Antonio Sagredo. Dicono che sia nato nel Salento decine di anni fa… a pochi chilometri da Giulio Cesare Vanini (a cui ha dedicato un poema mirabile), da Carmelo Bene e Eugenio Barba; il primo lo frequentò con discrezione somma, e gli dedicò versi immortali. Fu frequentatore assiduo di quei teatri d’avanguardia romani e non, di cui conobbe autori e attori; recitò in due spettacoli teatrali: nei drammi lirici del poeta russo Aleksandr Blok e in uno spettacolo del poeta praghese Vitězslav Nezval, che inneggiava ai progressi della scienza della comunicazione. Sagredo studiò e visse a Praga calpestando gli acciottolati insieme ai poeti praghesi e a Keplero. I suoi primi componimenti, a 14 anni, in un vagone di terza classe (seppe tempo dopo che Pasternak e Machado viaggiavano nella stessa classe, componendo); distrusse i primi versi, i secondi e seguirono altre rovine; trovò un impiego di ripiego per nascondersi; poi raggiunse una forma inclassificabile tendente al sublime che gli permette di vivere di eredità auto-postuma. Un amico poeta spagnolo, M. Martinez Forega, lo spinse a pubblicare due piccole raccolte di poesia a Zaragoza: Tortugas (Lola edito-rial, 1992) e Poemas (Lola editorial Zaragoza, 2001); sulle riviste: Malvis (n. 1) e Turia (n. 17). Poi nulla più, fino a che da New York, la scorsa estate, gli giunge una proposta di pubblicazione con Chelsea Editions, ed esce nel 2015 una sua Antologia con testo inglese a fronte titolata semplicemente Poems. Nel 2016 dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di troia non ricordo e, nel 2017 la raccolta Intrecci.
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
Di Antonio Sagredo è stato detto che è un poeta «inclassificabile», e in effetti nessuna definizione sembra più azzeccata, almeno se letto entro la lirica monodica della poesia italiana contemporanea; non ha precursori, vive nella sua splendida solitudine fatta di rovine e di pagliacci, di saltimbanchi e di falsi santi, di nani, di schiavi, di tiranni di cartapesta; Sagredo è un prestigiatore della parola, un giocoliere, un paria, un senza tempo e senza luogo, un ramingo; sembra non avere altra patria che quella della lingua, ma si tratta di una lingua sfregiata ed effigiata, lugubre e dionisiaca, demoniaca ed infingarda. Forse nessuna sua parola va presa sul serio, tuttavia la sua poesia è serissima, severissima involuta nel suo frac lucido e lurido, è la lingua di un demone accigliato ed iroso, ma anche ludico e imperioso che non chiede di essere verificato o riconosciuto se non nella sua alterità. In questo senso è un poeta lussurioso perché fiuta la lussuria della lingua, la sua parentela con la cloaca e l’empireo. Il riso di scherno di un dio ctonio che è stato gettato a capofitto nell’abiezione. La sua poesia (anche questa di matrice erotica) è figlia di un giocoliere e di un prestanome, di un falsario e di un mercante, di un rigattiere e di un gallerista. È la poesia di un cieco e di un sordo messi insieme, di un autista inerme e spregiudicato. Inutile chiedere a Sagredo di essere un interprete della poesia altrui, di dirci la parola che mondi possa aprirci, ciò che lui ci consegna è una interiezione, uno sberleffo, un irrispettoso cipiglio, sebbene della razza più sublime.
La poesia di Sagredo avvalora il noto assioma di Adorno secondo il quale «la poesia è magia liberata dalla necessità di essere verità». La poesia di Sagredo attinge la più alta vetta di «verità», appunto denegandone ogni residua qualità; non c’è nessuna «qualità» per Sagredo nel suo ergersi a «verità». La poesia di Sagredo è menzogna e sortilegio, alchimia e mania, fobia e follia, non c’è via di mezzo o di scampo: o la poesia c’è, o non c’è. Sono più di trenta anni che Sagredo è assediato, ossessionato dalla poesia. La sua ossessione è una malattia liberata dalla magia di essere verità.
È probabile che le istanze realistiche e mimetiche invalse nella poesia italiana degli anni Ottanta e Novanta del Novecento abbiano, come dire, urticato la sensibilità di Sagredo e lo abbiano, in modo incosciente o consapevole, condotto o ricondotto, alla sua profonda e anteriore natura espressionistica che con virulenza urgeva al di sotto della patina petrarchesca e sperimentale del tardo novecento italiano con il quale, s’è capito, il poeta ha intrattenuto un rapporto di assoluta ostilità…
(Giorgio Linguaglossa)

Man Ray, foto
Nodosostomìa
(Si) sono rotte le Acque – infine!
violente in quel Giorno del non Giudizio,
in quel giorno violento per altri nascimenti
che tracimarono d’aprile come fiori appestati
quando il mio sembiante risuscitò benedetto
dal piombato limbo e l’acido sangue
generò la scala corrosa di Giacobbe.
Io non conosco gli autunni dei tuoi seni,
il sentiero che il cardo – viola! – tracciò dal tuo ventre
in giù non mi fu nemico durante il doppiamento:
io conosco i tuoi segreti erogeni,
i punti cardinali di un corpo che non fu mai il tuo.
Ho solo visto nel mio sguardo l’Occhio tuo divino,
dai tuoi singhiozzi soltanto – suppliche!
non il perdono, ma l’affondo della mia stoccata
perché la cecità fosse inascoltata durante la canicola –
e la colomba che tu eri, perfetta come un’acrobazia circense,
respinse il miracolo della mia sorgente irrevocabile
affossata dal diluvio della tua falena inumidita –
il mio cervello svuotato dal canto del gallo
la notte che io non piansi il tradimento,
ma l’Occhio di Dio, il tuo, lento penetrai
e inesorabile la tua rosa oscurità mutò in rovina
l’Onnisciente:
il flauto mio compatto
nella tua bocca!
(Vermicino, 22/24 luglio 2004)
*
L’azzardo senza infingimenti
che gli dei non ci potevano donare
– perché tu restassi un isola –
fu puro oltre ogni privazione
dal centro che non aveva limiti
e che mi concedevo
o dal suo contrario
che non aveva confini
e che mi concedevo,
non si disegnava un arco
a sesto acuto, né moresco
ed ero come un oceano insensato
– perché mancante era un naufrago –
suo segno e contrassegno insieme
con quello stesso centro e il suo contrario –
confusa la mia lingua
ti donava un piacere ineguagliato
i miei occhi levitarono
Amore e Morte
e ancora in fiamme – li abbandonai!
(Vermicino, 17-23 giugno 2004-20 luglio 2004)
*
La Notte che non difese mai la mia Natura
è l’Occhio di Dio che questa notte
non mi hai dato
ed è cieco per tutta la durata
quel Male che per me è solo dolce,
gridando lagrime contro la mia Natura
ma io sono cieco per tutta la durata
di quel Male che solo per me è dolce
e solo per te è dura lex!
gridando lagrime contro Natura
tutte le sante che non furono puttane
l’Occhio di Dio accecarono infedeli
in quella notte che non mi hai dato
m’hai oscurato per tutta la durata
la rosa che la mia lingua inumidiva
il mio 3/1/21/21/13 per 10 anni tra le bende,
nemmeno le pietre sapranno le storielle
che, se accese, sono mute per eccesso
l’Occhio di Dio nella Notte contro Natura
è il Male che s’avventa lento con dolcezza
quando la mia lingua è caduta in prescrizione
con quella doppia tomba risorta dalla croce
Sudario, è qui il punto circoscritto
– prima della vita c’è un’altra morte –
l’eredità s’è dipinta sulle labbra un testamento:
la possanza eretica di quel cardo suicida!
(Vermicino, 20 luglio 2004)