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Samuel Beckett (1906-1989) POESIE SCELTE (da Einaudi, 1999) traduzioni di Gabriele Frasca con un Commento politico di Giorgio Linguaglossa

Evtusenko Foto di Vladimir Mishukov

Foto di Vladimir Mishukov

dire oggi arte radicale è lo stesso che dire arte cupa,
col nero come colore di fondo. Molta produzione
contemporanea si squalifica perché non ne prende atto e magari
gioisce infantilmente dei colori […] L’arte di assoluta responsabilità va
a finire nella sterilità, di cui è raro non sentire l’alito nelle opere d’arte
elaborate fino in fondo e in modo conseguente; l’assoluta irresponsabilità
le abbassa a “fun”; una sintesi dei due momenti si condanna da
sé, in base al suo stesso concetto […] L’arte moderna che si atteggiasse
a dignitosa sarebbe ideologica senza misericordia. Per suggerire dignità
essa dovrebbe darsi arie, mettersi in posa, farsi altro da ciò che può essere.

T.W. Adorno

Commento politico di Giorgio Linguaglossa. La poesia del «negativo» di Samuel Beckett

Scrive Samuel Beckett nel saggio su “Proust”:

Il tentativo di comunicare, laddove nessuna comunicazione è possibile, è soltanto una volgarità scimmiesca, o qualcosa di orrendamente comico, come la follia che fa parlare coi mobili. […] Per l’artista che non si muove in superficie, il rifiuto dell’amicizia non è soltanto qualcosa di ragionevole, ma è un’autentica necessità. Poiché il solo possibile sviluppo spirituale è in profondità. La tendenza artistica non è nel senso dell’espansione, ma della contrazione. E l’arte è l’apoteosi della solitudine. Non vi è comunicazione poiché non vi sono mezzi di comunicazione.

foto-samuel-beckett

Beckett fa colazione a Parigi, anni settanta

Leggere oggi queste poesie di Beckett può essere se non utile, direi indispensabile, o almeno salutare per via di quell’imbruttimento allo stadio zero della «comunicazione» (questa orribile pseudo categoria oggi di moda) che la sua poesia recepisce dalla lingua di relazione. Quella di Beckett è una sorta di super lingua, quali sono diventati l’inglese, il francese, l’italiano di uso corrente oggi nelle classi abbienti e meno abbienti, come tutte le altre lingue dell’Europa occidentale. Arte «cupa», lo afferma Adorno, con l’impiego del «fun» a renderla appetibile e digeribile.

Direi che quella di Beckett è, appunto, una poesia di uso corrente, che impiega parole correnti del linguaggio parlato del linguaggio internazionale quale è quello che usiamo nei commerci quotidiani. Direi che è scomodo affrontare un autore che non ci dà alcun appiglio per un discorso critico; un critico dinanzi a queste poesie non può dire nulla, quello che può dire è che esse si sottraggono con tutte le forze a qualsiasi discorso ermeneutico.

Sono poesie anti ermeneutiche. Del resto, tutta l’opera teatrale e narrativa dello scrittore irlandese vuole raggiungere questo obiettivo: sottrarsi alla indagine ermeneutica, sottrarsi al lettore, allo spettatore, al fruitore chicchessia, non offrire nessun appiglio o alibi, porsi come il «negativo» di un pensiero estetico che pensa il «negativo», negativo esso medesimo. Ma già parlare a proposito di Beckett di «pensiero estetico» è un reato di opinione, il «pensiero estetico» presuppone altre categorie quali la Forma, il Tempo, il Soggetto, l’Oggetto, la Scrittura, il Romanzo, la Poesia, la Commedia, etc. Ebbene, l’opera poetica di Beckett si sottrae a tutto ciò, è estranea a queste categorie. Così, il fatto che lui scriva delle poesie non deve indurci in tentazione, queste che presentiamo non sono poesie, né anti poesie come era d’uso pensare nel Novecento delle post-avanguardie, sono nient’altro che scritture del negativo, registrazione burocratica del negativo, e neanche della negazione, perché il negativo beckettiano è estraneo allo stesso concetto di «negazione», che implicherebbe pur sempre un quantum, sia pur esilissimo, di positività.

E certo il primo assunto su cui si basa questa «poetica», diciamo così, è la negazione del concetto di poetica e   di «comunicazione» oggi tanto in voga presso la chatpoetry e il chatnovel, le viandanze turisticamente agghindate, carcasse della sotto cultura ceto-mediatica di oggi. La poesia beckettiana, al pari di tutta la sua opera, si situa al di qua della «comunicazione» e al di là di ogni concetto di «poetica» impegnata politicamente o civilmente, in un certo senso essa è socialmente incivile, infungibile e quindi si sottrae al concetto di «rappresentazione» per approdare ad un deserto assoluto che presuppone la incomunicazione quale categoria di base della scrittura. Il che non vuol dire sguardo pessimistico o negativo sul mondo, quanto un mondo senza sguardo, né interno né esterno, un mondo senza un observer. Un mondo senza una entità che lo osserva, è qualcosa che sta al di qua del senso e del non senso, al di qua del concetto di rappresentazione e al di qua della mera ragionevolezza. Dirò di più, queste poesie sono delle «cose» che non sortiscono da alcun pensiero critico, perché già esso presupporrebbe una esilissima stoffa di positività che nel pensiero di Beckett è invece del tutto assente.

Meglio dunque non dire nulla, come del resto vorrebbe lo stesso Beckett. Ma questo dovevo pur dirlo, cioè non dire alcunché per indicare il «nulla» che queste poesie mostrano ma non perché occorra dare una dimostrazione del «nulla» quanto che il «nulla» si mostra così com’è. E con questo penso di aver dato una interpretazione di Beckett dal punto di vista di una «nuova ontologia estetica».

Ha scritto Adorno:

«Un uomo, che con una forza ammirevole sopravvisse ad Auschwitz ed altri campi di concentramento, opinò appassionatamente contro Beckett, che se questi fosse stato ad Auschwitz, scriverebbe diversamente, cioè con la religione da trincea di chi è sfuggito, più positivamente. Lo sfuggito ha ragione in un senso diverso da quello inteso; Beckett, e chi altri ancora restò capace di controllarsi, là sarebbe stato spezzato e presumibilmente costretto a convertirsi a quella religione da trincea, che lo sfuggito rivestì di parole: voleva dar coraggio agli uomini. Come se si trattasse di una qualche formazione spirituale, come se l’intenzione che si rivolge agli uomini e si organizza secondo loro non gli tolga ciò che potrebbero pretendere, anche quando credono il contrario. Così è finita la metafisica.».1

1 T.W. Adorno Dialettica negativa trad. it. Einaudi, 1970, p. 332

 

morton-feldman-and-beckett

Morton Feldman e Samuel Beckett

da Samuel Beckett – Le Poesie, cura e traduzione di Gabriele Frasca, Einaudi, Torino 1999. 

Gnome

Spend the years of learning squandering
Courage for the years of wandering
Through a world politely turning
From the loutishness of learning

 

Gnomo

Passano gli anni dell’apprendimento
A dissipare il coraggio per gli anni
In cui vagabondare dentro un mondo
Che con garbo si libera ruotando
Da ogni grossolano apprendimento

 

Home Olga

J might be made sit up for a jade of hope (and exile, don’t you know)
And Jesus and Jesuits juggernauted in the haemorrhoidal isle,
Modo et forma anal maiden, giggling to death in stomacho.
E for an erythrite of love and silence and the sweet noo style,
Swoops and loops of love and silence in the eye of the sun and the view of the mew,
Juvante Jah and a Jain or two and the tip of a friendly yiddophile.
O for an opal of faith and cunning winking adieu, adieu, adieu.
Yesterday shall be tomorrow, riddle me that my rapparee.
Che sarà sarà che fu, there’s more than Homer knows how to spew,
Exempli gratia: ecce himself and the pickthank agnus – e.o.o.e.

 

Home Olga

J potrebbe essere allertato da una bagascia di speranza (ed esilio, sai)
A molocchare rimarrebbero Gesù e i Gesuiti nell’isola emorroidale,
Modo et forma vergine anale, ridacchiando a morte nello stomacho.
E sta per eritrite d’amore e silenzio e dolce stil nonovo,
Scorribande e intrecci d’amore e silenzio nell’occhio del sole e vista di gabbiano,
Juvante Jah e uno o due jaini e la soffiata d’un amichevole yiddofilo.
O invece per un opale di fede e maestria palpitante adieu, adieu, adieu.
Yeri sarà domani, risolvimi questa stoccata e fiuta.
Che sarà sarà che fu, c’è più di quanto Omero abbia saputo vomitare,
Exempli gratia: ecce lui proprio e l’acchiappagrazie agnus… e.o.o.e.

 

da: «Oroscopata e altri versi d’occasione»

 

The Vulture

dragging his hunger through the sky
of my skull shell of sky and earth

stooping to the prone who must
soon take up their life and walk

mocked by a tissue that may not serve
till hunger earth and sky be offal

 

L’avvoltoio

Trascinando la fame lungo il cielo
del mio cranio che serra cielo e terra

piombando su quei proni che dovranno
presto riprendersi la vita e andare

irriso da un inutile tessuto
se fame terra e cielo sono resti

 

Enueg II

world world world world
and the face grave
cloud against the evening

de morituris nihil nisi

and the face crumbling shyly
too late to darken the sky
blushing away into the evening
shuddering away like a gaffe

veronica mundi
veronica munda
give us a wipe for the love of Jesus

sweating like Judas
tired of dying
tired of policemen
feet in marmalade
perspiring profusely
heart in marmalade
smoke more fruit
the old heart the old heart
breaking outside congress
doch I assure thee
lying on O’Connell Bridge
goggling at the tulips of the evening
the green tulips
shining round the corner like an anthrax
shining on Guinness’s barges

the overtone the face
too late to brighten the sky
doch doch I assure thee

 

Enueg II

mondo mondo mondo mondo
e il volto austera
nuvola sullo sfondo della sera

de morituris nihil nisi

e il volto a sgretolarsi timido
troppo tardi per tenebrare il cielo
che arrossa nella sera
come una gaffe rabbrividendo via

veronica mundi
veronica munda
da’ noi una pulitina per amor di Gesù

sudando come Giuda
stanco di morire
stanco dei poliziotti
coi piedi in marmellata
copiosamente a traspirare
col cuore in marmellata
fumo addizionato al frutto
col vecchio cuore il vecchio cuore
che prorompe fuori congresso
doch ti rassicuro
sdraiato sull’O’Connell Bridge
a sgranare gli occhi sui tulipani della sera
sui verdi tulipani
che splendono dietro l’angolo come un antrace
che splenda sulle chiatte della Guinness

in sovratono il volto
troppo tardi per rischiarare il cielo
doch doch ti rassicuro Continua a leggere

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Caterina Davinio POESIE SCELTE da Il libro dell’oppio, (2012) – Nella poesia della Davinio c’è vitalismo ed esistenzialismo. La vita è un interludio della moltitudine. La poesia è qualcosa che si fa in diretta dalla vita, mentre si vive – Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: La ricerca dell’autenticità

Caterina Davinio è nata a Foggia nel 1957, ha vissuto a Roma dal 1961 al 1996, dove dopo la laurea in Lettere all’Università Sapienza si è occupata di scrittura e nuovi media come autrice, curatrice e teorica. Tra i pionieri della poesia digitale, ha esposto in centinaia di mostre nel mondo, tra cui sette edizioni della Biennale di Venezia e le Biennali di Sydney, Lione, Atene, Livepool, Hong Kong e altre; ha partecipato a festival internazionali come Polyfonix (Barcellona e Parigi), E-Poetry (Barcellona e Buffalo, New York), Artmedia (Università di Salerno), Oslopoesi (Oslo) e il Festival internazionale di poesia di Medellín.

Tra le pubblicazioni, i romanzi: Còlor còlor (1998), Il sofà sui binari (2013), Sensibìlia (2015); i saggi sulle arti elettroniche: Tecno-Poesia e realtà virtuali (2002) e Virtual Mercury House (2012); e i libri di poesia: Alieni in safari (poesia e fotografia, 2016), Fenomenologie seriali (2010), Il libro dell’oppio (2012, finalista Premio Camaiore), Aspettando la fine del mondo (2012, Premio speciale Astrolabio), Fatti deprecabili (2015, Premio Tredici), e Rumors & Motors (poesia digitale). Dal 1997 vive tra Monza, Lecco e Roma, operando a livello internazionale.

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: La ricerca dell’autenticità

Va sotto il nome di Esistenzialismo quel movimento culturale sorto in Francia immediatamente dopo la seconda guerra mondiale che prende nome dalla corrente filosofica degli anni trenta del Novecento che muove storicamente dal pensiero del danese Kierkegaard (1813-1855) e prosegue in Germania, con Heidegger e in Francia con Sartre. L’esistenzialismo segna un ritorno di attenzione dell’uomo alla sua esistenza o, con linguaggio heideggeriano, all’essere dell’esserci. L’esistenzialismo francese postbellico, oltre a Sartre conta sull’apporto di romanzieri come Simone de Beauvoir, Camus e di un filosofo come M. Merleau-Ponty, e si presenta come una «filosofia della crisi». Nel dopoguerra, in Francia molti intellettuali fanno una scelta a fianco del Partito comunista e lo accompagneranno almeno fino alla invasione dell’Ungheria nel 1956. Si può dire che l’esistenzialismo anticipa il fenomeno della contestazione giovanile di massa caratteristica degli Usa negli anni cinquanta, con il rock’n roll e del ’68 francese. In Italia, spunti di esistenzialismo si possono rintracciare in romanzieri isolati del primo anteguerra come Giorgio Scerbanenco e Alberto Moravia del quale nel 1929 esce in Italia il primo romanzo di marca schiettamente esistenzialista: Gli indifferenti; in poesia invece l’esistenzialismo ha avuto da noi scarso attecchimento, tra l’altro, per motivi storici, giunge in ritardo ma con esiti comunque ragguardevoli, anche se le correnti artistiche poetiche stentano a trovare nell’esistenzialismo un punto di riferimento, lo troveranno alcuni autori, tra i quali Caterina Davinio, ma vale la pena ricordare un’altra poetessa, la romana Giovanna Sicari della quale ricordiamo le sue due prime raccolte: Decisioni (1986), e Sigillo (1988). C’è in quegli anni una élite di poeti che sceglie un vitalismo esistenziale per esprimere i dubbi e le angosce della generazione venuta dopo la affluent society e gli anni di piombo. Questo il quadro storico. Caterina Davinio in questo libro antologico della propria produzione, appare poeta significativo di quel momento storico stilistico. Possiamo considerare in questo orientamento anche poeti dissimili tra di loro come i milanesi Milo de Angelis con Somiglianze (1980) e Maurizio Cucchi con Il disperso (1976).

Ci sono in questi autori e in Caterina Davinio dei tratti stilistici comuni: la predilezione per gli scenari urbani e gli interni delle abitazioni private, il corpo visto come un oggetto, l’adozione del verso libero, segmentato e spezzato, la dizione veloce, l’impiego di un linguaggio parlato, antiletterario, la tematica esistenziale, il privato indagato dall’esterno e dall’interno: l’oppio, le droghe, il sesso, il disimpegno dal politico, l’alienazione, gli amori post-adolescenziali, la ricerca ossessiva dell’identità, un certo giovanilismo, il culto del suicidio…

Nella poesia della Davinio c’è vitalismo ed esistenzialismo. La vita è un «interludio della moltitudine». Incontriamo i bar notturni, «malfamati», le discoteche, i balli sfrenati, la droga, gli amori veloci, i «cieli grigi», il traffico delle città, una esistenza di sfrattati dall’esistenza, dispendiosa, anarchica, piena di «immondizie». C’è, in prima persona, l’autrice che dichiara: «raccolgo rifiuti», «Berlino prostituta esperta», «i graffiti sui muri», le «autostrade», «le gambe distese sul pavimento / rigido e freddo / come una camera mortuaria… / dentro i graffi nei denti», «l’edonismo arrabbiato» degli anni Ottanta, «la droga è niente, vedi?». La Davinio nelle sue poesie entra direttamente in medias res, ecco un incipit: «Dicesti: / adesso vado a casa e/ e me la sparo / e andammo a casa… (…) nella Roma languente / decadente / di matrone e portinaie / nella tua casa obliqua». Il verso è trattato sbrigativamente, perché non c’è tempo da perdere, è meglio la vita, viverla in diretta piuttosto che scriverla. Entrano in poesia, direttamente dalla strada, nuovi termini: «overdose», «shakerando», «incazzato», «eroina», «stronzo»…

La poesia è qualcosa che si fa in diretta dalla vita, mentre si vive.

caterina-davinio

Caterina Davinio

Caterina Davinio

da Il libro dell’oppio, Puntoacapo Editrice, 2012.

Bar.
L’ultima insegna
ancora accesa.

*

Ehi,
come va laggiù,
al Motel delle stelle?
Senti il suono della galassia?

*

Sì.
Ti dico di sì.

Fino all’ultimo stadio del male
delizioso.

*

Tu eri all’angolo della strada
e dietro di te il grigio del muro
e sotto, il grigio delle pietre e del selciato.
La strada era lunga e deserta
e la tua radio emetteva un suono metallico;
Tutto era sporco, era immondizia variopinta
a – u hu huuu
wha hu – u – u – dum dum.

(1981)
Correvamo divorando chilometri
la vita entrava e poi usciva da noi:
un buco vuoto
dove passa il vento

(1983)

Flash (Poema dell’eroina)

Il tempo di un sospiro
sprizza il sangue
nella plastica elastika
e injection suspirosa
ella trans-trahere transeunte
di felicità fugacissima
et intensissima
trans/actraversa attraversante
dal braccio alla schiena
come rampante graffio
salgono ragni di piacere
mi colpiscono (pugnalano) alle spalle
piacere
arrabbiato,
cattivo.
Testa piena full flash acqua
nulla dimentichi
intontito dai pugni dell’orgasmo
non l’org-chiasmo
non l’edonistico drappeggio
non quel pochissimo
che già muore
e ti lascia a fissare
la strada che scorre
e dici voglio ricordare
questo momento
questo sfuggire infinito
del temporaneo, un istante immenso
dilatato
che fluisce
voglio ricordarlo
e questo è tutto
è dio
è il meglio della vita
dei suoi aculei
del suo plasma addensante
archetipi
l’origine
la malattia della vita
equilibra
getta oro sulla bilancia
barbara (venduto al mondo)
ti stressa il cuore innamorato
ti innamori
guardi quelle luci correre lungo la strada
sto appoggiata a un fanale
a un obelisco di pietre lisce
e vedo
l’universo in strisce colorate
e riflettendo
linee di colore
fari delle cars oh America!
lontana
tutto quello che posso graffiare via
lo prendo nelle mani stanche
negli occhi del mio stupore
scorri strada
scorri via
scorrete case
macchine
notti luminose
riflessi di pioggia
la mia giubba di pelle con sinistri bagliori
mi stringe sono un piccolo dio
mi abbraccia
mi lega
ferrea come una camicia di forza
e ti guardo notte
negli occhi con tutto il mio coraggio
codardo
di tossicomane fallito arrabbiato
onore al fallimento
cipria su noi cadaveri
(risucchiati scheletri aulenti
nuda polvere di morte)
pregate
ma annotate nei vostri libri maledetti
che io sono nato oggi
che ho tutto
tutto è l’universo
è
quella poderosa scia.

Ella declina nel sonno
nei soffici sogni carezzevoli
come carezze di amante delicato fraterno
e lascia correre ragni agli angoli della stanza
cattivo taglio, presagio
striature nere di delirio
e tuttavia ricordo
(senza timore)
solo molle delirio d’ombra
tu steso sul materasso morente
io a darti salvezza in piccole gocce nere
noi risorgemmo dal nostro inferno come lievi angeli
con il solletico di dio nelle vene giudiziose
graffiate da artigli, aghi come baci

sul paradiso sull’inferno
non ho niente da aggiungere
non mi pento
nulla aborrisco del mio sangue
rabbioso
delle sue effervescenti bollicine
di frizzante amore universale
di universo universo
ubi/verso
dove stai tu di casa
sotto gli imbrogli della mia quotidiana
brama di afflitto
afflitto per voi inermi spettatori
della mia decadenza e demenza
del mio suicidio alienato e
della vita suicidaria
ma io costruisco mattoni di un muro possente
una barriera indecifrabile
di cellule, un chimico muro
nei cancelli del cervello
non dire oblio
non dirmi folle
costruisco una vita liberata dal peso della vita
lasciami correre come un angelo nella giungla
so delle tigri straziate
dalla colpa
uccidere
per bisogno
lasciami libero
i graffi bianchi sulla mia schiena mi sciolgono
e devolvono
come vivo senza quel peso della materia
senza quella raucedine di mille sigarette
fumate a catena, fumo – – –
vivo leggero come il fulmine
come la persistenza come la meteora
dimmi che mi comprendi
o dimmi che mi odi
ho la potenza del suono e degli eventi
ora lascio scemare l’oltraggio
alla mia carne tremula
domani sarà paura e vuoto
sarò un fantoccio di stracci implorante
la rabbia di dio dirà le mie colpe
e io aspetterò di nuovo per strada
lacrimando come un penitente
con i coltelli negli occhi
e aspetterò pregando l’ora della siringa e delle linee
l’acqua che supplizia le mie vene
all’altezza del giorno deambulante pensoso
aspetterò come Cristo sulla croce
la resurrezione
l’acqua e il fuoco,
l’amore infinito,
eroina.

1984
caterina-davinio-video
Frasi rubate

– Lascia passare il tempo
per quello che dura –
– Un uomo può anche sbagliare
– Tu non preoccuparti di questo
e stai a guardare –
– Ascolta…
il violino
che copre la ragione –
– Canti e dolore
droga e dolore
dice G. –
– Cosa ti fai –
– Lascia stare –
– Cosa ti fai –
– Stai a guardare –
Tamburi tamburi
Tum tuum
Chi ha ragione
e chi torto
– Sai
fa caldo
vedi… –
– balliamo balliamo –
ohhh
– dieci fantasie matematiche
algebra pura –
Non c’è un senso in quello che dice
– Il prigioniero
e la sua faccia
sono davanti allo specchio –
– Hai ragione,
è per guardarti dentro –
– Allora? –
– Non so –
– Cosa vedi –
– Tamburi Tamburi
tutto può essere vero
Il piano
uccide i violini
– ti sembra giusto questo –
– a casa di sera
una grande vetrata
sulla città
al diciassettesimo piano
sulla notte.
– Sono un musicista
una persona seria –
Milioni di stelle.
– Il ballerino
dagli occhi folli
si contorce
come un lungo serpente
non mi contraddire
– Non ti sembra bello?
– Anche stanotte sarà una notte da pazzi
La città sembra ancora una prigione
– Lascia stare…
– Cosa ti fai
cosa ti fai –
– Questa è tutta una voglia di droga –
– Qualunque cosa sia,
non durerà a lungo.
– Sei un musicista serio
molto bravo
e hai del coraggio
o no? –
– La tua musica mi piace –
– Questi concerti
che non finiscono mai –
– Mi fanno proprio perdere la testa
– Il solito sballato
che ficca la testa dentro un canale –
– Stai a vedere
che non te la cavi
– Torna domani
hai capito? –
– Un mio amico è affogato in un cesso –
– Brutto guaio –
– Peccato, brutta fine –
– Sì torno domani –
– Sei anche tu uno sballato da niente –
– Torna domani
hai capito? –
Un uomo può anche sbagliare
Un uomo si può anche ammazzare
– Sei un borghese e uno stronzo –
– Che cosa ti fai
Cosa ti fai –
questi tamburi,
a quest’ora di notte.

1976

 


(Eroina)
Bassi/Fondi

Ho bisogno del tuo tocco,
giù, nei bar malfamati della città,
dove sorrisi e occhiate s’intrecciano
e qualcuno cadrà
sulla strada.
Luci dei caffè
quasi vuoti,
faccia a faccia
deporre ogni arma
inseguendo un’onda struggente,
il maroso soffice.

Galoppano
incalzati dal freddo.

1981

*
Berlino

I cieli erano grigi
lunghi freddi
sembrava di guardare tutto
attraverso un vetro appannato.
Calpestavamo immondizie.
Berlino prostituta esperta
sopravviveva saggia e frenetica
ci divertivamo, eravamo tristi,
ci scambiavamo occhiate
piene d’intesa.

1981
*
Perché sono tornati?
Perché sono caduti di nuovo
nella durezza nella dolcezza?
Tu verrai avanti
tutto in nero
in uniforme notturna
portando la tua innocenza per le strade.
È passato il tempo
è durato un secondo
sento il sangue scorrere via cupo
mi accorgo
che ho sofferto per nulla.
Ho visto ore che non passavano mai
se ne sono andate da sole
dove andavano?
Non le ho sentite passare.

1982
*
Ad A., morto di overdose

Nel buco del nulla
ti scavasti un cantuccio
nell’utero di madre natura
sorridendo con occhi
ambigui
ti raccomandasti
alla benevola spietatezza dell’uomo
Scheletro raccolto
piccolo ritratto d’anima
volata via
e ancora errante
sul letto della morte
e a te è amore
a te è desiderio e passione la morte
piccola morte
ti ritrovai ritratto spezzato
immagine corrotta
in tutta la tua verità
la tua meschina potenza
con il segno indelebile
dell’infinito.

1985
*
Mi alleno all’imperfezione.
Torni e le porte sono aperte.
Per giacere con me
chiami, in multivisione,
da una specie di astronave ultima,
ma sono in ginocchio,
su di me insetti,
un segno della mia morte;
quei morsi mi lasciano intatta
come se venisse un vecchio amore a trovarmi,
una memoria di vita, bimbi e rifiuti.

1983

*

Un punto fermo
(Sul grattacielo)

Era notte, notte fonda
(perché la notte ha un significato)
e io ero in alto
e le automobili giocattoli
punti sulla pista illuminata
dalle luci gialle.
Il tempo gettava sabbia
fastidiosa sottile;
al ventunesimo piano
guardai la neve fioccare giù
quasi in mezzo alle nuvole
dove piccole stelle
di neve
si formano
(nascono gemendo dal buio).

1983

 

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