«Non è importante essere felice, ma compiere il proprio destino»
Gertrud Kolmar (10.12. 1894 – marzo 1943) cresce a Berlino in una famiglia della borghesia ebrea. Come tanti altri ebrei assimilati, scopre la sua fede e l’appartenenza al suo popolo proprio nel momento in cui cominciano le persecuzioni razziali.
Il raggio della sua vita, già volutamente ristretto, diminuisce sempre di più, mentre, nella stessa misura in cui le viene negato il mondo esteriore, Kolmar trova dentro di sé tutta la pienezza: un ampio universo del reale e del surreale, del tragico e del barocco, una fonte inesauribile di vita e di forti sentimenti.
La sua poesia, perfino negli anni Venti, quando per un breve periodo ebbe un discreto successo, non si piegò mai ai gusti letterari del suo tempo, ma fu sempre la massima espressione di una vasta e incorruttibile libertà interiore.
Kolmar, che in seguito ad una drammatica storia d’amore non si era sposata, visse per tutta la vita con i propri genitori. Quando, nei tardi anni Trenta, le si presenta la possibilità di fuggire dalla Germania nazista, sceglie di rimanere col suo vecchio padre a Berlino. Vive lucidamente tutte le tappe, dalla emarginazione alla discriminazione, fino all’ultima conseguenza: la deportazione ad Auschwitz nel marzo del ‘43 dove si perdono le sue tracce.
Gertrud Kolmar non si oppone, ma vive il crudele destino del suo popolo con fierezza come un vero olocausto, un sacrificio cioè. Alla sorella Hilde, emigrata in Svizzera, scrive poco prima della sua morte che non è importante essere felice, ma compiere il proprio destino.
Come Etty Hillesum, sorella nello spirito, anche Gertrud Kolmar colse nella terribilità della sua sorte la possibilità liberatoria di sfidare se stessa fino in fondo, intensificando, in un arco di tempo relativamente breve, la propria esistenza, in modo tale che la morte non poteva più minacciare una tale ricchezza.
(Stefanie Golisch)
Das Tier
Komm her. Und siehe meinen Tod, und siehe dieses ewige Ach,
Die letzte Welle, die verläuft, durchzitternd meinen Flaus,
Und wisse, daß mein Fuß bekrallt und daß er flüchtig war und schwach,
Und frag nicht, ob ich Hase sei, das Eichhorn, eine Maus.
Denn dies ist gleich. Wohl bin ich dir nur immer böse oder gut;
Der Willkürherrscher heißest du, der das Gesetz erdenkt,
Der das nach seinen Gliedern mißt wie seinen Mantel, seinen Hut.
Und in den Mauern seiner Stadt den Fremdling drückt und kränkt.
Die Menschen, die du einst zerfetzt: an ihren Gräbern liegst du stumm;
Sie wurden leidend Heilige, die goldnes Mal verschloß,
Du trägst der toten Mutter Haut und hängst sie deinem Kinde um,
Schenkst Spielwerk, das der blutigen Stirn Gemarteter entsproß.
Denn lebend sind wir Vieh und Wild; wir fallen: Beute, Fleisch und Fraß –
Kein Meerestau, kein Erdenkorn, das rückhaltlos ihr gönnt.
Mit Höll und Himmel schlaft ihr ein; wenn wir verrecken, sind wir Aas,
Ihr aber klagt den Gram, daß ihr uns nicht mehr morden könnt.
Einst gab ich meine Bilder her, zu denen du gebetet hast,
Bis du den Menschengott erkannt, der nicht mehr Tiergott blieb,
Und meinen Nachwuchs ausgemerzt und meinem Quell in Stein gefaßt
Und eines Höchsten Satz genannt, was deine Gierde schrieb.
Und hast die Hoffnung und den Stolz, das Jenseits, hast noch Lohn zum Leid,
Der, unantastbar dazusein, in deine Seele flieht;
Ich aber dulde tausendfach, im Federhemd, im Schuppenkleid,
Und bin der Teppich, wenn du weinst, darauf dein Jammer kniet.
L’animale
Vieni qui. Guarda la mia morte, guarda questo eterno patire,
L’ultima onda si perde tremando sul mio pelo,
Sappi che il mio piede aveva delle artigli, sfuggente era e debole,
Non chiedere chi sono io, lepre, scoiattolo, topo.
Perché non importa. Sempre ti voglio male o bene;
Ti chiami despota, inventi leggi,
Confezionati sulle tue membra come un mantello, un cappello.
Entro le mura della città tua abbracci e offendi lo straniero.
Gli uomini che un tempo facesti a pezzi: sulle loro tombe muto ti sdrai;
Per tanta sofferenza diventarono santi, chiusi in un marchio d’oro.
Porti la pelle della madre morta e in essa avvolgi il tuo bambino,
Gli regali giochi che nacquero dalla fronte insanguinata dei torturati.
Viviamo. Siamo bestiame e selvaggina; cadiamo: preda, carne, pasto –
Né la rugiada del mare, né il grano della terra voi concedete senza riserva.
Con l’inferno e con il cielo vi addormentate; quando noi crepiamo siamo carcasse,
Eppure vi lamentate perché non ci potete più uccidere.
Un tempo concessi le mie immagini, alle quali tu rivolgesti le tue preghiere,
Finché tu non abbia riconosciuto l’uomo-dio invece del dio-animale,
La mia prole annientata, la mia fonte incastonata di pietre
La chiamano frase di un essere altissimo ciò che scrisse la tua brama.
Tu hai la speranza e l’orgoglio, l’al di là e oltre la sofferenza anche la ricompensa
Che sfugge intoccabile nell’anima tua;
Ma io sopporto mille e mille volte, nella camicia piumata e la veste di squame,
Sono il tappeto, dove quando piangi, s’inginocchia la tua pena.
Stefanie Golisch, scrittrice e traduttrice è nata nel 1961 in Germania e vive dal 1988 in Italia.
Ultime pubblicazioni in Italia: Luoghi incerti, 2010. Terrence Des Pres: Il sopravvivente. Anatomia della vita nei campi di morte. A cura di Adelmina Albini e Stefanie Golisch, 2013. Ferite. Storie di Berlino, 2014. Nove sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura)