
Giorgio Linguaglossa
Quello che salta agli occhi ad una prima lettura della poesia di un poeta bilingue (inglese e italiano) come Steven Grieco, è la sua lontananza dai modelli stilistici invalsi nella poesia italiana di questi ultimi decenni. È questo elemento che fa della poesia di Grieco una poesia non agevolmente ricevibile, non facilmente assimilabile, eppure è questa la ricchezza che la poesia di Grieco Rathgeb porta in dono alla tradizione italiana, in un certo senso costituisce l’estraneo, l’antipodo, ciò che è da riconoscere in quanto diverso. L’importanza di questa poesia risiede, dunque, a mio avviso proprio in quell’elemento che ce la rende estranea, che ci obbliga a rimettere in discussione i parametri stilistici cui siamo abituati, che ci obbliga a riparametrare di nuovo i nostri organi percettivi: la sua lentezza. Insomma, è un modo di fare poesia che ci spinge ad una formulazione più aggiornata delle nostre capacità percettive e ricettive organizzate secondo l’importazione acritica di «automodelli» sostanzialmente invalidanti e resistenti alla loro messa in discussione.
Ora che sei sorta, luna cinerea, quasi
invisibile nella notte appena fatta,
nel tuo silenzio, simile alla quiete del pensiero,
mi chiedo come questo orlo di luce
esprima l’oscura pienezza: l’oscurità vicina
del tuo sferico splendore.
C’è come il ricordo della luna lepardiana in questi versi ma come caduto sotto la scure di una «amnesia». C’è una “lentezza” tipica della poesia orientale, in particolare della poesia cinese dell’epoca T’ang, Nei primi due versi quasi “vediamo” la “luna” “quasi invisibile” che si mostra; ma è un qualcosa a mezzo tra il nascondimento e lo svelamento, a metà tra il “silenzio” e “lo stupore del pensiero”, appena un “orlo di luce”. La “lentezza” di questa poesia è una necessità interna al meccanismo di costruzione dell’immagine, non è un qualcosa che viene appiccicato sopra dall’esterno. La strofe si regge sul parallelismo tra la «luna cinerea» e la «quiete del pensiero», tra «l’oscura pienezza» della prima e lo «sferico splendore» della seconda. C’è molto spazio tra le parole e le immagini, come se il tragitto più lungo che unisce due punti non fosse la retta ma un lunghissimo arco, una linea ondivaga e zigzagante che si allontana e che improvvisamente si avvicina. C’è questo metronomo che indica il ritmo del tempo e dello spazio che non è il metronomo della poesia cui siamo abituati, c’è in essa un divario, un divergere appena percettibile, un clinamen. Ci manca, mi rendo conto, un modello di sottosistema della cultura per aderire a questa poesia, per leggerla con il giusto quantitativo di distanza critica dal rumore di fondo delle scritture prosastiche che hanno invaso gli «invasi» stilistici decretandone la loro esondazione e la loro fine.
Non si dimentichi che per Fenollosa la poesia cinese «è arte del tempo», è la diversa velocità o lentezza del tempo che fluisce a dettare il ritmo delle immagini. È quello che accade nella poesia di Steven Grieco: è la lentezza del tempo delle immagini che suggerisce la modulazione delle immagini. C’è come una «lentezza» propria della poesia che è la sua caratteristica precipua, la «lentezza» che è la sua propria velocità, quel suo non corrispondere alla velocità delle letture veloci. È il testo di Grieco che impone al lettore la sua propria «lentezza», che gli chiede di fermarsi, di accostarsi, ma con la gentilezza dello sguardo e la modestia delle cose semplicissime, elementari, appena dette, appena pronunciate:
La luce della sera riporta gli uomini
ai loro giardini fitti di fiori.
Anche la luce torna a se stessa.

Steven Grieco Rathgeb
Caro Giorgio, il tuo commento sulla mia poesia, l’ho letto più volte. Perché mi ha sorpreso, e allora cerco di rispondere.
C’era un re che era in realtà un avvoltoio. Fin dalla sua infanzia i suoi consiglieri-rettili (cobra, boa, pitone, etc.) anche loro però presenti nella fiaba in forma umana, gli avevano fatto credere di essere come loro un serpente. Fermo restando che ciascuno di questi due animali è unico e insostituibile, meraviglioso nelle sue qualità specifiche, quanta distanza e opposizione ci sono tra un avvoltoio, che vola più in alto di quasi tutti gli uccelli (con l’eccezione forse del pellicano, che si libra altissimo sopra il Golfo Amvracico, in una mattina accecante di maggio) e un serpente, che striscia sulla superficie della terra e conosce i misteri inferi? Niente di più totale. Ma il re ignora tutto ciò. I suoi consiglieri sanno benissimo che in un futuro remoto del tutto irreale egli scoprirà la sua vera natura, e cercano per vari motivi di ritardare quel momento più possibile. Ecco, questa è una fiaba che ho scritto in inglese, e forse è emblematica di quello che ho vissuto io nella mia vita.
Le lingue che conosco non sono mie, di tutte sono un semplice ospite, e l’ho capito relativamente tardi nella mia vita. Ciò vale perfino per l’inglese, la mia lingua madre a tutti gli effetti, la lingua anche dei miei studi. Shakespeare è sempre stato per me un’influenza profondissima, forse lo scrittore più nascosto e vicino a me negli anni, soprattutto per il suo abbraccio immenso della realtà umana in tutti i suoi risvolti, ma non ho mai potuto dire di “possederlo” – né culturalmente, né linguisticamente. C’è soltanto un sottilissimo filo: quando inseguo questo in fondo, avverto la presenza di un’ombra, e l’ombra deve essere del drammaturgo. Ma quel filo, nella lingua inglese, mi dà tutto quello di cui ho bisogno, e soprattutto mi lascia anche andare lontanissimo dall’inglese, e tornarvi, carico di doni.
La “lentezza”, come tu hai notato, della mia poesia penso sia dovuta in gran parte a uno studio attentissimo, durato una vita, del movimento dell’alap, il primo movimento del raga indostano, che non solo si sviluppa con questa densissima, stupefacente lentezza, ma ha un’intensità, che invece di scoppiare o risolversi in qualche modo, tira l’ascoltatore più giù nella sua totale quiete, ricordandogli che ogni suono nasce dal rumore, e ogni pensiero nasce da quella zona pre-cogitativa della mente che contiene tutte le potenzialità immaginifiche e analitiche del pensiero umano in stato immanifesto (l’attimo prima che iniziano ad “essere”). Il pensiero come “nuotatore oscuro”.
Per quanto poi riguarda “paesaggio”, ho fatto l’agricoltore in Toscana per sette anni, imparando lì il miracolo della nascita e crescita delle piante. Seguire attimo per attimo questo fenomeno ti lascia senza parole, ti cambia profondamente e in modo duraturo.
Il paesaggio italiano in genere, è del tutto aperto allo sguardo, in tutte le sue mille incredibili sfumature, suggestioni e sottigliezze. Quello greco, e in particolare quello epirota (dove è nata mia figlia 29 anni fa), nasconde non so quanti elementi appena sotto la soglia della percezione. Trema, vibra, fa delle distanze una cosa inafferrabile, invisibilità stratificate. Perché il paesaggio greco, certamente, è intriso dei 450 anni di dolore e sofferenza che i greci patirono per essere stati soggiogati da un popolo a loro alieno per etnia, cultura e religione. Allo stesso tempo, luoghi come Dodona, oracolo visitato dagli eroi omerici in epoca precedente a Delfi, luoghi come questo mormorano un’antichità che non ho incontrato da nessun’altra parte in Europa. I monumenti sono quasi tutti scomparsi, ma nello stormire delle foglie di una quercia, per esempio, è tutto presente quel passato eroico, tragico, quella presenza di voci sommerse.
Anni di lettura di poeti cinesi (in tutte le traduzioni possibili), e in seguito, il lavoro con un collega giapponese sulla traduzione di waka, mi hanno portato a capire abbastanza bene quale è la funzione del paesaggio nella sensibilità estetica di quella parte del mondo (seppure molto diversa la visione cinese dalla giapponese): è l’immagine, spesso di incantevole suggestione, che letteralmente inghiotte dentro se stessa l’animo umano con tutti i suoi pensieri crucci e gioie. Un sentire che penso di aver abbracciato, negli anni, senza quasi accorgermene. Quei poeti raramente scissero l’elemento paesaggistico dall’animo umano, reputando che le due cose fossero due aspetti della stessa realtà composita, allargata.
Si dice che il waka giapponese del periodo classico sia soltanto una celebrazione della natura, della bellezza, della brevità della vita umana. Tutto ciò è vero, ma io ho avuto la somma buona fortuna di lavorare e dialogare a lungo con uno studioso giapponese, che invece va più a fondo nel senso di questa poesia (la migliore, s’intende), scoprendovi la reale profondità di pensiero, la dimensione metafisica che generazioni di miopia filologica non hanno saputo cogliere.
Ki no Tsurayuki (IX-X sec)
hito shirezu koyu to omoishi ashihiki no yama shita mizu ni kage wa mietsutsu
senza che nessuno mi vedesse, così pensavo,
attraversai il monte: tutte le acque laggiù mi rispecchiavano
La questione del paesaggio è un po’ come quella del dialogo muto fra il poeta e l’albero fiorito. Il poeta gli chiede il perché delle cose, soprattutto del suo proprio insondabile sentimento per quelle cose. Gli chiede perché, se il mondo è uno e indivisibile, e lui e l’albero una sola cosa, allora perché questo pathos. L’albero non risponde, e nello stormire dei rami fioriti il poeta ravvisa una meravigliosa “bellezza”. Ma l’albero non è bello, l’albero semplicemente sta lì. E quello stare lì è come uno specchio, un invito a te di guardare più profondamente in te stesso, un invito a capire come anche tu rispecchi l’albero.

.
In questo senso, provo estraneità per la tradizionale visione in Occidente, che a tutti gli effetti ha scisso le due realtà in soggetto e oggetto. “Soggetto” e “oggetto” esistono anche nell’atteggiamento asiatico verso la realtà (come si capisce dal paragrafo precedente): ma l’uomo sta all’interno di una realtà completa, non al di fuori di essa. “Soggetto” e “oggetto” sono sempre presenti, ma è necessario anche sempre ricordarsi che si tratta di realtà parziali.
Penso che negli ultimi decenni la riflessione sulla complessità di Edgar Morin abbia iniziato a smantellare questo aspetto primitivo e deterministico di un pensiero per altri versi così forte, geniale, creatore, come quello occidentale.
Un raga indostano (ma ugualmente una composizione musicale di Giacinto Scelsi) ci suggerisce che, almeno in arte, l’uomo non tanto fa le opere (seppure non possiamo mai liberarci del tutto da questa illusione, anzi dobbiamo sempre misurarci con essa), quanto osserva il loro farsi. Esiste un compiersi delle cose.
La poesia sulla luna che tu hai citato ho iniziato a scriverla nel 1995. Subito dopo aver scritto i versi iniziali, e aver fatto un certo numero di appunti per capire come dovevo continuarla, capii che non potevo ancora dire quello che avevo in animo, non avevo a quanto pare, allora, gli strumenti per farlo. L’ho ripresa nel 2012, e dopo qualche mese di tornarci e ritornarci sopra, ho finalmente potuto dire: la poesia è scritta. (Poi l’ho tradotta in italiano)
Ho anche scritto poesia in italiano, e una raccolta è stata pubblicata nel 1997 nella collana Biblioteca Cominiana di Enzo Mazza e Bino Rebellato. Precedentemente, avevo più volte provato a interessare riviste letterarie italiane alle mie composizioni, ricevendo sempre pareri negativi – emblematica la frase di un noto poeta milanese, allora anche direttore di una rivista di poesia, che mi scrisse, “la sua poesia non rientra nel solco della tradizione letteraria italiana”. Due esempi di quella mia poesia straniera:

VOLTO E RISVOLTO
Nella sala del museo lui guardò
attentamente l’antico quadro,
poi s’incamminò verso il suo infinito.
Giunto in fondo – in un baleno, avresti detto –
con un dito ne sfiorò la superficie
(un’altra fuga di stanze), e disse: «di là
non c’è niente.
Tutto quello che possiamo vedere,
afferrare, sta qui.»
Tu lo guardi e lo compatisci. Sai bene
quanto più complessa è questa realtà,
le asimmetrie nascoste nel suo cielo splendido,
nelle montagne e foreste, e grandi
città affacciate sugli oceani.
E mentre lui è fermo, rigido dentro il quadro,
tu spazi e ti libri, ma da ogni lato
la realtà avanza impetuosa, raggiungendo
anche in te il suo punto infinito.
1993

.
SENZA TITOLO V
Ineluttabile destino, il tuo, che fosti il primo
a volere uno specchio:
più gli antichi artigiani ti approfondirono
nel riflesso del vetro, più ti appiattisti
in quell’immagine, facendo della vita
una cosa unica, angosciosa,
in cui apparire è la sola ragione d’essere.
Perché loro, nella loro astuzia
non posarono gli arnesi fin quando,
foggiata una seconda realtà di te,
non ti ebbero disperso.
1992
Penso che quel poeta milanese avesse ragione, senz’altro. Ma forse è anche possibile essere ospiti della poesia italiana, senza appartenervi del tutto? Giorgio Linguaglossa, mi è sembrato, dà a questa domanda una risposta affermativa, e di questo lo ringrazio.
Quello che salta agli occhi ad una prima lettura della poesia di un poeta bilingue (inglese e italiano) come Steven Grieco, è la sua lontananza dai modelli stilistici invalsi nella poesia italiana di questi ultimi decenni. È questo elemento che fa della poesia di Grieco una poesia non agevolmente ricevibile, non facilmente assimilabile, eppure è questa la ricchezza che la poesia di Grieco Rathgeb porta in dono alla tradizione italiana, in un certo senso costituisce l’estraneo, l’antipodo, ciò che è da riconoscere in quanto diverso. L’importanza di questa poesia risiede, dunque, a mio avviso proprio in quell’elemento che ce la rende estranea, che ci obbliga a rimettere in discussione i parametri stilistici cui siamo abituati, che ci obbliga a riparametrare di nuovo i nostri organi percettivi: la sua lentezza. Insomma, è un modo di fare poesia che ci spinge ad una formulazione più aggiornata delle nostre capacità percettive e ricettive organizzate secondo l’importazione acritica di «automodelli» sostanzialmente invalidanti e resistenti alla loro messa in discussione.
Ora che sei sorta, luna cinerea, quasi
invisibile nella notte appena fatta,
nel tuo silenzio, simile alla quiete del pensiero,
mi chiedo come questo orlo di luce
esprima l’oscura pienezza: l’oscurità vicina
del tuo sferico splendore.
C’è come il ricordo della luna lepardiana in questi versi ma come caduto sotto la scure di una «amnesia». C’è una “lentezza” tipica della poesia orientale, in particolare della poesia cinese dell’epoca T’ang, Nei primi due versi quasi “vediamo” la “luna” “quasi invisibile” che si mostra; ma è un qualcosa a mezzo tra il nascondimento e lo svelamento, a metà tra il “silenzio” e “lo stupore del pensiero”, appena un “orlo di luce”. La “lentezza” di questa poesia è una necessità interna al meccanismo di costruzione dell’immagine, non è un qualcosa che viene appiccicato sopra dall’esterno. La strofe si regge sul parallelismo tra la «luna cinerea» e la «quiete del pensiero», tra «l’oscura pienezza» della prima e lo «sferico splendore» della seconda. C’è molto spazio tra le parole e le immagini, come se il tragitto più lungo che unisce due punti non fosse la retta ma un lunghissimo arco, una linea ondivaga e zigzagante che si allontana e che improvvisamente si avvicina. C’è questo metronomo che indica il ritmo del tempo e dello spazio che non è il metronomo della poesia cui siamo abituati, c’è in essa un divario, un divergere appena percettibile, un clinamen. Ci manca, mi rendo conto, un modello di sottosistema della cultura per aderire a questa poesia, per leggerla con il giusto quantitativo di distanza critica dal rumore di fondo delle scritture prosastiche che hanno invaso gli «invasi» stilistici decretandone la loro esondazione e la loro fine.
La luce della sera riporta gli uomini
ai loro giardini fitti di fiori.
Anche la luce torna a se stessa.
Steven Grieco Rathgeb
Caro Giorgio, il tuo commento sulla mia poesia, l’ho letto più volte. Perché mi ha sorpreso, e allora cerco di rispondere.
C’era un re che era in realtà un avvoltoio. Fin dalla sua infanzia i suoi consiglieri-rettili (cobra, boa, pitone, etc.) anche loro però presenti nella fiaba in forma umana, gli avevano fatto credere di essere come loro un serpente. Fermo restando che ciascuno di questi due animali è unico e insostituibile, meraviglioso nelle sue qualità specifiche, quanta distanza e opposizione ci sono tra un avvoltoio, che vola più in alto di quasi tutti gli uccelli (con l’eccezione forse del pellicano, che si libra altissimo sopra il Golfo Amvracico, in una mattina accecante di maggio) e un serpente, che striscia sulla superficie della terra e conosce i misteri inferi? Niente di più totale. Ma il re ignora tutto ciò. I suoi consiglieri sanno benissimo che in un futuro remoto del tutto irreale egli scoprirà la sua vera natura, e cercano per vari motivi di ritardare quel momento più possibile. Ecco, questa è una fiaba che ho scritto in inglese, e forse è emblematica di quello che ho vissuto io nella mia vita.
La “lentezza”, come tu hai notato, della mia poesia penso sia dovuta in gran parte a uno studio attentissimo, durato una vita, del movimento dell’alap, il primo movimento del raga indostano, che non solo si sviluppa con questa densissima, stupefacente lentezza, ma ha un’intensità, che invece di scoppiare o risolversi in qualche modo, tira l’ascoltatore più giù nella sua totale quiete, ricordandogli che ogni suono nasce dal rumore, e ogni pensiero nasce da quella zona pre-cogitativa della mente che contiene tutte le potenzialità immaginifiche e analitiche del pensiero umano in stato immanifesto (l’attimo prima che iniziano ad “essere”). Il pensiero come “nuotatore oscuro”.
Per quanto poi riguarda “paesaggio”, ho fatto l’agricoltore in Toscana per sette anni, imparando lì il miracolo della nascita e crescita delle piante. Seguire attimo per attimo questo fenomeno ti lascia senza parole, ti cambia profondamente e in modo duraturo.
Anni di lettura di poeti cinesi (in tutte le traduzioni possibili), e in seguito, il lavoro con un collega giapponese sulla traduzione di waka, mi hanno portato a capire abbastanza bene quale è la funzione del paesaggio nella sensibilità estetica di quella parte del mondo (seppure molto diversa la visione cinese dalla giapponese): è l’immagine, spesso di incantevole suggestione, che letteralmente inghiotte dentro se stessa l’animo umano con tutti i suoi pensieri crucci e gioie. Un sentire che penso di aver abbracciato, negli anni, senza quasi accorgermene. Quei poeti raramente scissero l’elemento paesaggistico dall’animo umano, reputando che le due cose fossero due aspetti della stessa realtà composita, allargata.
Si dice che il waka giapponese del periodo classico sia soltanto una celebrazione della natura, della bellezza, della brevità della vita umana. Tutto ciò è vero, ma io ho avuto la somma buona fortuna di lavorare e dialogare a lungo con uno studioso giapponese, che invece va più a fondo nel senso di questa poesia (la migliore, s’intende), scoprendovi la reale profondità di pensiero, la dimensione metafisica che generazioni di miopia filologica non hanno saputo cogliere.
Ki no Tsurayuki (IX-X sec)
hito shirezu koyu to omoishi ashihiki no yama shita mizu ni kage wa mietsutsu
senza che nessuno mi vedesse, così pensavo,
attraversai il monte: tutte le acque laggiù mi rispecchiavano
La questione del paesaggio è un po’ come quella del dialogo muto fra il poeta e l’albero fiorito. Il poeta gli chiede il perché delle cose, soprattutto del suo proprio insondabile sentimento per quelle cose. Gli chiede perché, se il mondo è uno e indivisibile, e lui e l’albero una sola cosa, allora perché questo pathos. L’albero non risponde, e nello stormire dei rami fioriti il poeta ravvisa una meravigliosa “bellezza”. Ma l’albero non è bello, l’albero semplicemente sta lì. E quello stare lì è come uno specchio, un invito a te di guardare più profondamente in te stesso, un invito a capire come anche tu rispecchi l’albero.
.
In questo senso, provo estraneità per la tradizionale visione in Occidente, che a tutti gli effetti ha scisso le due realtà in soggetto e oggetto. “Soggetto” e “oggetto” esistono anche nell’atteggiamento asiatico verso la realtà (come si capisce dal paragrafo precedente): ma l’uomo sta all’interno di una realtà completa, non al di fuori di essa. “Soggetto” e “oggetto” sono sempre presenti, ma è necessario anche sempre ricordarsi che si tratta di realtà parziali.
Penso che negli ultimi decenni la riflessione sulla complessità di Edgar Morin abbia iniziato a smantellare questo aspetto primitivo e deterministico di un pensiero per altri versi così forte, geniale, creatore, come quello occidentale.
Un raga indostano (ma ugualmente una composizione musicale di Giacinto Scelsi) ci suggerisce che, almeno in arte, l’uomo non tanto fa le opere (seppure non possiamo mai liberarci del tutto da questa illusione, anzi dobbiamo sempre misurarci con essa), quanto osserva il loro farsi. Esiste un compiersi delle cose.
La poesia sulla luna che tu hai citato ho iniziato a scriverla nel 1995. Subito dopo aver scritto i versi iniziali, e aver fatto un certo numero di appunti per capire come dovevo continuarla, capii che non potevo ancora dire quello che avevo in animo, non avevo a quanto pare, allora, gli strumenti per farlo. L’ho ripresa nel 2012, e dopo qualche mese di tornarci e ritornarci sopra, ho finalmente potuto dire: la poesia è scritta. (Poi l’ho tradotta in italiano)
Ho anche scritto poesia in italiano, e una raccolta è stata pubblicata nel 1997 nella collana Biblioteca Cominiana di Enzo Mazza e Bino Rebellato. Precedentemente, avevo più volte provato a interessare riviste letterarie italiane alle mie composizioni, ricevendo sempre pareri negativi – emblematica la frase di un noto poeta milanese, allora anche direttore di una rivista di poesia, che mi scrisse, “la sua poesia non rientra nel solco della tradizione letteraria italiana”. Due esempi di quella mia poesia straniera:
VOLTO E RISVOLTO
Nella sala del museo lui guardò
attentamente l’antico quadro,
poi s’incamminò verso il suo infinito.
Giunto in fondo – in un baleno, avresti detto –
con un dito ne sfiorò la superficie
(un’altra fuga di stanze), e disse: «di là
non c’è niente.
Tutto quello che possiamo vedere,
afferrare, sta qui.»
Tu lo guardi e lo compatisci. Sai bene
quanto più complessa è questa realtà,
le asimmetrie nascoste nel suo cielo splendido,
nelle montagne e foreste, e grandi
città affacciate sugli oceani.
E mentre lui è fermo, rigido dentro il quadro,
tu spazi e ti libri, ma da ogni lato
la realtà avanza impetuosa, raggiungendo
anche in te il suo punto infinito.
1993
.
SENZA TITOLO V
Ineluttabile destino, il tuo, che fosti il primo
a volere uno specchio:
più gli antichi artigiani ti approfondirono
nel riflesso del vetro, più ti appiattisti
in quell’immagine, facendo della vita
una cosa unica, angosciosa,
in cui apparire è la sola ragione d’essere.
Perché loro, nella loro astuzia
non posarono gli arnesi fin quando,
foggiata una seconda realtà di te,
non ti ebbero disperso.
1992
Penso che quel poeta milanese avesse ragione, senz’altro. Ma forse è anche possibile essere ospiti della poesia italiana, senza appartenervi del tutto? Giorgio Linguaglossa, mi è sembrato, dà a questa domanda una risposta affermativa, e di questo lo ringrazio.