«La mia poesia è intersemica e tonosimbolica» postilla Bertoldo, indicando con precisione il suo attraversamento modernistico della civiltà stilistica del post-simbolismo. Il «paradosso del senso» è la metafora (da meta-ferein, portare fuori: convocare, chiamare una «cosa» per dirne un’altra). Il «paradosso del senso» intende sempre alludere al «lutto» di una perdita («Voglio poesie, poesie defunte»), di cui resta la cicatrice. Intende alludere al «falso» e al fasto che ha cagionato quella perdita. Ed è appunto questo la metafora: figlia del lutto e del falso è essa stessa la cicatrice di un’essenza, che è un nodo di vita, un groviglio di passioni e di emozioni che producono un paradosso linguistico. La lirica bertoldiana è dunque una liturgia della morte («…Abbracciami / come fossi un morto prossimo / e l’enciclica della tua misericordia / sia questo bacio che tarda sulla mia lingua»; «Quand’ero in anticipo sulla morte»). La metafora bertoldiana è dunque un sentiero linguistico (una traccia linguistica) che illumina il moto retrogrediente che ci conduce verso la morte. Il significato non enuncia nulla sull’oggetto, esso è rappresentato dalla metafora complessa, ad esso è completamente estraneo esistere.
La sofisticazione del congegno tecnico-linguistico del poeta piemontese è la chiave per entrare nella stanza attigua: la verità come non-nascondimento, verità che non sarebbe attingibile senza il dispiegamento della tecnica. L’apparire dell’«autentico» è un bagliore che traspare dalla «chiacchiera». La sofisticazione del verso bertoldiano è una spia del non nascondimento, il quale a sua volta è il prodotto di una cultura della rimozione e del ritorno del rimosso: la metafora bertoldiana è la cicatrice linguistica di una perdita. Un wit, un tic, un moto di riottoso sussiego, una anamnesi metaforica lastricano la strada di questa poesia, il cui segreto risiede nei movimenti a solenoide delle immagini, negli avvolgimenti sintattici, nei filamenti nutriti di detriti e di rovine di ciò che un tempo furono i templi pagani della civiltà del post-simbolismo.
Poesia dell’età post-metafisica, riecheggia degli echi e delle schegge di ciò che un tempo fu la significazione: detriti metaforici più che metafore, superfici di solenoidi mentali, mentalismi che si travestono di metaforismi, che si vestono e si svestono di abiti immaginifici, trascendenza della superficie…
Roberto Bertoldo
da Pergamena dei ribelli 2011
Voi, uomini mediocri…
Voi, uomini mediocri, che rubate
i miei versi cantati a calce,
indubbiamente voi siete la storia
e incutete la miseria sulle porte,
quando la nube lastrica i ciottoli
di impronta umida e fraseggi di luna.
Fate della pena vostra l’inganno
che penetra con le sue dita disciolte
nella bottega dei miei occhi,
orsù padroni delle piaghe,
ci sono nate addosso le credenziali.
Sappiatela la verità…
Sappiatela la verità,
è sufficiente effondersi nello squarcio,
lo spacco della carne gelata
lungo le strade, contro i muri.
Chi occupa l’amore, per venti leghe
di giorni e notti, antec’a l’è
il nullificante, la bestia, carta straccia,
‘na rovina che impilo davanti ai
vostri visi grifagni, e che dico?
anche il ventre che fa vendemmia,
ch’eppure di monete è la vostra
intelligenza, vostra miseria,
la vendita dell’anima –
non c’è che la materia lì,
un po’ di roba da crespelle,
giù sino al foro, ancora,
vi voglio dire, che artisti
vedervi fare l’architettura della Convenzione.
A cosa hanno portato…
A cosa hanno portato quei tagli
nelle pareti della Palestina
e gli oliveti disfatti
come se la religione fosse un frantoio?
Quali germogli avrete
israeliani dall’occhio amaro
dove la terra è reproba
e la luna sempre calante?
La vostra sola fratellanza è da faccendieri
come per il muro di cemento palestinese,
il resto sono le case abbattute
di cui le coperte correggono il vuoto
sulle gambe dei bimbi intirizziti.
Tutte le poesie che accantonano il male
sono il suo crudele risvolto.
Noi vogliamo l’impoetico
se la vostra avidità di gazza
è sottaciuta dagli inni,
si faccia incetta di questo sale immenso
affinché i poeti urlino con le loro ferite
finalmente ecumeniche!
Urlano le tombe di Troia…
Urlano le tombe di Troia
sui figli di Sharon,
il ventre di Palestina ha aperto rose
nel capitale dei corpi,
abbiamo visto le ennesime pupille cadute,
sbriciolate le mani senza più carezze,
e uomini col sedere grosso
fare spazio alla propria sedia.
Tutti i popoli hanno i loro orchi
che declamano la notte
come fosse divisa in sillabe.
Avete appeso i colori dove il cielo era nero,
queste che vedete sono mani imperiture però,
macchiate, sia pure, con vernici d’oltre,
ma pronte alla battaglia contro tutti gli dei
che possa la vostra boria.
Anche le nostre labbra sono imperiture,
mica di pusillanimi poeti col cuore in ciabatte,
pure da seduti siamo sfrontati noi operai della parola,
noi vere bestie in agonia sulle greppie,
nelle mense per sfollati. Il parlamento è per i vostri poeti,
noi vogliamo il foglio dove scavare trincee,
anche chi scrive si prende le pallottole
quando trova la bellezza e la innalza
come una baionetta.
.
Ci sono giorni…
Ci sono giorni in cui le labbra luride cantano,
allora lavorano ai fianchi le parole, escono di merda –
e per noi la prova è l’infimo,
chiazze di lungimiranza infettano i sensi,
non c’è cazzo di vita nel vivere!
e ci fa paura prendersela con i venti
che scuotono sulla palpebra la notte dormiente,
come quando gli aerei ci passano sulla testa per andare a colpire
e sentiamo noi la scheggia che spezza i bimbi degli altri,
il peccato è anche questo essere risparmiati
perché le nostre mani non sanno fermare la disgregazione
di un paese, delle primavere, della paternità.
Non voglio fare il poeta ma amare sí, cristo!
bruciatemi le pergamene all’atto finale,
ma questo cuore lo rispetterete fino all’inferno.
Butterete ostie…
Butterete ostie sui carri allegorici
e le mani dei vecchi si perderanno
dove il buio è fugace, rosa nera,
in camice di nuvole, falsate dal vento.
Il polline della vergogna si posa
sulle pietre e i quadrifogli,
la luna, stipata, cancella la corteccia
degli amori infilzati dalle parole.
Voglio portare altri felici al regno del mondo,
gesù cristo era un bambino down
e sorprendeva i raggi del sole
con il suo sorriso d’ocra.
Disprezzerete anche questa pergamena
che snocciolo con la protervia
delle mie mani piantate sui muri
con contorni di sangue sanscrita.

alfredo de palchi e roberto bertoldo
Roberto Bertoldo nasce a Chivasso il 29 aprile 1957 e risiede a Burolo (TO). Laureato in Lettere e filosofia all’Università degli Studi di Torino con una tesi sul petrarchismo negli ermetici fiorentini, svolge l’attività di insegnante. Si è interessato in particolare di filosofia e di letteratura dell’Ottocento e del Novecento. Nel 1996 fonda la rivista internazionale di letteratura “Hebenon”, che dirige, con la quale affronta lo studio della poesia straniera moderna e contemporanea. Con questa rivista ha fatto tradurre per la prima volta in Italia molti importanti poeti stranieri. Dirige inoltre l’inserto Azione letteraria, la collana di poesia straniera Hebenon della casa editrice Mimesis di Milano, la collana di quaderni critici della Associazione Culturale Hebenon e la collana di linguistica e filosofia AsSaggi della casa editrice BookTime di Milano.
Bibliografia:Narrativa edita: Il Lucifero di Wittenberg – Anschluss, Asefi-Terziaria, Milano 1998; Anche gli ebrei sono cattivi, Marsilio, Venezia 2002; Ladyboy, Mimesis, Milano 2009; L’infame. Storia segreta del caso Calas, La vita felice, Milano 2010; Poesia edita: Il calvario delle gru, Bordighera Press, New York 2000; L’archivio delle bestemmie, Mimesis, Milano 2006; Pergamena dei ribelli, Joker, Novi Ligure 2011; Il popolo che non sono (Mimesis, 2015). Saggistica edita in volume: Nullismo e letteratura, Interlinea, Novara 1998; nuova edizione riveduta e ampliata, Mimesis, Milano 2011; Principi di fenomenognomica, Guerini, Milano 2003; Sui fondamenti dell’amore, Guerini, Milano 2006; Anarchismo senza anarchia, Mimesis, Milano 2009; Chimica dell’insurrezione, Mimesis, Milano 2011. Pergamena dei ribelli Joker 2011
UNA POESIA DI ADAM VACCARO “feroci innocenze e oltre” – Commento di Giorgio Linguaglossa
adam vaccaro
da Adam Vaccaro Seeds, Chelsea Editions, New York, 2014
Adam Vaccaro nasce a Bonefro nel 1940 per stabilirsi in giovinezza a Milano. Nel 1978 esordisce con La vita nonostante, cui seguirà Strappi e frazioni (1997), La casa sospesa (2003) e Labirinti e capricci della passione (2005). Poesie scelte dai quattro libri si trovano in La piuma e l’artiglio (2006).
feroci innocenze e oltre
guardavamo scannare i maiali
con allegra tranquilla innocenza
lanciavamo stecche appuntite di ombrelli
contro civette crocifisse alle porte
e arrostivamo feroci zoccole finite
disperate in gabbie fischiando
un’uscita cercando da fiamme d’inferno
eppure già (di)versi cantando
m’illumino d’immenso
e nessuno può dire se fu quel piede fondato nella terra e
nel letame che diede una spinta a sogni d’assalto al cielo
o s’aprì in quei primilampi di parole un oltre
possibile
nel vortice sempre nuovo
sempre vecchio di questi decenni
pur avendo già un grido nel cuore
che poi la curva ridiscende
ed è subito sera
adam vaccaro
La poesia inizia subito con una immagine truculenta, arcaico-rurale: « guardavamo scannare i maiali»; il secondo verso ci riporta invece alla situazione dell’infanzia, accenna alla «allegra tranquilla innocenza» con cui i bambini assistevano al rito ancestrale dello scannamento dei maiali nelle società contadine di tutte le latitudini; i quattro versi che seguono ci introducono ai crudeli giochi dei bambini nei confronti di animali propri di un’età arcaica, un mondo non ancora contagiato dalla accelerazione del tempo prodotto dalla freccia del progresso e dello sviluppo. È un mondo arcaico, crudele ma accettato da tutti i membri della comunità. È un mondo felice della propria innocenza, un mondo visto con gli occhi di un bambino. E questo è detto in versi elementari e scorbutici in forma di endecasillabi. Non c’è alcuna accentuazione del terribile o compiacimento della scena evocata, la narrazione si sviluppa secondo un tempo mitico, un tempo circolare, diremmo dell’eterno ritorno e della orizzontalità. Il tempo dell’infanzia felice (in quanto innocente, cioè priva di Storia) è riprodotto in versi come scolpiti che narrano la «cosa», i giochi dei bambini innocenti che pongono in essere il loro rito arcaico, crudele e sanguinoso:
lanciavamo stecche appuntite di ombrelli
contro civette crocifisse alle porte
e arrostivamo feroci zoccole finite
disperate in gabbie fischiando
un’uscita cercando da fiamme d’inferno…
adam vaccaro
Dopo questo introibo, c’è un accenno ironico e autoironico, quel «m’illumino d’immenso» con tanto di citazione di Ungaretti quasi a sottolineare l’antinomia della condizione astorica dei bambini con l’ideologia della illuminazione interiore che si pasce di ciò che è «immenso» mentre il mondo arcaico in realtà è immobile nella sua ancestrale bruttura e crudeltà. Non c’è alcun compiacimento dicevamo o nota elegiaca in questa rimembranza, soltanto una oggettiva narrazione, con pochi essenziali tratti, a quel tempo mitico caratterizzato dalla assenza della Storia e dalla temporalità dell’infanzia. È una poesia dura, oggettiva, crudele, con un lessico scabro, irsuto, scorbutico.
La parte centrale del componimento si apre con la terza persona, con quel «nessuno» «può dire», come dire: nessuno si può accampare il diritto di pronunciare un giudizio di valore verso un mondo che nel frattempo è scomparso: non c’è né valore né disvalore in quel mondo, è un mondo ormai scomparso quando l’autore scrive il componimento, che fa parte del passato remoto. E qui il tono dominante si fa più morbido, quasi elegiaco, quasi l’autore volesse accarezzare quel tempo trascorso senza rimuoverlo del tutto dalla coscienza ma quasi tentando di riportarlo e di riaccreditarlo nell’ordine della Storia del progresso e della civilizzazione.
adam vaccaro 2014
La parte finale si apre con l’immagine del «vortice» che tutto inghiotte, a rendere l’idea che il tempo trascorso è finito in un «vortice» che non può più restituire nulla al presente, un «vortice» «sempre nuovo» (domina ancora la macro simbologia del tempo che inghiotte i propri figli), «questi decenni» che hanno triturato tutto, la memoria e il vissuto, le generazioni arcaiche del Sud e la loro Storia innocente.
Il verso finale è una nota citazione del poeta ermetico Quasimodo con quel «ed è subito sera» che qui non sta a giustificazione di alcunché, non è inserita in quanto correlativo giustificazionista ma per il suo valore di ideologema, quasi un ologramma dell’elegia dell’io.
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