di racconti del 1933, More Pricks than Kicks (Più pene che pane).

Beckett pubblica nel corso degli anni anche diversi saggi, come Recent Irish Poetry (nel periodico The Bookman, agosto 1934) e Humanistic Quietism, una recensione delle poesie del suo amico Thomas MacGreevy (nel periodico The Dublin Magazine, luglio-settembre 1934). Questi due lavori incentrati sulle opere di MacGreevy, Brian Coffey, Denis Devlin e Blanaid Salkeld, malgrado il loro scarso successo all’epoca, comparano favorevolmente questi autori con i contemporanei esponenti del Rinascimento Celtico e invocano Ezra Pound, Thomas Stearns Eliot e i simbolisti francesi come loro precursori. Nel descrivere questi poeti come “Nucleo vivo del movimento poetico irlandese”, Beckett traccia la linea del canone della poetica modernista irlandese.

Nel 1935, l’anno in cui Beckett pubblica con successo il suo libro di poesie Echo’s Bones and Other Precipitates (Ossa d’eco), lavora anche sul suo romanzo Murphy. Nel maggio dello stesso anno, scrive a MacGreevy riguardo alle sue ricerche sul cinema e al suo desiderio di andare a Mosca per studiare con Sergej Ėjzenštejn all’Istituto di Cinematografia Gerasimov. Nella metà del 1936 scrive ad Ejzenštejn e Vsevolod Pudovkin, offrendosi come apprendista. Non se ne fa nulla, anche perché la lettera venne perduta a causa del periodo di quarantena a cui deve sottoporsi Ejzenštejn durante lo scoppio dell’epidemia del vaiolo, nonché alla sua concentrazione nel riscrivere una sceneggiatura della sua produzione posticipata. Beckett nel frattempo ultima Murphy, e, nel 1936, parte per un intenso viaggio in Germania, durante il quale riempie diversi taccuini con liste di opere d’arte degne di nota che ha visto, e sviluppa la sua avversione nei confronti della barbarie nazista che stava sopraffacendo il paese. Ritorna in Irlanda per un breve periodo nel 1937, dove supervisiona la pubblicazione di Murphy (1938), che traduce personalmente in francese l’anno successivo. Ha anche un profondo litigio con la madre, che contribuì nella decisione di trasferirsi in modo stabile a Parigi, dove tornò definitivamente dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale nel 1939, preferendo (con parole sue), “La Francia in guerra, che l’Irlanda in pace”. Divenne conosciuto presso i caffè della Rive gauche, dove rafforzò la sua amicizia con Joyce e ne trovò altre in artisti come Alberto Giacometti e Marcel Duchamp, con il quale giocava regolarmente a scacchi. Nel dicembre 1937 ha una breve relazione con Peggy Guggenheim, che lo soprannomina “Oblomov”, come il protagonista dell’omonimo romanzo di Ivan Gončarov.

A Parigi, nel gennaio 1938, rifiutando le avance di un famigerato prosseneta, conosciuto ironicamente con il nome di “Prudent”, Beckett viene accoltellato al petto rischiando la vita. James Joyce organizzò una stanza privata all’ospedale per l’infortunato Beckett. La pubblicità attorno all’accoltellamento attira l’attenzione di Suzanne Dechevaux-Dumesnil che conosceva Beckett di vista fin dal suo arrivo a Parigi; da questo momento i due sviluppano un forte legame che durerà per tutta la vita. Nell’udienza preliminare, Beckett domandò al suo assalitore il motivo celato dietro al gesto, e Prudent rispose con nonchalance, “Je ne sais pas, Monsieur. Je m’excuse” (“Non lo so, signore. Mi dispiace”). Beckett alla fine lascia cadere le accuse contro l’assalitore, in parte per evitare ulteriori formalità, ma anche perché trova in Prudent una persona simpatica e dalle buone maniere.

Seconda guerra mondiale

Beckett si unisce alla Resistenza francese dopo l’occupazione tedesca nel 1940, lavorando come corriere.

Nell’agosto 1942, la sua unità viene tradita e lui e Suzanne fuggono a sud al sicuro nel piccolo villaggio di Rousillon, nel dipartimento del Vaucluse nella regione Provenza-Alpi-Costa Azzurra. Continua a fornire il suo aiuto alla Resistenza nascondendo armi nel retro della sua casa. Durante i due anni di permanenza a Roussillon aiuta indirettamente il sabotaggio dei Maquis all’esercito tedesco nelle montagne del Vaucluse, nonostante parlasse raramente del suo contributo durante la guerra.

Beckett fu insignito della Croix de guerre e della Medaille de la Resistance dal governo francese per il suo impegno nel combattere l’occupazione tedesca. Negli ultimi anni di vita, Beckett si riferiva al suo lavoro con la resistenza francese come “roba da boy scout”. A Rousillon continuò a lavorare sul romanzo Watt (cominciato nel 1941 e completato nel 1945, ma pubblicato solo nel 1953).

Dopo la guerra

Nel 1945 Beckett tornò a Dublino per una breve visita. Durante questo soggiorno, ebbe una rivelazione nella stanza di sua madre, nella quale gli apparve tutto il suo futuro percorso letterario. Questa esperienza venne romanzata nella rappresentazione L’ultimo nastro di Krapp. Nell’opera, la rivelazione di Krapp, forse ambientata nell’East Pier in Dun Laoghaire (nonostante nulla nell’opera provi questa supposizione) avviene durante una notte tempestosa. Alcuni critici hanno identificato Beckett con Krapp al punto di presumere che la sua epifania artistica fosse accaduta nella stessa posizione e nelle stesse condizioni temporali. Comunque, molti critici letterari osteggiarono la comparazione delle esperienze dei personaggi con quelle dei propri autori. Per tutta la rappresentazione, Krapp ascolta una registrazione fatta precedentemente nella sua vita; in un certo momento sente il giovane se stesso dire “…clear to me at lasst that the dark i have always struggled to keep under is in reality my most...”. Krapp manda avanti velocemente il nastro prima che il pubblico possa ascoltare la rivelazione completa. Più tardi Beckett rivelò a James Knowlson (che lo riportò nella biografia Damned to fame) che le parole mancanti del nastro erano “prezioso alleato”.

Nel 1946, il periodico di Jean-Paul Sartre Les Temps Modernes pubblicò la prima parte del racconto Suite (chiamato più tardi La fin), senza rendersi conto che Beckett aveva presentato solo la prima metà della storia; Simone de Beauvoir rifiutò di pubblicare la seconda parte. Beckett cominciò anche a scrivere il suo quarto romanzo, Mercier e Camier, che venne pubblicata nel 1970. Il romanzo, è da considerarsi in qualche modo il predecessore della sua opera più famosa, Aspettando Godot, scritta non molto tempo dopo, e fu anche il primo importante lavoro di Beckett a essere scritto direttamente in francese, la lingua di molte delle sue opere successive, inclusa la “trilogia” di romanzi che avrebbe scritto a breve: Molloy, Malone muore e L’innominabile. Nonostante fosse di madrelingua inglese, Beckett scelse il francese perché, come egli stesso disse, era più facile per lui scrivere “senza stile”.

Il teatro, il cinema e la televisione

Beckett è famoso principalmente per l’opera teatrale Aspettando Godot. In un articolo, il critico Vivian Mercier scrisse che Beckett “ha realizzato il teoricamente impossibile, un’opera in cui non succede nulla, ma che tiene incollati gli spettatori ai loro posti. In più, considerando che il secondo atto è una ripresa leggermente differente del primo, ha scritto un’opera in cui non succede nulla, due volte.“. Come molte delle sue opere a partire dal 1947, la rappresentazione venne scritta inizialmente in francese col titolo En attendant Godot. Beckett la scrisse fra l’ottobre 1948 e il gennaio 1949. Venne pubblicata nel 1952 e la sua prima rappresentazione avvenne nel 1953 al “Theatre de Babylone” a Parigi dove ebbe un discusso e controverso esito. Due anni dopo apparve la traduzione in inglese curata da lui stesso. A Londra raccolse nel 1955 diverse recensioni negative, fino a quando le reazioni positive di Harold Hobson nel Sunday Times e di Kenneth Tynan ne risollevarono le sorti. Negli Stati Uniti fu un fiasco a Miami, mentre ebbe gran successo a New York.

Il successo di Aspettando Godot aprì a Beckett la carriera teatrale. Dopo Aspettando Godot Beckett scrisse diverse opere teatrali fra cui Finale di partita rappresentata nel 1957, L’ultimo nastro di Krapp rappresentata nel 1958, Giorni felici rappresentata nel 1961, Commedia, rappresentata nel 1963 e una serie di brevi testi scritti fra il 1962 e il 1982 (da Va e vieni a Non io a Catastrofe a Cosa dove) denominati dallo stesso Beckett “dramaticules” (riuscito neologismo che nasce con l’intento di rappresentare l’esiguità della parola e dell’azione con l’effetto di “sdrammatizzare il dramma”). Catastrofe fu scritta nel 1982 per essere rappresentata al Festival di Avignone come atto di solidarietà al drammaturgo cecoslovacco Vaclav Havel (imprigionato come dissidente a causa del suo impegno politico nel 1979).

L’attività di Beckett come autore multimediale si avvia nel 1956 quando gli viene commissionata dalla BBC Third Programme, l’opera radiofonica Tutti quelli che cadono. Nel 1961 scrive altre tre sceneggiature per la radio (nell’ordine Parole e musica, Radio I e Cascando) legate da una caratteristica comune: la presenza della voce umana e della musica come entità partecipanti attivamente all’azione drammatica. Ma è nel 1964 che Beckett incontra Buster Keaton per il quale realizzerà il cortometraggio Film per la regia di Alan Schneider che sarà presentato al New York Film Festival nel 1965. Mosso da una continua ricerca di nuovi linguaggi espressivi, Beckett realizza per la televisione tedesca (anche come regista) cinque “teleplays” di notevole impatto visivo per la sperimentazione visiva e l’ideazione registica (si segnalano in particolar modo Ghost Trio del 1975, Quad, del 1981 e Nacht und Träume del 1982).

Il Nobel

Nell’ottobre 1969, Beckett, in vacanza in Tunisia con Suzanne, viene insignito del Premio Nobel per la letteratura. Suzanne, capendo che il riservato Beckett da quel momento in poi, sarebbe stato ricoperto da grande fama, si rivolse al riconoscimento come a una “catastrofe”. Nonostante Beckett non dedicasse molto tempo alle interviste, incontrava, a volte, personalmente gli artisti, gli studiosi e gli ammiratori che lo cercavano nell’anonimo atrio dell’Hotel PLM St. Jacques a Parigi, vicino la sua casa a Montparnasse.

La morte

Suzanne (che nel 1961 sposa con rito civile segreto nel Regno Unito, per questioni legate alle leggi francesi sull’eredità), muore il 17 luglio 1989. Sofferente di enfisema e probabilmente anche di malattia di Parkinson, confinato in una casa di cura, Beckett muore il 22 dicembre dello stesso anno. I due vennero sepolti insieme nel cimitero di Montparnasse a Parigi, condividendo una semplice lapide di granito, secondo i desideri dello stesso Beckett: “senza colori, lunga e grigia”.

Le opere

La carriera di scrittore di Beckett può essere suddivisa approssimativamente in tre periodi: il primo periodo, fino alla fine della Seconda guerra mondiale nel 1945; il periodo intermedio, fra il 1945 fino ai primi anni sessanta, durante il quale nascono le sue opere più conosciute; e l’ultimo periodo, dai primi anni sessanta fino alla sua morte nel 1989, quando i suoi lavori divengono via via sempre più corti e il suo stile minimalista.

Primo periodo

I primi scritti di Beckett sono in genere fortemente influenzati dai lavori del suo amico James Joyce: essi sono infatti profondamente eruditi, e sembrano mostrare come l’unico interesse dell’autore sia il proprio accrescimento culturale, come si nota da diversi passaggi dal significato oscuro. L’Incipit della raccolta di racconti Più pene che pane (1934) ci offre un esempio significativo di ciò:

Era mattino e Belacqua si trovava fermo al primo dei canti della luna. Era così impantanato che non riusciva a muoversi né davanti né indietro. C’era Beatrice colma di beatitudine, ed anche Dante, e lei gli spiegava le macchie lunari. Gli indicava in primo luogo in che cosa si ingannava, quindi gli forniva la propria spiegazione. L’aveva ricevuta da Dio, perciò poteva esser certo che fosse accurata in ogni particolare.

Questo estratto è pieno di riferimenti alla Divina Commedia, in modo da confondere i lettori privi di familiarità con il capolavoro dantesco. Contemporaneamente però, ci sono già diverse componenti che torneranno nei suoi lavori successivi: l’inattività fisica di Belacqua; l’isolamento dei personaggi nei propri pensieri e nella propria mente; l’irriverenza della frase di chiusura.

Simili elementi sono presenti nel primo romanzo pubblicato da Beckett, Murphy (1938) nel quale vengono introdotti i temi ricorrenti della pazzia e degli scacchi. La frase d’apertura allude anche ai toni piuttosto pessimistici e all’umorismo macabro che caratterizzeranno tutta l’opera di Beckett. Watt, scritto da Beckett durante la permanenza a Roussillon durante il secondo conflitto mondiale, è simile in termini di temi trattati, ma meno esuberante nel suo stile. Questo romanzo, esplora in alcuni punti il movimento umano come permutazione matematica, anticipando il futuro interesse per Beckett, sia nei romanzi che nelle opere drammatiche, per la precisione del movimento.

È sempre in questo primo periodo che Beckett inizia a scrivere in francese. Negli ultimi trent’anni, scrive diverse poesie in questa lingua, e ciò sembra mostrare che Beckett, anche se attraverso la mediazione di un altro linguaggio, è in procinto di semplificare il suo stile, un cambiamento evidente anche in Watt.

La trilogia

Se la fama di Beckett si deve ad Aspettando Godot, è l’opera narrativa dello scrittore, soprattutto la cosiddetta trilogia di romanzi scritti tra il 1951 e il 1953 Molloy, Malone muore e L’innominabile, a rappresentare uno dei vertici della letteratura della seconda metà del XX secolo. Con i volumi della trilogia, Beckett, nel solco di Joyce, compie un’operazione di riconfigurazione del romanzo moderno, ma anche di progressiva distruzione, sancendone con L’Innominabile la dissoluzione formale.

Pur essendo stato profondamente influenzato da Joyce nella sua prima produzione letteraria, è proprio negli anni cinquanta che Beckett, in una sorta di ripudio-uccisione dell’ingombrante “padre” artistico, e in modo specifico con i romanzi (o anti-romanzi) della trilogia, si definisce in termini antitetici all’autore dell’Ulisse.

Se la strada percorsa da Joyce e da altri grandi autori modernisti come Marcel Proust e Robert Musil prevedeva un progetto di letteratura totalizzante, in grado di raccontare il reale per accumulo, abbracciandone i molteplici livelli di significato, la strada di Beckett si pone antiteticamente, nel solco di una radicale impotenza a trarre un qualsiasi senso compiuto dalla realtà. Per Beckett le parole sono obbligate al paradosso suppliziante di volere comunicare che non c’è niente da comunicare. Raccontare, narrare, è unicamente possibile attraverso una serie di finzioni, affabulazioni, che i protagonisti della trilogia (progressivamente sempre più tesi alla disgregazione della propria identità personale), si raccontano (e raccontano al lettore), nello sforzo disperato e vano di dare consistenza a sé stessi e al mondo.

Dopo la trilogia

Il periodo successivo alla stesura dei romanzi che compongono la trilogia, fu per Beckett un periodo di difficoltà oggettiva a riprendere nuovamente a narrare in prosa. Egli stesso ebbe a dire che continuare a scrivere era come lavorare su “un mucchio di cenere“. I folgoranti Testi per nulla, 1954, costituiscono un esempio di questa impasse creativa, rimandando per filiazione diretta all'”Innominabile“, e a quell’entropia a cui esso sembrava avere condotto la possibilità stessa della scrittura. Ma le celebri parole delle chiusa del libro, “Non posso continuare, devo continuare“, oltre a rappresentare sul piano esistenziale la volontà stoica di andare avanti comunque, nonostante l’implacabile verdetto sulla condizione umana, sono anche un enunciato programmatico delle opere a venire. Opere brevi e dense, contrassegnate da uno straordinario rigore formale e da una sempre maggiore economia espressiva, in cui, tra gli esiti maggiori, si segnalano Come è (1961), Compagnia (1979), Worstward Ho (1984).

Bibliografia
Teatro
Eleutheria (1947, ma pubblicata nel 1995)
Aspettando Godot – En attendant Godot – Waiting for Godot (1952), trad. Carlo Fruttero (1968)
Finale di partita – Fin de partie – Endgame (1956), trad. Carlo Fruttero (1968)
Atto senza parole I – Acte sans paroles – Act Without Words I (1956), trad. Carlo Fruttero (1968)
Atto senza parole II – Acte sans paroles. II – Act Without Words II (1957), trad. Carlo Fruttero (1968)
L’ultimo nastro di Krapp – Krapp’s Last Tape – La dernière bande (1958), trad. Carlo Fruttero (1968)
Teatro I – Fragment de théâtre I – Rough for Theatre I (fine anni 1950, ma 1976), trad. Floriana Bossi (1978)
Teatro II – Fragment de théâtre II – Rough for Theatre II (fine anni 1950, ma 1977), trad. Floriana Bossi (1978)
Giorni felici – Oh les beaux jours – Happy Days (1961), trad. Carlo Fruttero (1968)
Commedia – Play – Comédie (1963), trad. Carlo Fruttero (1968)
Va e vieni – Come and go – Va-et-vient (1965), trad. Carlo Fruttero (1968)
Respiro – Breath – Souffle (1968), trad. Floriana Bossi (1978)
Non io – Not I – Pas moi (1972), trad. John Francis Lane (1974)
Quella volta – That Time – Cette fois (1975), trad. Carlo Fruttero e Franco Lucentini (1978)
Passi – Footfalls – Pas (1975), trad. Floriana Bossi (1994)
Un pezzo di monologo – A Piece of Monologue – Solo (1980), trad. Carlo Fruttero e Franco Lucentini (1978)
Dondolo – Rockaby – Berceuse (1981), trad. Carlo Fruttero e Franco Lucentini (1978)
Improvviso dell’Ohio – Ohio Impromptu – Impromptu d’Ohio (1981), trad. Carlo Fruttero e Franco Lucentini (1978)
Catastrofe – Catastrophe (1982), trad. Camillo Pennati (1985)
Cosa dove – What Where – Quoi où (1983), trad. Camillo Pennati (1985)
(notizie raccolte da Wikipedia)

 

33 commenti

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33 risposte a “Samuel Beckett (1906-1989) POESIE SCELTE (da Einaudi, 1999) traduzioni di Gabriele Frasca con un Commento politico di Giorgio Linguaglossa

  1. Poesie interessanti, ma lo preferisco come scrittore, specialmente in “Malone muore”.

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  2. Indubbiamente Beckett è straordinario come scrittore, la sua trilogia è indimenticabile, ed è superlativo nelle opere teatrali. Questa recensione delle poesie è pressoché inutile a inquadrare una personalità e un pensiero tanto complessi e sensibili, e peraltro è grossolanamente erronea laddove suppone, con pregiudizio politico, che l’autore non avesse nulla da comunicare all’uomo in frantumi della modernità.

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    • Salvatore Martino

      Sia Nanni che Arista toccano il puntum dolens della poesia di Becket: assolutamente lontana dalla grandezza del suo teatro, da Aspettando Godot a Finale di partita a Giorni felici a L’ultimo nastro di Krapp, testi straordinari che ci fecero letteralmente impazzire noi giovani attori negli anni sessanta-ottanta. Inoltre la sua trilogia Malloy, L’Immortale, Malone muore mi sembrò quando la lessi e tuttora mi sembra un capolavoro sconvolgente e assoluto, nonostante la complessità e l’oscurità della scrittura. La studiai a fondo facendo persino un tentativo di ridurre per il teatro estratti del terzo tomo. Comprai su questa onda emozionale le sue “Poesie inglesi” edite da Einaudi: una delusione profonda. Ricordo ci furono solo due o tre testi che mi apparvero notevoli. Domani li ritroverò, ritrovando anche la poca lucidità che quest’ora tarda mi consente, e vedrò di postarli. A riprova che persino uno scrittore geniale come Becket quando scivola nella poesia può perdere il volo.

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  3. gino rago

    Se Lei, Gentile Luigi Arista, torna a ri-leggere “Finale di partita”, considerato da Harold Bloom de “Il Canone Occidentale” il vero capolavoro e testamento
    etico, estetico, letterario, spirituale di Beckett, di certo sarà costretto a
    ri – calibrare il Suo commento volgendolo a favore delle affermazioni giuste
    di Giorgio Linguaglossa.
    Gino Rago

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  4. TRE TRADUZIONI DI UNA POESIA DI SAMUEL BECKETT SONO TRE POESIE DIVERSE

    Samuel Beckett (1906-1989) POESIE SCELTE (da Einaudi, 1999) traduzioni di Gabriele Frasca con un Commento politico di Giorgio Linguaglossa

    Vorrei attirare l’attenzione dei lettori sulla problematicità del tradurre queste poesie che, apparentemente, sembrano semplici, e invece nascondono grandi difficoltà per il traduttore. Ecco qui due altre traduzioni (di cui una mia) molto diverse da quelle di Frasca. Io nel mio modesto tentativo di rendere la quartina originale in italiano ho puntato sulla forza dei verbi italiani declinati al gerundio… ma, ovviamente, ci possono essere una infinità di altre soluzioni espressive… Questo per rispondere indirettamente a chi ripete meccanicamente la tesi del Beckett minore in poesia, quando invece bisognerebbe leggere la poesia di Beckett come a se stante, come una modalità espressiva diversa da quelle del teatro e del romanzo…
    A Francesca Diano (se ci legge) esperta traduttrice dall’inglese, sarei curioso di conoscere il tuo parere circa questa traduzione. Analogo invito lo rivolgo a Steven Grieco Rathgeb, se ci legge.

    «Un giorno, studiando la filosofia del ’600, [Beckett] ebbe un’illuminazione – simile al lampo remoto perso in una notte profonda. Sfogliò le opere del filosofo belga Arnold Geulincx (1624-69) e vi trovò scritto: «Ubi nihil vales, ibi nihil velis» ossia, facendo eco allo stoicismo di Epitteto: dove nulla puoi, niente devi volere. Fu una grande scoperta: il modo migliore per non suicidarsi era non volere. Il modo migliore per affrontare i conflitti della volontà (compresi quelli di emancipazione personale) era l’abolizione stessa della volontà. Si applicò a questo credo da giovanissimo e così l’ebbe vinta sulle pulsioni suicide».**

    Gnome

    Spend the years of learning squandering
    Courage for the years of wandering
    Through a world politely turning
    From the loutishness of learning

    Traduzione mia:

    Gnomo

    Scorrono gli anni dell’esperienza dissipando
    il coraggio per gli anni vagabondando
    attraverso un mondo che gentilmente ruotando
    dalla volgarità dell’apprendimento

    Traduzione di Frasca:

    Passano gli anni dell’apprendimento
    A dissipare il coraggio per gli anni
    In cui vagabondare dentro un mondo
    Che con garbo si libera ruotando
    Da ogni grossolano apprendimento

    Altra traduzione:*

    Gettar via gli anni di apprendistato nello scialacquio
    del coraggio al posto di anni di vagabondaggio
    attraverso un mondo che educatamente gira attorno
    la volgarità d’imparare.

    *da: http://nicolaghezzani.altervista.org/psicologia_disturbi_psicologici_psicoterapia-il_genio_paradossale_di_samuel_beckett.html
    ** Ibidem

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  5. Interesserebbe anche a me conoscere il parere di Francesca Diano e di Steven Grieco Rathgeb. Traducendo questo tipo di poesie, sia che si conosca o non a perfezione la lingua inglese, c’è sempre il rischio di una interpretazione diversa dall’intento dell’autore. E’ un po’ come se il traduttore dicesse a se stesso: “tentar non nuoce”. E invece a mio avviso nuoce e come!

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  6. gino rago

    A conferma della questione – tutt’altro che oziosa – sollevata da Giorgio Linguaglossa e accolta da quell’eccellente traduttore che ha sempre mostrato d’essere Paolo Statuti in ogni suo esercizio di traduzione di poesia straniera nella nostra lingua,

    Samuel Beckett (1906-1989) POESIE SCELTE (da Einaudi, 1999) traduzioni di Gabriele Frasca con un Commento politico di Giorgio Linguaglossa


    propongo a mò di esempio la stessa poesia, “Il vento” di Borìs Pasternàk ,
    nella duplice traduzione di Mario Socrate e di Serena Prina (Da PAIDEIA, Anno IX, N.29):

    Il Vento
    Io sono già morto e tu vivi ancora.
    E il vento, con gemiti e pianto,
    fa oscillare il bosco e la dacia.
    E non per proprio conto ogni pino,
    ma tutti insieme gli alberi
    nella loro distesa sconfinata,
    come armature di velieri
    sulla superficie d’una baia.
    E non per tracotanza
    o per vano furore,
    ma per trovare nell’angoscia le parole
    d’un canto di culla per te.

    (Trad. di Mario Socrate)

    Il Vento

    Ho raggiunto la fine, e tu sei viva.
    E il vento, con gemiti e singhiozzi,
    Fa oscillare il bosco e la dacia.
    Non ogni pino separatamente,
    Ma tutti assieme gli alberi,
    Tutta la lontananza sconfinata,
    Come involucri di velieri
    Sopra la superficie di una rada.
    E tutto questo non per ardimento
    O per vano furore,
    Ma perché nell’angoscia sia parola
    Per una ninna nanna per te sola.

    (Trad. Serena Prina)

    (Le differenze formali, ritmiche, lessicali appaiono evidenti…)
    Gino Rago

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  7. gino rago

    (Dal postmoderno decadentistico al postmoderno forte):

    Samuel Beckett (1906-1989) POESIE SCELTE (da Einaudi, 1999) traduzioni di Gabriele Frasca con un Commento politico di Giorgio Linguaglossa


    Il Vuoto non è il Nulla

    Preferiva parlare a se stesso. Temeva l’altrui sordità.
    “L’intenzione dello Spirito Santo è come al cielo si vada.
    Non come vada il cielo”.
    (…)
    A Pisa tutti tremarono.
    Il poeta vero ama la nascita imperfetta delle cose. Come fu.
    In principio…Il vero poeta lo sa.
    E’ nei primissimi istanti dell’universo materiale.
    Non c’è lo spazio. Non c’è il Tempo.
    Non si può vedere nulla. Perché per vedere ci vogliono i fotoni.
    Ma in principio i fotoni non ci sono ancora.
    Né si può ‘stare’. Perché per stare ci vuole uno Spazio.
    Nessuno può ‘attendere’ (o ‘aspettare’).
    Perché per poter attendere o aspettare ci vuole un Tempo.
    (…)
    In principio. Nei primissimi istanti… E’ solo il Vuoto.
    Il Vuoto soltanto che non è il Nulla. E’ un Vuoto zeppo di cose.
    E’ come il numero zero. Lo zero che contiene tutti i numeri.
    I negativi e positivi che sommati giungono allo zero.
    In Principio… Nei primissimi istanti il Vuoto. E il Silenzio.
    Ma il silenzio che contiene tutti i suoni. Il silenzio di Cage.
    E l’universo materiale? Viene dalla rottura della perfezione.
    (…)
    E’ stata l’imperfezione a produrre questa meraviglia?
    Sì. Il Tutto viene dalla imperfezione.
    Ma i paradigmi nuovi faticano a lungo prima d’essere accettati.
    Finché Luce non si stacchi dalla materia opaca.
    Ma se la luce si distacca esistono i fotoni, il moto, l’attrito.
    Il tempo e lo spazio. L’uomo che scrive la vita.
    La poesia che scoppia dal vuoto che fluttua.

    Gino Rago

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    • Salvatore Martino

      Sono perplesso di fronte a questi versi di Rago: non so cosa dire, mi sembrano una sorta di affermazioni apodittiche, degi aforismi uno seguito dall’altro, staccati l’uno dall’altro, credo volutamente,una sorta di statements assertivi quindi. Il tutto in una monotonia di soggetto predicato complemento. Non so forse non ho gli strumenti per indagare questa poesia, né di accostarla alla mia sensibilità , al mio strumento intellettivo. Talvolta mi sembrano incipit filosofici, quasi a introdurre un pensiero che in seguito sarà sistematico, con una pennellata di fisica quantistica.Se questo è il nuovo modo di produrre poesia dovrò scalare qualche montagna del mio vuoto per accedere alle stanze della NOE. Non so se gli anni che mi rimangono potranno essere sufficienti a colmare la mia lacuna.

      “E’ come il numero zero. Lo zero che contiene tutti i numeri.
      I negativi e positivi che sommati giungono allo zero.
      In Principio”…

      Questo lo codificarono e lo scrissero gli Arabi, ampliando un concetto che veniva dall’India

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      • gino rago

        Carissimo Gino,
        ti leggo e la sorpresa mi illumina con gioia, perché riesco a specchiarmi nei tuoi versi con nitidezza destinica.
        Poesia ontologica e cosmogonica, un sentiero in cui proprio in questo presente mi sto aggirando (e te ne invio un piccolo omaggio, -separatamente- per affiliarmi al tuo percorso..) .
        Poesia del vuoto e dell’origine, canto della domanda, e del Silenzio, del paradosso del Nulla da cui il Tutto viene.
        Passeggiata astrale, nel pensiero dell’universo, ho sentito fortemente questa ossimorica connessione a cui l’uomo si affilia con lo strumento divino della parola.
        Mi ha molto suggestionato e influenzato ulteriori riflessioni cosmico-poetiche che se vorrai ti trasmetterò.
        Grazie di questa ombrosa luce, davvero necessaria!
        Un abbraccio cosmico a te e ai tuoi sapienti lettori!

        Gabriella (Cinti)
        20. 07. 2017

        N.B.
        Ricevo alla mia e-mail il commento di Gabriella Cinti, commento icastico
        e ben articolato che per me sarebbe stato un peccato destinarlo alla
        cenere sonnolenta del mio personale focolare…
        Grazie. Di cuore cara e fedele Gabriella.
        Gino Rago

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    • gino rago

      Carissimo Gino
      ecco il testo promesso nella mail ” pubblica” …buona estate nel nome della Poesia! Un abbraccio
      Gabri

      MATTINO D’ORIGINE

      Savana d’aria,
      l’alba di oggi esplosa
      come nel Cambriano,
      l’ossigeno degli dèi
      per i trilobiti, coloni della vita,
      i primi occhi del mondo,
      e per me, bipede sognante.

      Il tempo del mito mi cinge
      ad anello, polverizzate
      le gerarchie di memorie.

      La cerimonia del respiro
      simula il ritmo del volo a bordo
      di nubi, per raggiungerti.

      Nutro la parola di danze rosse,
      corniole di suoni
      per sillabare l’origine.

      Alle sette del mattino,
      il caolino del sogno
      mi imbianca per rito.

      Navigo la famiglia dei vivi
      per intermittenze,
      lampi d’acqua
      per il trasmigrare sacro
      all’inizio dell’universo.

      Aspersa di primordi,
      nuoto il tempo
      tra totem liquidi
      ed estasi di antichi oceani,
      fruscianti dei primi sacri sussulti.

      Trascendere a ritroso,
      in Tuffo cosmogonico
      nel cuore paleozoico dell’abisso,

      a dirompere l’origine
      nel prodigio supremo della forma.

      Gabriella Cinti
      Venezia 20 . 07. 2017

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  8. LA POESIA DI GINO RAGO RIPARTE DA LUCREZIO, DAL DE RERUM NATURA E CREA MONDI E TEMPI DISPARATI
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/17/samuel-beckett-1906-1989-poesie-scelte-da-einaudi-1999-traduzioni-di-gabriele-frasca-con-un-commento-politico-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21787

    Caro Gino Rago,

    questa tua poesia è una delle punte più alte della «nuova ontologia estetica». Hai abbandonato alle ortiche la vecchia e antiquata concezione delle parole che parlano dell’«io» e del «tu», la tua poesia ricomincia daccapo, alla maniera di Lucrezio, dal De rerum natura. Riprendi a tessere il filo del discorso poetico dall’origine, dal nulla e dal tutto.

    L’essere, ed è questo l’enorme problema della metafisica, sfugge alla predicazione, non risponde al predicato, non rientra nel linguaggio nel quale sembra, tuttavia, in qualche modo, anche risiedere come all’interno di una dimensione illusoria (come un palazzo fatto di specchi che si riflettono l’un l’altro), nella quale l’io pensa di esserci; ma, allora questo è il luogo di un grande abbaglio se l’io della percezione immediata crede ingenuamente in ciò che vede e sente. Ed è appunto questo ciò che fa il linguaggio della poesia: far credere in quel grande abbaglio. Ma è, per l’appunto, un abbaglio, una illusione. Per questo la poesia ha a che fare più con l’illusione e l’abbaglio piuttosto che con le categorie della certezza e della verità, che filosofi come Platone ed Eraclito non potevano accettare perché avrebbe messo in dubbio ciò su cui si edifica il mondo dell’edificabile, il mondo dei concreti e delle certezze, del nomos e del logos, parole altisonanti che all’orecchio della Musa invece suonano false e posticce.

    L’io, per quanto manifesto, reperisce altrove il suo statuto ontologico,
    nella sua mancanza costitutiva, che lo costituisce come impalcatura del soggetto.

    l’io mento, è la vera dimensione dell’io penso.

    L’abbaglio, l’illusione, l’illusorietà delle illusioni, lo specchio,
    il riflesso dello specchio, il vuoto che si nasconde dentro lo specchio,
    il vuoto che sta fuori dello specchio, che è in noi e in tutte le cose,
    che è al di là delle cose, che è in se stesso e oltre se stesso,
    che dialoga con se stesso…

    Il mondo dell’innominabile, delle petizioni cieche in quanto prive di parole che stanno nell’inconscio, una volta raggiunto il Realitätprinzip, e cioè la dimensione propriamente linguistica, ecco che indossa l’abito di parole. Ma non sono quelle le parole che la petizione chiedeva, sono altre che la petizione non aveva previsto, né avrebbe mai potuto immaginare.

    La petizione panlinguistica propria delle poetiche del Novecento scivolava invariabilmente nell’ombelico autoreferenziale, in quanto diventata ipoteca panlinguistica. […]
    Il linguaggio poetico, in quanto potenza del rinvio, fame inappagata di senso
    per via della stessa logica differenziale che vedeva nel gioco dei rinvii
    la sua sola consistenza, si autonomizzava, si chiudeva su se stesso
    e diventava linguaggio che si ciba di linguaggio. Una dimensione auto fagocitatoria.

    Nella dimensione auto fagocitatoria scivola inevitabilmente ogni petizione panlinguistica.

    Che lo si voglia o no, la poesia del post-Novecento, così come è stato per la poesia del Novecento, è stata colpita a morte dal virus del panlogismo, sconosciuto ad altre epoche e alla poesia di altre civiltà.
    Nulla è più disdicevole dell’atteggiamento panlogistico proprio delle poetiche sperimentali e post-sperimentali che pretendono di commutare una ipoteca linguistica in petizione di poetica, in intermezzo ludico facoltativo.

    C’è sempre qualcosa al di fuori del discorso poetico, qualcosa di irriducibile,
    che resiste testardamente alla irreggimentazione nel discorso poetico.
    Ecco, quello che resta fuori è l’essenziale.

    L’unica sfera in cui si dà Senso è nel luogo dell’Altro, nell’ordine simbolico.
    Allora, si può dire, lacanianamente, che «il simbolo uccide la “Cosa”».
    Il problema della “Cosa” è che di essa non sappiamo nulla, ma almeno adesso sappiamo che c’è, e con essa c’è anche il “Vuoto” che incombe sulla “Cosa” risucchiandola nel non essere dell’essere.
    È questa la ragione che ci impedisce di poetare alla maniera del Petrarca e dei classici, perché adesso sappiamo che c’è la “Cosa”, e con essa c’è il “Vuoto” che incombe minaccioso e tutto inghiotte.

    È stato possibile parlare di «nuova ontologia estetica», solo una volta che la strada della vecchia ontologia estetica si è compiuta, solo una volta estrodotto il soggetto linguistico che ha il tratto puntiforme di un Ego in cui convergono,cartesianamente, Essere e Pensiero, quello che Descartes inaugura e che chiama «cogito». Solo una volta che le vecchie parole sono rientrate nella patria della vecchia metafisica, allora le nuove possono sorgere, hanno la via libera da ostruzioni e impedimenti perché con loro e grazie a loro sorge una nuova metafisica.

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  9. Donatella Costantina Giancaspero

    NEITHER – Nè l’uno né l’altro, 87 parole con 9 a-capo – Testo di Beckett musica di Morton Feldman per Soprano e Orchestra da camera

    Samuel Beckett (1906-1989) POESIE SCELTE (da Einaudi, 1999) traduzioni di Gabriele Frasca con un Commento politico di Giorgio Linguaglossa


    Cade a proposito, qui, l’ascolto di Neither, la sola opera di Morton Feldmann (1926 – 1987). Scritta nel 1977 su testo di Samuel Beckett, è un atto unico per Soprano e Orchestra da camera.
    La partitura si avvale di pochi e semplici segni grafici per comunicare ai musicisti i vari registri (acuto, medio o grave), ma non le altezze precise, né le durate, al fine di configurare uno spazio sonoro capace di dilatarsi nel tempo.
    Il fatto che “Neither” sia la sola opera scritta dal compositore newyorkese testimonia il suo scarso interesse per questo genere musicale. Ancora minore interesse nutriva Beckett. Insomma, riprendendo il titolo del lavoro, Neither, né l’uno, né l’altro erano patiti per l’opera. Come ci riferisce il biografo Knowlson, alla richiesta di Feldman, la risposta dello scrittore fu disarmante: «Signor Feldman, l’opera lirica non mi piace! E non mi piace che le mie parole vengano messe in musica». La replica del musicista fu, se possibile, altrettanto disarmante. Disse che comprendeva benissimo il disinteresse di Beckett e che, dopotutto, non aveva idea di cosa volesse esattamente da lui. A quel punto Beckett prese un pezzo di carta e buttò giù alcune parole. Poi disse che ci avrebbe lavorato un po’ e che forse si sarebbe rifatto vivo.
    Alla fine di settembre del 1976, Feldman ricevette una cartolina da Beckett: sul retro un breve testo scritto a mano e intitolato Neither, ovvero ottantasette parole, senza uso di maiuscole, con nove a capo, per un totale di dieci brevi enunciati. La punteggiatura ridotta a due o tre virgole.
    La voce parla dell’andirivieni tra due ombre, quella interna e quella esterna, “dall’impenetrabile sé all’impenetrabile non-sé“, finché non si arresta, finalmente disinteressata “all’uno e all’altro“, raggiungendo così “l’inesprimibile meta“.

    La prima di Neither andò in scena al Teatro dell’Opera di Roma il 12 giugno del 1977. Dieci anni dopo, Feldman avrebbe di nuovo reso omaggio all’autore irlandese componendo la lunga suite orchestrale For Samuel Beckett e un partitura originale per Parole e musica.

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  10. Donatella Costantina Giancaspero

    Testo di Neither di Samuel Beckett
    Traduzione a cura di Gabriele Frasca

    Samuel Beckett (1906-1989) POESIE SCELTE (da Einaudi, 1999) traduzioni di Gabriele Frasca con un Commento politico di Giorgio Linguaglossa


    su e giù nell’ombra da quella interna all’esterna

    dall’impenetrabile sé all’impenetrabile non-sé di modo che né l’uno né l’altro

    come due rifugi illuminati le cui porte non appena raggiunte [impercettibilmente si chiudano, non appena volte le spalle impercettibilmente di nuovo si schiudano

    si accenni l’avanti e indietro e si volga le spalle

    noncuranti della strada, compresi dell’uno o dell’altro barlume

    unico suono passi inascoltati

    finché finalmente arrestarsi una volta per tutte, disattenti una volta per tutte all’uno e all’altro

    allora nessun suono

    allora impercettibilmente indissolvendosi la luce su tale inosservato né l’uno né l’altro

    l’inesprimibile meta

    (Samuel Beckett)

    back & forth: to & fro

    NEITHER

    to and fro in shadow from inner to outer shadow

    from impenetrable self to impenetrable unself
    by way of neither

    as between two lit refuges whose doors once
    neared gently close, once away turned from
    gently part again

    beckoned back and forth and turned away

    heedless of the way, intent on the one gleam
    or the other

    unheard footfalls only sound

    till at last halt for good, absent for good
    from self and other

    then no sound

    then gently light unfading on that unheeded
    neither

    unspeakable home

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  11. Samuel Beckett (1906-1989) POESIE SCELTE (da Einaudi, 1999) traduzioni di Gabriele Frasca con un Commento politico di Giorgio Linguaglossa


    questa Opera di Morton Feldman è uno dei momenti più alti dell’arte del secondo Novecento. Ho tratto ispirazione per scrivere un ciclo di poesie che un giorno vedranno la luce. Siamo nel 1977, proprio in quegli anni, in Italia, Montale scriveva le poesiole del Quaderno di quattro anni e la poesia italiana smarriva il senso del proprio esserci…

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    • Samuel Beckett (1906-1989) POESIE SCELTE (da Einaudi, 1999) traduzioni di Gabriele Frasca con un Commento politico di Giorgio Linguaglossa


      Cari lettori vi trascrivo alcuni testi di Samuel Beckett dove ci si può rendere conto come la Nuova Ontologia Estetica e il frammento fossero già nel casellario poetico di questo Autore.
      1
      Corpo minuto grigio come la terra il cielo le rovine
      solo in piedi. Silenzio non un alito stesso grigio
      dappertutto terra cielo corpo rovina. Spento aperto
      quattro pareti all’indietro vero rifugio senza uscita.
      2

      Chimera la luce sempre e soltanto aria grigia senza
      tempo nessun rumore. Spazi senza fine terra cielo
      confusi tutto immobile non un rumore. Lo bagnerà la
      pioggia come nei giorno benedetti dell’azzurro la
      nuvola passeggera. Cielo grigio nessuna nuvola
      nessun rumore tutto immobile terra sabbia grigio
      cenere.

      3

      Piccolo vuoto grande luce cubo tutto bianco facce
      senza tracce nessun ricordo. Infinito senza rilievo
      corpo minuto solo in piedi stesso grigio dappertutto
      terra cielo corpo rovine. Rovine sparse confuse colla
      sabbia grigio cenere vero rifugio. Cubo vero rifugio
      finalmente quattro pareti all’indietro nessun rumore.
      Sempre e soltanto questa fissità immutabile sogno
      l’ora che passa. Sempre e soltanto aria grigia senza
      tempo chimera la luce che passa.
      Da Samuel Beckett www la-poesia.it / stranieri (inalesi / europei / Beckett /SB 28.4.2006.

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  12. Salvatore Martino

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/17/samuel-beckett-1906-1989-poesie-scelte-da-einaudi-1999-traduzioni-di-gabriele-frasca-con-un-commento-politico-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21795 Ho ripreso in mano il volumetto della bianca Einaudi delle Poesie in inglese, nella traduzione di Rodolfo Wilcock, a distana di anni dall’ultima lettura. In parte mi devo ricredere: alcune poesie mi sembrano notevoli, qualcuna persino straordinaria, certo comunque all’altezza dei capolavori in prosa. La traduzione di Wilcock, per quanto io possa giudicare profondamente l’originale inglese, mi sembra migliore di quelle proposte qui.

    alba

    prima dell’alba sarai qui
    e Dante e il Logos e tutti gli strati e i misteri
    e la luna segnata
    oltre il piano bianco di musica
    che stabilirai qui prima dell’alba

    sera grave soffice cantante
    chinati sul nero firmamento di areche
    pioggia sui bambù fiore di fumo viale di salici

    chi anche se ti chini con dita di pietà
    ad avallare la polvere
    non aggiungerà alla tua munificenza
    la cui bellezza sarà un foglio davanti a me
    una dichiarazione di se stessa attraverso la temperatura di emblemi
    sicché non c’è sole e non c’è rivelazione
    e non c’è ostia
    soltanto io e poi il foglio
    e massa morta

    Dopo quel vertiginoso incipit sei già calato nel mistero, nel vortice oscuro dei suoi versi, che ti penetrano al profondo, lasciandoti a guardare l’abisso dove il poeta si è calato. La sua febbre visionaria ti conquista, oltre la rima del tuo intelletto.
    Chiedo questo impatto alla poesia e se non c’è poco mi interessa.

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  13. Io sono nel posto
    in cui si vocifera che
    «l’universo è un difetto
    nella purezza del Non-Essere»

    (Lacan – Scritti)

    E dove siete è la dove non siete.

    (T. S. Eliot – Quattro quartetti)

    Il «fantasma» che così spesso appare nella poesia della «nuova ontologia estetica», si presenta sotto un aspetto scenico. È il Personaggio che va in cerca dei suoi attori. Nello spazio in cui l’io manca, si presenta il «fantasma».

    Samuel Beckett (1906-1989) POESIE SCELTE (da Einaudi, 1999) traduzioni di Gabriele Frasca con un Commento politico di Giorgio Linguaglossa


    Dal punto di vista simbolico, è una sceneggiatura, il «fantasma» è ciò che resta della retorizzazione del soggetto là dove il soggetto viene meno; il fantasma è ciò che resta nel linguaggio, una sorta di eccedenza simbolica che indica una mancanza.
    L’inconscio e il Ça rappresentano i due principali protagonisti della «nuova ontologia estetica». Il soggetto parlante è tale solo in quanto diviso, scisso, attraversato da una dimensione spodestante, da una extimità, come la chiama Lacan, che scava in lui la mancanza. La scrittura poetica è, appunto, la registrazione sonora e magnetica di questa mancanza. Sarebbe risibile andare a chiedere ai poeti della «nuova ontologia estetica», mettiamo, a Mario Gabriele o a Donatella Costantina Giancaspero che cosa significano i loro personaggi simbolici, perché non c’è alcuna significazione che indicherebbero i fantasmi simbolici, nulla fuori del contesto linguistico. Nulla di nulla. I «fantasmi» indicano quel nulla di linguistico perché Essi non hanno ancora indossato il vestito linguistico. Sono degli scarti che la linguisticità ha escluso.

    I «fantasmi» indicano il nulla di nulla, quella istanza in cui si configura l’inconscio, quell’’inconscio che appare in quella zona in cui io (ancora) non sono (o non sono più). L’essenza dell’inconscio risiede non nella pulsione, nell’essere istanza di quel serbatoio di pulsioni che vivono sotto il segno della rimozione, quanto nella dimensione dell’io non sono che viene a sostituire l’io penso cartesiano. La misura di questa dimensione è la “sorpresa ”, l’esser colti a tergo. Tutte le formazioni dell’inconscio si manifestano attraverso questo elemento di sorpresa che
    coglie il soggetto alla sprovvista, che, come nel motto di spirito, divarica uno iato fra quanto detto e il voler-dire. Come nei sogni, dove l’io è disperso, dissolto, frammentato fra i pensieri e le rappresentazioni che lo costituiscono, così l’inconscio è quella dimensione soggettiva in cui l’io sperimenta la propria mancanza a essere. Come aveva intuito Freud: l’inconscio, dal lato dell’io non sono è un penso, un penso-cose, esso è formato da Sachevorstellung, è costituito da rappresentazioni di cose. La formula “penso dove non sono ” è la formula dell’inconscio, che si rovescia in un “non sono io che penso”. È come se “l’io dell’io non penso, si rovescia, si aliena anche lui in qualcosa che è un penso-cose”.
    Il «fantasma» inaugura quella dimensione della mancanza che si costituisce nella struttura grammaticale priva dell’io, cioè della dimensione
    della parola come luogo in cui il soggetto «agisce».
    A questo punto apparirà chiaro quanto sia necessario un indebolimento del soggetto linguistico affinché possa sorgere il «fantasma». Nella «nuova ontologia estetica» non c’è più un soggetto padronale che agisce… nella sua struttura grammaticale l’io si è assottigliato o è scomparso. O meglio, il soggetto viene parlato da altri, incontra la propria evanescenza.

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  14. Kikuo Takano

    Sempre una voce

    Sempre una voce
    ti ha avvisato: “Se piangi
    vai oltre il dolore.
    E ti accorgi che nell’addio
    c’è l’incontro”.
    Così ti parlava Dio, sfiorandoti
    con la mano la schiena.

    Sempre una voce
    ti ha avvisato: “Con pazienza
    aspetta, e per meglio guardare
    impara a chiudere gli occhi”.
    Così ti parlava Dio, con una lieve
    carezza sui capelli.

    Quando nel dolore piangevi
    senza poter far nulla
    quel Dio lo avevi accanto,
    a volte ti portava sulle sue spalle.

    Se ti dico

    Se ti dico che è la destra,
    mi rispondi: “Anch’io la destra”,
    se ti dico che è la sinistra
    mi ripeti: “Anch’io la sinistra”.
    E così insieme abbiamo atteso l’alba.
    Solo l’addio che entrambi ci eravamo detti
    era il desiderio dell’uno per l’altra
    e assai fortemente stringeva l’uno all’altra
    e noi, senza neppure toccarci,
    eravamo stupiti da tanto desiderio.

    “Siamo stati stupiti come bambini…”
    E ora tu mi disprezzi
    “sì, ti odio
    perché l’hai contemplata come in estasi
    senza svegliarmi con uno schiaffo
    anch’io abbagliata da quella visione”.

    Senza darti uno schiaffo.
    un pesante schiaffo.
    E noi, in quell’istante,
    eravamo già oltre quella “domanda”;
    tu avresti potuto pronunziare il tuo addio,
    io avrei detto il mio
    e con questi nostri addii
    avremmo potuto iniziare
    ogni notte e ogni mattina.

    Ma ancora mi chiedi:
    “Non poteva quell’addio
    prender congedo dall’addio?”
    Ed io ancora ti ripeto
    quando diversa è la “domanda”,
    che sparisca quella “domanda”.
    Abbiamo fatto esperienza non d’amore
    ma di tempo, il tempo vuoto,
    e l’abbiamo accettata come un fatale contrassegno.
    Avesti dovuto capirlo anche tu.

    Ma alla fine che cosa vuol dire?
    Se mi confronto con te,
    scuoti il capo in modo banale
    e banalmente mi rimproveri.
    Erano inutili quei giorni,
    inutili quelle lotte.
    Oggi sentiamo come peccato
    l’esperienza dopo aver recuperato
    ciò che abbiamo vissuto.
    Oh, la spola della tessitura!
    È un terribile filo: più costruisce la trama
    più si sfila l’altra parte del bandolo
    E passano i giorni in cui mi capita
    di dipanare sempre fil filo.

    (da L’infiammata assenza Ediz del Leone, 2005 cura e trad di Yasuko Matsumoto e Renato Minore)

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  15. Salvatore Martino

    Cosa vuoi commentare quando la poesia si snoda meravigliosamente dentro questi versi. Certo Takano è lontano in maniera siderale dalle proposte della NOE, strano Linguaglossa l’abbia postato!

    “È un terribile filo: più costruisce la trama
    più si sfila l’altra parte del bandolo
    E passano i giorni in cui mi capita
    di dipanare sempre fil filo.”
    La sintesi sublime della condizione umana

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  16. Donatella Costantina Giancaspero

    A questo punto, mi pare di particolare interesse ascoltare “What is the word” Op. 30b (per voce, coro e orchestra) del compositore ungherese György Kurtág (1926).
    Il brano fu scritto in due versioni nel 1990 – ’91 sulla poesia omonima di Samuel Beckett, la sua ultima, prima di morire. Già dal 1986 la salute dello scrittore era peggiorata in modo irreversibile. È l’inizio dell’enfisema. Nel luglio del 1988, Beckett cade per un malore mentre si trova a casa, battendo la testa contro un mobile. Viene ricoverato all’ospedale di Courbevoie e, successivamente, alla Maison Tiers Temps, una casa di riposo con trattamento ospedaliero. Sarà durante questa degenza che Beckett butterà giù la prima bozza del suo ultimo componimento, in francese, col titolo “Comment dire”. Il drammaturgo l’aveva dedicata al regista e scrittore americano Joe Chaikin, colpito da afasia parziale in seguito a un’operazione al cuore.
    Quasi in analogia con Beckett, Kurtág scrisse il brano per Ildiko Monyok, una cantante che, dopo molti anni di duri sforzi, aveva ritrovato la parola perduta a seguito di un incidente d’auto.
    Anche nella versione musicale, “What is the word” continua a interrogarsi in modo angosciante su cosa sia la parola. Scrive Enzo Restagno: «La incontrollabilità e incomprensibilità della parola, quella “stream of words” della quale non si riesce ad afferrare né la metà né un quarto, quel ronzio che continua a vorticare nel cervello, si incarnano nella piéce di Kurtág come figure sonore di un astrattissimo dramma: da un lato la voce della protagonista che il testo di Beckett bisbiglia, canta e grida in ungherese, mentre tutto all’intorno un ensemble di cinque voci fa mulinare il testo in inglese intrecciandolo ai filamenti sonori degli strumenti che solcano lo spazio. La complessa e sofferta sensibilità spaziale di Kurtág che si era affacciata sul mistero del suono nello spazio interno della cattedrale di Chartres [*una volta, nella cattedrale di Chartres, il musicista aveva avuto una particolarissima e suggestiva percezione dello spazio], trova qui non una risposta ma una formulazione ancora più veemente: What is the word?
    Il mistero della parola esce dalla mente dell’uomo per articolarsi
    nello spazio. Non è una conclusione, ma l’inizio di una vicenda alla quale questo nostro tempo di presunta ubiquità dovrebbe guardare con un sentimento di benefica inquietudine».

    Buon ascolto!

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  17. Donatella Costantina Giancaspero

    Samuel Beckett (1906-1989) POESIE SCELTE (da Einaudi, 1999) traduzioni di Gabriele Frasca con un Commento politico di Giorgio Linguaglossa

    Qual è la parola
    di Samuel Beckett

    Follia –
    follia per verso –
    per verso –
    qual è la parola –
    follia dopo questo –
    tutto questo –
    follia dopo tutto questo –
    dato –
    follia dato tutto questo –
    vedere –
    follia nel vedere tutto questo –
    questo –
    qual è la parola –
    questo questo –
    questo questo qua –
    tutto questo questo qua –
    follia dato tutto questo –
    vedere –
    follia nel vedere tutto questo questo qua –
    per verso –
    qual è la parola –
    vedere –
    intravedere –
    parere di intravedere –
    bisognare di parere di intravedere –
    follia per bisognare di parere di intravedere –
    che cosa –
    qual è la parola –
    e dove –
    follia per bisognare di parere di intravedere che cosa dove –
    dove –
    qual è la parola –
    là –
    laggiù –
    distante laggiù
    lontano –
    lontano distante laggiù –
    dileguante –
    dileguante distante lontano laggiù che cosa –
    che cosa –
    qual è la parola –
    vedere tutto questo –
    tutto questo questo –
    tutto questo questo qua –
    follia per vedere che cosa –
    intravedere –
    parere di intravedere –
    bisognare di parere di intravedere –
    dileguante distante lontano laggiù che cosa –
    follia per bisognare di parere di intravedere dileguante distante lontano laggiù che cosa –
    che cosa –
    qual è la parola –

    qual è la parola

    (traduzione di Rosangela Barone)

    What is the word

    folly –
    folly for to –
    for to –
    what is the word –
    folly from this –
    all this –
    folly from all this –
    given –
    folly given all this –
    seeing –
    folly seeing all this –
    this –
    what is the word –
    this this –
    this this here –
    all this this here –
    folly given all this –
    seeing –
    folly seeing all this this here –
    for to –
    what is the word –
    see –
    glimpse –
    seem to glimpse –
    need to seem to glimpse –
    folly for to need to seem to glimpse –
    what –
    what is the word –
    and where –
    folly for to need to seem to glimpse what where –
    where –
    what is the word –
    there –
    over there –
    away over there –
    afar –
    afar away over there –
    afaint –
    afaint afar away over there what –
    what –
    what is the word –
    seeing all this –
    all this this –
    all this this here –
    folly for to see what –
    glimpse –
    seem to glimpse –
    need to seem to glimpse –
    afaint afar away over there what –
    folly for to need to seem to glimpse afaint afar away over there what –
    what –
    what is the word –

    what is the word

    Comment dire

    folie –
    folie que de –
    que de –
    comment dire –
    folie que de ce –
    depuis –
    folie depuis ce –
    donné –
    folie donné ce que de –
    vu —
    folie vu ce –
    ce –
    comment dire –
    ceci –
    ce ceci —
    ceci-ci –
    tout ce ceci-ci –
    folie donné tout ce –
    vu –
    folie vu tout ce ceci-ci que de –
    que de –
    comment dire –
    voir –
    entrevoir –
    croire entrevoir –
    vouloir croire entrevoir –
    folie que de vouloir croire entrevoir –
    quoi –
    comment dire –
    et où –
    que de vouloir croire entrevoir quoi où –
    où –
    comment dire –
    l à –
    là-bas –
    loin –
    loin là là-bas –
    à peine –
    loin là là-bas à peine quoi –
    quoi –
    comment dire –
    vu tout ceci –
    tout ce ceci-ci –
    folie que de voir quoi –
    entrevoir –
    croire entrevoir –
    vouloir croire entrevoir —
    loin là là-bas à peine quoi –
    folie que d’y vouloir croire entrevoir quoi –
    quoi –
    comment dire –

    comment dire

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  26. gabriele fratini

    Beckett non mi sembra un grande poeta e Frasca non mi sembra un grande traduttore. Preferisco leggere ciascuno nel proprio abito migliore.
    Un saluto.

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