Archivi del giorno: 27 luglio 2017

Poesie di Kjell Espmark da La Creazione nella traduzione di Enrico Tiozzo – Verso una nuova ontologia estetica. Una poesia di Steven Grieco Rathgeb – Riflessione intorno alla Cosa – Heidegger e Lacan, La brocca e il vuoto nella brocca – Commenti di Lucio Mayoor Tosi, Mariella, Giorgio Linguaglossa – Pensieri di Andrea Emo e Heidegger con uno scritto di Donatella Costantina Giancaspero

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foto di gunnar-smoliansky-1976

Verso una «nuova ontologia estetica». Riflessione intorno alla «Cosa».

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È noto il topos del vaso e del vasaio che Lacan riprende da Heidegger. Il vaso è quella cosa (Sache), quell’oggetto creato di uso quotidiano, prodotto di un fare che crea un utensile, una suppellettile, uno strumento. In esso è pienamente visibile l’idea del vuoto della Cosa (Ding). Da questa accezione derivano, per Heidegger, il romanzo la cosa, il francese la chose, e il tedesco das Ding, quell’alterità che «brilla» per la sua assenza. Esso ha la proprietà di presentificare il vuoto e il pieno, di esser pensato nel paradosso del vuoto e del pieno. Il suo essere utensile lo pone nella posizione di funzionare da significante, ma, allo stesso tempo, questo suo essere significante non significa nulla, ovvero, significa il vuoto intorno a cui esso vuoto prende forma, il vuoto che il vaso racchiude.

Per Heidegger la brocca è quella cosa che nella sua forma di recipiente assicura il contenere e l’offerta, connette mortali e divini, cielo e terra. Questo perché ciò di cui la brocca consiste non è il materiale di cui è fatta, non è nemmeno determinante la forma che il vasaio forgia, quanto il fatto che la brocca racchiuda il vuoto che essa crea.

La brocca è al contempo Sache e Ding, nel senso in cui sintetizza il rapporto tra il significante e das Ding, tra l’ordine della Vorstellung intorno a cui si articola la pulsione e il vuoto lasciato dalla Cosa a cui la stessa pulsione tende. Soffermiamoci per un momento al vaso, al suo uso come utensile e la sua funzione di significante. Ecco che il vaso è significante in quanto plasmato dalle mani dell’uomo, non è significante in sé. Il significante del vaso diventa significativo tramite il vuoto che esso crea, inaugurando l’aspettativa di riempirlo. Il vuoto e il pieno vengono creati dal vaso. È a partire da questo significante plasmato che è il vaso, che il vuoto e il pieno entrano come tali nel sistema articolatorio qual è la lingua. Il vaso dunque è quel significante che di per sé esprime l’ingresso nel sistema della lingua di un vuoto.

È questo vuoto che si presenta come nihil, come il nulla al centro della significazione, o come quel nulla del reale da cui proviene l’ordine della Vorstellung, il luogo in cui Lacan colloca il godimento, ovvero l’al di là del principio di piacere. È il vuoto del linguaggio. L’istanza discorsiva del soggetto viene articolata dalla catena significante, così come l’articolazione piacere-realtà introduce il rapporto del linguaggio con il mondo. La Cosa cioè, in quanto sita fuori del sistema articolatorio del significante e, allo stesso tempo, condizione di esso, resta la Cosa del linguaggio, quel punto di gravitazione che apre l’universo del nominabile, apertura che gli dà un limite, lo circoscrive come universo della significazione di fronte a cui, o meglio, al cui centro essa Cosa resta esterna, muta, innominabile.

Non si dà un significante che possa significare la Cosa, impossibilità che configura la condizione stessa della Parola, ovvero l’essere luogo di una lacerazione che pone il rapporto soggetto-Altro come inaugurale. Certo, il significante ambirà l’occupazione del posto della Cosa, ma sarà un tentativo condannato ad andare a vuoto, appunto perché non dotato di quell’assolutezza in sé che sarebbe necessaria per ricoprire il vuoto.

Cfr. veda M. Heidegger, La cosa, in Vorträge und Aufsatze, Verlag Günther Neske, Pfullingen 1954; trad. it. a cura di Vattimo G., Saggi e discorsi, Mursia, Torino 1976, 1990 (2007)., pp. 109-24. 197 J. Lacan, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 78.

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foto di gunnar-smoliansky, 1958

londadeltempo

26 luglio 2017 alle 0:36

Perciò questa “Cosa”, muta, innominabile, al centro dell’universo dei significati dove gravitano le parole è MISTERO: ed è quel mistero a cui la parola poetica attinge la sua inspiegabile linfa vitale. Nessuno può possedere o nominare la verità, ma ai poeti è concesso evocarla nei mille modi che significante e significato rivelano grazie al loro sfinimento nell’impossibile tentativo di nominare o possederla. Grazie, Magister, per queste parole pronunciatesullondadeltempogravitanti… intorno alla “cosa”. Caro Giorgio Linguaglossa…mi accorgo che incominciamo a parlare lo stesso linguaggio…anche se io lo balbetto soltanto!

(Mariella)

Onto Espmark

Kjell Espmark, nella grafica di Lucio Mayoor Tosi

Poesie di Kjell Espmark da La Creazione (2016, Aracne) traduzione di Enrico Tiozzo

 Commento «ontologico» di Giorgio Linguaglossa

 Nella nuova poesia il problema in ambito estetico è percepire il nulla aleggiare nelle «cose» e intorno alle «cose», percepire il vibrare del nulla all’interno di una composizione poetica così piena di «cose» e di significati… per scoprire che tutte quelle «cose» e quei «significati» altro non erano che il riverbero del «nulla», il «solido nulla» del nostro nichilismo, quest’ospite ingombrante che non possiamo più mettere alla porta, perché tanto non varrebbe, si ripresenterebbe tale e quale dinanzi e dietro di noi senza preavviso…

La «positività» del nulla, come ci ha insegnato Andrea Emo, è la sua stessa nullità, la sua nullificazione. Credo che questo sia chiaro a chi legga la poesia di Kjell Espmark con la mente sgombra, senza pregiudizi, facendo vuoto sul prima della poesia, e sul dopo, leggerla come si respira o si guarda uno scricciolo che trilla, come un semplice accadimento che accade sull’orlo di qualcosa che noi non sappiamo… Ascoltare negli uomini e le donne che parlano in questa novella Antologia di Spoon river la progressiva nullificazione del nulla che avanza e tutto sommerge nella sua progressiva forza nientificante. È questo propriamente ciò di cui tratta la «nuova ontologia estetica», prima ancora di parlare di metro, di parola e di musica e quant’altro…

Mi conoscete come Yan Zhenqing,
il maestro del pennello dritto.
Ma l’imperatore mi trovò altro uso.
Le rivolte allora squarciavano il regno.
I figli pugnalavano il loro padre
e le donne si sbudellavano come galline.
La realtà da noi ereditata cadde in pezzi.
Sì, la luna stessa fu ridotta in cenere.

Il mio valore durante la resistenza
mi aveva fatto diventare ministro.
Ma la mia aperta critica ai cortigiani corrotti
suscitò l’ira del primo consigliere.
Mi mandò a fare giustizia
del capo della rivoluzione Li Xili
pagando con la mia vita per l’oltraggio.

Ma Li voleva comprarmi. Si racconta
che accese un falò in giardino
minacciando di buttare un no nel fuoco.

*

E che io destai il suo rispetto
quando da me andai verso le fiamme.
La memoria vuole eradere ciò che davvero accadde.

Il mio stile che trovai solo dopo i cinquanta
vi racconta tutto questo.
Una pennellata comincia e finisce debolmente
come la donna che a lungo ho amato
ma il corpo del segno è d’un guerriero.
Solo così lo scritto è capace d’intervenire.

Ora ero al limite del mio filo d’erba curvantesi.
L’ultima notte nel tempio di Longxing
scrissi mentre aspettavo il boia.
Il diretto, oggettivo scritto
restituì alle parole saccheggiate il loro senso.
Costrinse la cenere a ridiventare luna,
riempì lo stagno perché vi si specchiasse
e ridiede al Buddha nel tempio le sue braccia.
Quelli che venenro per strangolarmi
furono atterriti dalla forza dei segni.

*

Quando prendeste il largo
tra costellazioni spaventose
lasciandomi da questa parte del Giordano
portaste con voi una patria incompleta.

Divenni un mucchio di ossa abbandonate
rose da iene e avvoltoi
e rese lucide da vento e sabbia.
Ma i resti della gabbia toracica
trattennero ciò che il naufrago capì.

E ciò che veramente è io in me
non s’arrese. Questa tremula fiamma sperduta
ha vagato lungo vie polverose,
che non erano polvere né vie,
per cercare voi, i miei.

Volevo mettere la mia anziana parola
nei vostri sogni, senza destarvi. Sussurrare:
La creazione è ancora incompiuta.

*

Ed è in voi che spera.
Avverto come vi girate nel sonno
con mani che afferrano nell’aria vuota
come per difendersi.

Ma perché giacete in così tanti,
ammucchiati insieme disperatamente,
su una sorta di letti di assi sporche?
E perché siete così smunti?

Voglio spargere in voi ciò che ho capito,
come cerchi su un’acqua dormiente.
Ma perché l’acqua è così scura?
E perché trema senza sosta?

*

Mi precipitai fuori, trasformata in fiamme
dalla biblioteca di Alessandria.
I nove rotoli di papiro in cui abitavo
ancora crepitanti di deluso amore,
mutarono in scintille e salienti schegge.
E morii per la seconda volta.

Frammenti di me rimasero come citazioni.
La mia parola per cielo s’impigliò in un dotto pedante –
Lui era fisso alla scrivania
Quando il blu di colpo divenne il blu profondo.
Un pronome usato in modo inusuale
stregò un grammatico. La parola
che scrisse se stessa in giallo e verde – uno scarabeo! –
aprì le sue elitre e si alzò
per portare il suo contesto attraverso i secoli.

Altri frammenti di ciò che era Saffo
rimasero come schegge sui passanti
per “richiamare chi a lungo amò”

*

Invece di cercare la Grande Visione
dovresti dedicarti ai piaceri della procreazione
e poi uscire con la tua donna nella luce lunare,
ascoltare l’unico liuto
e sentire l’aria fredda passare sul collo
Quel consiglio l’avesti da me, Li Zhi,
che una volta cercò d’insegnarti a scrivere
come salta la lepre e come colpisce il falco,
non per essere citato.
Non cercare di difenderti col fatto
che molti vogliono bruciare i tuoi libri.
Il vero testo
brucia mentre la mano scrive –
la carta s’accartoccia con i bordi neri.

Sull’estrema punta del capello
dove non visto costruisti la tua capanna
trovasti un’accademia.
Sono deluso da te.
Hai dimenticato me gettato in galera

Trovai sì l’ombra del mio amato
ma brancicò sopra di me
senza riconoscermi.
Allora passai la goccia di sangue sulle sue labbra,
l’ombreggiatura più scura che erano le sue labbra,
e lui stupì –

*

La mia mano che mano più non era
prese la sua che ancora era ombra.
E cominciammo a salire su nel buio.
Ad ogni gradino noi creammo
un pezzo dell’altro – un contorno noto,
gli occhi che un giorno scelsero l’altro.
Sì, dalle carezze ci nacquero sessi noti.

Vicino alla luce alla fine della scala,
alitato il respiro l’un nell’altra
rimanemmo fermi sopra un gradino
che doveva dirci qualche cosa:
spingi indietro la tua immagine dell’altro
e lascia che l’altro sia l’altro.
Stupiti ci fermammo,
prima che la creazione si compisse,
per imbrigliare il bisogno di riconoscere.
Ed era la sera del sesto giorno.

Onto Linguaglossa triste

Giorgio Linguaglossa nella grafica di Lucio Mayoor Tosi

giorgio linguaglossa

26 luglio 2017 alle 8:22 gentile Mariella,

UNA POESIA DI STEVEN GRIECO RATHGEB.

È erraneo e ultroneo mettere il Signor Estraneo alla porta

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/25/il-ritorno-di-odisseo-loblio-della-memoria-odisseo-e-un-cialtrone-un-disertore-della-guerra-di-troia-una-poesia-inedita-di-giorgio-linguaglossa-la-rilettura-del-mito-dal-punto-di-vista-della/comment-page-1/#comment-22003

forse la parola «mistero» è quella più adatta ad indicare quel qualcosa che non riusciamo a nominare, ma forse è per il fatto che «quella» Cosa che non riusciamo a nominare è qualcosa che non possiamo indicare con «una» parola ma deve essere «evocata» dalle parole. Forse quella Cosa è qualcosa che sta «prima» del linguaggio, e cmq «fuori» del linguaggio. È di questo ciò di cui si deve occupare la poesia. Tutte le chiacchiere descrittive e paesaggistiche (anche ben scritte!) della poesia italiana degli ultimi cinquanta anni devono essere poste nel dimenticatoio, liberiamoci finalmente di tutta la poesia che non ha mai tentato (perché non ne era capace) di nominare l’innominabile. Eppure, questo è il compito della poesia, altrimenti è «chiacchiera».

Leggiamo una poesia di un autore , è Steven Grieco Rathgeb. Si tratta di poche parole:

Una brezza
la porta si è spalancata. Fitto fogliame,
nessuno,
la soglia non varcata.
In questo addio, sono tornato a casa.

(Steven Grieco -Rathgeb da Entrò in una perla, Mimesis Hebenon, 2016)

Non mi cimenterò in una analisi dettagliata delle parole, l’ho già fatto in altra sede e non mi ripeterò. Ecco, qui siamo messi davanti ad un «mistero», come lo chiama Mariella, o ad una «Cosa», come la chiamo io (il che è lo stesso).

La poesia disegna la «cornice» del «vuoto», non può fare altro che disegnare questa «cornice» per mettere a fuoco un «evento»: una «porta» che «si è spalancata». E qui la poesia è già finita.
Il fatto è che noi nella nostra vita quotidiana abbiamo visto miliardi di volte una porta «spalancata», e allora che cos’è che ci sembra abbia del miracoloso, del mirabolante in questa apparizione? Perché, che cosa fa di «quella» porta un evento singolare e irripetibile? È irripetibile perché nel verso seguente è detto «nessuno», non c’è anima viva là intorno. E allora ci chiediamo: che cosa fa di questa risposta della poesia una risposta significativa? Che cosa significa «per noi» che quella «porta» «si è spalancata» (da notare il riflessivo, quasi che l’azione dello spalancarsi sia stata compiuta da una terza persona o da «nessuno», che so, da un colpo di vento…), poi viene detta una semplice frase lasciata cadere lì per caso:

la soglia non varcata

Dunque, finalmente siamo arrivati alla parola chiave: «la soglia»; si badi al determinativo «la», quindi si tratta di una «soglia» davvero particolare, unica, che non si ripeterà, che non può più ripetersi perché è lì che si consuma un destino. Si badi, tutto intorno c’è silenzio, non c’è un rumore, non c’è una allitterazione, non c’è alcun concerto di significanti o di assonanze: tutto è muto, ciò che avviene avviene nell’ammutinamento della voce; non ci sono parole, «nessuno» parla e nessuno ascolta. Il silenzio irrigidisce la composizione che si esaurisce in pochissime parole. L’evento sta per consumarsi, anzi, si è già consumato. Il protagonista che parla, colui che sta a lato o dietro la «cornice» della composizione, ha preso la decisione, ha vissuto l’evento e l’evento gli ha parlato. L’Estraneo, colui che è invisibile, ha parlato, ha parlato, ovviamente, nella sua lingua non fatta di parole.

Non v’è chi non veda come questa poesia sia estranea al descrittivismo impressionistico della poesia italiana di questi ultimi decenni, quella alla moda, intendo; qui non ci sono battute di spirito o giochi verbali, qui si va all’essenza delle cose, si va verso l’essenza.

Ho scritto in altra occasione questi Appunti che voglio richiamare:

È stato possibile parlare di «nuova ontologia estetica»,
solo una volta che la strada della vecchia ontologia estetica si è compiuta,
solo una volta estrodotto il soggetto linguistico
che ha il tratto puntiforme di un Ego in cui convergono,
cartesianamente, Essere e Pensiero,
quello che Descartes inaugura e che chiama «cogito».Solo una volta che le vecchie parole sono rientrate nella patria della vecchia metafisica, allora le nuove possono sorgere, hanno la via libera da ostruzioni e impedimenti perché con loro e grazie a loro sorge una nuova metafisica.

 

Onto Giuseppe Ungaretti

Giuseppe Ungaretti nella grafica di Lucio Mayoor Tosi

Sull’Estraneo

Il discorso poetico è quel capitolo della mia storia che è marcato da una barratura, da un bianco, abitato da un certo tipo di menzogna che si chiama «verità» della poesia nelle sue svariate versioni: poesia onesta, poesia orfica, poesia sperimentale, poesia degli oggetti, poesia della contraddizione, poesia del minimalismo, poesia del quotidiano etc.; è il capitolo censurato di quella Interrogazione che non deve apparire per nessuna ragione. Il discorso poetico abita quel paragrafo dell’ inconscio dove siede il deus absconditus, dove fa ingresso l’Estraneo, l’Innominabile. Giacché, se è inconscio, e quindi segreto, quella è la sua abitazione prediletta. Noi lo sappiamo, l’Estraneo non ama soggiornare nei luoghi illuminati, preferisce l’ombra, in particolare l’ombra delle parole e delle cose, gli angoli bui, i recessi umidi e poco rischiarati.
È erraneo e ultroneo mettere il Signor Estraneo alla porta. Un atto di suprema ingenuità oltre che di scortesia, perché egli è qui, dappertutto, e chi non se ne avvede è perché non ha occhi per avvedersene.
Tutto quello che possiamo fare è intrattenerci con Lui facendo finta di nulla, cincischiando e motteggiando, ma sapendo tuttavia che con Lui è in corso una micidiale partita a scacchi.

Odisseo inaugura il viaggio. A Noi, dopo 3000 anni ci resta il viaggio turistico.

Il responso di Andrea Emo:

«Il regno dell’Essere è alla fine. L’Essere non è più considerato una salvezza; l’essere è stato una funesta sopraffazione contro l’innocenza del nulla. … L’eternità dell’essere è stanca; l’essere vuole ritornare ad essere l’eternità del nulla, unico salvatore. Il nulla è il salvatore crocifisso dalla soperchieria dell’Essere?»
[…]
«nel paradosso è sempre e finalmente l’unica verità; ma nel paradosso, e perciò nella Verità, possiamo soltanto credere. Il linguaggio, il Verbo del Paradosso, è il mito; soltanto il mito sa esprimere il paradosso» […] «l’assoluto non ammette relazione altro che con il nulla. Dalla relazione iniziale (nozze abissali, infernali) tra il tutto e il nulla sono nati l’universo, gli esseri e le cose»*

* citato da Adalberto Coltelluccio in
https://mondodomani.org/dialegesthai/acol03.htm
Cfr. A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, a cura di Massimo Donà e Romano Gasparotti, Marsilio Editori, Venezia 1989.

onto Lucio Mayoor Tosi

Lucio Mayoor Tosi nella sua grafica

Lucio Mayoor Tosi
26 luglio 2017 alle 7:08

SULLA POESIA DEL NICHILISMO E L’ONTOLOGIA TRADIZIONALE

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/25/il-ritorno-di-odisseo-loblio-della-memoria-odisseo-e-un-cialtrone-un-disertore-della-guerra-di-troia-una-poesia-inedita-di-giorgio-linguaglossa-la-rilettura-del-mito-dal-punto-di-vista-della/comment-page-1/#comment-22002

Il termine “inconoscibile” è indicativo di un approccio solo mentale. Quando la “cosa” cade fuori dal mentale è inconoscibile. Il termine “cosa”, così come la parola “vuoto” sono indicativi di un limite nel sistema di apprendimento. Credere che ci sia un oltre o dell’altro presuppone, necessariamente, che si compia un atto di fede. E’ a questo punto che la filosofia, nello sforzo di superare se stessa, pur tenendo conto dei limiti del linguaggio, finisce col cedere qualcosa alla teologia. Oppure, questa sarebbe la mia opinione, avvicinandosi ai temi della spiritualità ne avverte il riverbero. Si tratta evidentemente di un tentativo di riappropriazione, un ratto di conoscenza operato nei confronti della spiritualità. Ma la conoscenza, così come l’intendiamo da sempre qui in occidente, verte solo su due fronti tra loro contrapposti: ragione e spiritualità. Il fatto che ci si trovi a dover fare i conti con il nulla e l’indicibile non mi meraviglia affatto. In oriente questo non sempre accade. Nello Zen ad esempio – Zen non è una religione e nemmeno una filosofia – si procede da secoli, scientificamente, utilizzando altri sistemi percettivi della conoscenza, dove si dà maggiore importanza alla fattività piuttosto che alla teorizzazione o al pensiero cartesiano. Va detto che per lo Zen, Dio non è mai esistito e questo semplifica notevolmente le cose.
Sono invece d’accordo con di Carlo Livia, quando scrive:
“Se è vero che la dissoluzione nichilista è ormai così avanzata da non poter essere superata o rimossa da una semplice ricostruzione dell’ontologia tradizionale, l’unica speranza risiede in un processo creativo che sappia indagarne l’essenza genetica, lasciandosi risucchiare dal vortice del nulla fino a scorgere il fondamento del suo accadere, facendo tesoro d’ogni luce che possa rischiare l’oscurità in cui ci muoviamo”.

Scrive Heidegger:

«L’atto del poetare è quindi ciò che istituisce la cultura. La Grundstimmung ovvero la tonalità emotiva fondante di un popolo, quindi la verità del suo esserci, è istituita dai poeti che, unitamente ai pensatori e agli statisti, creano opere di grande potenza generando nuove condizioni dell’esserci. E, riferendosi a Höderlin, il “poeta del poetare”, rivela:

«Es kann sein, dass wir dann eines Tages aus unserer Alltäglichkeit herausrücken und in die Macht der Dichtung einrücken müssen, dass wir nie mehr so in die Alltäglichkeit zurückkehren, wie wir sie verlassen haben.»
(IT)
«Può darsi che noi un giorno usciamo (herausrücken) dal nostro quotidiano, dovendo entrare nella potenza della poesia (Macht der Dichtung), e che non possiamo più tornare alla quotidianità così come l’abbiamo lasciata.»
(In GA 39 p.22)

La scelta di Hölderlin è da Heidegger ben meditata in quanto il poeta tedesco è «der Dichter des Dichters und der Dichtung» (“il poeta dei poeti e della poesia”), non solo, Hölderlin è anche il «der Dichter der Deutschen» (“il poeta dei tedeschi”), e siccome lui è tutto questo ma il suo poetare è “difficile” (Schwer) e “arcano” (Verborgene), la sua “potenza” non è divenuta “potenza” del popolo tedesco e “siccome non lo è, lo deve diventare” (Weil er das noch nicht ist, muß er es werden).

Leopardi, al contrario di Hölderlin,

non è mai diventato il poeta degli italiani moderni, non è mai diventato il poeta del popolo italiano, è stato miscompreso. Chiediamoci: perché è avvenuto questo?, al punto che una poetessa in fama di visibilità e di allori lo ha inserito tra i minori.

Costantina Donatella Giancaspero_11_dic_2016

Donatella Costantina Giancaspero, Fiera del Libro dell’EUR, Roma, 2017

Presentazione di Kjell Espmark di Donatella Costantina Giancaspero

 Kjell Espmark, tra i più importanti scrittori svedesi, è nato nel 1930 a Strömsund, una suggestiva cittadina della Svezia centro-settentrionale. Professore di Letteratura comparata all’Università di Stoccolma, nel 1981 è stato nominato membro dell’Accademia di Svezia, dove, per molti anni, ha rivestito la carica di presidente del Premio Nobel.

Ancora studente presso l’Università di Stoccolma, Kjell Espmark esordisce come poeta nel 1956, con la raccolta L’uccisione di Benjamin, dove si coglie la netta influenza di T.S. Eliot, influenza che verrà superata, nelle opere successive, fino al raggiungimento di un suo personalissimo linguaggio. A questo lo condurrà la ricerca compiuta a partire dal 1970. Ciò che Espmark andava perseguendo in questi anni era una sorta di “traduzione dell’anima”, la sua “materializzazione” – ovvero come l’”interiore” diventa “esterno”–, ispirandosi alla tradizione del modernismo lirico internazionale (da Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, a Eliot e Breton) e, successivamente, a quella propriamente svedese (Ekelund, Lagerkvist, Södergran, Ekelöf, Thoursie e Tranströmer). La volontà di materializzare ciò che è interno è, infatti, una caratteristica sia del simbolismo, che dell’avanguardismo degli anni ’10 e del surrealismo.

Poco dopo aver ricevuto la cattedra (1978), Espmark inizia a lavorare a una nuova trilogia lirica culminante con Il pasto segreto (1984). La prospettiva s’era ormai allargata, centrando l’attenzione sull’Europa e, successivamente, sul mondo intero.

Dalla fine degli anni Ottanta al 1990, Espmark si afferma anche come romanziere. Il ciclo di sette romanzi, L’età dell’oblio, che rappresenta una delle opere fondamentali della letteratura svedese, offre un quadro sconvolgente del malessere e dell’angoscia del Novecento. Nel frattempo, pubblica altre due raccolte di poesia: Quando la strada gira (1992) e L’altra vita ((1998): traduzione a cura di Enrico Tiozzo.

All’attività di poeta e romanziere, Espmark unisce quella di drammaturgo e saggista, pubblicando, tra le altre opere, una monografia su Tomas Transtömer. In totale, al suo attivo, egli annovera una sessantina di volumi, che gli hanno valso numerosi premi nazionali e internazionali.

Sul finire del Millennio, Espmark, ben lungi dall’esaurire la propria creatività, ha scritto alcune delle sue opere poetiche più grandi; non ultima quella composta nel 2002, dopo la scomparsa della moglie, I vivi non hanno tombe. Qui il testo è affidato interamente alla voce della moglie perduta, nella rievocazione di altre figure scomparse. Punto culminante della sua scrittura lirica è senz’altro La via lattea (2007), definita “la migliore raccolta di poesie pubblicate da un autore svedese nel 2000”.

Nel 2010 esce L’unica cosa necessaria, Poesie 1956-2009. Nello stesso anno I ricordi che si trovano. Del 2014 è Lo spazio interiore e, ultimo (2016), La creazione con la prefazione di Giorgio Linguaglossa, pubblicati in Italia da Aracne Editrice, nella traduzione di Enrico Tiozzo.

 

 

 

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