Una indagine, sia pur breve, sulla percezione odierna della poesia di Mario Luzi porterebbe a darci una risposta di incompiutezza, se non di colpevole dimenticanza: quasi che la somma delle opere sia inferiore alle singole parti, che cioè il quadro d’assieme risulti più opaco di quanto appare nelle verifiche puntuali. Forse perché alcune classificazioni riduzionistiche (come ad esempio quella del “poeta cattolico”) hanno finito per limitarne, nel corso dei decenni, la definizione critica storicizzata e, soprattutto, l’immagine pubblica condivisa. In realtà, Luzi è indubbiamente uno dei maggiori poeti del Novecento.
Ed è, anzitutto, la punta di diamante dell’Ermetismo: il movimento che assorbe la tendenza alla “poesia pura”, già elaborata dal simbolismo su un piano europeo (una poesia cioè assoluta, autonoma, programmaticamente estranea al discorso logico e ideologico), travasandola nella realtà storica dell’Italia fascista, di fronte a cui si oppone come spazio di rifiuto, ripiegamento, non appartenenza. Il contesto è la Firenze degli anni ’20-’30. Il gusto primonovecentesco de “La Voce” e di “Lacerba” confluisce, con illuminanti aperture europee (Kafka, Joyce, Proust) nell’esperienza quasi decennale di “Solaria” (1926-34), entro cui orbitano nomi del calibro di Montale, Gadda, Solmi, Debenedetti, Contini. Poi “Letteratura”, “Frontespizio”, “Campo di Marte”: le riviste dell’Ermetismo fiorentino degli anni ’30. E quindi Luzi, Parronchi, Gatto, Bigongiari, Quasimodo. Nel 1938 Carlo Bo scrive Letteratura come vita, che istituisce, nei suoi presupposti, una forma di “religione delle lettere” entro cui la vita è un’esperienza tutta interiore, tesa a un originario “grumo umano”, di stampo universale, atemporale, astorico, e la letteratura, più che una “professione”, è una “condizione” di ripiegamento interiore, che esclude qualsiasi interesse per le cure pratiche e quotidiane del tempo ordinario; semmai, comporta l’abbandono a un «golfo di attesa metafisica». Letteratura e vita sono strumenti di ricerca e, dunque, di “verità”. La letteratura «è una strada, e forse la strada più completa, per la conoscenza di noi stessi»: è la «parte migliore e vera della vita», di cui rappresenta l’unica dignità possibile.
Il Luzi ermetico della prima fase ha il suo fulcro in Avvento notturno (1940). La poesia è strumento di conoscenza “per speculum in aenigmitate”: coglie l’essenza segreta delle cose attraverso simboli balenanti, cifre che emergono sull’orlo tenebroso dei barlumi, e manifesta la trasparenza metafisica del mondo, che apre varchi di comunicazione tra superfici e profondità. La parola stessa è trascendenza e rito esoterico: ha la capacità di fissarsi in un “valore” al di là dei limiti del contingente. Il “tempo della poesia” – afferma Luzi – è quello in cui «si incidono senza tempo le cose che sono sempre accadute e sono sempre eventuali e accadibili». È una poetica che si colloca scientemente sulla “linea orfica” della lirica moderna: fin dal romanticismo visionario di Nerval e Hugo, sviluppato poi – in molteplici direzioni – da Mallarmé, Rilke, d’Annunzio, Campana, Onofri, Comi, etc. Tra gli elementi orfici: il filtro della memoria, la supremazia dello sguardo, gli specchi liquidi e deformanti, l’indizio luminescente, l’agguato del mistero, il senso di sospensione, lo stile ad arabesco, l’autonomia del significante, la ragione soggiogata dall’“oscuro turbine” del suono. Gli esiti sono ardui e spesso oscuri, criptici. Il poeta è ripiegato su stesso per trasfigurare e fissare la realtà in immagini emblematiche. Il monologo solipsistico trascolora obliquamente in dialogo con un “tu” femminile che si proietta nel passato, attraverso una selva di luoghi e presenze, segnate e segnalate da altre storie, dove i destini immaginari scavano le forme del vuoto, in parallelo, per riverberi di echi, assenze, cancellazioni. La memoria ha una funzione salvifica: purché resti, però, purché non dilegui come ombra di fumo: come Euridice dinanzi a Orfeo, dopo che si volta. Il testo, così, viene deprivato del suo oggetto riconoscibile, e gira come un gorgo intorno a un’origine smarrita, ellittica di termini reali. La scrittura s’inerpica in un faticoso tentativo di ricostruzione del tempo “mancato”, più che “perduto”.
T
ra le opere meno note e meno frequentate di Luzi c’è Biografia a Ebe (edita da Vallecchi nel 1942 e riproposta da EdiLet nel 2011, a cura di Marco Marchi), un poemetto in prosa di ascendenza simbolista. Si tratta, nella cifra più evidente ed esteriore, di una ricognizione psicologica di stampo autobiografico; e rappresenta, al contempo, una biografia indiretta dell’Ermetismo distillato in quintessenza. Il testo è strutturato come un monologo dell’io che si fa mondo, aderendo alle pieghe del divenire, ai movimenti interni della vita. La parola dà voce alla realtà per mimesi trasumanante, cristallizzando le emozioni, sempre diverse e inaffidabili, nella sintesi di una superiore naturalità: tende perciò alla stessa banale, irraggiungibile, misteriosa verità delle cose esistenti. Anche se l’autore sembra talvolta disperare di questa potenzialità: «né mai troveremo una parola tanto grave e precipite che possa connettere la nostra enfasi all’esistenza pura e chiusa dei corpi». Il testo attraversa continuamente la soglia che divide/collega “dicibile” e “indicibile”. E si oscilla tra piano del senso e piano del suono. C’è un clima di opacità rarefatta: il senso delle parole sfugge, ma “suonano bene”, hanno forza e misura, “necessità”.
Allora leggiamo e rileggiamo, tornando indietro: ma il senso continua a sfuggire, fino a quando intuiamo che il senso “è” il suono, con la sua enfasi oscura, con la sua onda simbolica e visionaria; che dunque dobbiamo abbandonarci ai doni del suo nutrimento, senza “capire” (nell’accezione riduttiva e razionalistica). La comprensione umana, infatti, non esaurisce il mistero delle cose. Nota Luzi: «quando si è capita una cosa che credi tu si sia fatto?» La vita resta irriducibile alle forme. La vita, nell’apertura del suo libero fluire, conduce all’“estasi”; la forma, nella sua quiete inerte, segna la chiusura della “stasi”: la poesia è l’ago della bilancia metafisica che vuole pesare, tra questi estremi, l’equilibrio fragilissimo del mondo. Dalla parte della vita palpita la «violenza felice delle parole rapite dal sangue». Rispetto al “dovere” di una chiara, dispiegata intelligenza, Luzi scrive: «credo nella forza di questo mio divenire cieco e dirotto: credo nella notte fortunosa». E ancora: «io non credo che i sentimenti si debbano proteggere. Io credo che si debbano abbandonare al caso stesso che li ha determinati, credo che bisogna immetterli nella vita e non aver paura che li travolga». Ma Luzi asseconda, con armonia dialettica, anche l’impulso ascetico a una sorta di superiore immobilità da fachiro, che definisce «lucidità senza impeti e senza fervore». Scrive nel ’40: «la vera volontà di un artista è una volontà che non desidera». Cerca così il «segreto velluto» dell’esistenza nel «colore dolce del vuoto», il colore stesso dell’assenza.
Ci si dibatte nella zona umbratile e incerta prodotta dall’«estrema temporalità delle cose». L’«agonia continua delle partenze» produce una continua «alluvione senza fragore»: c’è l’agguato del gelo e dell’ombra dietro la parete sottile del presente, «mulinello di casi da cui non possiamo metterci al sicuro». Ecco, inevitabile, la melanconia. La scrittura esercita così la sua perenne interrogazione sul valore dell’esperienza e della parola. Che cosa può restare (stabile e saldo) in un mondo che si disgrega da tutte le parti? La pagina dovrà catturare il riverbero della vita che ci attraversa, e di cui ogni cosa conserva il suono: come il mare dentro le conchiglie. Soprattutto la vita interiore: il “basso continuo” che sfugge, il «suono profondo che circola ovunque». È un limbo inquieto di gesti, figure, movimenti, intenzioni, accenni, presentimenti: quell’«enorme attività e lavorio che rimangono poi esclusi dalle risoluzioni e dagli atti». La poesia traccia gli «schemi lucenti della nostra vita immaginaria» da cui emerge il tracciato astratto delle forze, annodate in un reticolo di punti, snodi, soglie: i “fondamenti invisibili” della realtà apparente che vegeta, beffarda, in superficie.
«Ancora questo difetto d’intelligenza, questo imbarazzo a ritrovare il mio posto nella vita che tu vorresti ordinata secondo le leggi naturali dell’uomo: e non altro. Ancora quest’impossibilità d’offrire comunque una corrispondenza morale ai miei atti, e, al termine di essi uno scopo, un oggetto. Rimangono sospesi nel vuoto, talora nell’abnorme, atti fantomatici, non più umani, non più puerili o folli, assolutamente staccati dalla loro origine e dalla fine, al di fuori di quello che io sono essenzialmente e divengo. Si succedono secondo una propria oscura sintassi, a me non chiedono forse neppure il movimento iniziale o una forza».
Biografia a Ebe segna per Luzi la prima, aurorale apertura del monologo privato al dialogo con gli altri, alla possibilità di ammettere una via di relazione con quanto è e accade al di fuori, che lo porterà alla successiva contemplazione dei problemi che si agitano, “al fuoco della controversia”, dalla convivenza degli uomini sullo sfondo materiale − anzi: magmatico – della Storia. Opera giovanile di passaggio, dunque: di maturazione della coscienza su un piano evolutivo superiore. Ed è lui stesso a chiosare, in piena consapevolezza, la dinamica biunivoca di questa metamorfosi dello strumento poetico (quasi a bilancio del percorso intrapreso dentro il libro): «Rimango incerto se ho sviluppato una fine e l’incubazione di un tempo nuovo».
è sincero Luzi nella sua conclusione è sincero Bo nel dichiarare cosa è per lui la letteratura come vita iene chiamato poesiavnon ci si rende conto che la poesia di cui qui si parla è figlia dell ombra platonica la quale ombra però per Platone non è poesia nè origine di poesia poichè egli sa che i poeti vanno cercando un angolo di mondo in cui poter piangere tutte le proprie lagrime. Se andiamo al fondo,alla base di ciò che qui,in occidente-non a caso terra dell oblio dell essere-viene chiamato poesia vi è il dettato carolingio:è meglio studiare e\o pregare che zappare.
E i tempi sono maturi per il trionfo dell’oblio dell’essere, c’è all’orizzonte il gemellaggio mistico-matematico: pace universale
Ma i poeti continueranno a piangere tutte le loro lacrime.
mi pento se il mio commento è sintesi inopportuna per chi lo legge ma se l’ermetismo è nato come estraneità al fascismo-che a sua volta dichiaratamente volle essere prosecuzione del risorgimento-ho forse elaborato un mio ermetismo personale(ma non certo aurorale aperturadi un mio monologo privato al dialogo co n gli altri-come può un monologo essere apertura al dialogo?)a causa di una dura insoddisfazione impostami dalla cultura dell’occidente -amata terra mia-autodestinatosi alla infertilità senza speranza dell’autoreferenzialità