Gino Rago
Decima Lettera a E. L.
[il bacio]
Cara Signora Jolanda W.
Oggi Vienna fa scintille alla Paradeplatz.
Il tram all’improvviso ferma la sua corsa,
dal Belvedere arrivano gli strilli di Kokoschka
[è in polemica con Schiele per «ll Bacio» di Klimt,
l’aria d’autunno si guasta].
Il mio amico* pensando all’altro amico [che ha lasciato Roma]**ha scritto:
«[…] due specchi si specchiano nel vuoto,
illuminano il vuoto, specchiano il vuoto che è nel loro interno […]»
Musica, pausa, parola, silenzio. Linguaggio senza lingua
o immagini sfocate dell’ “Io” sopraffatto?
Non l’uomo ma un cane al buio sbraita alla luna.
Dal vaudeville in fondo alla locanda:
«un miliardesimo di miliardesimo della grandezza di un atomo
è già luce dello sperma siderale»
* il mio amico è Giorgio Linguaglossa
** l’altro amico [che ha lasciato Roma] è Steven Grieco-Rathgeb
Lucio Mayoor Tosi
Mi collego a quanto rilevato da Rossana Levati, ai versi
“mi soffiava il maestrale attraverso / una fessura nel torace”… “ora soffiava
come un mastino aprendomi una fessura nel silenzio”; perché questi versi mi parlano di un disagio, di una malinconia, o forse peggio di una pesante tristezza sottoposta a cura:
“ora soffiava vuoto azzurro
nella stanza disadorna della mia primavera:
questa primavera gelida nei fiori bianchi (…)
Steven Grieco è tra gli autori NOE quello che maggiormente si occupa dell’aspetto ontologico di questa ricerca. Il suo frammento lungo, meditato, che si dà tutto il tempo che serve, io spero possa servire da esempio, per scongiurare il pericolo che l’uso frequente del punto possa volgere nella direzione di un passo troppo regolare… Voglio dire che le immagini, penso tutte, abbiano come un loro respiro – oh, questa poesia ne è piena – alcune passano rapide, altre si soffermano.
A me ha colpito il verso, già evidenziato da Chiara Catapano, di “quei promontori guarderebbero solo se stessi”, preceduto ma con altro significato da “Poi un giorno rompersi a pezzi. Di nuovo sarebbero altri / quei promontori che nel silenzio guardano se stessi”.
Vi ho sentito senso di estraneità, quasi un Che ci sto a fare qua. Il che mi ricollega alla ferita descritta inizialmente. E alla cura che sempre la natura sa darci, quando depositiamo le nostre domande e semplicemente stiamo.
Tomas Tranströmer
Aprile e silenzio
La primavera giace deserta.
Il fossato di velluto scuro
serpeggia al mio fianco
senza riflessi.
L’unica cosa che splende
sono fiori gialli.
Son trasportato dentro la mia ombra
come un violino
nella sua custodia nera.
L’unica cosa che voglio dire
scintilla irraggiungibile
come l’argento
[da La lugubre gondola,Rizzoli, 2011
Traduzione di Gianna Chiesa Isnardi]
Analizzando questo concentrato, denso testo di Tranströmer, che per me e per la mia ricerca di poesia è il traguardo, è [difficilissimo da toccare] il modello poetico esemplare, è facile notare che l’autore de La lugubre gondola si affida a una parola poetica essenziale, concentrata, evocativa, metafisica e con questa parola, non con altre parole, tenta l’immersione nella contemplazione del paesaggio naturale che nel poeta si fa specchio di quello dell’anima, [ecco lo specchio che in altra forma fa ritorno… ], percependo fra sé e il paesaggio stesso un nuovo ordine. Dice la Chiesa Isnardi “[…] Nella poesia di Tomas Tranströmer niente è fuori posto o in più, ogni parola ha un peso simbolico all’interno di testi che si avvicinano alla perfezione…” E poi continuando nel suo saggio, la Chiesa Isnardi usa la parola-chiave, quella che in me ha fatto scattare il guizzo dell’accostamento persuaso al nuovo corso della poesia lanciato da Giorgio Linguaglossa, proprio con Tomas Tranströmer come altissimo modello, come faro cui indirizzarci adottando il nuovo corso poetico:”[…] La poesia così diventa “meditazione attiva” in grado di destare impulsi, offrire una visione diversa, barlumi di verità. Una poesia dinamica e aperta, dove è centrale l’elemento sensoriale; una poesia in cui la lingua è spinta al limite estremo, alla ricerca della parola perfetta nel silenzio gonfio di messaggi a cui il chiacchiericcio del mondo ci ha disabituato; una poesia che non si dà mai una volta per tutte, ma continua a suscitare dubbi e incertezze, come una finestra costantemente aperta sull’ignoto…”.
Estraggo ed evidenzio:
La poesia come meditazione attiva…
Charles Simic si muove magistralmente proprio in questa scia e lo stesso dicasi per Ewa Lipska. Al di fuori di questi tre per me maestri assoluti di poesia contemporanea non sento alcun risucchio, nessuna vertigine negli abissi della parola, anche se rimane il rispetto assoluto per la fatica che è sempre dentro e dietro qualunque esperienza poetica.
La poesia della NOE deve essere Poesia della meditazione attiva.
[Se i miei bronchi fossero in grado di lavorare come vorrei anziché come capricciosamente stanno facendo da qualche settimana a questa parte, mettendomi non di rado in quella pena nota come ‘fame d’aria’ come Giuseppe Talia magistralmente l’ha definita, potrei dare forse altri contributi, ma non sempre ho la forza per ora per poterlo fare ].
(Gino Rago)
Una poesia inedita di Lidia Popa
Anche a questo funerale mancherò
Ho finito di lavare i piatti in cucina.
Ho messo a posto.
Ho lucidato il lavandino.
Ora brilla come l’acciaio appena sfornato.
A pranzo ho mangiato frittata con le patate.
Ho messo tutta la poesia del frigo dentro.
Quattro uova per due porzioni, cipolla e patata lessa,
una grattugiata fresca di Grana Padano.
Ho girato e sistemato tutto
su un piatto da portata.
Apparecchiato. Servito.
Mangiato. Lavato.
Stasera a cena mi è rimasto questo verso.
Insipido.
Oggi ho saputo che è morta la zia.
Lei era un pezzo di pane.
Tante volte una madre.
No, non era come mia madre.
Mia madre è viva.
Mia zia ora è una santa.
Ha convissuto per anni con la cirrosi.
Come mio padre.
Lui è morto nove anni fa, come fosse oggi.
Era quattro luglio del duemilanove.
Era nato in un giorno significativo: undici settembre,
anniversario di morte per l’America.
Per me il quattro luglio è il giorno più triste
che ricorderò per il resto della vita.
Attraversavo la strada.
Il telefono squillava.
Era mio fratello che chiamava.
Erano le diciassette e trentatré di pomeriggio.
Mio padre stava morendo.
Io non c’ero a tenere la sua mano,
a dire che andrà tutto bene.
E bene non andò.
Finii solo per cucinare ogni giorno una poesia dal frigo.
E tanta solitudine marcia.
Volevo solo decorare la morte,
descriverla meno paurosa del vissuto,
contraddicendo chi diceva che ispiro pena,
per aver cercato una vita degna altrove.
Mio padre non ha mai saputo che sono un poeta.
La zia Teodora lo sapeva.
A lei ho letto una domenica alcune mie poesie
fresche di cucina.
Ora incontrerà mio padre e le racconterà,
come so cucinare le poesie dal frigo.
La caratteristica di Lidia Popa è questa aderenza al «quotidiano». Il suo quotidiano non è quello appreso alla lezione della scuola lombarda ma quello appreso dalla sua viva esperienza di tutti i giorni: la cucina, il lavaggio dei piatti, la frittata di patate, il frigo, la madre, il ricordo del padre, la zia Teodora… etc. tutto vero, tutte cose vere, non c’è nulla di inventato, c’è la concretezza delle cose vere e vissute e c’è anche la serietà del lavoro per appropinquarsi alla poesia, con semplicità e con umiltà. Una calzolaia della poesia Lidia, senza grilli per la testa, come le poetesse e pseudo poetesse italiane che girano in calzamaglia e con i tacchi a spillo per far vedere quanto sono brave, e invece sono soltanto banali. Sono «poesie/ fresche di cucina», tra una frittata e l’altra, poesia frugali, senza panna, senza zuccherificio, senza l’inutile ironia o l’inutile gioco combinatorio di vocali e consonanti.
(Giorgio Linguaglossa)
Due poesie di Lidia Are Caverni
da La casa dell’oro (estate-autunno 2016)
In punta di penna
In punta di penna
ti scriverei messaggi
unità di convolvoli
chiudono reti
di giardini mai visti
e tu prosegui
per gli inesorabili
percorsi cercando
la meta dell’oro
senza vedere
che sui fili la libellula
danza la danza
dell’ombra e del sole
solitario ti volgi
altrove senza ritorno.
*
Cinque farfalle
bianche in formazione
s’involano nel prato
la limaccia le ignora
crogiolandosi al sole
neri gli uccelli
macchiano il cielo
e io respiro come
avesse taciuto
da millenni la freschezza
dell’aria.
Lidia Are Caverni è una poetessa di Mestre che ha tutta la nostra stima. Pubblico qui due poesie di una sua raccolta inedita anche se la sua linea di ricerca appare più in linea con la poesia di un Piersanti che non con quella della nuova poesia che stiamo ricercando. È una ricerca degna della più alta considerazione, sicuramente è un progetto di ricerca a cui auguriamo le cose migliori…
Il nostro è un laboratorio di scambio e di proposta e la pubblicazione delle proprie poesie ha un senso in questa ottica, in una visione di confronto e di scambio di tesi, in tal accezione saremmo interessati di sapere da Lidia qual è il suo pensiero sulla nostra direzione di ricerca…
(Giorgio Linguaglossa)
Giorgio Seferis
Efeso
Parlava seduto su un marmo
simile a rovina d’antico portale:
sterminato e vuoto a destra il campo
a sinistra scendevano le ombre dal monte:
“La poesia è ovunque. La tua voce
a volte incede al suo fianco
come il delfino che per poco ti accompagna
vascello d’oro nel sole
e poi scompare. La poesia è ovunque
come le ali del vento nel vento
che per un attimo hanno sfiorato le ali del gabbiano.
Uguale e diverso dalla nostra vita, come cambia
il volto di una donna che si è spogliata,
e tuttavia rimane uguale. Lo sa
che ha amato: alla luce degli altri
il mondo implode: ma tu ricorda
Ade e Dioniso sono la stessa cosa”.
Disse e imboccò la grande strada
che mena al porto di un tempo, ora inghiottito
laggiù fra i giunchi. Il crepuscolo pareva
per la morte di un animale,
così nudo.
Ricordo ancora:
viaggiava sulle coste della Ionia, in vuote conchiglie di teatri
dove solo la lucertola striscia sull’arida pietra,
e io gli chiesi: ” Un giorno torneranno a riempirsi?”
E mi rispose: ” Forse, nell’ora della morte “.
E corse nell’orchestra urlando:
“Lasciatemi ascoltare mio fratello! “.
Ed era duro il silenzio attorno a noi
e non rigato nel vetro azzurro.”
*
Cinque poeti che proclamano la «polivocità» della parola concentrando i concetti in immagini e le immagini in icone [molteplicità di interpretazione, abbandono dei referenti della metafora tradizionale, immagini in movimento, pluralità del tempo e degli spazi, metafore cinetiche, pluralità del senso, oggettività, intemporalità, de-soggettivazione]
(Gino Rago)
1 – Tomas Tranströmer
Silenzio
Passa oltre, sono sepolti…
Una nuvola scivola sul disco del sole.
La fame è un edificio elevato
che si sposta nella notte
nella camera da letto si apre la colonna
scura della tromba di un ascensore verso le viscere.
Fiori nel fosso. Fanfara e silenzio.
Passa oltre, sono sepolti…
Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero.
2 – Giorgio Linguaglossa
In Venedig
Il 24 aprile 1980
sono sceso alla stazione di Venezia.
In Venedig.
Festa di gondole sull’acqua. Canale di Cannaregio.
Lanterna gialla. Luna verde. Laguna.
Dame in maschera e crinoline.
Una bellissima Dama in maschera nera.
Una bellissima Dama in maschera bianca.
[…]
Notte. Pioggia. Nebbia. Ho aperto la finestra.
Stanza d’albergo di terza categoria.
Ponte dei Sospiri.
Laguna verdastra. Gondole nere.
Un tiretto con il bocchino di avorio.
Una teca di madreperla che reca un cammeo.
Un ventaglio dentro la cornice nera.
La fiala bombata del profumo semiaperta.
La toeletta con un vestito di seta azzurra.
[…]
Abitavo presso una stella sul canale nero.
Un sotoportego.
Una madamigella di Parigi
trasferitasi
in Venedig come dama di compagnia
del conte Almerighi
che poi fuggì a Vienna presso il suo non più giovane
e generoso amante…
[…]
Avenarius mi venne incontro, zoppicando,
sul Ponte dei Sospiri.
Teneva al guinzaglio orrendamente agghindati
un musicante da trivio e un pagliaccio rosso
che saltellavano tra i turisti. «Che vuole – mi sussurrò
all’orecchio – il Carnevale non si è ancora concluso».
Finita la tenzone, il musicante chiuse il violino nella custodia,
il pagliaccio si sedette al tavolino, e ordinarono
un Martini rosso con ghiaccio.
[…]
«Io e la stella ci siamo amati
– mi disse Avenarius – mio caro poeta.
Adesso siamo qui, io e lei, sul ponte.
Né di qua né di là. Un luogo neutrale.
Un luogo mentale.
E passeggiamo come manichini in un gineceo…
[io guardavo le sue scarpe di vernice made in Italy
e la sua farfallina gialla à pois]
Lei mi può capire, è così giovane!
Dopotutto, siamo ospiti del Signor Posterius, o meglio,
di un suo sogno…».
[…]
«La menzogna deve essere più logica della verità»,
mi disse Avenarius.
Il cameriere, intanto, tolse i bicchieri
e sparecchiò il tavolino.
“Che sgradevole ciarlatano!”, pensai
e scendemmo in un bar nel sotoportego a bere un’ombra.
E brindammo, allegri e festaioli.
Come un tempo.
3 – Charles Simic
Gli orologi dei morti
Una notte sono andato ad osservare l’azienda dell’orologio.
Aveva un forte ticchettio dopo mezzanotte
Come se ci fosse una paura insolita.
É come fischiettare superato un cimitero,
Ho chiarito.
In ogni caso, gli ho detto di aver capito.
Un tempo c’erano orologi di quel genere
In ogni cucina americana.
Ora la fabbrica ha tutte le finestre rotte.
I vecchi del turno di notte sono sulla barca di Caronte
Il giorno che ti fermi, ho detto all’orologio,
I piccoli ingranaggi che tengono di scorta
Saranno rotolati via
In qualche posto impossibile da ritrovare.
Pensando a questo, ho dimenticato di arieggiare.
Ci svegliammo al buio.
Quanto è quieta la città, ho detto.
Come gli orologi dei morti, ha risposto mia moglie.
La nonna al muro,
Ho sentito le nevi della tua infanzia
Cominciare a cadere.
4 – Ewa Lipska
Il mondo
A volte sei bello. Un vestito cosmico.
Un guardaroba celestiale di paesaggi.
Del tuo corpo si occupano gli eruditi.
Gli studiosi degli elementi.
Qualcuno prevede sempre la tua fine.
Non hai parenti stretti. A chi
lascerai tutto questo? Pianeti ficcanaso
forse ne avrebbero voglia.
Sei eterno? L’odore
della stagione morta lo nega.
La menzogna a volte ha ragione.
Ce la farò senza di te.
In fondo non mi hai promesso nulla.
Non so nemmeno
se è la storia che ha creato noi
o se noi abbiamo creato la storia.
Se siamo solo l’eco
di un cuore altrui.
5 – Rita Dove
da La scoperta del desiderio, Passigli, 2015 a cura di Federico Mazzocchi
Geometry
I prove a theorem and the house expands:
the windows jerk free to hover near the ceiling,
the ceiling floats away with a sigh.
As the walls clear themselves of everything
but transparency, the scent of carnations
leaves with them. I am out in the open
and above the windows have hinged into butterflies,
sunlight glinting where they’ve intersected.
They are going to some point true and unproven.
Geometria
Dimostro un teorema e la casa si espande:
le finestre in un balzo si librano sino al soffitto,
il soffitto con un sospiro va alla deriva.
Appena le pareti si sono spogliate di tutto
ma non della trasparenza, l’odore dei garofani
se ne va con loro. Io sono fuori, all’aperto,
e sopra di me le finestre si sono incardinate su farfalle,
dove si congiungono un raggio di sole riluce.
La loro meta è un punto vero e indimostrato.
Nota di Gino Rago
Tutto è partito da questi versi de La lugubre gondola (1996) di Tomas Tranströmer come incessantemente ha segnalato e ribadito L’Ombra delle Parole attraverso l’opera martellante del fondatore e coordinatore Giorgio Linguaglossa e dalla Redazione della stessa Rivista Letteratura Internazionale:
“Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero. ”
Giorgio Linguaglossa
La poesia della crisi, ebbene, quella crisi si è rivelata una autentica fortuna
caro Gino Rago,
è vero, quei due versi di Tomas Tranströmer che hanno cambiato il mondo, il mondo della poesia intendo, quelle righe de La lugubre gondola (1996) mentre le 17 poesie sono del 1954, del primo libro di Tranströmer, ma in Italia nessuno tradusse quelle poesie se non dopo quaranta anni, e la poesia italiana ha continuato a fare poesia dell’io, poesia ideologicamente orientata o inorientata, poesia di superfetazione letteraria o di giochi di prestigio verbali. Nella poesia che si è fatta in Italia dagli anni sessanta ad oggi la mancanza di principio è diventata una posizione di principio. La «nuova ontologia estetica» ha semplicemente preso atto dell’eclissi della poesia dell’io e ne ha tratto le conseguenze… La disseminazione che ne è scaturita è diventata una ricchezza imprevista, la distassia e la dismetria sono diventate una insperata risorsa e il linguaggio poetico si è rivitalizzato, di colpo. Quella che era la poesia in crisi, la poesia della crisi, ebbene, quella crisi si è rivelata una autentica fortuna. È paradossale, ma è stata la crisi della poesia che ha prodotto una nuova forma-poesia.
Qualunque sia la via prescelta dalla «nuova poesia»: sovrarazionalità, extrarazionalità o razionalità ultronea in senso stretto e largo, è che si è preso atto che la ragione è a malapena sufficiente a fondare l’auto organizzazione di se stessa. Il funzionamento della tecnica, il fatto che «la cosa funzioni», è un pensiero della communis opinio. Non c’è una razionalità originaria che funzioni da giustificazione per la techné, l’inconscio agisce seguendo le proprie leggi che non sono quelle dell’io né quelle di una presunta «giustificazione», vocabolo che l’inconscio non conosce. È avvenuto che sia la «nuova» filosofia che la «nuova» poesia sono rimaste prive di norme, prive di normatività, a diretto contatto con l’impensato e l’impensabile, di qui gli odierni indirizzi della filosofia debole e della rifondazione di una filosofia dei segni o di una nuova ontologia su basi parmenidee… Ma rimane il dato di fatto che la «nuova» poesia dell’inconscio le norme deve costruirsele da sola.
Ecco perché la poesia che va di moda oggi è quella proposizionale, assertoria, cioè fondata sul proposizionalismo, sull’ordine assertorio promulgato dall’io in quanto ogni proposizione si giustifica da sé, ha in sé una organizzazione perifrastica che corrisponde alla organizzazione dell’io giustificatorio. Si tratta di una poesia della giustificazione palesemente ideologica, della nuova ideologia che non vuole più mostrarsi come ideologia È una proposizionalità posta da quella istanza auto organizzatoria che va sotto il nome dell’io. Istanza posticcia ed effimera.
Lucio Mayoor Tosi
Quanto detto mette in crisi il simbolo e ciò che esso simbolizza. Gli esempi riportati da Gino Rago sono in questo senso assai significativi: il linguaggio resta incolpevole, onirico, astratto o figurativo che sia: il simbolico accidentale in qualche modo sostituisce il linguaggio lirico, mentre la perdita di ideologia rimette in discussione l’universale. La ruota della vita riprende a girare.
Giorgio Linguaglossa
Steven Grieco Rathgeb scrive:
«di tutti i particolari “inutili” e “ripetitivi” contenuti nella bozza o nelle bozze per il solo scopo di dirla compiuta. Essa conserva una molteplicità di collegamenti con i materiali inutilizzati, e sfrutta in modo esauriente quel potenziale per assurgere a struttura aperta; una composizione che, proprio per la sua incompiutezza, proprio per la sua stessa irrisolta complessità, invita il lettore a completare il processo creativo».
Penso che tutti quei materiali verbali «ripetitivi» siano tracce di voci che si sono dileguate o dileguantesi ma, appunto, in quanto dileguate ne restano le tracce, echi sonori di un tempo che fu. Il rapporto tra la voce e la scrittura, che è stato approfondito dalla filosofia contemporanea (Derrida, Heidegger, Carlo Sini, Rovatti…), trova in questa poesia una esemplare personificazione, quelle voci che si sospendono e si emulsionano le une con le altre, sono le voci che la poesia accoglie e registra come un calco sonoro di tracce. Penso che proprio qui risieda il fascino di questa poesia, nel fatto del silenzio che sopravviene quando una voce si dilegua. In un certo senso questa è una poesia fatta di silenzi, di strati tettonici di silenzi che recano il ricordo di tracce di quelle voci un tempo vive. Il registro visivo e spaziale della poesia è talmente vario che configura un altro elemento dell’emersione delle voci, voci che sembrano provenire da dentro, ma che in realtà erano un tempo lontanissimo venienti dal di fuori, e così il dentro e il fuori confluiscono in una mistura dentro-fuori e fuori-dentro, tra prossimità e lontananza, allontanamento e disallontanamento… La poesia oscilla, nuota in questa contraddittoria materia equorea di voci estintesi in tracce… ed è in questo orizzonte della metafisica che può prosperare il pensiero poetico di Grieco, entro il contesto di un registro simbolico fitto di voci, di echi, di orme, di rimandi, di tracce…
Grazie, Giorgio per aver ripresentato le mie poesie. Ho ritrovato la tua di sempre. Anche se è di parecchi anni fà riporta i tuoi temi che passano il tempo, si accosta a quella di Charles Simic, parla un linguaggio nuovo di immagini poetiche che si distaccano dal consueto, in cui la poesia si veste di grottesco senza distorcere il reale.
Lidia Are Caverni
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Gino Rago
9 poeti che nella fedeltà che hanno solo le ombre, fedelissime sono all’Ombra delle Parole.
Tra tensioni metafisico-esistenziali [a volte perfino tensioni mistiche] questi 9 poeti antologizzati organizzano la scrittura sulla cifra forma-poesia per la più alta resa estetica.
Differenti per storia, geografia, biografia, sensibilità linguistica e di stile, i 9 poeti tendono verso un’unica meta: avvicinarsi alla verità su se stessi e a quella sulle cose della vita, due aspetti o due facce della stessa verità che si incrociano in un solo punto, quell’unico punto in cui esiste [secondo Tomas Tranströmer] “la possibilità di vedere su se stessi.”
Lo fanno con la parola, ma nella consapevolezza comune che la strada non finisce mai perché l’orizzonte corre sempre in avanti.
(Gino Rago)
1- Edith Dzieduszycka
Lo specchio nello specchio
La luce venne accesa
Lo specchio nello specchio
ora si rifrangeva
Una frattura oscena lo deturpava
Rimanere nell’ombra avrebbe preferito
non gli fu data scelta
A piegarsi costretto
all’infinito
quella ferita avrebbe riflettuto
Altre facce
passando
di breve lampo accese
turbavano le acque prima d’allontanarsi
D’argento non brillava
lo stagno
ma di piombo
Scagliate da lontano
le pietre – arme improprie –
cadevano crudeli
con grida di dolore
Di sanare lo specchio
nessuno si curava
Le fratture – si sa –
sono pronte a scavare
nel letto addormentato
ferite più profonde.
2 – Alejandra Alfaro Alfieri
Paradigma dello Specchio
I passi.
L’uno è sospinto dall’altro, vanno così
insieme avanti
Secondo il calzolaio ogni suola porta uno specchio
Qui si riflette la propria vita.
Tutti lungo la strada si affacciano da un
lato diritto all’altro
Quello che rimane indietro fallisce
Te lo ricorda il monologo che parla dietro
la scarpa.
Non esiste un tempo che possa attendere
si va in scena senza paradiso.
Ma se soltanto mi fermassi giusto per
aggiustarmi?
Guarderei da vicino per poter capirne di più.
Da lontano uno specchio mi fissa, e si frantuma.
l’agonia domina le lacrime di cristallo, cadono in giù.
È’ arrivato il colpevole a riflettersi! – Si guardi
nello specchio rotto, la prego.
Fu il passo prematuro, ignoto e immaturo
– non sono stato io!
Passo di fretta ed è rimasta la ferita riflessa
sul petto del mio specchio.
Davanti alla salita il vecchio chiede di
sfuggire
a quel riflesso.
3 – Annalisa Comes
Specchio
Che rimandi oggi?
Chi rimandi a me?
In piedi, in punta di piedi
guardo, controllo, domando.
Niente da indossare per i giorni
di festa.
Nessuno spettacolo.
A nessuno il sorriso.
A nessuna – il testimone dell’alba e
della notte.
Specchio, curva, immagine e
fantasma.
4 – Anna Ventura
Le trine rosse
Io conosco gli odori delle erbe,
li avverto pure da lontano. Oggi
è il giorno della liquirizia: il mio cesto
è pieno delle sue radici. So fare
una marmellata d’uva
intrisa di liquirizia: me la chiedono
anche le pasticcerie.
Talvolta mi ricordo
della donna che sono stata,
negletta e grigia, addosso
solo palandrane scure. Ma dentro,
nella sottoveste,
c’erano le trine rosse. Perciò
mi sono fatta strega.
5 – Letizia Leone
Paradigma dello specchio
«Chi è la più bella?» e cade
dentro l’abisso piatto della faccia .
Buco col trucco. Oggetto che non è più specchio
ma lago malfamato, lucernaio, nera lucerna.
Si vede al rovescio la matrigna
Fanciulla nascosta nel futuro
Dalla cordigliera del corpo sotto il livello del tempo.
Lo Specchio è un oratorio. «Bella, veramente bella…».
Specchio dei viventi o Specchio delle brame?
Delle nostre voci riempimmo anche i sassi.
6 – Donatella Costantina Giancaspero
Ripieghiamo in direzione del bar
Ripieghiamo in direzione del bar, sul margine di un autunno.
Le suole obbediscono al selciato, che marcisce tra piovaschi
e smottamenti di luce tra le crepe.
Da un isolato all’altro, i passanti inoltrano il crepuscolo
verso l’inverno.
Camminano con noi fino alla meta. Poi,
li lasciamo andare.
Lasciamo anche il rifugio delle tasche,
in quell’istante che apre la porta agli specchi
e agli occhi rievocativi.
Stanno in silenzio sul bancone – davanti, il caffè che mi offri –,
senza risposta alla domanda «quanto zucchero?».
Sai, delle piccole cose non sono più tanto sicura, ormai:
vado un po’ per tentativi…
Un sorriso opaco, di rimando, dalla lastra dietro il bancone.
E il sorso pieno col retrogusto dell’inettitudine.
Nel fondo, resta il dubbio.
(inedito)
7 – Lidia Popa
Non sono una mosca
Le mosche verde brillante
sono dovunque opportuniste per scelta.
Annusano la miseria umana da lontano.
Si prendono di mira l’obiettivo prefissato.
Spronando dei cavalli purosangue,
impazienti si collocano nello spazio
attirando con destrezza l’attenzione,
con punti di vista leggeri e formali.
Senza argomenti eternamente validi,
puntano per fare del male al prossimo,
infettando di siero ogni posto pulito.
Impara ad essere paziente
ed avrai il cielo ai tuoi piedi.
Non sono una mosca.
8 – Mariella Colonna
Foglia e farfalla
Trascini le rosse ali fino a terra
la pozzanghera celebra la tua morte-nascita riflettendo il cielo
in una foto d’epoca.
Ah, Belle Epoque de la feuille d’antan,
reverie des poètes, la plus semblable a la mort
et a la nouvelle vie de l’Art!
Il cielo si riflette sulla foglia per terra,
è indignata la luna chissà perché, don Felipe
se inunda de paz blasfema
chupa de su cigarro de cinco céntimos
su vida de una muerte ingloriosa.
A las cinco en punto de la tarde russian lullaby para Ignacio
y al Nino Jesùs, Ninna nanna in italiano,
Ninna nanna dal Cremlino perché non pianga più.
Duerme Nino que tu madre nunca te dejarà, duerme Nino
que la luna ya te inunda de paz.
Dormi dormi Bimbo bello,
chiudi gli occhi, non vedere
com’è diventato il mondo!
La neve, appena scesa
dalla rosa bianca
numinosa, del giardino ove sei nato
garofano del cielo…
Dormi, sogna che una foglia
del tramontodoro basta per consolare
in te tutto il Creato.
Ella non sa mentire, trascina le ali
fino a terra dove la pioggia celebra la sua Morte
con la Messa da Requiem di Verdi.
Così la Morte è bella ed è uguale per tutti alla Vita,
è libera, ci libera.
Herr Cogito, confessa i tuoi limiti:
non sei capace di evocare la Primavera universale!
Meglio il Signor Nemo,
dicono che abbia creato l’Universo…
Se è vero, Nemo non è chi dice di essere!
Alleluia!*
*[poesia in corso di stampa nel volume Il Fantasma di Lacan, Progetto Cultura, collana Il dado e la Clessidra]
9 – Maria Rosaria Madonna
Un narciso si guardava allo specchio
Il merlo gracchiò sul frontone d’un tempio pagano
il mare sciabordando entrò nel peristilio spumoso
e le voci fluirono nella carta assorbente
d’una acquaforte. E lì rimasero incastonate.
Due monete d’oro brillavano sul mosaico del pavimento
dove un narciso guardava nello specchio
d’un pozzo la propria immagine riflessa e un satiro
danzante muoveva il nitore degli arabeschi
e degli intarsi.
—————————————————
GR
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Grazie Giorgio Linguaglossa. Grazie Gino Rago.
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Gino Rago
Otto poeti verso la poesia della meditazione attiva [ fra modernismo, postmodernismo, misticismo e metafora che sana i contrasti nella fusione fra l’essere e la sua immagine]
1 – Sabino Caronia
Il girasole
È finita la messa. Sull’altare,
presso la bara, ancora gli onorati
nuovi credenti stanno a discettare
tra inutili ricordi e versi ornati.
“I fucili battevano alle porte”,
ripeteva il poeta, e così sia,
ma, dopo tanto male e tanta morte,
forse è barbarie pure la poesia.
“No, no che la poesia non è occasione”,
biascico amaro, ed esco dal portone.
Nel mattino piovorno ed incolore,
grigio avamposto dell’aridità,
Plinio accende, sul nero del dolore
le trombe d’oro e la solarità.
2 – Silvana Baroni
Persa e ritrovata
Semplice, più che semplice
si tratta di allontanarsi e tornare
che non è altro che attraversare – di questo si tratta.
Sul bordo dello specchio schivo il taglio
un colpo di reni e libera! carne igienica finalmente!
Così da non rispondere all’insistente centralino
e smetterla d’appassire nella solita poltrona
a dire al gatto che il filosofo è un disperato assassino
d’omicidi ininterrotti.
Oh vitreo viso! Alveo di buio da cui risorgere!
Certo che mi vedo! Ho la faccia dei miei morti
sono il sosia d’una comunità di conclusi.
Eppure esito, che il sentimento è un lusso
preferisco negarmi, farmi vedova d’oscura innocenza
tornare all’immagine sbaciucchiata, persa
e ritrovata da labbra settembrine
che nel fascio di luce dello specchio ancora son gesti
a garanzia d’accoglienza, giusto il tempo
di stringermi ad ogni loro dettaglio.
Scivolo nei bulbi, attraverso il diametro delle sfere
mi perdo nel tempo perso dalla luna, nel riflesso di lei
che ancora vuole che io sia.
3 – Guido Galdini
Specchio
è uno specchio per le allodole
o sono allodole per lo specchio
o le allodole sono lo specchio?
4- Francesco Lorusso
Il secchio e lo specchio
E non sapremo mai fino dove
noi due fummo in fine sospinti
quali occhi adesso ci separano
e se giacciono il resto delle ombre
alla resa alta della pietra muraria
dove Marte ci pose in campo
un gioco a scambio traguardato
o la nostra porta tutt’ora persa
aperta nel mattino o nello specchio
del presente che oramai ci divide
5 – Mauro Pierno
“E mettece duie pastore ncoppa, come vanno vanno”
Si è fatta polvere
anche la nostra verità
fastidiosa tra noi
ed impalpabile. Una costante
di punti, inafferrabile,
il tempo univoco dell’inesistenza.
Abbiamo mani e piedi
di un mammifero errante,
la blasfemia dell’informatico.
Proteggici ovunque.
6 – Alfonso Cataldi
Chi sa
Il faro è sempre stato lì naturalmente
sotto il tunnel lavico più adatto all’ipotesi marziana.
Nel gruppo degli acquerellisti, l’admin ha messo in palio un premio.
Vince chi lo trova
impenitente
nella mareggiata.
Il maggiordomo ha stretto un patto di non belligeranza
con gli accadimenti delle stanze riservate.
Preserva la tenuta dai fraintendimenti della storia.
Wimbledon ‘80.
L’enorme quantità di ghiaccio non cede ai colpi di mortaio.
Le pause sono sorsi d’acqua che colmano la fine.
Game. Set. Partita.
Dispensa molecole ordinarie
di comprensione per l’attesa, un mantice
affidato
alla dipartita
dei quattro monoliti neri.
7 -Carlo Livia
GIARDINO
[per Giorgio Linguaglossa]
Il sogno verde spoglia il pallore delle sovrane dalle calze di vento.
L’angelo si spegne nella scultura triste, perché la luce è piena di nottambuli in delirio.
Il corpo dimentica il desiderio celeste, che scompare lasciando un’aureola di lacrime sul letto vuoto della musica.
La chitarra in gabbia sogna uno sposalizio di macchine d’alabastro, che l’ira del nume decompone in mille precipizi morbidi.
I violini sepolti nello sguardo delle venditrici di vento diffondono la malattia del Paradiso, bruciare oceani e cospargere di cenere le nudità orientali.
Cumuli di peccati impediscono l’entrata della Dea, il vero addio appare, ma solo nel pianto della fanciulla crocifissa.
La reggia è morta: le anime in calore attendono invano.
La santità delle nubi si abbevera ad una pozza di violino.
La brezza addormentata sul ramo invoca la nudità della pioggia imminente.
Le foglie morte sognano le fontane senz’acqua della luna, dove illividisce lo sguardo dei risorti.
L’aria si sdraia nella follia celeste, indossando pallidi guanti di musica
In fondo allo specchio si accoppiano due eternità capovolte, e nasce il sogno sterminatore:
tu mi lascerai, amore mio.
8 -Laura Canciani
Le rose miracolose di Labers
I rosai erano due: quello
di sopra e quello di sotto.
Il tronco robusto di radici profonde.
Boccioli rosaviola spuntavano fitti fitti e forti.
Aperte, le rose erano nuvola profumata di cielo
sulla terra.
A maggio, in cerchio dolce e importante
attorno ai rosai, il rosario saliva saliva
festoso
sino a intravvedere un “Tu” creatore
riflesso anche sul volto della mamma.
La voce di mia madre fluiva in viola:
«saprete e capirete e ringrazierete
per non aver potuto giungere
al peso della vita
al fiore di lusso infingardo
alle ferite nostre
chiamate umano amore».
I rosai si sono consumati. Ci è
dato avanzare
ricchi di vento viola, generosi di libertà,
amati di immeritato amore.
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Tre poesie di Kikuo Takano con un mio Commento e una Intervista a Renato Minore
Commento di Giorgio Linguaglossa
«Scrivere poesie vuol dire innanzitutto soffermarci con uno stupore profondamente fresco di fronte a ciò che esiste. Accettare insieme la molteplicità e la continuità degli esseri. Fissare su di loro lo sguardo fino a quando svaniscono. La poesia è per me l’unica via per incontrare il senso e la bellezza misteriosa dei legami tra gli esseri. Siamo radicati nelle parole e siamo sulla terra per custodirle». E ancora: «Sulla terra, quello che non siamo riusciti a sciogliere e a congiungere, viene di giorno in giorno accumulato e gettato. Per capire il senso di questa Terra, che per noi è unica, dobbiamo anzitutto interrogare il senso fondamentale del nostro essere e del nostro nascere».
Parole di Kikuo Takano che rivelano un poeta che procede per interrogazione delle cose, dalle più umili alle più complesse, una continua interrogazione sui misteri che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi.
La poesia di Kikuo Takano è simile a una pittografia, e come la pittografia è silenziosa. Nella sua poesia un grande ruolo è rivestito dal silenzio, un silenzio che proviene da lontano, dalla liberazione dall’egoità, dalla distanza dell’essere dall’io, dalla distanza dell’io dalle cose, dalla distanza tra io ed io. Takano amava ripetere l’assioma di Heiddegger «pensare sull’essere è scrivere poesie», infatti, non è un caso che la musa di Takano parta dalla auscultazione dell’essere dell’ente uomo, e non è un caso nemmeno che il poeta giapponese se ne sia stato per venti anni in silenzio, negli anni Sessanta e Settanta quando qui da noi in Europa imperversava la moda dello sperimentalismo. L’invasione delle parole superflue dello sperimentalismo lo aveva reso muto.
Crollata quella moda, Takano ha ripreso a scrivere poesie. Una poesia che proviene dal Vuoto e dal Silenzio. Takano nomina sempre direttamente la «cosa», l’esperienza che proviene o dal passato remoto o dal presente, perché il tempo cronometrico per lui è una convenzione buona per regolare la vita degli esseri umani. I suoi temi sono il suo tempo. I suoi temi sono presto detti: un burattino che agita le braccia, «un pazzo di mezza età», un giocattolo sventrato, un ferro ricurvo, un aquilone spezzato, la solitudine del cigno, le mani, una bambina morta che ritorna nel sogno, i bambini che salutano da un torpedone agitando le mani, etc., quanto di più prosaico e quotidiano vi possa essere, ma quello che fa la differenza è il trattamento degli oggetti e dei personaggi, un trattamento diretto che ricorda le linee dei maestri zen, un tracciare con dei gesti precisi e improvvisi delle linee sulla carta. Linee significative, piene di senso, ancorché di un senso povero e tribolato, che coglie di sorpresa il lettore. E poi, il dolore, anche il dolore è come circonfuso dalla prosaicità e dalla facilità con cui avviene, in modo inconsapevole, improvviso, senza ragione. Ma è dall’esperienza del dolore, dall’esperienza del vuoto, dall’esperienza della seconda guerra mondiale e della successiva società di massa del Giappone moderno, che proviene questa poesia così flebile e fragile, ancorché temprata nel tempo e nel dolore.
Forse, ad un lettore di oggi la poesia di Takano potrà sembrare fuori moda o fuori tempo o fuori degli schemi, ma è il tempo e la moda ad essere fuori dal mondo, non certo la poesia di Takano.
Intervista a Kikuo Takano di Renato Minore
Takano, nella sua poesia risuona quella schiettezza lucida e distaccata che si legge nei versi di Eliot: un suo maestro?
«Sì, lo considero un maestro della mia poesia. Ho letto le sue poesie tradotte in giapponese, La terra desolata e I quattro quartetti. Soprattutto questi ultimi mi hanno dato una profonda emozione. Ricordo ancora i quattro versi del Little Godding: “Mai cesseremo di esplorare/ e alla fine dell’intera esplorazione/ arriveremo dove siamo partiti/ e conosceremo per la prima volta quel luogo”».
Quanto ha influito la tradizione Zen nel suo lavoro?
«Da noi si dice che ci siano una trentina di modi per definire lo Zen. Io penso che lo Zen sia una modalità di attesa molto fervida per rinunziare a se stessi. Quando viene annullato l’ego, il vuoto è riempito dalla saggezza di Buddha. Mi ha sempre affascinato la parola di un maestro: “Se batto le mani giunte, emettono suono. Da quale mano è prodotto questo suono e quale produrrà quello generato da una sola mano?”».
E le letture di Heidegger e Montale?
«Per quanto riguarda Heidegger, mi ha sempre emozionato il modo con cui egli tentava di dirci, senza scegliere, il silenzio sulle cose inesprimibili. Ho avuto la spinta dalla sua parola “pensare sull’essere è scrivere poesie”. Di Montale vorrei ricordare, Crisalide. Il poeta parla del tempo doloroso della crisalide avvizzita. In realtà è essenziale il tempo in cui scorre la vita, i giorni in cui la vita muta. Sembra di sentire in questi versi come un’eco: continuiamo a porci la domanda sul nostro “dove anche se ci troviamo immersi nel dolore più profondo”».
La musica è stata una componente importante del suo lavoro. Quanto e in che misura ha influito sulla sua poesia?
«Per Valéry “la poesia dovrebbe aspirare allo stato della musica”. Nel mio caso non è stato così. Tra chi amava la mia poesia c’erano musicisti che hanno composto musica vocale e corale con i miei versi. La musica mi ha dato le ali invisibili che mi hanno permesso di volare, confortandomi con dolcezza in un difficile momento quando non potevo andare avanti con le parole».
Lei ha adottato il verso libero, abbandonando gli schemi tradizionali, haiku e tanka. Si è sentito iconoclasta, antitradizionalista? Quanto deve alla cultura occidentale questa sua scelta?
«Amo i versi come quelli dell’ Imperatore Sutodu e di Matsuo Bashò quando scrive “Silenzio alto /frinire di cicale/ penetrale rocce”. Tuttavia non mi sono mai avvicinato consa-pevolemente alla poesia in schemi fissi come lo haiku e il tanka. Ho iniziato con la massima naturalezza a scrivere poesie con il verso libero. Era un inevitabile atto espressivo per sopportare la realtà così dolorosa da affrontare dopo la seconda guerra mondiale. Sembrava che soltanto il vuoto tra i frantumi del senso perduto potesse essere accettato con tenerezza nella mia poesia. Poi lo ho abbandonato per scrivere poesie dove più forte è il senso di ricerca sull’essere. Era passato del resto poco meno di mezzo secolo da quando nel 1945 furono tradotte in Giappone le poesie occidentali di ventinove poeti, da Dante a d’Annunzio. Noi giovani siamo corsi dietro ad ogni giardino di poesia europea per cogliere fiori di grande fragranza esotica».
Takano ha lasciato il Giappone di recente: mi incuriosisce la tensione che la lega ai luoghi nati.
«La piccola isola dell’Estremo Oriente dove sono nato è una regione lontana dalla cultura e dall’arte. E anche la mia patria non è più quella di cui uno possa vantarsi. E’ il motivo per cui noi giapponesi sogniamo l’Italia, venendo in Italia. Sentiamo l’anima degli uomini che hanno compiuto il glorioso Rinascimento e continuano a farlo vivere tuttora magnificamente. C’è qui una patria di cui l’uomo può essere fiero. Io poi sono molto attratto da Vattimo, il teorico del pensiero debole. Ponendo l’attenzione sul concetto di “kenosis” egli considera ideale il modello della “debolezza”. Per lui il nucleo del pensiero cristiano è quello in cui la presenza di Dio non è stata integralmente messa dinanzi ai nostri occhi. E insiste sul fatto che si debba sviluppare il pensiero conforme alla debolezza, invece che vincere la debolezza».
Qualcuno ha scritto che lei riesce a far sembrare familiare una realtà così lontana e così diversa dalla nostra come quella giapponese. Ma è davvero così distante?
«Quando il mio traduttore Paolo Lagazzi ha visitato Tokyo ha detto: “E’ una piccola New York!”. Ahimé, il Giappone è ormai diventato una piccola America nella confusione e nella superficialità. La bomba atomica non ha distrutto solo Hiroshima e Nagasaki, ma ha distrutto l’anima del Giappone. Qui l’uomo comincia a distruggere se stesso, addirittura rischia di sparire».
Si parla di crescente Asian Power, una sorta di riscossa (economica e sociale) del vostro mondo nei confronti dello strapotere americano. Come considera questa tendenza?
«Quando ci penso, mi viene un’ansia profonda per la realtà in cui si sta incorporando il sistema strategico mondiale sullo sfondo di una grossa potenza militare-economica. Su questa strada il nostro secolo fallisce l’obbiettivo principale, quello per cui l’uomo ritrova l’uomo e approda alla vera causa di rappacificazione. Per svegliare la nostra coesistenza vorrei che questo secolo fosse chiamato “il nuovo secolo rinascimentale”.»
C’è un ruolo del poeta nel mondo di oggi che sembra sempre più lontano dall”‘ascolto” della poesia?
«Ha scritto Patrizia Cavalli: “qualcuno ha detto/ che certo le mie poesie/ non cambieranno il mondo/ Io rispondo che certo sì/ le mie poesie non cambieranno il mondo”. La poesia è sicuramente impotente a cambiare il mondo. Ma non dovrebbe perdere la domanda essenziale, chi siamo e chi dobbiamo essere nel mondo. Se la poesia è lontana dall’ascolto forse è perché troppo spesso è diventata un semplice rumore. Il ruolo del poeta nel mondo è in se stesso, nella domanda severa e autentica: “perché scrivo poesia?”.
E infine, che rapporto ha Takano con i mezzi di comunicazione di massa?
«Io non ho alcun rapporto. Ma credo che ciò che protegge la cultura di alta qualità e la consegna al mondo senza errore è proprio un lavoro altamente qualificato, si potrebbe dire coscienzioso, dei mezzi di comunicazione di massa, quando però questi superano la barriera dell’affarismo e dell’opportunismo».
Il treno
Mi capita talora di prendere un treno
e di andare volentieri verso un luogo
del tutto sconosciuto,
e lì capita che bambini senza nome
in fila sull’argine ignoto, ci salutano,
sventolano le mani senza che nessuno risponda
al saluto subito dimenticato.
Ed io penso:
«Ma le mani non dimenticano».
Non dimenticano quelle mani di essere mani,
e dunque parto ancora una volta,
voglio ancora incontrarle
con le guance rosse per la mia età.
Ma cosa è questa mano?
Compro il biglietto con questa mano misteriosa.
e cosa è quella mano?
Corro a scovare quelle mani misteriose
per avere certezza di incontrare ogni altra mano
e di vergognarmi di queste mie mani.
Burattino
Nulla può il burattino, che pure è mosso da fili;
nulla può perché non saprà mai reciderli,
e può soltanto, mosso dalla disperazione,
abbrancare l’aria con inutili piroette.
Cielo
In quel tempo non mi chiedevo ancora
il senso del cielo e della terra
e avevo mani e piedi imbrattati di fango.
In quel tempo
felice era la mia parola,
felice ero come quando la luce incontra l’acqua
e il cielo incontra la terra.
felice ero come le foglie.
Anche la mia cima d’albero
si prolungava in cielo
e la mia radice era dentro il cuore della terra.
Cresci, allungati.
Felice era la mia parola, ora infelice,
perché quella stessa mia parola,
sbagliando, chiede senso
e si interroga sul senso ultimo
e sull’opera di Dio.
La mia parola somiglia al dolore
come le foglie in attesa dell’inverno,
stormiscono già condannate
e non così sagge da cadere a terra.
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UN BEL TONNO
Un bel tonno
per essere scossi
da quell’insopprimibile argento del pesce
sbattuto sui fogli del giornale
giornale morto per i pesci
Un bel tonno
che sarebbe bastato per un po’ di tempo
che un’altra volta
avessimo sentito freddo ai polsi
riguardo al pesante argento del mondo
portarlo lungo
le schiene ripide
dei palazzi delle banche
e poi a casa aprire il giornale insieme
i brutti ceffi pre-elettorali macchiati di pesce
danno l’impressione di essere ancora più birbanti
un grande corpo sull”‘asciutto del giornale
sull’asciutto del tavolo
Un bel tonno
per increspate
i logori volante del silenzio domestico
per ricordarsi ad un tratto
tutto quello che
volevamo qui
Petr Hruska, Darmata (2012).
Questa poesia, scelta quasi a caso, per ringraziare Gino Rago, per avermi inserito, in ottima compagnia, all’interno di questa mini antologia.
Un grazie anche a Giorgio Linguaglossa che per primo mi ha dedicato del suo tempo.
Un saluto a Tutti dell’Ombra.
Francesco Lorusso
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Grazie per l’attenzione, caro Gino.
Sono stato piacevolmente colpito dal testo di Rita Dove, dal suo codice misterioso, metamorfico, spalancato su una vertigine di risonanze, che si coagulano alla fine come su un ultimo orizzonte, che appare in un lampo e si dissolve per sempre. Un esempio perfetto di poesia come “infinita incertezza fra senso e musica” ( Valéry ).
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Sostiene acutamente Giorgio Linguaglossa nelle sue riflessioni sul fare poetico di Kikuo Takano che la sua poesia viene dal Vuoto e dal Silenzio … e dal dolore [la bomba su Hiroshima non l’ha mai dimenticata, lo stesso Takano in una delle risposte a Renato Minore lo conferma: “la bomba atomica non ha distrutto soltanto Nagasaki e Hiroshima ma ha distrutto l’anima del giappone].
La delicatezza dei versi di Takano, che Giorgio bene ha fatto oggi a riproporre, non mi era sfuggita ed è stato il primo dei poeti che ho pensato di antologizzare nel suo confrontarsi con il paradigma poetico dello specchio, accanto ad altre voci [comprese quelle di Carlo Livia e Francesco Lorusso] di indiscutibile valore poetico, secondo il mio gusto estetico.
Kikuo Takano
Chiunque si specchia
“Che oggetto triste
hanno inventato gli uomini.
Chiunque si specchia
sta di fronte a se stesso
e chi pone la domanda
è al tempo stesso l’interrogato.
Per entrare più a fondo
l’uomo deve fare il contrario,
allontanarsi.”
————————
GR
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D’accordo con Edith Dzieduszycka, dopo un serrato confronto per via epistolare, ripropongo la sua poesia ‘Lo specchio nello specchio’ in terzine, anziché come ho fatto in precedenza in distici. La resa estetica del testo ci guadagna.
(GR)
Edith Dzieduszycka
Lo specchio nello specchio
La luce venne accesa
Lo specchio nello specchio
ora si rifrangeva
Una frattura oscena lo deturpava
Rimanere nell’ombra avrebbe preferito
non gli fu data scelta
A piegarsi costretto
all’infinito
quella ferita avrebbe riflettuto
Altre facce passando
di breve lampo accese
turbavano le acque prima d’allontanarsi
D’argento non brillava
lo stagno
ma di piombo
Scagliate da lontano
le pietre – arme improprie –
cadevano crudeli con grida di dolore
Di sanare lo specchio
nessuno si curava
Le fratture – si sa –
sono pronte a scavare
nel letto addormentato
ferite più profonde.
————————————-
gr
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1 poeta, per la riconoscenza:
Gino Rago
Della notte che si fa giorno
nell’impiego di un verso contro l’altro,
la regola aurea che sottende
allo spegnimento della polvere
nell’ammicamento misero della sostanza.
Eppure questo vuoto ci dipinge
nel soffitto identico di un informe cielo
E si staccava l’ombra e poi pioveva.
Grazie, OMBRA
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Poesia in distici verso la meditazione attiva
[ai poeti de L’ombra e a Mauro Pierno, a Francesco Lorusso, a Carlo Livia in particolare]
1 – Rita Dove
Geometry
I prove a theorem and the house expands:
the windows jerk free to hover near the ceiling,
the ceiling floats away with a sigh.
As the walls clear themselves of everything
but transparency, the scent of carnations
leaves with them. I am out in the open
and above the windows have hinged into butterflies,
sunlight glinting where they’ve intersected.
They are going to some point true and unproven.
Geometria
Dimostro un teorema e la casa si espande:
le finestre in un balzo si librano sino al soffitto,
il soffitto con un sospiro va alla deriva.
Appena le pareti si sono spogliate di tutto
ma non della trasparenza, l’odore dei garofani
se ne va con loro. Io sono fuori, all’aperto,
e sopra di me le finestre si sono incardinate su farfalle,
dove si congiungono un raggio di sole riluce.
La loro meta è un punto vero e indimostrato.
[da La scoperta del desiderio,
Passigli, 2015 a cura di Federico Mazzocchi]
da un botta e risposta con M.me Hanska di Giorgio Linguaglossa
2 – Gino Rago
Agenzia di viaggi
“Cara M.me Hanska, lasci in pace il poeta delle ombre,
Herr Cogito, i gerani, la veranda, il giardino,
la copia della Gioconda, il lillà
e la Sua stanza ammobiliata possono aspettare,
abbiamo altro da fare, per esempio
ascoltare il canto degli uccelli
o il ronzio della Storia
nei bassifondi
ma la gioventù negli ori della Grecia e di Troia
e quelle teste calde di Achille, Ettore e Patroclo
smettessero per un pò di fare baccano,
coprono il canto delle allodole di tutto l’Occidente
[ anche gli dèi imparino a tenere il becco chiuso,
sono sull’Olimpo grazie alla poesia].
Lo specchio alla donna che si ammira:
« Sul soprabito manca ancora il bottone,
le bombe non cadono più su Belgrado,
chiusa per sempre l’agenzia di viaggi di Hitler e Stalin
[troppi biglietti di sola andata,
pochissimi quelli di andata e ritorno]».
Cara M.me Hanska, dalla stanza dell’insonnia sulla macelleria
il poeta vede ciò che il filosofo pensa.”
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LA PAROLA DEL FIUME
Dolcezza delle parole
rimescolate in mulinelli,
confluenti nel fiume che non divide la foresta,
punto di riferimento umano.
Fresco sollievo all’animo riarso
che si oppone all’affilata ascia,
generatrice di nefaste profezie.
Topi s’intrufolano nel cibo della ragione,
inseguitori nell’ombra.
Spie pronte a mordere
affette da sindrome del potere.
Ma il fiume non si arresta,
poderoso scinde il corso ad argini posti
per poi ricomporre la parola.
Nunzia d’affetto
anche nello scolpito destino.
Straripando nel mare che attende,
verso l’inondato orizzonte.
Nulla è inutile,
la parola d’amore non cade in bui abissi.
Sostiene il coraggio,
anche nell’infausta sorte.
In solitudine vive chi vuol prosciugare il fiume.
Con un semplice bicchiere di carta.
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Pier Aldo Rovatti
«L’uomo, ha detto una volta Nietzsche, rotola via dal centro verso la X. Si allontana dal proprio luogo certo, verso un luogo incerto, un’incognita. Possiamo tentare di indicare, descrivere, raccontare questa incognita? […] È ipotizzabile una logica del decentramento del soggetto che riesca a descrivere, nel medesimo tempo, che cosa accade all’uomo quando si allontana dal suo centro e quale è il terreno, che innanzitutto occorre riconoscere, sul quale un nuovo “senso” può prodursi? Intanto: che altro è la perdita del centro se non la dichiarazione, la sanzione che il pensiero “forte” è ormai insostenibile? La situazione tipica del pensiero “forte” è infatti quella in cui pensante e pensato, chi pensa e cosa si pensa sono solidali: si tengono in una stretta, in una corrispondenza speculare. La situazione che Nietzsche vede è caratterizzata, invece, dalla possibilità del perdersi: l’uomo è giunto dinanzi a un limite, un passo oltre e potrà sprofondare, perdersi completamente. Il luogo in cui il senso potrà riattivarsi è avvistabile solo di qui, drammaticamente. È un luogo possibile? […] In Umano, troppo umano leggiamo di un “impavido spaziare al di sopra degli uomini, dei costumi, delle leggi e delle originarie valutazioni delle cose”. Un libero spaziare? Nietzsche riprenderà e correggerà continuamente questa idea di “leggerezza” e di “libertà”: l’abisso trascina in basso e la spirale della necessità continua ad annodarsi. Non è possibile librarsi in volo e liberamente spaziare come un uccello nell’aria: forse l’unica alternativa è imparare a strisciare imitando il serpente, poiché solo aderendo alla terra avremo una possibilità di sollevarci sopra di essa.
In conclusione di un suo notissimo frammento postumo (giugno 1887) Nietzsche tenta di suggerire un’immagine dell’ “oltreuomo” e si chiede: “Quali uomini si riveleranno allora i più forti?” E risponde: “I più moderati, quelli che non hanno bisogno di principi di fede estrema, quelli che non solo ammettono, ma anche amano una buona parte di caso, di assurdità, quelli che sanno pensare, riguardo all’uomo, con una notevole riduzione del suo valore senza diventare perciò piccoli e deboli […].
L’uomo è ormai abbastanza forte per apparire debole. Un paradosso? In ogni caso per Nietzsche ciò ha un significato profondo: lo “spaziare” (o lo “starsene fuori”) non può equivalere a una realizzazione compiuta e positiva collegata all’acquisizione storica di una forza, al compimento di un percorso umano, fino al punto in cui il “portar pesi” si trasforma in un “esser potenti”. […] Vi è un cammino difficile dentro il nichilismo, in cui l’uomo acquisisce la capacità di abbandonare le proprie catene. Nietzsche suggerisce che non si tratta di un indietreggiare, bensì di realizzare una potenzialità grazie alla forza che deriva proprio dall’abitare storicamente il nichilismo. Nietzsche, però, sa anche che questa forza è una capacità autodistruttiva, un rischio abissale che l’uomo avvicina a sé. […] L’immagine è quella di una situazione di equilibrio instabile su una piccola superficie d’appoggio. […] Come può una simile precarietà essere la massima forza?
Vi è una necessità che appesantisce, una forza che grava, il tornare pesante delle cose, un circolo che incatena così come ci bloccano i valori superiori, le categorie “vere” della filosofia, il fine ultimo, l’unità delle cose, il loro essere. Ma il movimento che ci incatena è duplicato da un movimento che allenta. Cosa è l’eterno ritorno se non una “diversa” necessità? […] Se la si allontana, la necessità appare pesante, ferrea. Se la si lavora all’interno, allora il nulla che siamo non è poi così terribile. La ruota del destino seguita a girare: possiamo guardarla da fuori o saltarci dentro. Possiamo arrenderci all’orrida casualità o scoprire il gioco del caso: è una scelta. Se avremo la forza per farla, scopriremo l’affermatività della debolezza. Il gioco del caso, come il gioco del fanciullo in riva al mare, è una fluttuazione, un lasciarsi prendere. Ma non è un dipendere, un essere passivi, pazienti: la necessità ha perso il suo ringhio. Caso e necessità si coniugano in due modi che sono due stili di vita. Orrida casualità e necessità che appesantisce. Necessità che alleggerisce e gioco del caso.
Il riso di Zarathustra è misterioso: né di gioia, né di dolore, forse di stupefazione».
Giorgio Linguaglossa
L’evento del linguaggio nella poesia di Anna Ventura, accade, non c’è nessuna «cosa» che sta «oltre», «dopo» il linguaggio. L’atto di imperio più ignominioso è quello del poeta «Nerone» nella poesia eponima, colui che crede che si possa allettare il linguaggio con la musica della cetra mentre Roma prende fuoco, è pensare che la frase possa «toccare» la cosa, possa corteggiarla in una danza apotropaica e lussureggiante; e invece la cosa si ritrae dal linguaggio ogni volta che poniamo in essere l’allestimento scenico della danza apotropaica, del corteggiamento verso la cosa. E allora la scelta giusta da fare è porre una distanza tra noi e la cosa, tra il linguaggio e la cosa, e apprendere ad abitare in questa distanza senza l’arbitrio e la tracotanza di volerla eludere o accorciare, come se la distanza fosse un pezzo di stoffa che possiamo tagliare a piacimento. L’evento del linguaggio accade sempre nella distanza, ed in essa si spegne. Il linguaggio non ha un essere, il linguaggio è nell’esistenza viva dell’essente, è il ponte sopra il quale può passeggiare l’essere, il ponte che simboleggia la distanza, sempre la distanza tra noi e le cose. Il linguaggio poetico di Anna Ventura richiama la distanza, rinuncia a violare l’intimità della cosa e delle cose, rinuncia ad «avvolgere» la cosa e le cose, ad «entrare dentro le cose», non sobilla le cose, non le vuole provocare ad allontanarsi, a sottrarsi, vuole soltanto coabitare con esse cose, trovare la giusta misura della distanza e del ritorno a casa, alla patria dell’essere che è il linguaggio poetico.
Il linguaggio poetico di Anna Ventura abita da sempre il registro simbolico, lo dà per scontato, sa che non c’è, oltre la storia, nulla che brilli come un topazio per le verità sue proprie, perché anche la verità è diventata precaria, e anche la libertà degli uomini.
Ogni linguaggio poetico ha una propria Grundstimmung (tonalità emotiva dominante).
Ogni poesia ha una propria tonalità e ogni abitante nel nostro mondo ha un proprio modo di sperimentare la propria estraneità a noi stessi e ogni poeta espropria questa estraneità per trasferirla nel linguaggio poetico. Si tratta di un esproprio dunque, e non di una riappropriazione di alcunché. Il linguaggio poetico è lo specchio che ci mostra il vero volto della nostra estraneità a noi stessi, lì non è più possibile mentire e non è più possibile dire la «verità». Forse, in questa antinomia viene ad evidenza la scaturigine profonda della metafora silente: l’impossibilità di dire la «verità». Nella metafora silente si ha l’ammutinamento di tutte le metafore e la silenzializzazione di esse, viene ad esistenza linguistica il silenziatore della verità e della menzogna, l’essere la metafora silente e le metafore tutte, fumo linguistico, un segnale di fumo e nient’altro. Il nostro «abitare spaesante» il linguaggio è la precondizione affinché vi sia linguaggio poetico, giacché non v’è possibilità di adire al linguaggio poetico senza questa pre-condizione soggettiva. C’è un esercizio dell’«abitare poeticamente il mondo» che è la precondizione affinché vi sia un linguaggio poetico, ma noi non sappiamo in cosa consista questo «abitare poeticamente il mondo» e non potremo mai scoprirlo. In questo «abitare spaesante» il linguaggio si ha un abbandono e un ritrovarsi, un trovarsi che è un abbandonarsi in ciò che non potrà mai essere né abbandonato né ritrovato, perché se lo trovassimo cesserebbe l’abbandono e se lo abbandonassimo lo potremmo sempre ritrovare per davvero e non c’è maieutica che lo possa ricondurre dalle profondità in cui questa condizione è sepolta. Non c’è maieutica che ci possa garantire l’ingresso nel portale del poetico, giacché esso non è un dato, né un darsi, ma semmai è un ritrarsi, un oscurarsi. L’entrata in questa radura di oscurità apre all’Ego la dimensione illusoria del linguaggio poetico, essendo l’illusorietà il parente più prossimo in quella linea genealogica che collega il linguaggio poetico al «dire originario» del quale abbiamo smarrito per sempre il filo. Allora, non resta che accettare tutto il peso del gravame di cui ci diceva Nietzsche per gettarlo a mare come inutile zavorra e alleggerirci alla massima potenza, accettare di impiegare i resti e gli scampoli, gli stracci e i frantumi quali elementi consentanei alla nostra condizione esperienziale.
Allora forse occorre abolire e abitare in un medesimo tempo la distanza che ci separa da noi stessi per adire ad un linguaggio più interno a noi stessi. Abitare una condizione esperienziale e abolirla subito dopo averla esperita è la risultanza paradossale del nostro essere nel mondo.
Anna Ventura, da 21 poesie inedite
I MAESTRI
Sieste qui, maestri
Ascoltati ieri
col timore rapace
dell’ultimo dei discepoli.
Finalmente so
che cosa mi avete insegnato.
Siete nella tazza di caffè
vuota sul tavolo,
nelle carte sparse, nel cerchio
di luce della lampada.
La barbarie che è fuori la porta
Non mi fa più paura.
Attraverso un tempo lunghissimo,
oltre lo spazio stretto del reale,
oggi siete chiarissimi,
concreti.
Tutta l’erba del mondo
Disperdere la nuvolaglia
addensata per anni sul mio capo
da pazienti artefici del grigio
è impresa
da non tentare nemmeno.
Però per me
una foglia verde
coi mobili orli trinati
è ancora
tutta l’erba del mondo.
La natura è la mosca
che a piccoli passi percorre
ostinata la costa del quaderno,
poi al margine si volta
e torna indietro,
la passeggiata è finita.
Il bambino cinese
Se potessi,
vorrei un bambino cinese.
La sua umiltà orientale,
trasmessa dai geni della stirpe,
specchiata al mio silenzio occidentale,
conseguito in anni di esercizio.
Lui crescerebbe pianissimo
per discrezione e per discrezione anch’io
invecchierei lentamente.
Come nella favola del crisantemo,
allungheremmo il tempo
sminuzzandolo in petali di fiore.
Non avrò mai questo bambino cinese,
ma nel mio spazio lui esiste:
stendo sul piano le sue piccole mani,
leggo nei suoi primi disegni,
gli pareggio la frangia dei capelli.
E non lo mando a scuola:
il fatto che non esista
ci consente questa evasione felice.
Res
Res è cosa,
e cosa rimanda
al ruvido, al grezzo, al colore
paglierino oppure ocra o marrone,
di forma semplice e tonda,
di consistenza solida,
senza odore, a temperatura normale.
Cosa è un uovo o una pietra,
un sacco pieno di grano,
un cavallo di legno.
Anche la terra è cosa,
e così la sedia, la ruota,
la brocca di coccio, il sale.
Cosa è la zappa e il falcetto,
la trappola per il lupo e il remo.
E così elencando,
per tutta una serie di oggetti
connessi con la vita,
il lavoro e la morte,
il ciclo eterno dell’uomo,
immutabile, inevitabile.
Che poi le cose, res,
divengano res gestae, res adversae
o res secundae
ci interessa meno, come
non ci interessano Cose belle e Cosa Nostra:
l’anima della parola è all’origine,
nel fulcro antico del mondo,
quando la selce fu oggetto e arma,
il fuoco, dono degli dei.
La noce
Durante un concerto
si addormentarono tutti;
anche i suonatori.
Quando si svegliarono ognuno
Guardò l’orologio e vide
Che erano passate tre ore,
ma nessuno osò confessare la cosa
e tantomeno i sogni che aveva fatti.
Solo il bambino che aveva sognato
di essere una noce
lo disse alla mamma e lei
rispose che sogno più bello
mai era stato fatto.
Il mattino seguente
la donna che puliva la sala
trovò una noce
sotto a una poltrona
e se la mise in tasca.
Lì la trovò il suo bambino, la prese,
la mangiò e la trovò buonissima.
Quella noce fu l’unico pegno
Che il tempo lasciò per tre ore
Rubate a quei nobili spiriti
Raccolti nella conchiglia sonora
Di un caldo Auditorium,
fu l’unico oggetto
sottratto al mondo dei sogni
di un bambino da un altro bambino.
Il poeta
Capriccioso Nerone,
maleavvezzo. Non ci fu Seneca
capace di piegarlo. Fece uccidere
sua madre, che pretendeva che le fosse figlio.
Incendiò Roma
perché era una città
perfetta per bruciare.
Una cosa sola voleva:
essere detto poeta.
Per la stessa ambizione,
la storia registra
crimini altrettanto efferati.
Tu quoque
Cesare nei boschi nordici, d’inverno.
Dorme poco, mangia niente;
se non combatte, scrive. La parola
si affila come un’arma. Come un’arma
è infallibile. Cesare sa
che sarà il padrone del mondo,
ma ora è solo,
nel bosco innevato. Le guardie
dormono, il fuoco
si va spegnendo in piccole lingue
rosse e gialle. Cesare
non ha rimorsi,
non ha rimpianti,
non ha paura. Ma a Roma,
nelle quiete stanze
di una casa patrizia,
lì dove si aggrumano
tutti i rimorsi,
tutti i rimpianti,
tutte le paure,
lì dove il condottiero
nessun pensiero indirizza,
lì un pugnale si affila.
In nome dello spirito
“E parlerai a tutti quelli che hanno sapienza in cuore,
i quali so ripieni di spirito d’intelligenza”
(Es.28,2)
Questi piccoli fogli bruceranno
Con tutto il resto, se è già scritta
L’ora dello sterminio. Ma,
poiché ancora ci è data la parola,
pronunciamo il dissenso.
(Pier Aldo Rovatti, Trasformazioni nel corso dell’esperienza, contenuto ne Il pensiero debole; a cura di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, Milano, Feltrinelli, 1983, pp. 29-51.)
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Sono lieta, lietissima, di leggere alcune mie poesie sull'”Ombra” di oggi; tra cui, la mia preferita, “La noce”,che scrissi quando mio figlio, allora piccolo, mi raccontò, appunto, di aver sognato di essere una noce. Questo mi rivelò,per la prima volta,Il suo fervido immaginario, che poi, grazie a Dio, si sarebbe sviluppato nell’arte. L’aver pensato, da parte mia, che quella noce, poi, comparisse nella realtà,attesta la mia ingenua fede nei miracoli,in quei passaggi in cui la realtà e il sogno si confondono,con esiti spesso felici.
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Sono quella che sono.
Un caso inconcepibile
come ogni caso.
In fondo avrei potuto avere
altri antenati,
e così avrei preso il volo
da un altro nido,
così da sotto un altro tronco
sarei strisciata fuori in squame.
Nel guardaroba della natura
c’è un mucchio di costumi: di
ragno, gabbiano, topo campagnolo.
Ognuno calza subito a pennello
e docilmente è indossato
finché non si consuma.
Anch’io non ho scelto,
ma non mi lamento.
Potevo essere qualcuno
molto meno a parte.
Qualcuno d’un formicaio, banco, sciame ronzante,
una scheggia di paesaggio sbattuta dal vento.
Qualcuno molto meno fortunato,
allevato per farne una pelliccia,
per il pranzo della festa,
qualcosa che nuota sotto un vetrino.
Un albero conficcato nella terra,
a cui si avvicina un incendio.
Un filo d’erba calpestato
dal corso di incomprensibili eventi.
Uno nato sotto una cattiva stella,
buona per altri.
E se nella gente destassi spavento,
o solo avversione,
o solo pietà?
Se al mondo fossi venuta
nella tribù sbagliata
e avessi tutte le strade precluse?
La sorte, finora,
mi è stata benigna.
Poteva non essermi dato
il ricordo dei momenti lieti.
Poteva essermi tolta
l’inclinazione a confrontare.
Potevo essere me stessa – ma senza stupore,
e ciò vorrebbe dire
qualcuno di totalmente diverso.
Wisława Szymborska, “Nella moltitudine”, in “Attimo” (2002), in “La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009)”, tr. it. Adelphi
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“Potevo essere me stessa-ma senza stupore,/e ciò vorrebbe dire/qualcuno di totalmente diverso”,oggi col mio retino catturo questi versi della Szymborska .Presuntuosamente,potrei attribuirli a me stessa;anche per me,in fatti, lo stupore è necessario per vedere la realtà con occhi sempre nuovi,fuori dal buio che,talvolta, ci assedia.
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Nuovo articolo su Un’anima e tre ali – Il blog di Paolo Statuti
Jarosław Marek Rymkiewicz (1935)
di Paolo Statuti
Via Mandel’stam
Ma dov’è questa via Non c’è questa via
Vanno sulla neve i lavoratori dello zar
Ma dov’è questa via Lo sappiamo noi tre
Là dove le ossa sono sottoterra come anelli nell’albero
Là dove negli anelli scorre il sangue Non importa di chi
Come in Schubert canta un lungo collo bianco
Là dove dalle ossa spuntano verdi rami
Dall’eternità ci separa solo uno stretto marciapiede
Là dove egli cammina cibando cardellini e merli
Come in Schubert nei canti i lunghi bianchi capelli
Come il lungo collo bianco vaso del nostro sangue
Come il sangue a neri fiotti dalla bocca e dagli orecchi
Là dove con Dio a braccetto ogni giorno egli passeggia
Nel suo giaccone logoro e scucito
Lo segue un enkavudista (1) ubriaco fradicio
Mentre Dio e Schubert suonano con due pianoforti
1981
(1) Appartenente al famigerato NKVD russo – Commissariato del Popolo per gli Affari Interni, vera e propria “fabbrica di morte”.
(Versione di Paolo Statuti)
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GINO RAGO
Antologia
«La mia poesia cresce mentre io mi ritiro»
Poesia italiana della meditazione attiva [29 poeti il cui dire è fondamentalmente un discorso metafisico-esistenziale sul mondo, non più sugli stati d’animo del piccolo «io»]
Saggio introduttivo di Giorgio Linguaglossa
1 – Maria Rosaria Madonna
Un narciso si guardava allo specchio
Il merlo gracchiò sul frontone d’un tempio pagano
il mare sciabordando entrò nel peristilio spumoso
e le voci fluirono nella carta assorbente
d’una acquaforte. E lì rimasero incastonate.
Due monete d’oro brillavano sul mosaico del pavimento
dove un narciso guardava nello specchio
d’un pozzo la propria immagine riflessa e un satiro
danzante muoveva il nitore degli arabeschi
e degli intarsi.
2- Mauro Pierno
Della notte che si fa giorno
[a un poeta, Gino Rago, per la riconoscenza]:
Della notte che si fa giorno
nell’impiego di un verso contro l’altro,
la regola aurea che sottende
allo spegnimento della polvere
nell’ammiccamento mesto della sostanza.
Eppure questo vuoto ci dipinge
nel soffitto identico di un informe cielo.
[Si staccava l’ombra e poi pioveva
Grazie, OMBRA].
3 – Mariella Colonna
Foglia e farfalla
Trascini le rosse ali fino a terra
la pozzanghera celebra la tua morte-nascita riflettendo il cielo
in una foto d’epoca.
Ah, Belle Epoque de la feuille d’antan,
reverie des poètes, la plus semblable a la mort
et a la nouvelle vie de l’Art!
Il cielo si riflette sulla foglia per terra,
è indignata la luna chissà perché, don Felipe
se inunda de paz blasfema
chupa de su cigarro de cinco céntimos
su vida de una muerte ingloriosa.
A las cinco en punto de la tarde russian lullaby para Ignacio
y al Nino Jesùs, Ninna nanna in italiano,
Ninna nanna dal Cremlino perché non pianga più.
Duerme Nino que tu madre nunca te dejarà, duerme Nino
que la luna ya te inunda de paz.
Dormi dormi Bimbo bello,
chiudi gli occhi, non vedere
com’è diventato il mondo!
La neve, appena scesa
dalla rosa bianca
numinosa, del giardino ove sei nato
garofano del cielo…
Dormi, sogna che una foglia
del tramontodoro basta per consolare
in te tutto il Creato.
Ella non sa mentire, trascina le ali
fino a terra dove la pioggia celebra la sua Morte
con la Messa da Requiem di Verdi.
Così la Morte è bella ed è uguale per tutti alla Vita,
è libera, ci libera.
Herr Cogito, confessa i tuoi limiti:
non sei capace di evocare la Primavera universale!
Meglio il Signor Nemo,
dicono che abbia creato l’Universo…
Se è vero, Nemo non è chi dice di essere!
Alleluia!*
*[poesia in corso di stampa nel volume Il Fantasma di Lacan, Progetto Cultura, collana
Il dado e la Clessidra]
4 – Letizia Leone
Paradigma dello specchio
«Chi è la più bella?» e cade
dentro l’abisso piatto della faccia .
Buco col trucco. Oggetto che non è più specchio
ma lago malfamato, lucernaio, nera lucerna.
Si vede al rovescio la matrigna
Fanciulla nascosta nel futuro
Dalla cordigliera del corpo sotto il livello del tempo.
Lo Specchio è un oratorio. «Bella, veramente bella…».
Specchio dei viventi o Specchio delle brame?
Delle nostre voci riempimmo anche i sassi.
5 – Sabino Caronia
<strong>Il girasole
È finita la messa. Sull’altare,
presso la bara, ancora gli onorati
nuovi credenti stanno a discettare
tra inutili ricordi e versi ornati.
“I fucili battevano alle porte”,
ripeteva il poeta, e così sia,
ma, dopo tanto male e tanta morte,
forse è barbarie pure la poesia.
“No, no che la poesia non è occasione”,
biascico amaro, ed esco dal portone.
Nel mattino piovorno ed incolore,
grigio avamposto dell’aridità,
Plinio accende, sul nero del dolore
le trombe d’oro e la solarità.
6 – Annalisa Comes
Specchio
Che rimandi oggi?
Chi rimandi a me?
In piedi, in punta di piedi
guardo, controllo, domando.
Niente da indossare per i giorni
di festa.
Nessuno spettacolo.
A nessuno il sorriso.
A nessuna – il testimone dell’alba e
della notte.
Specchio, curva, immagine e
fantasma.
7 – Silvana Baroni
Persa e ritrovata
Semplice, più che semplice
si tratta di allontanarsi e tornare
che non è altro che attraversare – di questo si tratta.
Sul bordo dello specchio schivo il taglio
un colpo di reni e libera! carne igienica finalmente!
Così da non rispondere all’insistente centralino
e smetterla d’appassire nella solita poltrona
a dire al gatto che il filosofo è un disperato assassino
d’omicidi ininterrotti.
Oh vitreo viso! Alveo di buio da cui risorgere!
Certo che mi vedo! Ho la faccia dei miei morti
sono il sosia d’una comunità di conclusi.
Eppure esito, che il sentimento è un lusso
preferisco negarmi, farmi vedova d’oscura innocenza
tornare all’immagine sbaciucchiata, persa
e ritrovata da labbra settembrine
che nel fascio di luce dello specchio ancora son gesti
a garanzia d’accoglienza, giusto il tempo
di stringermi ad ogni loro dettaglio.
Scivolo nei bulbi, attraverso il diametro delle sfere
mi perdo nel tempo perso dalla luna, nel riflesso di lei
che ancora vuole che io sia.
8 – Alejandra Alfaro Alfieri
Paradigma dello Specchio
I passi.
L’uno è sospinto dall’altro, vanno così
insieme avanti
Secondo il calzolaio ogni suola porta uno specchio
Qui si riflette la propria vita.
Tutti lungo la strada si affacciano da un
lato diritto all’altro
Quello che rimane indietro fallisce
Te lo ricorda il monologo che parla dietro
la scarpa.
Non esiste un tempo che possa attendere
si va in scena senza paradiso.
Ma se soltanto mi fermassi giusto per
aggiustarmi?
Guarderei da vicino per poter capirne di più.
Da lontano uno specchio mi fissa, e si frantuma.
l’agonia domina le lacrime di cristallo, cadono in giù.
È’ arrivato il colpevole a riflettersi! – Si guardi
nello specchio rotto, la prego.
Fu il passo prematuro, ignoto e immaturo
– non sono stato io!
Passo di fretta ed è rimasta la ferita riflessa
sul petto del mio specchio.
Davanti alla salita il vecchio chiede di
sfuggire
a quel riflesso.
9 – Giuseppe Talia
Speculum
Morirò su questa cyclette
lo sento dal battito del cuore
e da questa gronda di sudore
che mi cola dalla fronte
come il sangue del Cristo.
Il mio specchio è un retrovisore.
Una Venere lotta con il tapis roulant.
Le conto le costole:
ne mancano due all’appello.
Mi riempie gli occhi
ma non posso fermarmi –
sarebbe una sconfitta –
nonostante avverta una fitta.
Imposto il programma a barre intermittenti.
Zompo come una marionetta.
Respiro attraverso la cuffietta.
Arriva, arriva il vento!
Si specchia nello specchio:
Anemosssss
Kathorossss
Una lunga fila nella sala attrezzi
del purgatorio: gli abbonati alla tortura
sferrano attacchi ai pesi, ai manubri,
ai dischi contesi; i corpi si bilanciano,
entrano in trazione, alzano e abbassano
maniglie in un rumore di ferraglie.
L’inferno-out, il paradiso-in.
E’ una via crucis lo spin
asciugamano e bottiglietta- biberon.
Morirò su questo vogatore, lo sento
da quando l’istruttore, Caronte e Mefisto,
mi incita a non cedere il passo
a superare l’orlo del collasso.
L’esercizio terminerà tra qualche minuto.
Premere un tasto qualsiasi per continuare.
Secondo voi che faccio?
10 – Costantina Donatella Giancaspero
Quasi una velatura
Quasi una velatura. A settembre, in periferia.
Un pulviscolo insonoro ad attutire le case,
la domenica mattina.
Di là, in cucina, il marmo grigio. Una bambina
siede con cura – l’attenzione per l’abito celeste…
Ma cadono i ricami – silenziosi alle dita –
dalle forbici scordate oltre lo specchio,
che discorre con lei,
pettinando un’onda, al viso opale di ragazza.
Confidando un sorriso, nel tocco rosso di vanità…
11- Lucio Mayoor Tosi
A metà libro
In camera, al bar e nel romanzo
è mezzanotte.
Già molti fantasmi oltre i muri vanno
in cerca di bocche spalancate.
E’ così da sempre – Oh non lo facciamo apposta.
E’ gente, solo gente…
E siamo a metà del libro.
Oltre al libro un piccolo schermo,
senza audio.
Come sempre accade si vedono girare soldi
nelle rotative.
Pier Paolo Pasolini e i suoi occhiali notturni.
Sul tavolo le tazzine per domani.
Opportunamente vuote.
Pulite.
12 – Gino Rago
Lo specchio è l’abisso
Un colpo di vento ha capovolto lo specchio.
Fondo del suo cristallo,
magie d’acqua.
Gli occhi non sono quelli d’allora,
il tempo rimescola correnti.
Dal fondo del lago-cristallo
il corpo riemerge senza forma,
lacerata da lame di spuma.
Lo specchio è l’abisso.
L’immagine è scissa in vermi e rughe.
Altri pesci guizzano [gli anni passati
ma chi li riconosce?]
Tu fondo dello specchio non hai colpe.
È l’ultimo guizzo
13- Laura Canciani
Le rose miracolose di Labers
I rosai erano due: quello
di sopra e quello di sotto.
Il tronco robusto di radici profonde.
Boccioli rosaviola spuntavano fitti fitti e forti.
Aperte, le rose erano nuvola profumata di cielo
sulla terra.
A maggio, in cerchio dolce e importante
attorno ai rosai, il rosario saliva saliva
festoso
sino a intravvedere un “Tu” creatore
riflesso anche sul volto della mamma.
La voce di mia madre fluiva in viola:
«saprete e capirete e ringrazierete
per non aver potuto giungere
al peso della vita
al fiore di lusso infingardo
alle ferite nostre
chiamate umano amore».
I rosai si sono consumati. Ci è
dato avanzare
ricchi di vento viola, generosi di libertà,
amati di immeritato amore.
14 – Francesca Dono
-allo specchio–
lo sconosciuto si guarda allo specchio Poi abbassa le mani
In silenzio Con un pettine indolenzito La posa di altre ombre
Che scivolano dalla cornice per le crepe allineate Sono le nove
Passate Un’eternità Con l’orologio tagliato nel buio Sullo specchio
corrono cavalli selvaggi Un collage sfinito di Dravidi in ginocchio
Nessuno riflette il tempo I pianeti Chi c’è sotto quel volto ustionato?
Nulla di più complicato Il carnefice indossa un fermaglio di ego Ogni
Parola del mondo acquatico
ഇപ്പോഴും ടെമ്പി ദിനങ്ങൾ (Ancora dieci giorni di tombe)
Un cingolato senza nome né polmoni Di nuovo il ritratto scenderà vicino
A te Per l’ennesima mail da inviare agli indirizzi sbagliati Ai lati interi
Degli occhi finti e inestricabili.
15- Carlo Livia
GIARDINO
[per Giorgio Linguaglossa]
Il sogno verde spoglia il pallore delle sovrane dalle calze di vento.
L’angelo si spegne nella scultura triste, perché la luce è piena di nottambuli in delirio.
Il corpo dimentica il desiderio celeste, che scompare lasciando un’aureola di lacrime sul letto vuoto della musica.
La chitarra in gabbia sogna uno sposalizio di macchine d’alabastro, che l’ira del nume decompone in mille precipizi morbidi.
I violini sepolti nello sguardo delle venditrici di vento diffondono la malattia del Paradiso, bruciare oceani e cospargere di cenere le nudità orientali.
Cumuli di peccati impediscono l’entrata della Dea, il vero addio appare, ma solo nel pianto della fanciulla crocifissa.
La reggia è morta: le anime in calore attendono invano.
La santità delle nubi si abbevera ad una pozza di violino.
La brezza addormentata sul ramo invoca la nudità della pioggia imminente.
Le foglie morte sognano le fontane senz’acqua della luna, dove illividisce lo sguardo dei risorti.
L’aria si sdraia nella follia celeste, indossando pallidi guanti di musica
In fondo allo specchio si accoppiano due eternità capovolte, e nasce il sogno sterminatore:
tu mi lascerai, amore mio.
16 – Lidia Popa
Gli attimi appartengono a noi?
Dopo gli specchi il paradigma di altri specchi
accanto alla scala mobile. Tutti salgono. Tutti scendono.
Gli specchi grandi assorbono infiniti atomi.
Piedi che camminano per il target del primo posto
sotto il sole. Un fantasma si scatena nel teatro:
«Ecco lo specchio dell’ego! Chi rimane più in alto?»
Tra terra ed il cielo, i mortali e i divini
reciprocamente connessi come in un cerchio:
la danza è l’anello, enigma di due mondi diversi.
Inanella il gioco degli specchi flessuosamente.
Mondana duttilità della cosa di “Saggi e discorsi”
illumina il secolo spropriando l’avvenire.
Un carosello degli specchi e delle idee del primato.
E se fosse il riflesso sugli specchi a scegliere
chi rimane più in alto, chi sale o chi scende?
Ci sono figure sulla scala mobile. Senza sosta.
Tutti salgono per pregare il Cielo ad aprire l’ingresso.
Tutti scendono verso la loro ultima tomba.
Davanti agli specchi grandi dell’Opera
nell’atrio del Teatro Friburgo degli scienziati,
una voce nell’ombra: «Gli attimi appartengono a noi?».
17- Luigi Celi
Hayku Occidentali
è nel silenzio
il misterioso suono
il più profondo
*
è nel profondo
la misteriosa voce
quasi silente
*
cose mortali
evocano nel profondo
cose immortali
*
nude di giorno
le chiare margherite
più non sfogliare
*
farfalla sogna
il bozzolo setoso
il suo groviglio
*
semi di canti
in vulve di natura
turgidi versi
*
è notte fonda
il sonno si fa sogno
e mi rapisce
18- Edith Dzieduszycka
Lo specchio nello specchio
La luce venne accesa
Lo specchio nello specchio
ora si rifrangeva
Una frattura oscena lo deturpava
Rimanere nell’ombra avrebbe preferito
non gli fu data scelta
A piegarsi costretto
all’infinito
quella ferita avrebbe riflettuto
Altre facce passando
di breve lampo accese
turbavano le acque prima d’allontanarsi
D’argento non brillava
lo stagno
ma di piombo
Scagliate da lontano
le pietre – arme improprie –
cadevano crudeli con grida di dolore
Di sanare lo specchio
nessuno si curava
Le fratture – si sa –
sono pronte a scavare
nel letto addormentato
ferite più profonde.
19- Francesco Lorusso
Il secchio e lo specchio
E non sapremo mai fino dove
noi due fummo in fine sospinti
quali occhi adesso ci separano
e se giacciono il resto delle ombre
alla resa alta della pietra muraria
dove Marte ci pose in campo
un gioco a scambio traguardato
o la nostra porta tutt’ora persa
aperta nel mattino o nello specchio
del presente che oramai ci divide
20 – Guido Galdini
Specchio</strong>
è uno specchio per le allodole
o sono allodole per lo specchio
o le allodole sono lo specchio
21 – Alfonso Cataldi
Chi sa</strong>
Il faro è sempre stato lì naturalmente
sotto il tunnel lavico più adatto all’ipotesi marziana.
Nel gruppo degli acquerellisti, l’admin ha messo in palio un premio.
Vince chi lo trova
impenitente
nella mareggiata.
Il maggiordomo ha stretto un patto di non belligeranza
con gli accadimenti delle stanze riservate.
Preserva la tenuta dai fraintendimenti della storia.
Wimbledon ‘80.
L’enorme quantità di ghiaccio non cede ai colpi di mortaio.
Le pause sono sorsi d’acqua che colmano la fine.
Game. Set. Partita.
Dispensa molecole ordinarie
di comprensione per l’attesa, un mantice
affidato
alla dipartita
dei quattro monoliti neri.
22- Anna Ventura
La noce
Durante un concerto
si addormentarono tutti;
anche i suonatori.
Quando si svegliarono ognuno
Guardò l’orologio e vide
Che erano passate tre ore,
ma nessuno osò confessare la cosa
e tantomeno i sogni che aveva fatti.
Solo il bambino che aveva sognato
di essere una noce
lo disse alla mamma e lei
rispose che sogno più bello
mai era stato fatto.
Il mattino seguente
la donna che puliva la sala
trovò una noce
sotto a una poltrona
e se la mise in tasca.
Lì la trovò il suo bambino, la prese,
la mangiò e la trovò buonissima.
Quella noce fu l’unico pegno
Che il tempo lasciò per tre ore
Rubate a quei nobili spiriti
Raccolti nella conchiglia sonora
Di un caldo Auditorium,
fu l’unico oggetto
sottratto al mondo dei sogni
di un bambino da un altro bambino.
23- Mario Gabriele
La sera ci sorprese
La sera ci sorprese
facendo del giorno un rapido declino.
Ti agiti, non sopporti il fumo del barbecue
della signora Polonskij.
Ti rivedo nei colori dell’arcobaleno:
rondine di altri cieli e di altri nidi!
-Qui dura ancora il turnover.
Vado all’estero, mi rifaccio una vita,
troverò un lavoro,
avrò una moglie e dei figli-, disse Simon.
Una stagione infausta si ferma
stretta dalle corde dell’autunno.
Nei vecchi bungalow si contano le ore.
La casa lungo il fiume
non ci appartiene più,
è attracco di pescatori di frodo e di conchiglie.
Max sta finendo Psicostasia politica.
Ti rivedo nel Bacio di Klimt.
Non c’é tavolozza senza il nero.
Quando Marisa tornerà da Dortmund
sarà come un lampo a ciel sereno,
chiederà le catenine di Istanbul,
prima di dire:-oh mamma, mamma,
perché sei rimasta così sola nel silenzio?
24 – Steven Grieco-Rathgeb
Entrò in una perla
Entrò in una perla dentro il mondo
attraversò muri che tacquero ogni grido
qualcuno ne parlò come di un segreto
ma l’azzurra stazione di notte era piena di lacrime
L’estraneità fra te e me
non era lui: noi
ci dimenticammo l’un l’altro pur stando faccia a faccia,
mentre lui, seduto, infilava questo sogno infranto
nella cruna della sua stessa fuga,
attraverso il bene che volge al male che volge
al bene,
attraverso gli stessi luoghi che tornarono
e ritornarono
Su un sentiero così impervio
la via si tramutò in aria!
in una cupola d’ombra
con persone che entrano ed escono,
mentre ciascuno si fabbrica
il proprio sciame di pensieri,
larvati spettri e naiadi d’immagine,
e li appende
in una bianca desolazione
Lui lentamente ci circondò,
circondò da ogni parte
finché rimase nascosto
Ah, mio Io, mio pagliaccio ormai,
sulla punta del dito fai ruotare
la sfera su cui oscilloIl mio firmamento si è squarciato da cima a fondo
E allora noi, prismi ignari,
tornammo a splendere
nelle nostre prigioni
finché pensai che questa vita durerà in eterno
25- Chiara Catapano
[da Tre cartoline dalla Val Gardena]
[…]
“Cambio immagine: una volpe, dei topi e un falco su di un pagliaio.
Chi li avrà uniti tutti intorno all’obbiettivo?
La volpe ha il fulvo fin dentro il fiato, i topini le s’accostano alla bocca, scrutando il vero nel nero che solleva e scioglie ad ogni respiro. Il falco è tranquillo perché è il solo – lo sa – che potrà innalzarsi in volo, comunque si risolva la faccenda.
Questa non è una foto di gruppo, ma una riunione.
Ci sono stati molti furti nel villaggio dei giganti: da tempo spariscono le galline dai pollai;
i begli alberi carichi di mele, dalla sera alla mattina, mantengono solo il loro verde;
e i granai vengono saccheggiati.
Sassolungo ha puntato il dito sulla compagnia del bosco, per fugare da lui ogni possibile sospetto.
La soluzione è sempre sull’attenti. Pazienza, scovare le abitudini d’ogni divisione e superarle per un bene più grande. Allora anche i topini potranno dormire tranquilli leccando il rostro affusolato del falco.
L’insolito gruppo si organizza: faranno a turno sorvegliando la valle, le case e gli abitanti.
Sotto al francobollo l’indirizzo. Saluti. Firmo e spedisco[..]”.
– stretta – nella – mano – del – babbo.
A quel monello, oggi adulto, furono negate le tre possibilità?
Dalla Val Gardena, dove soggiornerò ancora per poco – solo pochi giorni – ti raggiungo in racconto.
Tua ****
26- Lidia Are Caverni
In punta di penna
In punta di penna
ti scriverei messaggi
unità di convolvoli
chiudono reti
di giardini mai visti
e tu prosegui
per gli inesorabili
percorsi cercando
la meta dell’oro
senza vedere
che sui fili la libellula
danza la danza
dell’ombra e del sole
solitario ti volgi
altrove senza ritorno.
[Poesia della meditazione attiva in distici]
27- Rita Dove
Geometria
Dimostro un teorema e la casa si espande:
le finestre in un balzo si librano sino al soffitto,
il soffitto con un sospiro va alla deriva.
Appena le pareti si sono spogliate di tutto
ma non della trasparenza, l’odore dei garofani
se ne va con loro. Io sono fuori, all’aperto,
e sopra di me le finestre si sono incardinate su farfalle,
dove si congiungono un raggio di sole riluce.
La loro meta è un punto vero e indimostrato.
28- Giorgio Linguaglossa
Il Signor Posterius
sulla sinistra, c’è un vuoto; metto una mano nel vuoto,
faccio un passo in avanti:
di fronte ad uno specchio con la cornice bianca
c’è un altro specchio.
i due specchi si specchiano nel vuoto,
illuminano il vuoto, specchiano il vuoto che è nel loro interno.
sul fondale, c’è una porta,
dietro la porta, una Figura maschile con la giubba nera
e bottoni di madreperla
da cui risalta una gorgiera bianchissima
bacia sulla gota una dama bellissima
in crinolina bianca.
l’uomo sembra di passaggio, forse è lì per caso;
è immobile sulla soglia [dietro la soglia una vampa
di luce lo investe alle spalle] forse emersa da un’altra stanza,
o da un corridoio attiguo al bianco del nulla.
sta lì, in attesa.
assume una posa, forse osa un passo che non accade,
il suo sguardo occupa la scena, e la scena
respinge il suo sguardo.
la figura accenna un movimento, che non c’è.
la bellissima dama accenna un inchino, che non c’è.
adesso, la Figura è un osservatore distratto
che sta curiosando nelle suppellettili del nostro vuoto
semipieno, o pieno semivuoto.
sulla sinistra,
c’è un vuoto che abita uno specchio bianco,
dietro lo specchio con la cornice bianca
c’è un altro specchio…
[da un botta e risposta in forma di sms con M.me Hanska di Giorgio Linguaglossa]
29- Giorgio Linguaglossa
Sms da M.ma Hanska
“cari poeti delle ombre,
M.ma Hanska mi ha inviato un sms dall’aldilà.
mi scrive: «arrivederci Signor Linguaglossa, Herr Cogito
si trova già qua; la aspettiamo, c’è una bella stanza ammobiliata
che dà sul giardino, una veranda (ci sono ancora il geranio e il lillà)
con una copia della Gioconda sulla parete del soggiorno»;
davvero gentile M.me Hanska, ma io me ne sto di qua,
nel retrobottega dell’essere, al sicuro per fortuna, dalle intemperie
del destino (si dice così?).
c’è dunque tempo per le improvvisate di quel figuro del Signor K.”
30 – Gino Rago
Agenzia di viaggi
“Cara M.me Hanska, lasci in pace il poeta delle ombre,
Herr Cogito, i gerani, la veranda, il giardino,
la copia della Gioconda, il lillà
e la Sua stanza ammobiliata possono aspettare,
abbiamo altro da fare, per esempio
ascoltare il canto degli uccelli
o il ronzio della Storia
nei bassifondi
ma la gioventù negli ori della Grecia e di Troia
e quelle teste calde di Achille, Ettore e Patroclo
smettessero per un pò di fare baccano,
coprono il canto delle allodole di tutto l’Occidente
[ anche gli dèi imparino a tenere il becco chiuso,
sono sull’Olimpo grazie alla poesia].
Lo specchio alla donna che si ammira:
« Sul soprabito manca ancora il bottone,
le bombe non cadono più su Belgrado,
chiusa per sempre l’agenzia di viaggi di Hitler e Stalin
[troppi biglietti di sola andata,
rarissimi quelli di andata e ritorno]».
Cara M.me Hanska, dalla stanza dell’insonnia sulla macelleria
il poeta vede ciò che il filosofo pensa.”
31- Mario Gabriele
Fly Me To The Moon
Signora Stefford i crickets sono andati via.
E’ rimasta solo l’upupa con i suoi up up up.
Non ce ne sbarazzeremo facilmente.
Ormai ha messo le ali sul tetto di Henry.
Ora ci si mette pure il cane Dillinger
a creare sobbalzi e paura.
La città ha una nuova urbanistica con piani terra
dove a sera dorme l’uomo senza nome.
Helen Britt, vicina ai 9o anni,
ha donato la casa ad una onlus.
Nel book-room è diventato best seller
il libro -50 sfumature di grigio- di E.L. James.
Anni 40 e nuovo secolo: che altro aspetti?
Fly me to the Moon!
Andiamo da Mc Lee a interpretare le centurie.
Mary si è fatto un vestito il giorno prima degli esami.
La giornata non è tra le più belle. Piove.
C’è una Street Art sulla A 16. Sembra Warhol.
Due niggers aprono il libro della sera
archiviando Burundi e Burkina Faso.
Anche la notte è passata con le ore.
Il colloquio con Sophy non è stato brillante.
Suona papà Doc il blues del Cotton Club,
è morto il canarino del Wisconsin.
Meg lo diceva che in casa c’era un clarinetto,
ma nessuno l’ascoltava.
32- Giorgio Linguaglossa
In Venedig
Il 24 aprile 1980
sono sceso alla stazione di Venezia.
In Venedig.
Festa di gondole sull’acqua. Canale di Cannaregio.
Lanterna gialla. Luna verde. Laguna.
Dame in maschera e crinoline.
Una bellissima Dama in maschera nera.
Una bellissima Dama in maschera bianca.
[…]
Notte. Pioggia. Nebbia. Ho aperto la finestra.
Stanza d’albergo di terza categoria.
Ponte dei Sospiri.
Laguna verdastra. Gondole nere.
Un tiretto con il bocchino di avorio.
Una teca di madreperla che reca un cammeo.
Un ventaglio dentro la cornice nera.
La fiala bombata del profumo semiaperta.
La toeletta con un vestito di seta azzurra.
[…]
Abitavo presso una stella sul canale nero.
Un sotoportego.
Una madamigella di Parigi
trasferitasi
in Venedig come dama di compagnia
del conte Almerighi
che poi fuggì a Vienna presso il suo non più giovane
e generoso amante…
[…]
Avenarius mi venne incontro, zoppicando,
sul Ponte dei Sospiri.
Teneva al guinzaglio orrendamente agghindati
un musicante da trivio e un pagliaccio rosso
che saltellavano tra i turisti. «Che vuole – mi sussurrò
all’orecchio – il Carnevale non si è ancora concluso».
Finita la tenzone, il musicante chiuse il violino nella custodia,
il pagliaccio si sedette al tavolino, e ordinarono
un Martini rosso con ghiaccio.
[…]
«Io e la stella ci siamo amati
– mi disse Avenarius – mio caro poeta.
Adesso siamo qui, io e lei, sul ponte.
Né di qua né di là. Un luogo neutrale.
Un luogo mentale.
E passeggiamo come manichini in un gineceo…
[io guardavo le sue scarpe di vernice made in Italy
e la sua farfallina gialla à pois]
Lei mi può capire, è così giovane!
Dopotutto, siamo ospiti del Signor Posterius, o meglio,
di un suo sogno…».
[…]
«La menzogna deve essere più logica della verità»,
mi disse Avenarius.
Il cameriere, intanto, tolse i bicchieri
e sparecchiò il tavolino.
“Che sgradevole ciarlatano!”, pensai
e scendemmo in un bar nel sotoportego a bere un’ombra.
E brindammo, allegri e festaioli.
Come un tempo.
33- Alfredo de Palchi
Da Sessioni con l’analista(1967)
Li seguo, dicono e non capisco
guardo case le vie, a dito m’indica
la gente – hai ucciso –
ma la verità è milioni di uomini
ma sento questa colpa
vedo la colpa alle finestre nelle strade
nell’occhio insano dell’uomo,
i loro passi felpati;
in me cresce il rumore il volume della colpa
l’irreale vittima
e il senso diventa carne
e cammina con me, dentro di me il peso della vittima
si dibatte
accanto a me si dibatte la vittima,
fratello, bocca strappata, eguali;
trascinano il colpevole,
son io quello, e solo Meche riassume l’innocenza
che non sopporta il peso; piccioni
disertano la piazza
noi svoltiamo ed ecco la campagna la notte
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Gino Rago
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L’ha ribloggato su RIDONDANZEe ha commentato:
“I treni viaggiano a passo d’uomo e le vetture non parlano. Fermo un paesaggio racconta il sole. La punta del viso ad est. Alle immagini si sovrappongono pensieri e accomodi uno sguardo
esteriore. Secondo i dettami della fisica atomi nei dintorni della materia
vorticano inquieti. Il ventre del Budda è sazio.Tace.
La quiete nella materia oscura delle parole.”
Grazie, OMBRA
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