Archivi del giorno: 10 novembre 2014

POESIA GIAPPONESE WAKA- di Chŏng Chisang E IL RIGOGOLO GIALLO a cura di Steven Grieco-Rathgeb, con un Waka di Ki no Tomonori e Fujiwara no Sadaie

waka 6.

Nel 1999 conobbi un professore giapponese, che mi invitò a collaborare con lui su un progetto che accarezzava da anni: tradurre in inglese e italiano un significativo numero di waka del periodo classico Heian (9°-13° sec.), con relativo commento critico. Nel mondo letterario anglo-sassone, progetti di questo tipo vengono spesso fatti a quattro mani: dei due collaboratori uno – l’esperto in materia storico-filologica e interpretativa – illumina il componimento nel contesto originale, il secondo è il poeta e traduttore, che li porta, come uccelli migratori, a destinazione nella lingua di arrivo.

Lo studioso di Tokyo si interessava anche di poesia cinese classica, e a questo riguardo mi parlò di un poeta coreano, Chŏng Chisang (?-1135), vissuto durante la dinastia Koryo, periodo in cui tra i letterati di quel paese si coltivava lo stile cinese dei poeti Tang.

Di Chŏng Chisang si sa soltanto che era discendente di una famiglia dell’aristocrazia Koryo, funzionario e poeta a corte. Partecipò ad una rivolta contro il re che fu soffocata nel sangue dal generale-poeta Kim Pusik, suo principale rivale a corte e in poesia. I capi ribelli, compreso Chŏng, furono giustiziati. La damnatio memoriae del poeta che seguì spiega la scarsità di notizie biografiche su di lui. Un volume originale di sue poesie, sopravvissuto fino ai nostri tempi ma divenuto introvabile dopo la fine della Guerra Coreana (1953-56), giacerebbe ancora oggi dimenticato in qualche inaccessibile archivio a Pyongyang.

 waka 8L’amico studioso mi fece una traduzione carattere per carattere di alcune poesie delle pochissime ancora esistenti di Chŏng: composizioni quasi fotografiche, velocissime e dai colori accesi, che veicolano un costante monologo del poeta sulle vicende legate alla sua vita personale e a corte. Le studiammo a lungo; di alcune lui stesso non riusciva a cogliere certi significati e allusioni. A tratti però l’ombra del grande poeta comparve davanti a noi.

Provai, con le indicazioni fornitemi, a tradurne qualcuna, in particolare Dalla villa di Changweong, uno dei lü shih di Chŏng Chisang più notevoli, dal tono malinconico e fortemente allusivo. Nella forma primitiva, molto abbozzata, la traduzione suona:

monti, due portoni alti, un cuscino le rive del fiume
la notte intera, trasparente, non un granello di polvere
vento invia la vela dell’ospite, nuvole pecorelle pecorelle
la rugiada si condensa tegole del Palazzo gemma squame squame
dietro i verdi salici si chiudono le porte di otto-nove case
alla luna chiarissima alzano le cortine due-tre persone
oltre la foschia, il Monte Pong Nae forse si avvicina –
in sogno il fiorito usignolo gorgheggia la sua gioventù

waka 7

.

Rimanevano punti irrisolti; soprattutto non mi convinceva la comparsa dell’usignolo nell’ultimo verso.
Passò del tempo. Una mattina ero seduto nel minuscolo soggiorno di casa, sopra i tetti di Firenze. Era maggio, fuori il cielo era sereno, limpido, il silenzio profondo. Dalla finestra alle mie spalle, così azzurra, entrò furtivamente un ricordo che risaliva a venticinque anni prima: io seduto nel mio orto toscano  mentre ascolto il canto mattutino di un uccello. Avviluppato dall’aria già calda, quel richiamo prendeva forma, si librava sopra il boschetto vicino – un gorgheggio a piena gola, quasi ubriaco…

Ma sì! Era l’uccello di allora, il rigogolo giallo… ecco cosa mi suggeriva il lü shih di Chŏng Chisang! Possibile? In fretta e furia scrissi una mail a Tokyo, chiedendo all’amico se esistessero usignoli nell’Estremo Oriente. Disse di no; che il nome dell’uccello nella poesia di Chŏng corrisponde al giapponese uguisu. Gli chiesi di appurare se l’uccello in questione non fosse per caso il rigogolo. In un lampo arrivò la risposta, entusiasta: sì, era proprio lui: l’oriolus chinensis, il rigogolo giallo orientale, schivo e solitario come il cugino europeo.

waka 3Il buio che avvolgeva l’ultimo verso della poesia impallidì, “l’ usignolo” si trasformò in rigogolo giallo, la notte diventò un mattino azzurro!

E’ un fatto che più volte nelle traduzioni occidentali di poesia dell’Estremo Oriente (specie quella giapponese) si siano felicemente confusi i due uccelli: a tutto scapito di poeti che erano (e sono) in sintonia con ogni vibrazione della natura, ogni sua atmosfera, ogni minimo scarto cromatico (così come lo è Messiaen, nel suo pezzo per pianoforte Le Loriot).

Il rigogolo mi riaccese l’immaginazione, incoraggiandomi a pensare che era possibile rendere in traduzione l’autentico spirito dell’originale. Continuai a lavorarci sopra, cercando di tirare fuori tutta la bellezza che vi sentivo, poi ancora dovetti mettere da parte la bozza per lavori urgenti.

Qualche anno più tardi persi le tracce dell’amico di Tokyo e la traduzione della poesia di Chŏng, bisognosa di ulteriori verifiche, rimase sepolta sotto le mie carte.

waka 9Passò qualche anno ancora. Nel settembre 2012, setacciando la Rete per notizie sul nostro poeta (ormai invano, pensavo), mi sono imbattuto nel Dr. Gregory Evon, esperto di letteratura sino-coreana e autore di una monografia dal titolo Tracking a Ghost: Chong Chisang and a Forgotten Style of Sino-Korean Poetry.[1] Gli ho chiesto una collaborazione. La risposta è stata immediata:

Caro Steven,

grazie della mail. Ho velocemente controllato la sua bellissima versione della poesia di Chŏng Chisang e trovo due questioni da chiarire. La prima, nel verso 7, riguarda il monte degli Immortali, il Penglai dei cinesi. Sarebbe forse meglio utilizzare qui il nome coreano, Monte Pong Nae (蓬莱山). Lo stesso verso lei lo fa affermativo: “dalla distanza remota, il Monte Pong Nae sembra avvicinarsi”, quando invece sarebbe meglio l’interrogativo: “dove esiste?” E’ proprio questo senso di “incertezza” che si collega all’uccello che sogna, o all’uccello che appare in sogno.

Dr. Gregory N. Evon,

Asian Studies Program Convenor, Korean Studies & Japanese Studies, School of International Studies, The University of New South Wales, UNSW, Sydney, NSW, 2052

Australia

Dopo altre lettere su questioni tecniche, gli chiesi se avrei potuto citarlo in un pezzo che avevo in animo di scrivere su questa curiosa nonché annosa vicenda. La sua risposta fu entusiasta: “…Sentiti assolutamente libero di usare i miei suggerimenti, e di citarmi. Anzi, ti ringrazio!…”

                                     Dalla villa di Cheongwong

I portoni della Cittadella sopra le morbide sponde del fiume
in lontananza una notte chiara, non un granello di polvere
il vento spinge la vela dell’Ospite verso le mille nuvole sfilacciate
le tegole sul Palazzo stillano rugiada, miriade di squame lucenti
dietro i verdi salici hanno chiuso le porte di quasi tutte le case
solo qua e là qualcuno solleva le cortine alla luna che risplende
nella distanza remota, il Monte degli Immortali – dove esiste?
in sogno lo splendido rigogolo canta la sua primavera azzurra

waka 5.

La poesia andrebbe letta lentamente, per evitare l’effetto “collana di pietre brillanti”. Secondo l’estetica cinese, l’immagine interiore si fonde sottilmente con il paesaggio che il poeta evoca per meditare sulle vicende politiche, il successo mondano, la vita intima.

Il tratto verticale, scuro, dell’inizio contrasta con la luminosa orizzontalità femminile del fiume. La notte così chiara nel 2° verso potrebbe alludere a un dissidio interiore che il poeta ha superato. 3°: nella poesia Tang, il fiume e le nuvole spesso alludono a un errare o all’esilio. 4° verso: statico, contrasta con il precedente, fluido. Il palazzo reale consisteva di padiglioni grandi e piccoli, collegati da corridoi esterni protetti da tettoia (le tegole lucenti: i membri della corte?). 6°: i poeti Tang usavano la luna, simbolo di “verità”, anche per indicare il ricongiungimento dopo lunga separazione. 7°: la Montagna degli Immortali, dove si recarono anche Li Po e Po Chü I. Dopo la notte così chiara, qui regnano incertezza, opacità, speranza (che tutti sentiamo nel momento che precede l’alba). 8°: i toni notturni cedono all’oro e all’azzurro, simboli di atemporalità.[2]

(Steven Grieco)

[1] Alla ricerca di un fantasma: Chŏng Chisang e uno stile dimenticato di poesia sino-coreana.

[2] Per una maggiore comprensione della tecnica della forma poetica cinese lü-shih, si veda François Cheng, L’écriture poétique chinoise, Editions du Seuil, 1977.

waka 2

 

Miwataseba
hana mo momiji mo
nakari keri
ura no tomaya no
aki no yugure.

Fin dove arriva lo sguardo
non fiori né foglie rosse d’acero:
solo una capanna dal tetto di giunchi
vicino all’insenatura
nel crepuscolo autunnale.

Fujiwara no Sadaie
(1162-1241)

*

Aki chikō
no wa na rinikeri
shiratsuyu no
okeru kusaba mo
iro kawariyuku.

È ormai prossimo
l’autunno nei campi.
Anche le foglie, ove si posa
la candida rugiada,
vanno mutando colore.

Ki no Tomonori
(?-905?)
Kokinwakashū, X, 440

 

Steven Grieco

Steven Grieco

Steven J. Grieco-Rathgeb, è nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi.

È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia.

Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. Dieci sue poesie sono comprese nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016). Sempre nel 2016 con Mimesis hebenon esce la raccolta di poesia Entrò in una perla (ital. ingl.)

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. protokavi@gmail.com

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