Archivi del giorno: 7 novembre 2014

POESIE SCELTE di Gyula Illyés (1902-1983) traduzione di Umberto Albini con un Commento di Valerio Gaio Pedini

 

Gyula Illyés poeta, prosatore, drammaturgo ungherese (Rácegrespuszta 1902-Budapest 1983). Di origine contadina ma inseritosi nelle sfere più alte della vita intellettuale, Illyés si fece interprete di tutte le tensioni sociali dell’Ungheria. Implicato alla fine della I guerra mondiale in un moto insurrezionale per una radicale riforma agraria, dovette espatriare e vivere per alcuni anni a Parigi, dove strinse amicizia coi poeti dell’avanguardia. Tornato in patria, divenne capostipite degli scrittori sociografici, tutti fautori della riforma agraria (si vedano le sue prose autobiografiche Il popolo delle puszte, 1936) che, riunitisi dopo la II guerra mondiale nel Partito nazionale contadino, videro frustrate le loro aspirazioni a causa della kolkosizzazione imposta dai sovietici. Illyés è autore della più penetrante biografia-monografia su Petöfi, di cui condivisse gli ideali poetici, come quello della libertà. Nonostante questo irrefrenabile anelito alla libertà, la concezione di vita di Illyés è pessimistica. Secondo Un periodo sulla tirannide (1956) l’individuo non può sfuggire alla coercizione nemmeno attraverso la morte; secondo la tragedia I puri (1970), ambientata nel Duecento degli albigesi, l’annientamento dell’espressione materiale di un’idea annienta l’idea stessa. Nella lirica e nella maggior parte delle sue prose, nonostante la grande varietà dei temi, la fonte principale dell’ispirazione di Illyés è la reminiscenza. Solo nelle mirabili disquisizioni sulla morte, Nella barca di Caronte (1972), i lumi della sua penetrante razionalità sono rivolti al futuro. Altre opere: la raccolta di drammi Umanizziamoci (1977) e la silloge poetica Testamento particolare (1978).

Budapest città vecchia

Budapest città vecchia

Commento

Fu studiando l’opera poetica di Miklos Radnoti e di Gyula Illyés che compresi presto la grandezza della poesia ungherese, ed è di Illyes che ora mi accingo a fare un commento. Illyés  (1902-1983) è stato dalla critica considerato poeta contadino (possibile?), poeta sociale, poeta impressionista (possibile?). Ma pare che poi alla fine ci si debba arrendere ed iniziare a prendere i testi e a scomporli progressivamente, per carpirli, e poi rigettarli interi, per gustarli in toto, affinché il motto della Gestalt “il tutto è più della somma delle parti” abbia una certa funzionalità sotto il profilo strettamente critico. Mi accingo a prendere delle parti, delle singole parti, affinché si noti poi il tutto, ben più eloquente delle singole parti.

Quando Umberto Albini nel 1967 curò il volume Poesie per Vallecchi Editore, introducendo le sue traduzioni, comprese e affermò un fattore importante per inquadrare la poetica di Gyula Illyés: “Forse il segreto dell’arte di Gyula Illyés poeta ‘contadino’ consiste nella sua capacità di mescolare e alternare elementi così contradditori come idillio e collera, elegia e furore, impeto di riforma e primitiva felicità”.

Da qui mi sorge la definizione poetica definibile con il termine Contrasto, poiché senza un contrasto nel verso, la poesia è scialba, insapore: la poesia con la culinaria ha questo in comune: un piatto salato risulta più saporito e gustoso se gli si accosta un qualcosa di dolce. Una poesia solo salata, come una poesia solo zuccherosa arrischia di provocare una tremenda gastrite poetica.

Invece Gyula Illyés non ha tali sbavature, nella sua poetica riecheggia tutto il contrasto della migliore poesia Latina e Greca, ove il bucolico si alterna ad un concetto di dissapore meccanicistico e lì si profila lo scontro “natura-industria”, “contadino-operaio”.

Gyula Illyés

Gyula Illyés

Vedi come fuma già la nostra vecchia Mecsek.
La corrente della nebbia autunnale si getta ai suoi piedi
In schiume dense. Scuote un vento beffardo
I rami striduli degli alberi, le ultime frutta,

incorona di antichi dolori le nostre giovani teste.
Scende su noi adagio l’inverno, Anna… e una tristezza  secolare
Vola, freddo messaggio, dalle valli del Kapos mute ormai.
Ascolta, solo la pavoncella pigola, raduna i suoi figli per il viaggio.

Una settimana ancora e sarà brullo il paesaggio,
e di nuovo cadrà sudicia pioggia, spazzerà via il tappeto di porpora
delle strade addobbate come chiese…gli zoccoli
delle bestie sguazzeranno nel fango cinereo,

gorgogliando singhiozzerà l’acqua giù per la gronda…
Ma non versiamo lacrime! Si dissolve questa bufera
Per i suoi veleni e un silenzio fecondo calerà
Come neve sui sogni della semente…Attizza il fuoco,

tessi  le tue braccia scure attorno al mio collo,
e canta il concerto ininterrotto dagli uccelli, canta
gli agnelli ricciuti ruzzanti, un paesaggio che resista
da cui il bruno mietitore porti via la spiga come un figlio.

Gyula Illyés

Gyula Illyés

La poetica di Illyés, si delinea in un bucolicismo mica poi più di tanto bucolico, tratta temi sociali del mondo contadino reso schiavo dal capitale.E con questa spinta morale, incisa in contrasti di dissapore, si profila una situazione che alterna stagnazione a dignità, in una ritmica che non stanca. Sembra che con quest’ars popolaresca l’accostamento allo stridente Bartok della musica folkloristica slava vada a genio, tant’è vero che Illyés ne fa una poesia (Bartok), di cui inserisco i primi versi:

Cacofonia? Per loro, ma per noi
Consolazione.
Cacofonia? La parola-bestemmia
Dello schianto , per terra, di un bicchiere
Il lamento  di una lima che geme
Stretta fra i denti di una sega,
sono studiati da voce e violino,
che non ci sia serenità né pace
nell’elegante sala da concerti
dorata e riservata, finché manca
nei cuori foschi di dolore.

Budapest panorama

Budapest panorama

È della parola quale «bestemmia» che Illyés trae la sua forza, ed in questa bestemmia trasuda una guerra secolare e la morte, che non ha mai dimensioni di retorica posticcia e di patetismi. Forse che la poesia di Illyés trasuda di un orrido tutto suo, credo si debba assodare, ma resta un orrido pieno di grazia. Quindi è assodato che la poetica di Illyés, coprendosi col suo“manto contadino”, ha una molteplice funzionalità, e anche quando si chiude resta aperta e quando si apre è ascendente concettuale e metaforico. Ed è con questa poetica che l’altare dell’impressionismo quale purezza crolla, direi che l’arco è teso, come in Van Gogh, ad impressionismo che s’indirizza all’espressionismo: un poeta isolato, che racchiude le forme europee, ma che rappresenta la nazionalità magiara distrutta.

Sei magiaro? Non sei neppure quello,
sei solo un servo triste.

Le lacrime, il dolore, il bel tormento:
sono di chi ha le terre.

Se tu fossi tedesco, garriresti,
forse, di fanatismo,

oscilleresti con migliaia, come
sul prato i fili d’erba.

Forse, se fossi ebreo, maledizioni
Scaglieresti piangendo

E quando cessa la brezza leggera,
morresti con milioni.

Sei ungherese? Precipita allora,
come la foglia

fra centomila cuori doloranti
dall’albero degli avi,

che non ti custodisce , non ti nutre,
che forse è già abbattuto.

Gyula Illyés

Gyula Illyés

Azzardo che alcuni colleghi «ingenui» e abituati alla strana ars paragonica, trovando analogie col poeta contadino russo per eccellenza, o meglio col poeta proprietario terriero Esenin, inizierebbero a muoversi in un vortice di paragoni, ignorando il semplice fatto che due poeti, seppur possono avere analogie di vicissitudini, hanno diversità stilistica e di percorso poetico: però mi duole dire che qui erro, e commettendo un reato critico, mi slancio in un paragone,valutando i due poeti nella fase finale del loro percorso poetico similari, e con similarità intendo che, andando avanti e facendo scorrere le pagine dei due poeti contadini si nota che il fervore poetico si disperde, entrando sempre più in un vortice dell’intimo: un intimo che in Esenin resterà lirico-contadino e in Illyés crepuscolare e metafisico.
Ma è proprio arrischiandomi a fare un simile commento inusuale per la critica che mi sbilancerei in un reato critico di pessimo gusto, quindi devo contraddirmi ed utilizzando le parole di Albini, conchiudere questo appunto che dovrà pur essere continuato in altri fronti: “Non vorrei operare una divisione netta tra il primo Illyés, soprattutto irruento e veemente, e un ultimo Illyés più assorto e raccolto, tra un primo Illyés più interessato alle leggi che governano la società e un ultimo Illiés soltanto pensieroso o turbato delle leggi che regolano l’esistenza. Tumultuosità e ardore, anche messianico, non si sono mai spenti nel poeta: subito in apertura di Uj Versek , un ‘opera del 1961, il richiamo a Mosè:

guarda l’avvenire come un Mosè
e anche mille volte bruciato non può essere ucciso

è indice di una continuità di passione. E l’Illyés degli anni ruggenti non è solo fiamma e passione che arde, violenza d’impulsi che a volte si acquieta per agreste dolcezza: in una lirica come Sei lieve, dove è assente ogni venatura bucolica, l’elemento fondamentale è il fuggevole, il caduco”.

(Valerio Gaio Pedini)

(Poesie tratte da Poesie di Gyula Illyés, Vallecchi, Collana Cederna, traduzione di Umberto Albini)

 

Gyula Illyés

Gyula Illyés

Canta poeta

Sulle mie orme trotterella un vitello mite,
sono qui, arrivo dalle colline,
il sole ha cinto la mia fronte dura di una corona rossa,
come Arione,
e mi hanno mandato a cantare.
Al mio canto l’aria si riscalda, brilla di miraggi,
se parlo dei miei sogni.

Punto diritto innanzi a me, ogni tanto mi fermo, sotto il gelso,
dove sta all’ombra, in una brocca di argilla,
la dolce acqua da bere, medito, non trovo pace in nessun luogo,
cammino, commino sempre, il ritmo
dei miei passi culla i miei freschi pensieri,
i miei sentimenti nuotano in onde morbide
sopra i campi di segala.

Ai miei piedi la terra sorride di arguti segreti;
è mia questa terra, mi ha allevato.
Il sentiero tra i campi o il terriccio di seta furono le miei fasce
Sotto i cespi di patate chiocce.
Il cielo mi faceva il bagno e mi cambiava con le sue calde dita,
mentre mia madre zappava giù dalla valle.
Sono cresciuto con gli alberi, le giovenche, i venti, con migliaia
Di fratelli di latte chiassosi.

La sera torno a casa stanco, al mio fischio si ferma la lepre,
mi saluta: vivi bene, fratello!
All’imbrunire sboccia il mio cuore, si copre di rugiada.
Sto seduto presso l’uscio della soffitta o su un covone di fieno,
sognando dell’altra patria delle cicogne.
Dirigo i concerti della notte, quello delle rane, dei cani,
e sul fare dell’alba, quello degli uccelli.

Ma talvolta la mia fronte si oscura, la corona mi cade
Con uno schianto.
Nel fumo del comignolo il naso mi ricorda la pelle
Bruciata di Giorgio Dozsa:
come se avessi mangiato un boccone del suo corpo, lo stomaco si ribella,
il mio sputo è vetriolo,
coll’aiuto di Dio potreste vedere come corrode, nero.

(1928)

 

Saluto da Vienna

Sulle case operaie, ancora i segni
Dei colpi di mitraglia. A parte questo,
l’ordine regna sovrano. E’ protetta,
la cara Vienna, da Dio e da Fey.

Nelle vetrine scintillanti, perle
E salsicce, in collane luminose.
E silenziosi passano i pezzenti
Dinanzi ad esse con sguardi di cane.

E’ pace dappertutto. Brilla dentro
L’anima dei fucili, sui cannoni.
Con volti lisci giacciono i ribelli
Al cimitero, ben allineati.

Suonano le campane, Il nipotino
Dell’eroe della lotta contro i Turchi
Borioso sfila in testa alle sue truppe,
che han domato fornai e lavandaie.
(1935)

 

Gyula Illyés

Gyula Illyés

Lettera

…Non c’è speranza, insomma: vivo come
I poveri, saltato il pasto,
sino alla sera di fame.
Solo il tempo mi pensa ,qui.
Non ho voglia di illudere
Neppure per affetto: «chi?», dimmi.

Nel petto il cuore è un fanciullo precoce;
sa e vede tutto, come me.
In due così stiamo seduti: briciole
Sulla tavola e stelle alla finestra,
l’unica mia finestra, mi chiariscono
dove sono. Mi sporgo
come dal treno: ed il fruscio dei tigli
scende la corsa veloce del secolo.

(1936)

Tra due fattorie

Sulla carta la matita scricchiola (c’è sabbia nell’aria):
schizzo impressioni, girovagando a piedi,
per te, mia patria. Seguono le mie orme
i posteri, e, più in qua, due gendarmi a cavallo.

(1936)

 

Filologia: su una pagina bianca di una grammatica vogula

Balena un lampo, si avventa un turbine, ardendo, attraverso la steppa,
dentro vi sgambetta e suona il violino un figlio di Satana,
il cielo rimbomba: pie genti che rientrate a casa la sera, inginocchiatevi!
Con fragore un dio sinistro si precipita dall’oriente.

Ma passe lieve sul paesaggio-rapide si dissolvono le nuvole,
venere appare in cielo e comincia la sua lieta danza.
Laggiù, in fondo al villaggio, la finestrella di un’osteria
Cola nella sera fresca una luce giallognola e un canto fioco,
che a tratti s’arresta.

Davanti all’osteria una panca. Su di essa sono seduti nove
angeli custodi
pagani: non possono entrare-così come vuole usanza
antica-
in un luogo impuro, e attendono i loro padroni
e ciascuno racconta, amareggiato, il suo triste destino.

Ti supplico con polenta e dolcetti- si sente dal vicinato
La litania di un contadino che leve al cielo le braccia, lamentandosi:
tu, dio potente, fammi passare il mal di schiena…e alza la polenta,
la depone, la mangia.

…Dice la religione della tribù che chi è morto
Ancora per quaranta giorni frequenta i posti abituali,
accompagnato da un angelo e dalle sue azioni: giustifica le cattive,
commenta abbondantemente le buone a messo divino.

Ecco, un vogulo sta attraversando la collina e discute con un angelo,
accennando a un cespuglio folto: si arrestano lì,
il buon vogulo diventa rosso, alza le spalle…
ma già si sono messi d’accordo, si danno la mano e spiccano di colpo il volo.

Si sparge un dolce profumo. La pace è così profonda che i cavalli
Si sdraiano sul ventre nelle stalle, il toro arcigno respira
Come un lattante, nel buio il vitello cerca la madre, mugge la vacca triste:
per un istante si sveglia tutta la Siberia…

Ragazzo, ti piace questo paesaggio? Ti sono venuti a noia i rombi feroci dell’Occidente
E il cielo coperto dal fumo degli schianti,
pensi che troverai quiete in questo paesaggio, sopra il quale la luna
traghetta proprio ora nella tua barca una vergine morta?

Voglio arrivare ad un paesaggio così calmo e anche più calmo.
Sotto un cielo così si distenderebbe la mia fronte ansiosa
E scorderebbe le amare memorie, le leggi stolte di un mondo vuoto:
sguscerebbe nel mio cuore un po’ di serenità libera.

Avrei un cavallo, gli allenterei le briglie sul collo morbido,
lontano dalle strida dell’Europa, camminerei lento, solo
nell’irraggiungibile terra nativa: seguirei coraggioso
il mio impulso verso la segreta madre , il cui volto, da sempre

vive nel mio cuore, intorno al cui grembo trema la calda patria delle favole,
Me ne andrei canticchiando, ridacchiando sottovoce, mi fermerei ogni tanto;
getterei, saldo sul cavallo, un ultimo sguardo dietro di me, e poi,
svanendo nel sogno, diverrei anch’io, lentamente un allegro eroe delle favole…

(1936)

Gyula Illyés

All’anima pannonica

Terra dell’armonio, Pannonia! L’andiyo
Della fortezza ha di marmo il pancaccio
Per le frustate, e rimanda al villaggio,
come una tromba, le grida e i gemiti.

Ho meditato su questo gioiello,
pensando su chi mai sperimentarlo,
a quale peccatore fare urlare
le colpe: i padri miei eran soldati.

Ma l’incertezza mi assalì: qualcuno
Non ci vedrebbe me disteso? Iservi
Della gleba miei padri, in me fremettero:
giustizia, non crudele ritorsione!

(1947) Continua a leggere

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