Ha ancora senso parlare di “letteratura”? È ancora praticabile questa parola? La definizione di uno “specifico letterario”, sia pure convenzionale e storicamente determinata, ha sempre consentito la storicizzazione degli autori, quelli che troviamo nei manuali e nelle antologie di “storia” (appunto) della letteratura. Ma oggi, che cosa storicizzare? E quali i criteri per farlo? Come diceva una nota canzone: che cosa resterà di questi anni? Dove sono le presenze carismatiche, i Pirandello, i Moravia, i Soldati, i Pasolini, i Giacomo Debenedetti? Non è il solito discorso da “apocalittico” che guarda con nostalgia al passato perché non sa riconoscere i semi del futuro nel presente. E non è solo questione di distanza critica: c’è di più. Il filo della trasmissione dei “valori” si è effettivamente spezzato contro il muro del p(i)attume contemporaneo. L’intellettuale ha perduto definitivamente la propria “aura”, trasformandosi in manager e/o intrattenitore multiuso, assorbito dagli apparati dell’“industria culturale”, a sua volta standardizzata e globalizzata dalle multinazionali del cosiddetto Entertainment.
La responsabilità di questo andazzo è in primis dei cosiddetti “grandi editori”: sono loro che stanno tradendo, inquinando, rovinando la letteratura propriamente intesa. Anziché tutelare e continuare a perseguire il proprio “specifico professionale”, se ancora ne hanno uno, inseguono e impongono modelli di consumo banalmente mutuati, ruminati e poi ancora rimasticati dal grande circo mediatico-televisivo, finendo per ottundere statuti e criteri stessi di riconoscibilità della comunicazione letteraria. Dinanzi a un testo di qualità insorgono, sobbalzano, rifiutano. “È troppo letterario”. “È troppo originale”. “La gente non capirebbe”. Sanno già prevedere quanti lettori si acquisteranno, o si perderanno, a usare un certo titolo o uno stile o un lancio editoriale, piuttosto che un altro. Non investono un euro se non hanno la ragionevole certezza di guadagnare cento volte tanto. Sembrano (e forse sono, ormai) consulenti finanziari e agenti di borsa, più che operatori di cultura.
Ma, bisogna una volta per tutte capirlo, in primo piano non c’è più il valore culturale (anche perché un “valore”, forse, non è più neppure censibile): sono altri i fattori determinanti. Che il libro venda, in ogni modo: anche a costo di profanare sacri recinti come il Premio Strega, oggi mercanteggiato sottobanco in mutua, periodica spartizione, previo accordo di potere, di trust, fra i soliti “grandi editori”: anche a costo di assegnarlo a un esordiente (contraddizione in termini) come avvenne 6 anni fa con Paolo Giordano! Che il libro venda e porti soldi, tanti, nelle casse voraci e sempre anemiche dell’azienda.
Tenere in piedi l’apparato industriale di una grande casa editrice costa molto, in effetti: non ci si può permettere il minimo passo falso. E in autentici capitomboli si rischia di incorrere, oggi, se ci si ostina a privilegiare il valore letterario dei testi. Il gusto del pubblico, peraltro, si è radicalmente abbassato. La gente vuole il libro come prodotto televisivo, come accessorio patinato del piccolo schermo, come emanazione o scarto di quel mondo. E allora si studia lo scrittore a tavolino, se ne guidano con freddezza cinica e calcolatrice le procedure di scrittura e di editing, si crea il personaggio, il “fenomeno”. Niente di più effimero! Lo scrittore-pupazzo incastrato negli ingranaggi dell’industria è destinato per lo più a godere, sotto i riflettori, del suo fuggevole quarto d’ora di celebrità; poi, al primo affievolirsi del successo, avanti il prossimo! Ecco il tradimento: hanno permesso, per ragioni di mero profitto economico, che la proverbiale spietatezza dello star system contagiasse anche il mondo dei libri, che con lo spettacolo dovrebbe poco o nulla avere a che fare. Continua a leggere