
Picasso Jacqueline Roque
Estratti a cura di Giorgio Linguaglossa dal libro di Carlo Diano Linee per una fenomenologia dell’arte Neri Pozza, 1968
SUL CONCETTO DI EVENTO
Comincio dall’evento. Evento preso dal latino e traduce il greco tyche. Evento è perciò non quicquid èvenit, ma id quod cuique èvenit. Che qualcosa accada, non basta a farne un evento: perché sia un evento è necessario che codesto accadere io lo senta come un accadere per me.
Di evento non si può parlare se non in rapporto a un determinato soggetto e dall’ambito stesso di questo soggetto.
La dottrina stoica ripone l’essenza della proposizione nel verbo e considera il nome secondario – laddove per Aristotele “l’uomo cammina” è uguale a “l’uomo camminante” – ha la sua origine prima nel sentimento linguistico di Zenone che era un semita.
Come id quod cuique èvenit, l’evento è sempre hic et nunc. Un fulmine ha colpito un albero nella notte, io lo vedo al mattino: il fatto, ove sia per me un evento, non lo è se non in quanto l’evènit si fa attuale in un èvenit e l’albero non è uno dei tanti punti dello spazio ma il mio hic. (…) è chiaro che non sono l’ hic et nunc che localizzano e temporalizzano l’evento, ma è l’evento che localizza l’hic e temporalizza il nunc. (…) Nella mentalità primitiva… spazio e tempo fanno uno, ed è il tempo che è primario. Il mito ha sempre forma storica, ed è nei tempi in cui l’evènit del mito si rifà èvenit nel rito, che i luoghi e gli oggetti sacri sono sentiti per eccellenza augusti. Lo stesso vale per noi: nella nostra vita i luoghi hanno tutti una data, e sono reali solo in quanto e nelle dimensioni in cui quella data è attuale e presente come evento. Solo per questo «le cose» possono essere sentite come eventi e i nomi confondersi con i verbi. Ma sul piano obbiettivo della coscienza il rapporto si rovescia, perché lo spazio è rappresentabile.
SULLA “CHIUSURA” DELLA FORMA
La reazione dell’uomo a questo emergere del tempo ed aprirsi dello spazio creatigli dentro e d’intorno dall’evento, è di dare ad essi una struttura e chiudendoli dare norma all’evento.
Forma è ciò che i greci da Omero a Plotino chiamarono eidos, ed eidos è la «cosa veduta», e assolutamente veduta. Ciò che la caratterizza è l’essere «per sé». Solo essa è per sé, e quello che è lo è in se stessa e per se stessa, ed esclude la relazione. Come tale esaurisce la sua essenza nella sua contemplabilità: tutto quello che essa è contemplabile, e ciò che in essa non è contemplabile, non è.
Ma la contemplabilità non esaurisce la loro essenza, è solo un mezzo per attingere ciò che in esse non appare, e che per sua natura esclude ogni contemplabilità e può essere solo vissuto: sono symbola e non eide, forme eventiche e non le «forme».
«Simbolo» (da symballein, «mettere insieme») è in origine la tessera ospitale, di cui ciascuno dei due ospiti conserva una parte. Separate, le due parti non significano nulla, il loro significato non l’acquistano se non nell’atto in cui vengono «messe insieme». Lo stesso vale per il mito e di tutte le forme date all’evento. Ciascuna di esse, resa separatamente, è una figura, ma il suo significato non è in quella figura, cì nell’unione con l«l’altro» che la giustifica e che essa ha la funzione di rifare presente. Se questo «altro» fosse rappresentabile, avremmo l’unione di due figure, e quindi l’allegoria. Ma il mito non è allegoria.
«L’altro» è l’evento, e cioè un èvenit, che è sempre hic et nunc e sempre è centro di un periechon infinito, e che pertanto non può essere che vissuto. (..) l’hic nasce dal nunc.
La più semplice forma di chiusura è il nome… Ma questo medesimo nome, che dà forma all’evento, permette anche di riprodurlo.
Quanto al mito, esso è insieme «al principio» del tempo e «in ogni tempo», che è come dire nel tempo del periechon. E, poiché il mito non è «reale» se non nella «ripetizione» che ne viene fatta dal rito, e il tempo del rito coincide sempre col tempo del mito, rito e mito non sono che i mezzi per riprodurre il rapporto dell’ hic et nunc e dell’ ubique et semper vissuto in atto nell’evento. (..) Già per gli Orfici la teogonia così detta «rapsodica» pone al principio non il Chaos, ma Chronos-Kronos, e da esso deriva il Chaos e l’Etere.
«Che cos’è il pensiero astratto?» si domandava Kierkegaard. E rispondeva: «È il pensiero in cui il pensante non c’è». E così Gentile scriveva che «gli occhi non ce li possiamo vedere che allo specchio». Né altrimenti parla Wittgenstein: «il soggetto non appartiene al ‘mondo’ ma è un limite del ‘mondo’. Dov’è mai che nel mondo un soggetto metafisico si lascia osservare? Tu dici che è come con l’occhio e il campo visivo. Ma l’occhio non lo vedi. E nulla del campo visivo ti permette di concludere che esso è visto da un occhio»1
La forma non si deduce e non si induce: è o non è. E perciò ha valore di categoria, e l’altra è l’evento, e tra loro sono irriducibili: tutti i tentativi fatti dalla storia del pensiero per ricondurli a un unico principio, sono andati falliti, a partire da Platone, che riconfermando l’antinomia dell’àletheia e della doxa rivelata da Parmenide, ne denunciò alla fine l’impossibilità.
L’evento dissolve le «cose» e unifica tutto. Nella sfera della forma, invece, non esistono che «cose» e tutto è separato, perché «la sostanza separa». Lo spazio e il tempo nell’evento fanno uno, ed è il tempo che è primario, che solo l’evento rompe la continuità della durata e si rivela come istante… ma questa convergenza è, insieme, divergenza, poiché l’uno dei due estremi trascende l’altro, convergenza e divergenza non si dialettizzano.
Con la forma appaiono le «cose» e lo spazio si separa dal tempo.. Per Aristotele il mondo è nello spazio quanto alle sue parti, non lo è quanto al tutto. Fuori della figura non c’è spazio se non come «intervallo» rispetto a un’altra figura. A questo spazio è ridotto il tempo, definito da Aristotele come «numero del movimento secondo il prima e il poi». Ora, la forma di per se stessa è immobile: anche se occupa sempre nuove posizioni, giacché lo spazio esterno le è assolutamente irrelativo, e non è che mera possibilità.
Poiché appaia il tempo secondo il prima e il poi, è necessario che una forma, per la possibilità che ha di essere in qualunque punto dello spazio, s’incontri con un’altra forma (l’urto degli atomi di Leucippo e Democrito), ma, ogni forma essendo irrelativa all’altra… l’incontro è accidentale e il tempo è contingente. Solo questo tempo si dispone sulla linea retta, e solo esso è irreversibile (factum infectum fieri nequit), e sostanzializza l’istante.
LUCE E FORMA NELL’ESPERIENZA DEI GRECI
La forma è di per se stessa luminosa, la luminosità non essendo altro se non la visibilità che ne costituisce l’essenza. Nella tradizione poetica ed artistica greca forma e luce fanno uno, e la luce non è esterna, è interna alla forma. Ma è particolarmente sensibile al limite, che ne è la parte più precaria: è come una aureola… Numi ed eroi splendono e appaiono aureolati di luce.
L’arte dunque non è forma, ma forma ed evento in uno, e l’una essendo contemplabile e l’altro potendo essere solo vissuto, è insieme contemplata e vissuta.
L’opera d’arte è insieme nel tempo e non è nel tempo, è nello spazio e non è nello spazio, e, in quanto è nel tempo e nello spazio, è insieme nell’hic et nunc e nell’ubique et semper, e, chiunque l’abbia «fatta» e a qualunque tempo rimonti… è la «mia» e non è la mia, come fu la sua e non la sua per colui che la «fece»…
1 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus