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POESIE SCELTE di Anna Ventura dalla Antologia Tu Quoque (Poesie 1978-2013) La poesia tra il silenzio della Natura e Cultura – lettura di Marco Onofrio

gli sposi etruschi di Volterra

gli sposi etruschi di Volterra

Sfogliando questo libro antologico di Anna Ventura (EdiLet, 2014, pp. 232, Euro 16)  ho subito pensato ai Sillabari di Goffredo Parise, che nacquero – come noto – dalla rivolta dello scrittore vicentino contro il linguaggio sofisticato e roboante del ’68. Parise vide che in un libro per bambini c’era scritto L’erba è verde: la frase gli piacque molto, come a dire: essenza, verità, tornare dentro un alveo elementare. Anna Ventura spinge, controcorrente, il suo discorso poetico verso la dimensione perduta della vita e della cultura: riabbracciare la totalità della Natura dopo averla sezionata con la Cultura, la ribellione metafisica del suo dissenso, lo strumento acuminato della parola che «si affila come un’arma». Riemerge così il tempo eterno del mito, «lo splendore dei Greci», l’«erotismo classico» che «non conosceva pudori». Ritrovare «la forza della donna feconda». Tornare con la parola «all’origine», nel «fulcro antico del mondo». Con la consapevolezza che la frattura del disincanto e della disarmonia si può ricomporre: «basta chiamarlo: / lo splendore viene». Per tornare alla natura elementare occorre però uscire dalla gabbia del soggettivismo lirico. Scrive Italo Calvino, nell’ultima pagina delle sue Lezioni americane:

«magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e in autunno, la pietra, il cemento, la plastica… »

Anna Ventura copertina tu quoqueEcco dunque la parola alle cose: il mondo visto con gli “occhi” delle cose, dal loro punto di vista. Anna Ventura vuole accorciare la distanza tra parole e cose: come le «pecore al lupo / e all’oste il vino». Togliersi le zavorre per arrivare alla complessità aporetica dell’essenziale chiarificato. Articolare la difficile semplicità. Imparare le parole delle fiamme, «le voci / del legno, del fuoco / e dell’erba». Immergersi nel «grande fiume delle cose / che non aspettano niente», nel loro «tempo immobile»: «amare il silenzio delle cose, / l’orizzontale indifferenza».

Anna Ventura non impone gerarchie allo sguardo, anzi, dà attenzione alle cose in apparenza più “insignificanti”: le «minuscole storie», le solitudini inchiavardate, le ombre polverose, gli angoli sciatti, gli «oggetti / che sfuggono alla legge / dell’ordine e del bello». Utilizza il pensiero laterale e uno sguardo difforme, “eccentrico”, che cerca il particolare insolito o l’aspetto e l’uso insolito del solito particolare. Ad esempio l’ombrellino di carta colorata sulle coppe di gelato: «una volta ho mangiato / un gelato mostruoso: / non c’era altro modo / per avere una coccarda di carta velina / che c’era confitta sopra». Questa infatti è la poesia: si paga il prezzo del gelato per godere di una cosa inutile, ma forse più importante del gelato stesso. E ancora: sentirsi una «piccola parte» della città: «la più grigia, silenziosa, nascosta: / il lobo dell’orecchio, / l’unghia del dito più piccolo, / la pupilla buia, / che sbigottita guarda le cose». Ma la parte già contiene il tutto: «una foglia verde / (…) è ancora / tutta l’erba del mondo». «La natura è la mosca» che percorre ostinata «la costa del quaderno». Il dettaglio, dunque, è la via che apre l’infinito.

i misteri di Eleusi

i misteri di Eleusi

La prospettiva da cui Anna Ventura guarda al mondo è umile, “dal basso”, centrata sulle energie profonde: «scegliere / l’umiltà dell’ultimo». «Non i nobili suoni, / ma i semplici rumori». Sono i «gesti semplici, sapienti, responsabili» (come «la presa di sale del cuoco / che decide della pietanza intera») a salvare la terra. Le cose emergono alla pagina chiare e concrete, attraverso gli infiniti dello spazio e del tempo: «Res è cosa / e cosa rimanda / al ruvido, al grezzo, al colore / (…) di forma semplice e tonda, / di consistenza solida». Le cose «durano più della gente»: per questo parlano delle persone, sono gravide di passato, di storie: «oggetti vetusti, / levigati dall’uso, scuriti dal fumo / corrosi dalla ruggine». Come l’impronta di verderame lasciata dallo scudo del guerriero riemerso dagli scavi: «parlava di vita», la «giovane vita» che gli era stata tolta.

Anna Ventura tocca il cardine dialettico che lega Natura e Cultura, tempi biologici e tempi storici: ad esempio la tartaruga di Volterra che parla con i sarcofaghi sommersi, e «il filo d’argento di una solitaria lumaca» che percorre gli sposi etruschi di pietra. C’è il silenzio della Storia di cui sono intrise le cose, che «vogliono un grande silenzio / prima di prendere la parola». E, specularmene, il silenzio della Natura: quello «immane dell’erba», e anche quello dei pesci rossi addomesticati nella boccia di vetro della Cultura, quando «aprono e chiudono le bocche / per un messaggio / che non capiremo mai». Le cose sono gli appigli del confronto con l’infinito «al di là della siepe» leopardiana: «dietro la tenda di trina / c’è il mondo, immenso» (…). Prima di naufragarci, però, «passa il fischio del treno, / sempre alla stessa ora», quasi a dire: la salvezza delle ancore quotidiane, delle cose concrete come i «biscotti fatti con l’anice» o le «coperte lavorate ai ferri».

angelo 3

L’operazione poetica consiste nel far vedere il mistero che dorme nel finito: «trasformare in infinito / il quotidiano finito». L’infinito emerge dal finito nella misura in cui quest’ultimo viene catturato e quanto più precisato, entro i limiti organici che lo caratterizzano in quanto cosa reale. Non a caso, infatti, la poesia di Anna Ventura ha una forte accentuazione fenomenologica: tende a proporsi come registrazione oggettiva e millimetrica di un fenomeno, di un oggetto, di una scena che accade. C’è spesso un verbo-motore (cammino, sposto, raddrizzo) che innesca il movimento di rassegna: anche le esperienze che si sono attraversate per arrivare fin lì, a vivere quel dato momento. La scrittura, così, diventa ermeneutica del reale, semiologia dell’esistente: «ogni segno decide». E quindi «trovare sulla spiaggia deserta / una bottiglia vuota e vedere / che il messaggio non c’è. / Ma leggerlo lo stesso». La poesia è la traccia misteriosa del «passaggio ardente»: è «la piuma bianca che resta / in fondo al nido / se un uccello migrante lo abbandona». Il mistero emerge in un lampo, per cui «pare / di avvertire il messaggio» che ogni cosa ci reca. Ed ecco allora l’ascolto sopracuto (i mille fruscii, i sussurri, le voci del vento e del bosco: arrivare a sentir «crescere i ciclamini») e il dialogo serrato con l’invisibile (gli «spiriti dell’aria / che di giorno e di notte / bussano ai vetri»), per cui «Io non so / chi mi cammina accanto». Se le persone azzardassero «l’abbacinante esperienza / dello sguardo» scoprirebbero di essere quello che sono: «un frammento di eternità, / una scaglia lucente / intrisa di tempo e di destino».

E poi il mistero delle cose necessarie. Il Logos, il «rigore dell’essere», la legge della natura. Newton e Cartesio. La macchina del mondo, gli ingranaggi sottili del meccanismo pulsante «di innumerevoli creature», «ognuno al suo posto». E i teoremi che la natura conserva e attua, inesorabile, spietata, con il suo artiglio di dolore, anche avallando situazioni ingiuste. E i cicli di vita, le stagioni che vanno e vengono, l’eterno ritorno della realtà «nel suo concretissimo giro». La lentezza del giusto tempo, la capacità di saper aspettare. La visione essenziale e universale, la quiddità sostanziale che soggiace all’apparente varietà: la lupità del lupo. E la natura feroce dell’inverno, col suo «freddo purissimo» che disinfetta e cova in letargo i semi della primavera. L’inverno è la stagione privilegiata da Anna Ventura: riporta al «duro pragmatismo» e alla «cupa saggezza» della cultura contadina, contrapposta alle mollezze della civiltà metropolitana, società quest’ultima «di cene» in compagnia di tipi arroganti da affrontare con gli occhi «sghembi di malizia», tra calcoli e biechi opportunismi. Agli artifici della città si contrappone la scabra e arcaica bellezza della montagna abruzzese.

mascheraÈ anche una poesia di recupero memoriale, di conoscenza, di chiarificazione:«ripercorrere il  cammino / della propria vita, o di quella / degli altri», inseguendo il cammino a ritroso del salmone, spinti controcorrente da una forza immane e misteriosa. Scrive Anna Ventura: «Molto prima / delle mie possibilità / ho conosciuto i miei limiti». Per questo la sua è una poesia così autentica e viva. I limiti: anche quelli culturali della sua terra d’origine, contro i quali si è ribellata per non piegarsi a una condizione femminile umiliata dal patriarcato: «donna al telaio, / curva al legno e ai fili», da cui si vuole l’ubbidienza. Invece lei ha rivendicato il coraggio della razionalità e del libero pensiero, che l’ha fatta camminare a testa bassa, per guardare le radici, «rompiscatole» nell’aprire porte proibite e nel sollevare sassi con sotto lo scorpione. La società contadina la voleva plasmare: «Ma io ho avuto / l’uso astuto della parola, / una fiamma eversiva che mi ha protetta». Con la parola Anna Ventura traccia «segni sulla cenere», la cenere dei sogni e l’esistenza: questo è il suo «modo di raccontare» l’uomo. La condizione umana è: sedersi su un cumulo di macerie alto «quanto le vette che avevamo sognate», per fumarci sopra. Tutto brucerà (anche i fogli scritti) nell’ora finale dello «sterminio»: ma «poiché ancora ci è data la parola, / pronunciamo il dissenso». Così si conclude il libro. Conclusione solo apparente, dato che la ricerca è pressoché interminabile, i messaggi sono contraddittori e l’assoluto non si raggiunge mai: arretra di quanto avanziamo, come l’orizzonte. Spesso, anzi, più si cerca di conoscere, più si innalza il muro che ci separa dalla verità. Forse, questo vuole dirci Anna Ventura, la verità è un dono spontaneo, che viene dall’abbandono irrazionale, dalla resa all’incomunicabile.

(Marco Onofrio)

Anna Ventura

Anna Ventura

da Anna Ventura Antologia “Tu quoque” (Poesie 1978-2013) EdiLet 2014 p. 226 € 16

 

 

 

 

Il giardino

Sempre abbiamo bussato
a porte chiuse: dentro
poteva esserci un giardino. Ma quelle porte
non si aprivano mai; solo talvolta
si schiudeva uno spiraglio:
qualcosa verdeggiava, là dentro; ma guai
a fare un passo avanti: la porta
si chiudeva di scatto
tornava a essere muro. Eppure c’era
un modo per superarla:
non bussare a nessuna porta,
non guardare da nessuno spiraglio;
aspettare di incontrare il giardino
che non ha porte, ma solo un arco fiorito
attraverso il quale si passa leggeri,
senza neppure sapere di essere entrati.

 

In nome dello spirito

Questi piccoli fogli bruceranno
come tutto il resto, se è già scritta
l’ora dello sterminio. Ma,
poiché ancora ci è data la parola,
pronunciamo il dissenso.
L’angelo freddo

Chi può dire che cosa non ci appartiene,
chi segna i confini delle proprietà,
chi chiude le porte e col gesso scrive
i limiti del possibile?
Chi, se non un angelo malvagio,
al quale bruciamo inutili incensi,
l’angelo conformista di un galateo di menzogne,
l’angelo di pietra che sta sulla tomba,
e aspetta solo che gli stiamo a tiro,
ma non ha fretta,
perché già ci possiede?
A quest’angelo freddo
è inutile strizzare l’occhio:
ignora spirito e fantasia;
non ha la luciferina gaiezza
del Satana piede caprino,
né la buia durezza del Maligno:
alita soavemente sulle nostre case arredate,
governa le nostre automobili,
i bambini grassi e le serve.
E’ la nostra ottusa certezza,
la fede indegna di essere creduta.
I ladri, i rapitori, il dolore
sono l’unico baluardo
contro di lui.

anna ventura 1 (1)

anna ventura

Gli sposi di pietra

Forse la tartaruga di Volterra
parla con i sarcofaghi sommersi
nella terra morbida
del giardino del museo.
Sono sempre due,
gli sposi etruschi di nessuna bellezza,
stretti in una scatola di pietra,
che non si annoiano e ridono
di un sorriso che non si spiega ed è beffardo.
Il mistero etrusco non è la scrittura,
non è la remota provenienza,
ma la tenacia testarda
dei loro matrimoni eterni.
Contro la durezza quadrata
di queste scatole di pietra
si spezza
e diventa segatura
il biondo dell’oro sibarita.
Sommerso nella terra, minuscolo,
l’ultimo sarcofago
aspetta di sopravvivere
al giorno del giudizio.
Ha gli sposi mangiati dal tempo,
caduti i nasi di pietra,
interrotto il sorriso sulle bocche,
il filo d’argento di una solitaria lumaca
li percorre, e ammiccano
nell’ombra della fratta più nascosta,
dove è il mistero del mistero, la tana
della tartaruga di Volterra.

.
Come una fragile tazza

Come una fragile tazza
A ricami verdi,
questo pomeriggio vuoto.
Che orribile spreco-imperdonabile-
di splendore.

.
Res

Res è cosa,
e cosa rimanda
al ruvido, al grezzo, al colore
paglierino oppure ocra o marrone,
di forma semplice e tonda,
di consistenza solida,
senza odore, a temperatura normale.
Cosa è un uovo o una pietra,
un sacco pieno di grano,
un cavallo di legno.
Anche la terra è cosa,
e così la sedia, la ruota,
la brocca di coccio, il sale.
Cosa è la zappa e il falcetto,
la trappola per il lupo e il remo.
E così elencando,
per tutta una serie di oggetti
connessi con la vita,
il lavoro e la morte,
il ciclo eterno dell’uomo,
immutabile, inevitabile.
Che poi le cose, res,
divengano res gestae, res adversae
o res secundae
ci interessa meno, come
non ci interessano Cose belle e Cosa Nostra:
l’anima della parola è all’origine,
nel fulcro antico del mondo,
quando la selce fu oggetto e arma,
il fuoco, dono degli dei.

Albrecht Durer ex-libris 1516

La guardiana delle oche

Credo di essere nata per abitare
una di quelle case quadrate
col tetto grande e le finestre piccole,
che si aggrappano,
silenziose e chiuse,
forse deserte,
sulle colline fitte di boschi scuri
dell’Austria austera e triste.
Le guardo, passando sull’automobile,
e penso che,
se loro appartengono alla mia fantasia,
anch’io, forse, appartengo alla loro
e in qualche epoca remota
dobbiamo esserci incontrate. Forse
quella donna con la cuffia bianca,
che compare per un attimo tra le oche,
le spinge energica verso la stia,
allettandole col becchime,
forse quella donna sono io.

.
Le case

Ho amato molte case
E due moltissimo. La prima
Era nel vecchio quartiere della città,
partiva da terra ma poi si capiva
che spaziava sui tetti in piccole terrazze fitte di voli.
La componeva
una serie di stanze minuscole
bianche di luce e calce-casa
di astronomo,
o di marinaio-
In fondo,l’altana coperta
Di travi decrepite,
gonfia d’aria e di sole.
Ma sotto ci abitavano gli straccivendoli,
e dai terrazzi a conchiglia si vedeva
la loro vita miseranda brulicante da basso.
Non piacque a mia madre,
anzi, le fece paura. Io invece
ne rimasi ferita a morte,
col tempo mi ammalai di nostalgia.
L’altra è la casa del vento,
tutta esposta a Occidente, davanti nulla,
solo gli spiriti dell’aria
che di giorno e di notte
bussano ai vetri con le loro manine.
Neanche questa casa piace.
E perché dovrebbe?
Solo che intanto io ho imparato
A mettere il bavaglio ai miei sogni,
accettato l’assioma
che la realtà rifiuterà di abbracciarli
nel suo concretissimo giro ma io
me li terrò lo stesso,
nel giro infingardo
della mia verità. Continua a leggere

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