La Musa degli stracci – Poesia di Gino Rago – Commenti e poesie di Pier Aldo Rovatti, Andrea Emo, Donatella Costantina Giancaspero, Mauro Pierno, Iuri Lombardi, Anna Ventura, Giorgio Linguaglossa, Wilma Minotti Cerini, Lucio Mayoor Tosi, Dunya Mikhail

Foto Edward Honacker

Mi accorgo solo adesso che l’artrite deforma le mani.
Tutto cominciò con una caduta

Giorgio Linguaglossa
13 febbraio 2018 alle 22:29

caro Gino Rago,

soltanto adesso ho capito quanto dolore, quanta strada ha fatto la tua poesia di stracci e di rottami appiccicati ai sacchi di juta di Burri dopo che hai abbandonato l’anticaglia del retoricume della poesia del sud. Con una sola spallata hai scaraventato tutta l’anticaglia sudista a mare, quel Sinisgalli, quel Quasimodo et compagni di cordata etcetera, quell’anticaglia che per un poeta del sud è stata una terribile e pesantissima palla al piede. Ci hai dovuto mettere una gran quantità di stracci e di ritagli di giornale, e sì, hai dovuto porti in pre-pensionamento, hai aumentato la distanza tra te e la tradizione della poesia del sud, tra te e la tradizione della poesia del nord e del centro e, improvvisamente, quando temevi che tutto fosse perduto, hai trovato un’altra isola, una nuova terraferma. Leggiamo una poesia di

Gino Rago:

La Musa degli stracci

Non c’è niente di più opaco
Della trasparenza totale.
Il corpo è colore e odore.
I sospiri delle onde richiamano il vento.
Ora soltanto sboccio. Una rosa tra le dita.
«Prendila».
Mi accorgo solo adesso che l’artrite deforma le mani.
Tutto cominciò con una caduta.
[…]
Spremere fuori il mistero.
Ti muovi viva nel tuo stesso corpo.
Ma nuvolaglie increspano
Le visioni razionali.
[…]
Ritirarsi? Sì. Ritirarsi.
Ma dalle forme consunte del poetico.
E rifarsi un vestito.
[…]
Un abito tutto nuovo di parole
Per la festa e per il quotidiano.
Confezionarsi un capo nuovo
Nell’atelier di ritagli di stoffa. È nuova
La poesia fatta con gli scampoli.
Chi più interroga l’oracolo?
Chi pone più domande radicali?
Entra nella sala degli specchi come una Regina
La Musa degli stracci.

In questa poesia hai preso definitivamente congedo dal tuo «io», hai messo una distanza infinita tra te e la poesia che fino a ieri abitavi… ma quell’abitazione è caduta a pezzi, ha ormai il tetto sfondato, ci piove dentro e ci cade la neve; non era più abitabile, ne hai preso atto e ti sei costruito una nuova abitazione, ci hai messo i solidi mattoni della nuova ontologia estetica ma lo hai fatto a tuo modo, con la tua sensibilità storica, con la tua percezione delle «cose», quelle «cose» che fino a ieri non vedevi e che invece adesso vedi con la massima chiarezza. E così sono sorte le parole nuove, quelle della «nuova poesia».

[Gino Rago, Giorgio Linguaglossa]

Scrive Pier Aldo Rovatti:

«Per Carlo Sini, l’esercizio con cui dobbiamo cercare di entrare in sintonia con il ritmo del nostro esistere è una “iniziazione” del soggetto. Che cosa può significare? Chiamare la pratica della soggettività “iniziazione”, e farlo in un contesto filosofico, significa prendere congedo da un’idea semplice e tradizionale di “autocoscienza”: potenza del lumen ed efficacia degli specchi, il normale regime o registro delle immagini, o ancor meglio dell’immaginario, dovrebbero essere “sospesi”. Ma, di nuovo, che significa “sospendere” se non proprio, nell’atto stesso del sospendere (o dell’esitare), mettere in questione il dominio delle leggi ottiche del mondo-oggetto, il mondo “cosale” del pleroma che dà semantica e sintassi al nostro discorso comune?

Allora il mettere fra parentesi, e il mettere tra parentesi le parentesi in un gioco distanziante e “abissale”, non potrà essere né gratuito né disinteressato, non potrà nutrirsi alla filo-sofia: nessuna amicizia e amore intellettuale per la verità, nessun rilancio sublimante (uno sguardo che si alza) verrà in soccorso all’esercizio, alla possibilità pratica di esso. Infatti, se qualcosa se ne può dire (poiché ha un suo rigore), è che, rispetto alla verità comunque intesa come una forma di “possesso” (reale o possibile), cerca un evitamento, una difesa, una resistenza: e ingaggia conseguentemente una lotta, o almeno una contesa, un contenzioso. Se si tratta di iniziarsi al soggetto come a ciò che ha da prendere ai nostri occhi una “figura inaudita”, ancorché noi lo siamo ogni giorno e in ciascun istante (dato che si tratterebbe di “ascoltare” qualcuno che ci dice che non siamo noi stessi ma altro, alterità), occorre predisporre uno spazio, dei margini, un’intercapedine, una zona di vuoto.

Per “lasciar essere” le cose, dobbiamo con molta fatica alleggerirci di molta zavorra, anche se ci dispiace (ecco la fatica) perché questa “zavorra” è fatta di saperi, strumenti, piccoli e grandi apparati vantaggiosi per la nostra personale potenza. Non si tratta di rinunciare a essi per chi sa quale “povertà”: bensì di ritirare identificazioni e investimenti, lateralizzare, togliere valore e importanza. Rispetto, per esempio, al credere che “conoscere è sempre un bene”. Il problema della “sospensione”, insomma il senso da attribuire alla “iniziazione”, si condensa sulla possibilità di praticare la persuasione (penso a Carlo Michelstaedter) che vi sono zone di “non consapevolezza” che non solo è opportuno conservare, ma che vanno “attivate” proprio per permettere al soggetto di entrare in gioco con se stesso». 1]

«La Musa degli stracci» mi convince pienamente. Sei un poeta autentico.

1] Pier Aldo Rovatti Abitare la distanza, Raffaello Cortina, 2010, pp. 6,7

Donatella Costantina Giancaspero
14 febbraio 2018 alle 11:53

Ricevo e ricopio qui un pensiero di Wilma Minotti Cerini sulla Nuova Ontologia Estetica.

“La nuova estetica poetica indica un aggiornamento non solo stilistico ma storico, un girar pagina dopo la chiusura del secondo millennio. La parola si contrae, rimane sospesa, e come nel sogno, può essere pure caotica come i tempi in cui viviamo; una irriflessiva riflessione, come nei poli di attrazione di positivo e negativo al contempo, come se da un nucleo si scomponessero atomi fino ad ora uniti, con la possibilità di incontrarsi di nuovo lungo i versi, amici o nemici non si sa, forse… Ed è il forse il punto forte di questo nichilismo nietzschiano. Se ho ben capito”.

(Wilma Minotti Cerini)
14 febbraio 2018 alle 15:01

Anna Ventura
14 febbraio 2018 alle 12:06

Non condivido pienamente i giudizi negativi sulla poesia del Sud, anche perché non vedo un discorso poetico così ben strutturato da poterla sostituire totalmente: Quasimodo, Sinisgalli, perfino D’Annunzio hanno lasciato un loro segno. Possiamo anche ignorarlo, ma il tempo spesso dimostra che le radici della bellezza hanno origini singolari,che spesso si interrano, ma poi riemergono all’improvviso, quando meno ce lo aspettiamo. Il Sud, comunque, in molti campi dell’arte, ha dato più del Nord,ma ha sempre avuto la colpevole timidezza di non dichiararlo. Peggio: di non rendersene nemmeno conto.

Giorgio Linguaglossa
14 febbraio 2018 alle 18:22

Cara Anna Ventura e caro Mauro Pierno,

non c’è nessun disaccordo tra me e Anna, noi diciamo due cose diverse che possono benissimo coesistere, non ci vedo nulla di male. Io mi riferivo alla arretratezza della poesia del sud del secondo novecento (è ovvio che non intendevo dire che Quasimodo sia da vituperare…); le uniche due eccezioni di poeti del sud che nel secondo e tardo novecento hanno scritto cose mirabili sono, a mio modesto avviso, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher, ma è perché loro nel sud ci sono soltanto nate e poi hanno vissuto altrove e altrove hanno raggiunto la maturità artistica. Se fossero rimaste al sud (come bene indica Antonio Sagredo nel suo intervento) non avrebbero scritto le loro cose migliori, avrebbero continuato a scrivere alla maniera di Vittorio Bodini, di Sinisgalli, al massimo sarebbero arrivati al ribellismo di Salvatore Toma… voglio dire che sarebbero rimaste nane. La questione meridionale è una cosa complessa che ha attecchito anche alla sovra struttura, alla poesia.

Se devo dire con franchezza quello che penso, di tutti i poeti del sud che ho letto in questi ultimi 30 anni (e ne ho letti a centinaia), i soli che si elevano dal deserto sono Mario Gabriele e Gino Rago (l’ultimo in particolare nelle poesie ancora inedite in volume)… gli altri, anche i più bravi, come Lucio Piccolo, sono poeti che brillano a ridosso della tradizione nazionale, in altre parole brillano non per virtù proprie, di una ricerca poetica propria, ma per virtù altrui, grazie ad una tradizione aulica e nobile.

La questione meridionale c’è, eccome se c’è, è viva ancora oggi. Così come la questione settentrionale per via di una certa dittatura «temperata e democratica» con cui il Nord ha saputo imporre poeti di modesta statura, come ad esempio Giovanni Giudici e Nelo Risi, a poeti di rango nazionale. La destrezza e l’abilità in questo tipo di giochetto va riconosciuta ai poeti del nord i quali hanno fabbricato il mito del «mini canone», come ironicamente lo ha denominato Berardinelli, mito messo in piedi da Raboni e, susseguentemente, da Cucchi e Antonio Riccardi…
Il resto sono cose di oggi…

E adesso una grande notizia:

l’editore Progetto Cultura pubblicherà tra breve “Stige. Tutte le poesie (1992-2002)” di Maria Rosaria Madonna nella collana da me curata, con un apparato critico di tutto rilievo. Così potremo ristabilire la giusta gerarchia dei livelli estetici. Il prezzo di copertina sarà basso, così spero che tutti possano acquistare il volume.

[ A. Ventura, E. Dzieduszycka]

Giorgio Linguaglossa
14 febbraio 2018 alle 18:39

La nuova ontologia estetica insegna a vedere di nuovo le cose. Come ci dice Merleau Ponty quello che noi vediamo è il pensiero di vedere, noi non vediamo la visione ma le cose e le cose non sono in bianco e nero ma a colori e a colorarle è la NOE.
Anche la poesia più evoluta del novecento italiano, quella di Andrea Zanzotto, vede in realtà le cose ancora in bianco e nero, non gli riesce di vedere i colori, perché quella ontologia credeva ingenuamente che chi vedeva vedeva la visione; al contrario, la nuova ontologia estetica sa con chiarezza che quello che noi vediamo è il pensiero che pensa di vedere, e non la visione di alcunché.
Possiamo riassumere così: La poesia della vecchia ontologia estetica vede le cose in bianco e nero, noi della nuova ontologia estetica invece vediamo le cose colorate, abbiamo uno spettro di colori molto più vasto e intenso…

Donatella Costantina Giancaspero
14 febbraio 2018 alle 20:11

A mio avviso la nuova ontologia estetica è basata sulla consapevolezza, allarmata e allarmante, del «nulla».

Con le parole di Andrea Emo:

«La libertà dell’arte si manifesta nel suo essere un creare-dal-nulla, all’interno del quale… al nulla si conferisce forma».
È la consapevolezza del «nulla» che dà forma e colore alle cose.

Una poesia di Giorgio Linguaglossa
13 febbraio 2018 alle 13.30

L’onda d’urto dell’oscurità, come dice il mio amico
Gino Rago, viaggia a tale folle velocità, ché presto
spazzerà via dalla terra gli omuncoli di cui tu parli,
e con essi il vuoto e il pieno della loro marmellata guasta.

[Dunya Mikhail]

Propongo qui una grande poetessa irachena:

Dunya Mikhail
La tazza

La donna capovolge la tazza tra le lettere
spegne le luci a parte una candela
poggia il dito sulla tazza
ripete parole come formula magica
Spirito… se ci sei rispondi sì
La tazza si sposta verso destra per dire – sì –
– sei veramente lo spirito di mio marito che è stato ucciso?
la tazza si sposta verso destra per dire – sì –
– perché mi hai lasciato così presto?
la tazza indica le lettere: n o n d i p e n d e d a m e
– perché non sei scappato?
la tazza indica le lettere: s o n o s c a p p a t o
– e come ti hanno ucciso allora?
la tazza indica le lettere: a l l e s p a l l e
– che faccio di tutta la mia solitudine?
la tazza non si muove
– mi manchi
la tazza non si muove
– mi ami?
la tazza si sposta verso destra per dire – sì –
– posso farti restare qui?
la tazza si sposta verso sinistra per dire – no –
– vengo con te?
la tazza si sposta verso sinistra
– ci saranno cambiamenti nella nostra vita?
la tazza si sposta verso destra
– quando?
la tazza indica 1996
– stai bene?
la tazza – dopo un attimo di esitazione – si sposta verso destra
– che mi consigli di fare?
s c a p p a
– per andare dove?
la tazza non si muove
– ci sarà un’altra disgrazia?
la tazza non si muove
– che raccomandazione mi lasci?
la tazza indica una successione di lettere senza senso
– ti sei stancato di rispondere?
la tazza si sposta verso sinistra
– posso farti ancora domande?
la tazza non si muove
dopo un attimo di silenzio – la donna balbetta:
Spirito… vai in pace
poi chiama il figlio che è in giardino
a catturare insetti con un elmetto forato.

[ Traduzione di Elena Chiti, tichene@gmail.com da La Guerra lavora duro, San Marco dei Giustiniani, 2011 ]
Anche questa poesia potrebbe essere ascritta alla nuova ontologia estetica.

Antonio Sagredo Alfredo de Palchi

[A. Sagredo, A. de Palchi]

Iuri Lombardi

Il teatro dell’assurdo come intento poetico di mistificare la storia

[da http://www.letterefilosofia.com/teatro-dellassurdo-intento-poetico-mistificare-la-storia/%5D

Il teatro dell’assurdo, volendo intervenire storicizzando il genere, è, nell’insieme, una forma espressiva letteraria che permette, più di altre forme, di giungere a un compromesso definitivo: la mistificazione della storia. In altre parole, il teatro dell’assurdo – che forse è il più vicino alla letteratura e come forza espressiva e per una peculiarità fisiologica – è quel genere che alimenta in sé, esplica per certi versi, la decostruzione di un fatto sottraendolo ontologicamente e fisicamente dal suo contesto originale.

Il fatto viene quindi decontestualizzato, alienato, dissimulato al punto che l’io, sia esso narrante o intimo dell’opera, è disintegrato e quasi omesso. Ora, il punto di approdo alla mistificazione è assai arduo se lo vogliamo esplicitare tramite altri generi; è impossibile da farsi se non cadendo nella trappola di una metafisica, di una trascendenza che va oltre lo stato delle cose.
Una trascendenza che è tipica della poesia, dell’arte verticale, della realtà dissimulata attraverso i versi.

Come infatti in altre sedi ho avuto modo di affermare, la poesia oggi è trascendente proprio perché mistificatoria in termini apologici. La poesia – e con essa tutti gli altri generi letterari che pertengono a essa o di scritture simili – non la si può più considerare letteratura in quanto quest’ultima pare avere costituito una propria civiltà attorno alla narrativa intesa come romanzo, il genere magistris per eccellenza, in quanto come atto non cosciente della storia. La poesia è il baluardo del mistico, della metafisica, si alimenta del trascendentale per mistificare eventi e fatti facendoli rivivere in un tessuto le cui parti sono cucite da lembi appartenenti a nature diverse.

Lo spartiacque di questa peculiarità è dovuto sicuramente alla dissimulazione dell’io, quasi cancellato, disintegrato, che nella poesia è puramente incosciente. Così, per ragioni simili, il teatro oggi non può più essere definito e relegato a un genere di verità oggettiva, pur rimanendo universale, in quanto è messaggero di verità altre che trascendano. Il tentativo della cancellazione o dell’omissione dell’io da parte di una certa letteratura era già in atto agli inizi del novecento e poi per buona parte del secolo XX da parte di autori che ne erano gli apostoli: basti pensare a Ionesco e Beckett (i drammaturghi dell’assurdo per eccellenza), Artaud con la faccenda del teatro della crudeltà, sino a Bene con la faccenda del teatro di scena contrapposto a quello di stato, cioè di scrittura.

La questione della omissione dell’io, della sua messa tra parentesi, penso sia importante non solo in relazione alla questione drammaturgica, alla scrittura per la scena ma di tutta la storia della civiltà letteraria contemporanea. L’asse portante, l’architrave che regge l’architettura dello stabile letterario, della narrativa e del poetico, dell’epica e della teatralità, non è altro che l’io. E per millenni (se solo consideriamo la letteratura europea dalle prime fonti dalla caduta pressappoco del latino e dell’avanzare delle lingue volgari, quindi dalla scuola federiciana al prestigio umanistico dei tre toscani che per forza di cose hanno dettato una linea, una dinamica senza precedenti, ognuno per varie ragioni – Dante da una parte, Petrarca per la lirica e Boccaccio per la narrativa) l’io ha costruito attorno a sé una civiltà umanistica che solo oggi – sempre per prestigio, direi – è tramontata.

Strilli Gabriele2Con il tramonto dell’io abbiamo quindi non solo il declinarsi di alcune tendenze su altre, ma la nascita di una nuova ed inedita civiltà: quella della mistificazione. Dalle ceneri della demistificazione, del cosciente (rimasto oggi in piedi solo per il romanzo e non in integralmente) nasce un sentimento mistificatorio che permette all’autore di cucire su di un unico pezzo o contesto, in un intero tessuto, parti di natura diversa. Così fatti, situazioni, accaduti in periodi diversi e di natura contrapposta vivono in un compromesso, in un grande contenitore; in altre parole rivivono in una sorta di democrazia che li accoglie senza alcuna perplessità di genere o di razza, di tempo di natura.

Altro aspetto importante, da non emarginare, è il fatto che oggi non può più esserci con il tramonto dell’io lo scrittore ma l’opera, e l’opera racconta fatti, mistica le cose, diviene il tessuto sociale, la piazza di una polis nella quale si discute dell’ovvio e dello scontato come di fatti importanti. L’opera assume un discorso di meta teatralità, in questo caso sia essa di poesia o di narrativa, di teatro o di altra origine, in cui il raccontato non si racconta ma si esplicita tramite una moltitudine di racconti; il raccontato non è l’essere parlante ma il parlato. La scrittura letteraria, narrativa o poetica, drammatica o epistolare, organica o frammentaria, non è più significato ma significante: in sé racchiude miriadi di contesti e realtà. Ogni realtà è una realtà altra da sé.

Tra i promotori della caduta dell’io, dell’omissione ontologica, certamente Rimbaud ne è il padre costituente, l’archetipo dal quale nasce questa nuova civiltà. Molti altri per fortuna lo hanno seguito e molti altri, apostoli e avvocati di Satana hanno spinto una rivoluzione che almeno in ambito letterario non è da definire di cartone. È stata una vera rivoluzione. Una rivoluzione che ha fatto cadere un’ontologia classica, accademica, purista per sostituirla con una civiltà molto più duttile ed estroversa.

Tornando al teatro, penso che oggi il teatro non possa essere più di genere, se non per piccole pièce, non può più raccontare un fatto preciso, un’epoca, cioè non può più essere storico. E qualora lo fosse – ci sono stati casi anche nel novecento di storie di scena che avevano costrutti storici, basti pensare al teatro di Sartre – lo è sempre a metà perché anche se il fatto è reale il genere tramite il quale viene raccontato lo mistica, traviandolo verso un oltre. Il teatro poi, dicevo, è forse quel genere letterario non è più letteratura (torno a ribadire il concetto di letteratura come solo romanzo) che oggi non solo è vicino alla poesia e al modo di pensarlo che fa pensare alla poesia, ma può avere solo una natura ermafrodita: da una parte troviamo quello di scena (cioè pensato per la rappresentazione) e dall’altra quello che è rimasto di stato.

Il teatro pensato per la scena, anche se si avvale di una scrittura a monte, vive e trova un nesso oggettivo della propria esistenza solo affidandosi alla regia e non alla ingegneria letteraria. L’altro, quello di stato, cioè di parola vive solo attraverso un’architettura poetica e lì muore. Il poeta che oggi si trova a scrivere teatro difficilmente lo scrive in prosa, ma usa la forma drammaturgica per fare comunque poesia: ecco la ragione di un teatro in versi. Un teatro che spesso è pensato anche dallo scrittore di narrativa e che in quel caso non è altro che lo scarto stilistico la differenza della narrativa tradizionale.
Gli esempi a quello che sto affermando sono molteplici; sarebbe sufficiente pensare al teatro di Pasolini ( in tutto sei tragedie o improbabili dialoghi in versi), di Luzi, come per i romanzieri di Sciascia, Delillo, Wilde, Celine, e il già citato Sartre.

Se uno di fatto si prende la briga di leggere queste scritture si rende conto che il teatro non è più, in questo caso, pensato per la scena come nel caso, restando in Italia, di Pirandello o De Filippo (veri uomini di scena), di Scarpetta o del rivoluzionario della scrittura commediografa Goldoni o di un Moliere, ma è una scrittura di scarto, un divario di percorso, una messa tra parentesi per esprimere il genere solito con il quale di norma un autore scrive. Il caso di Celine, può essere un valido esempio, è emblematico: sia in progresso sia in uguaglianza, le uniche due opere teatrali che ha scritto Celine vive la scrittura dialogata come un gioco, una cosa minore rispetto agli altri suoi lavori. Infatti nelle due pièce il Celine del viaggio a termine della notte o di morte a credito pare essere assente, pare giocare con sé stesso consapevole di aver giocato molto bene e di aver fatto goal nelle altre sue fatiche.

Il concetto della mistificazione storica da parte della poesia e del teatro è un dato tremendamente attuale e ha ragioni puramente post-ontologiche. Se l’ovvio (in questo caso non scontato) della narrativa (vera civiltà letteraria del contemporaneo) porta l’io occultato e omesso ad essere ancora cosciente, la poesia (direi quasi la inciviltà o la post-civiltà della poesia) e con essa i tentativi di teatro di stato o di parola giocano in centro campo solo mistificando il presente e lo stato delle cose. Il teatro come la poesia non ha più modo di essere contestualizzato, vive una propria non dimensione che è un’archeologia industriale. In poche parole questi due generi vivono oggi fuori dalla storia in termini storicisti e ogni tentativo di esegesi del genere sarebbe per l’appunto una assurdità. Oggi stesso, uno storico della letteratura o un critico che si avvale di un tentativo di storicizzazione, scarta il pianeta poesia e con essa la drammaturgia di parola.

L’impossibilità a essere storicizzati nasce anche dal fatto che mentre il romanzo ha ancora (nonostante tutti i problemi dell’editoria) un pubblico, la poesia non parla più a nessuno in quanto non ha più un pubblico che la segua, si perde o rimane fine a sé stessa: un’isola assolata ai primi scoppi di sole primaverile, un giardino incantato recluso da una fortezza cui a nessuno è dato accedervi.

Strilli Lucio Ho nel cervello

Lucio Mayoor Tosi
13 febbraio 2018 alle 23:53

L’inizio di una poesia può essere porta d’ingresso o di uscita. A volte esci e sei già dove apprendi, vedi e dove parlano altri. Fantasmi. Altre volte, dalla stessa porta si può solo entrare, retrocedere: e sei nell’io, come in gabbia. Cosa può mai accadere nell’io se visto, o perfino vissuto dall’io stesso? Nulla. Dichiarazioni di inquietudine e desiderio, sofferenze, consolazioni, cecità… Sciocchezze! Serve distanza, un sé capace di allontanarsi, mettersi in viaggio. Non è la distanza della contemplazione estetica, perché non è dimenticanza di sé. È poter essere tutti i protagonisti in gioco, in azione. Essere tutte le loro parole. E magari averne di preferiti, vale a dire alcuni che ritornano, che stanno qui al posto tuo, arrivati da chissà dove. Io è un altro, io sono tanti altri. L’inizio di una poesia è tutto, altrimenti si sta all’ingresso pensando e pensando. L’inizio è oltre la porta. Ma la porta è visibile solo quando è chiusa. Davanti alla porta chiusa ci possono stare anche dei meditatori silenziosi, privi di pensiero. Osservatori disinteressati, quindi non contemplativi. E’ raro che tra questi si trovino anche dei poeti. Se accade vi è conflitto tra logos e silenzio. E dove c’è conflitto c’è sofferenza. In questo caso si è poeti a fasi alterne: ogni tanto si va via ma per non perdersi servono notti stellate, punti luminosi. Presenze, anche lontane. Quindi ci si sente in missione, chi per la filosofia, chi per la scienza, chi per la storia. Ma queste sono sempre qualcuno.
– Hai finito? E’ tardi, vedi se Andersen è rientrato…

Una poesia di Mauro Pierno
14 febbraio 2018 alle 6:58

D’accordo …poi spengo la luce!
e ti racconto dei gatti al buio
e dei politici, Kitdog e Kitwoman.

Orrendo al ballo stasera quell’abito di strass!
Deduco che dormi, il cane elegantissimo però.
Non starmi a sentire allora.
Ti propongo un sogno a soggetto.

Di fronte al mercato delle chiacchiere in treno, stamani, la scelta esclude i Negroni,
milioni di milioni le stelle di…e vacillano
su Salvini non ricordano il nome del
candidato.

È una parte del dramma che dimentichiamo più spesso.
Parlare alla gente
come si fa?

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49 risposte a “La Musa degli stracci – Poesia di Gino Rago – Commenti e poesie di Pier Aldo Rovatti, Andrea Emo, Donatella Costantina Giancaspero, Mauro Pierno, Iuri Lombardi, Anna Ventura, Giorgio Linguaglossa, Wilma Minotti Cerini, Lucio Mayoor Tosi, Dunya Mikhail

  1. gino rago

    La gratitudine e il grazie a Giorgio Linguaglossa, per l’esercizio esegetico di rara bellezza che dedica a “La Musa degli stracci”, in questi versi:

    L’aedo greco, il poeta di oggi

    “L’aedo greco disse al figlio:«Non voglio che diventi lo zimbello degli Achei.
    Ti lascio le stelle che brilleranno a lungo nel tuo sonno.
    Il mare che ti riempirà di viaggi. Ti lascio il sole che mio padre lasciò a me.
    Ti ordino di non dimenticare perché ricordare è non morire.
    E grida anche se grandine, pioggia e vento dovessero seppellire la tua voce.
    Non dire mai “mi sento indegno” sottraendoti alla lotta
    Anche se il pane dovesse farsi pietra e l’acqua fango».

    Il poeta di oggi dice al figlio:«Ricomponi ciò che fu intero
    Scheggia dopo scheggia. Ti lascio i cascami radioattivi.
    La ricchezza del mondo in poche mani. Le macromolecole di veleni.
    Ti lascio la plastica. Le segature. Le vernici e il grafene.
    Le parole senza suoni. Le vie del dolore. Il catrame.
    L’alluminio a lamine sottili. Le maschere. I trucioli. Le colle.
    Ti lascio il mare che non divide ma che unisce terre.
    E questi versi: “Il frutto che cade si ferma a metà strada- tra il ramo
    E l’erba e chiede-: Dove sono?” *
    Ecco la tua ricchezza. Da qui se vuoi ricostruisci il mondo».”

    Gino Rago
    * Versi di Werner Aspenstrom (da Critica della ragione Sufficiente. Verso una nuova ontologia estetica di Giorgio linguaglossa, pag. 173)

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  2. Vorrei articolato meglio il pensiero per non essere fra in teso. Nulla nei cassetti. Si disfa pure l’interesse.
    I poeti solo riconoscono i poeti
    sia chiaro a grandi l e t t e r e.
    Stracci di Miss e Musi per la festa del quotidiano, rifarsi un vestito.
    Sempre.

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  3. Iuri Lombardi mette alcune questioni sul tappeto, parla di «mistificazione storica da parte della poesia e del teatro»… ma io ci aggiungerei anche del cinema, e poi anche della fotografia, delle arti figurative e del romanzo (ridotto alla stregua di scrittura giornalistica)…

    La Musa degli stracci – Poesia di Gino Rago – Commenti e poesie di Pier Aldo Rovatti, Andrea Emo, Donatella Costantina Giancaspero, Mauro Pierno, Iuri Lombardi, Anna Ventura, Giorgio Linguaglossa, Wilma Minotti Cerini, Lucio Mayoor Tosi, Dunya Mikhail


    Il problema della poesia in Italia esiste almeno dalla fine degli anni sessanta e oggi è chiaramente avvertibile; il decadimento di prestigio di un genere è andato di pari passo in questi ultimi decenni con il degradamento dei comportamenti da parte di piccole lobbies interessate ovviamente a storicizzarsi a vicenda e a destabilizzarsi a vicenda. La parola «mistificazione» è una parola grossa, ma la ritengo appropriata, la questione poesia è ormai da molto tempo una «mistificazione», e la critica ha da molto tempo rinunciato ad operare in questo terreno di scontro tra piccole e grandi lobbies. E poi oggi un critico non avrebbe da dire granché sui libri di poesia che gli editori sfornano a getto continuo.

    Io che non sono un critico e ritengo di non possederne le credenziali, mi guardo bene dall’affondare il pensiero critico quando leggo un libro di poesia… l’avrete notato, penso, negli ultimi commenti su libri di vari autori che mi soffermo sulle categorie generali; ho parlato genericamente di «raffreddamento delle parole», senza mai andare più in là (ovvero, più dentro alle questioni). In realtà, come non c’è più un linguaggio critico (un linguaggio non lo si trova bello e pronto ma lo si costruisce), così non c’è più da molto tempo un linguaggio della poesia. Se vogliamo essere coscienziosi la questione è questa.

    Il problema è che i «poeti» di questi ultimi cinquanta anni sono «poeti» per auto definizione, per auto investitura… Come afferma Berardinelli, non hanno più la coscienza storicistica dei poeti della generazione dei Bertolucci, dei Pasolini, dei Fortini, dei Montale, dei Sanguineti… non hanno più la consapevolezza della tradizione che avevano quei poeti di un’altra epoca e di un’altra civiltà letteraria. Perduta la consapevolezza storica tutto quello che sono capaci di fare è di pubblicizzare se stessi e la propria produzione. In realtà, nella migliore delle ipotesi sono degli addetti al marketing.

    Altrove la Lombardi parla di «archeologia industriale» e di «post-ontologico»; è chiaro che qui c’è una scarsa considerazione per il significato filosofico delle parole. Che significa post-ontologia? (io non lo so); che significa «archeologia industriale»? (io non lo so). So che siamo in pieno Dopo il moderno. Il problema del «Dopo» è oggi nel nostro mondo pieno di progetti infuturanti, quanto mai impellente. Come scrive Ewa Lipska «l’onda d’urto dell’oscurità» è più forte di qualsiasi bomba atomica e si diffonde alla velocità della luce. Che cosa sia questo Dopo il moderno, confesso di non saperlo neanche io, utilizzo le parole come scatole vuote. Forse, noi tutti utilizziamo le parole come scatole vuote, stracci sonori alla maniera di Antonio Sagredo…

    Scrive la Lombardi:
    «Il concetto della mistificazione storica da parte della poesia e del teatro è un dato tremendamente attuale e ha ragioni puramente post-ontologiche. Se l’ovvio (in questo caso non scontato) della narrativa (vera civiltà letteraria del contemporaneo) porta l’io occultato e omesso ad essere ancora cosciente, la poesia (direi quasi la inciviltà o la post-civiltà della poesia) e con essa i tentativi di teatro di stato o di parola giocano in centro campo solo mistificando il presente e lo stato delle cose. Il teatro come la poesia non ha più modo di essere contestualizzato, vive una propria non dimensione che è un’archeologia industriale. In poche parole questi due generi vivono oggi fuori dalla storia in termini storicisti e ogni tentativo di esegesi del genere sarebbe per l’appunto una assurdità. Oggi stesso, uno storico della letteratura o un critico che si avvale di un tentativo di storicizzazione, scarta il pianeta poesia e con essa la drammaturgia di parola».

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  4. Non posso fare a meno di esprimere (sia pure con leggero ritardo)il mio apprezzamento per la poesia di Duna Mikhail ,che mi riconferma nella convinzione che gli oggetti abbiano un’anima, e che il loro rapporto tra loro e gli uomini sia più stretto di quanto si possa immaginare.Tra me e Linguaglossa non c’è nessun disaccordo sulla lettura di tutta la “questione meridionale”; entrambi sappiamo quale immane equivoco abbia fatto piazza pulita di una cultura antichissima(da “Satura tota nostra est”)a vantaggio di un nordismo meneghino degno di ogni rispetto,ma colpevolmente ignaro dei grandi valori del Sud.Perfino i Borboni,oggetto di infinite barzellette, furono amici del Sud, che era la loro terra,e , sia pure a modo loro,vollero occuparsene.Ma ciò non garbava al grande Cavour,che aveva progetti (imperscrutabili) tutti suoi, e ci consegnò ai Savoia, con i risultati che si sono visti.

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  5. antonio sagredo

    gli STRACCI di RIPELLINO, da DAS LETZTE VARIETE’
    —————————————————————————————
    Chi potrò salvare con gli stracci dei versi,
    con questo ingordo viluppo di inutilezze,
    con questa inguaribile malsanìa di parole,
    ora che il gasolio delira e il carovita vaneggia
    e lo zucchero muore?
    Chi potrò soccorrere col balsamo delle metafore,
    di cui in gioventù ho fatto incetta,
    se io stesso ho paura delle vuore domeniche
    e delle notti senza un filo di luce
    e dell’isoscele pioggia,di questa belletta
    che intride le reni?
    Assedia anche me il coprifuoco, il deserto lunare.
    Penso ai cionchi sprovvisti di grucce,
    ai vecchi e ai malati,
    agli abbandonati.
    Chi li andrà più a trovare?

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  6. antonio sagredo

    gli STRACCI di SAGREDO
    ———————————————————————–
    Crocifissione, Blake e Bacon-Acquaragia!

    Come se tra una lacrima e l’altra non ci fosse un volto
    nel tabernacolo mancante dei suoi avanzi,
    dove nessun surrogato puoi celebrare come uno scuoiato verme,
    forse solo il cervello della notte è rimasto sulla croce inesistente
    che serpeggia
    e striscia colando
    a testa in giù
    un evangelo deformato!

    Ma il ghiaccio – questa nostalgia dell’acqua! –
    è geloso come il Caso dell’Istinto
    e registra – l’accidente!

    E nelle forme dei destini ammiravo la disperazione dei colori avanzati,
    di questo nugolo informe – stracci d’essenze e d’esistenze!-
    che a unghiate m’inquisiva fin dentro le risposte,
    come di un proscritto il sorriso artificiale di uno spettro
    che invano tormentavo coi graffiti
    nella gabbia – cubica!

    Era su quel riso indipinto e rauco-straziante
    – discografico cigolìo del gallo –
    il supplizio ellittico dei cardini circensi:
    la ruggine stillicida ch’erodeva il collo!

    E pigolava come una sguaiata benda la cresta di ferro –
    labbra ai venti della ruggente rosa più sfrontata
    insanguinata banderuola,
    che una freccia erosa penetrava con barbariche incisioni.

    antonio sagredo

    Vermicino, 16-17-23 gennaio 2007

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  7. Pingback: La Musa degli stracci – Poesia di Gino Rago – Commenti e poesie di Pier Aldo Rovatti, Andrea Emo, Donatella Costantina Giancaspero, Mauro Pierno, Iuri Lombardi, Anna Ventura, Giorgio Linguaglossa, Wilma Minotti Cerini, Lucio Mayoor Tosi, Dunya Mikhail

  8. Andrea Emo:

    “Io sono un buono a nulla, ciò posso anche confessarlo; ma sono appunto un buono a nulla, capace del nulla; capace di affrontare guardare sopportare il nulla”.

    Sulla celebre mela di Cézanne.

    “La radice dell’ arte è l’ eternità dell’ effimero, il pervenire all’ eterno accettando, accogliendo l’ effimero come tale; senza tentare di fissare, di obbiettivare, di possedere l’ istante, accettandolo come pura negazione, come ciò che non si può affermare direttamente”.

    È questo che fa la nuova ontologia estetica:

    costruire una «cattedrale delle ombre» quale unica possibile rappresentazione del mondo dei cosiddetti vivi.

    Se poi questo qualcuno lo chiama nichilismo, non so, non saprei, e neanche mi interessa…

    Le sciocchezze e i banalismi dei luogotenenti del truismario che si affrettano a narrarci i banalismi dell’io, li trovo rivoltanti…

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  9. Rossana Levati

    Con grande piacere sulla pagina odierna leggo “La Musa degli stracci” di Gino Rago che conoscevo in una variante più ridotta: essa completa in un certo senso il “ciclo degli stracci” compiutamente tracciato dall’autore in un insieme organico di opere, al quale appartengono anche la “Lettera dalla sopravvissuta di Theresienstadt” o “16 ottobre 1943”, tutti testi che si illuminano l’un l’altro in un coerente richiamo alle “parole di cenci nel fango”(“Lettera”) che vengono lasciate in eredità alla nuova poesia, parole che, in una sfida terribile, devono rifarsi “carne”, rivestirsi di “carne viva”, quella che fu strappata ai perdenti, e ai “cenci cuciti alle intelaiature della storia” (“16 Ottobre 1943”), parole-cenci che sono ciò che rimane di un mondo morto per sempre insieme ai deportati del ghetto.
    Se questa è la disperazione del nostro tempo, dove sopravvivono i “fili di fumo” di un mondo ridotto a cenere infeconda, dove, come dice l’autore in un altro testo grandioso che ho avuto il piacere di leggere (“I poeti del Novecento”), i camini di Auschwitz stanno “a perpetuare il ciclo del carbonio” e ancora oggi fumano impietosamente e “fumeranno per sempre nel tempo e nello spazio”, ogni volta che gli sconfitti ( e qui non dimentico il “ciclo troiano” dello stesso autore) saranno estromessi dalla vita, la poesia di Rago ha anche la capacità di indicare una trama di segni positivi, piccoli e preziosi nella loro apparenza minima, quasi nascosta : sono i segni che solo il poeta può cogliere e indicare agli uomini.
    “Una rosa tra le dita. Prendila” è per me sorella di quei “fiori di ciliegi” che piovono sulle parole-cenci a conclusione di 16 Ottobre, e in essa ritrovo un segno che mi rimanda ai “frutti che maturano” , al fiore che sboccia a comando del poeta (in “Sei poeta”), solo quando il poeta appunto, eliminando il superfluo di una dizione eccessiva, “sfarinando il marmo in più” come fa lo scultore, raggiunge il cuore del mondo e può rinnovarlo con la sua creazione poetica.
    Così il mondo può essere ricostituito dai suoi frammenti, perché il viaggio cui fatalmente il poeta è destinato, viaggio a cui non può sottrarsi, lo porterà dalla poesia, “mondo che si aprirà all’alba” al “destino di dolore di ogni terra coperta dalla neve”: dalla ricchezza al dolore, dal dolore alla ricchezza. La sala degli specchi cui la sola Musa del poeta ha accesso sarà l’unico modo di avere una rilettura completa del mondo, non deformata ma più veritiera di altre letture fittizie della realtà.
    L’altra poesia di Rago che leggo oggi per la prima volta, “L’aedo greco. Il poeta di oggi”, in questo doppio dialogo a due voci che affianca, al messaggio di un aedo classico, le parole del poeta moderno, rende ragione di come sia immensamente più difficile oggi fare poesia: se all’aedo greco bastava un solo compito, “non dimenticare, perché ricordare è non morire”, oggi il compito del poeta è ben più arduo, ricomporre un mondo che è andato in frantumi, ritrovare un’unità che abbiamo dolorosamente perduto (prima ancora che con la natura o con la divinità, l’unità con noi stessi): ma tra i “cascami radioattivi” e le “macromolecole di veleni”, ancora troviamo alcuni segni: il “mare che unisce terre”, il frutto che” si ferma a mezza strada”: un punto di partenza per ricostruire il mondo, una preziosa eredità per il lettore abbia la fortuna di imbattersi in questi versi.

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  10. gino rago

    Gino Rago, A proposito del «quotidianismo» e dei «quotidionisti» – Brano tratto da Giorgio Linguaglossa, Critica della ragione sufficiente. Verso una nuova ontologia estetica – Progetto Cultura, 2018, pp. 512, € 21.00, [pp. 452- 460]

    Il brano che propongo è tratto dalla intervista che Giorgio Linguaglossa rilasciò a Luciano Troisio all’indomani della pubblicazione del saggio La nuova poesia modernista italiana (1980 – 2010)
    Ne estraggo qualche brano e lo propongo come materia di arricchimento e/o approfondimento delle questioni in corso, quotidianismo poetico e linea meridionale sovra le altre, questioni che Rossana Levati coglie, sdipana, collega e approfondisce, come meglio non è possibile fare, dall’alto di una vastità di dottrina, all’interno d’una civiltà letteraria di finissimo gusto che come aquila reale sul balbettio contemporaneo in alto vola.

    […]
    Sulla poesia dei «quotidianisti» Linguaglossa così articola il suo pensiero:

    “Nella poesia degli odierni «quotidianisti» (gli equivalenti in poesia della piccola borghesia), gli «oggetti» (privi di una riforma del linguaggio poetico ove collocarli) restano muti, e non basta un accumulo (o una rarefazione) di «oggetti» per comunicare quello che il soggetto che li pronunzia vorrebbe. Chissà perché,nella poesia del «quotidiano» si verifica una moltiplicazione di «oggetti» che dall’esterno precipitano nel foglio bianco della pagina scritta,(per contro, nella pagina degli «astrattisti» si verifica il fenomeno contrario: una rarefazione degli «oggetti»). E questo è sufficiente a dare dignità di discorso poetico alla pagina scritta? Io mi sentirei perlomeno autorizzato a nutrire seri dubbi in proposito. Tradurre sulla pagina bianca l’accumulo di oggetti che insiste nel mondo esterno è una famigerata ed errata utopia, una pia illusione dei «quotidianisti». Ciò che i «quotidianisti» comunicano è unicamente una ideologia del «quotidiano», ovviamente, un «quotidiano» diretto e deciso dall’esterno (dall’io, dall’io degli altri , dai media, dalla tradizione stilistica), un «quotidiano» parallelo e ancillare alla ideologia della fluidificazione universale propria delle moderne società mediatiche. Quello che ingenuamente molti autori credono, cioè che sia sufficiente creare un «controquotidiano» per criticare ideologicamente il «quotidiano» della comunicazione mediatica, resta una pia illusione. Spero non sfugga il tono derisorio e sarcastico che impiego quando mi rivolgo alla poesia «denaturata» del minimalismo di Valerio Magrelli, Vivian Lamarque e Franco Marcoaldi (oltre l’infinita servile schiera degli imitatori); ormai l’invasione della «ontologia piccolo-borghese» è tale che, per paradosso, sembra ai miei contemporanei «che al di là del minimalismo non ci sia altro che il minimalismo» (!!!) […]

    Troisio domanda

    Come giudichi i «Quotidianisti»? E la «dismetria»? E la «distassia»? Vuoi spiegarmi il rapporto che lega la stagnazione economica agli «stili da stagnazione» e alla menzogna del «kitsch della bella interiorità»?

    Risposta di Linguaglossa

    “I «quotidianisti» sono coloro che eleggono il «quotidiano» a monumento sepolcrale della poesia. E poi, che cos’è il «quotidiano»? Qualcuno ha mai codificato quale «quotidiano» ammettere in poesia? a me sembra una gran corbelleria questa questione del «quotidiano». Veniamo alla dismetria (fenomeno che designa la distruzione della struttura metrica) e alla distassia (fenomeno che indica la distruzione della linearità sintattica). Direi che ciò che resta dei linguaggi poetici contemporanei è qualcosa di simile alla immagine benjaminiana:i linguaggi poetici contemporanei del Dopo il Moderno sono simili ad un labirinto: giungi ad un incrocio da una via diversa da quella solita e non lo riconosci, non ti raccapezzi,non riesci a distinguere quell’incrocio da altri similari. Ecco, i linguaggi poetici del Dopo il Moderno partono da un’esperienza virtuale, onirica, metaempirica del tutto sganciata da quella cosa che un tempo si indicava come una «esperienza significativa»; c’è un attante astratto, poroso, evanescente,trasparente, e di lì si procede per divagazione e/o diramazione dell’argomentazione (del commento imbonitorio), in un moto, direi, inerziale, ellittico, eccentrico, zigzagante, de-concentrico, borderline, ma sempre, rigorosamente, meta empirico. Di fatto, si tratta di una poesia spettacolo (o da avanspettacolo): variano gli attori (e gli attanti) ma non varia l’enunciato spettacolo di quella che un tempo lontano era la versificazione. Intanto, la versificazione si è sfrangiata, spezzettata,l’a capo del verso libero non è più problematico: si va a capo quando si vuole. I prodromi di un tale fenomeno di disarticolazione della versificazione si possono riconoscere nel tipo di poemizzazione del reale che incontriamo in un poeta come Valentino Zeichen fin dalla sua opera di esordio, Museo interiore del 1976. Il fenomeno dell’incremento macrobiotico, abnorme, smisurato della poesia ilare-giocosa, cinico-scettica e ludico-urbana (che assicura la permanenza del verso-spettacolo e della versificazione sgangherata) è garanzia della impermanenza della società mediatica dello spettacolo, della galleria figurale delle immagini serializzate e riproducibili all’infinito. Di fatto, la poesia-apparenza è divenuta la poesia-spettacolo, la poesia da cabaret. Possiamo dire, senza remora, che come l’enunciato spettacolo abita il palcoscenico del villaggio mediatico, così la parola poetica abita il foglio bianco di una presenza acefala ede-corticata dove il monstrum (non più visibile) che si appalesa non è né pubblico né privato,non è più il male di vivere né mai sarà un esistenziarsi più o meno destinale di chi non ha più da tempo immemorabile un destino tout court. Figurativismi parolieri o presentificazioni parolate oserei definire la versificazione dei linguaggi poetici del Dopo il Moderno, un continuum di presenzialismi che rivelano, per contrasto, la presenza di un «io» de-nucleato, de-realizzato, de-psicologizzato, un quotidiano dequotidianizzato. In una parola: infrollito di imbecillità, che oscilla tra iperrealismo, ipernichilismo e cromatismi e transita in una zona grigia e bigia dove tutti parlano dei medesimi banalismi opportunamente verniciati che recalcitrano, scalpitano e inciampano tra sintagmi asseverativi e didascalici,impulsivi e riflessivi,tra discariche urbane e discariche letterarie dove il logos è diventato un «logo» di «trasloco» di linguaggi poetici equipollenti perché ormai definitivamente decorticati e sproblematizzati. In questo transito dal crudo al cotto, dal caldo «embrione» del linguaggio poetico di un tempo lontanissimo all’algido della società mediatica dello spettacolo, in questo iter di de-costruzione (linguistica e stilistica) la similpoesia del Dopo il Moderno si incarna in uno stile non-stile da reportage e da referto psichiatrico, abbondantemente attingendo (come colonna insonora) alla lezione del fumetto e alle didascalie-inserto delle riviste massmediatiche più patinate, ai sintagmi del cabaret, al frammento interruptus, al memento delle idiosincrasie del soggetto colto nel flash della sua immobilità posturale[…]

    Domanda di Troisio

    Ampio spazio hai doverosamente riservato alla nuova poesia modernista femminile, quella che viene di recente definita(specie politicamente dalle nostre amiche) «di genere».

    Risposta di Giorgio Linguaglossa

    “ Mai prima nella storia d’Italia la poesia femminile aveva acquistato uno spazio così grande,almeno quanto quello della poesia maschile. Dopo Amelia Rosselli, Alda Merini, Helle Busacca, e Patrizia Valduga, Giovanna Sicari, oggi ci sono autrici di valore come Mariarosaria Madonna, LauraCanciani, AnnaVentura, Letizia Leone, Costantina Donatella Giancaspero […]

    Luciano Troisio Domanda

    Infine,ma soltanto geograficamente, la linea meridionale della nuova poesia.

    Risposta di Linguaglossa
    “ Circa la «disparizione» della poesia meridionale. La faccenda è molto più antica: quando nel 1981 Giovanni Raboni pubblica un’antologia dal titolo Poesia Italiana Contemporanea. Gli inclusi sono: Saba, Rebora, Campana, Cardarelli, Ungaretti, Sbarbaro, Montale, Penna, Sereni, Luzi, Zanzotto, Pasolini; gli esclusi: Quasimodo, De Libero, Gatto, Sinisgalli, Cattafi, Ripellino, Piccolo, Bodini, Scotellaro,Calogero.
    Si tratta di un vero e proprio ripulisti, di una liquidazione della poesia meridionale. È la prima operazione di autopromozione della poesia del Nord; e che il curatore sia un poeta della competenza e del rango di Raboni non deve trarre in inganno, è una operazione lucida che non lascia un minimo adito al dubbio su quelle che sono le intenzioni politico-letterarie a nord del Po.”

    Troisio Domanda:

    Personalmente, sono piuttosto scettico sulla «novità» della poesia odierna. È vero che nel millennio attuale si pubblicano volumi di autori noti e meno noti, frutto di decorosissima e astuta cucina; temo che dopo i favolosi anni Sessanta (eravamo giovani) e quelli di piombo, il cosiddetto «Riflusso» non sia ancora esaurito.Bellezza,fascino, ma poca novità.
    Linguaglossa Risponde

    “Rispondo con le parole di Marcuse: «È probabile che il secondo periodo di barbarie coinciderà con l’epoca della civiltà ininterrotta».

    Domanda di Troisio:

    Quali sono i tuoi progetti? Parlaci dei tuoi prossimi lavori.
    Risposta di Linguaglossa

    Ho un solo progetto: mantenere la mia libertà di pensiero. Mantenermi in vita. Libero da pregiudizi e da interessi di parte. Auguro a me stesso un giudizio critico sempre più affilato e appuntito[…]

    GR

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  11. gino rago

    Desidero condividere con i frequentatori e le frequentarici de L’Ombra delle Parole questo gioiello ricevuto da pochi minuti in dono: la traduzione in francese de “La Musa degli stracci” a opera della grande Edith Dzieduszycka, che ringrazio di vero cuore.

    Gino Rago
    La Muse des chiffons

    “Rien n’est plus opaque
    que la totale transparence.
    Le corps est couleur et odeur.
    Les soupirs des ondes rappellent le vent.
    Maintenant seulement j’éclos. Une rose entre les doigts.
    “Prends-la”.
    Je m’aperçois en cet instant seulement que l’arthrite déforme les mains.
    Tout a commencé par une chute.
    […]
    Extraire le mystère.
    Vivante tu te meus dans ton propre corps.
    Mais des bancs de nuages rident
    les visions rationnelles.
    […]
    Se retirer? Si. Se retirer.
    Mais des formes usées du poétique.
    Et se refaire un vêtement.
    […]
    Un habit tout neuf de paroles
    pour la fête et pour tous les jours.
    Se confectionner quelque chose de neuf
    dans l’atelier avec des chutes d’étoffe. Neuve est
    la poésie faite avec les coupons.
    Qui interroge encore l’oracle?
    Qui pose des questions radicales?
    Elle entre comme une Reine dans la salle des miroirs
    la Muse des chiffons.”

    (Traduzione di Edith de Hody Dzieduszycka)

    GR

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  12. antonio sagredo

    Il mio disprezzo per Raboni non avrà mai fine, ma non perché antimeridionalista, almeno, in poesia. Ma per la sua poesia che è mortifera, lugubre, senza vita, inerme e imberbe – la sua compagna :Serena Vitale, slavista e meridionale di Brindisi, ed è strano che non sia riuscita convertirlo. Tra l’altro allieva di Ripellino, palermitano. Ma penso a Carmelo Bene che pubblicamente, in televisione, lo sbeffeggiò in tal modo che il “poeta” non riuscì e non seppe replicare; vi è un video che tutti possono vedere.
    Nella storia della poesia del ‘900 questo Raboni non ha storia affatto!

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  13. donatellacostantina

    cari amici,
    Edith Dzieduszycka sta traducendo in francese una serie di scritti già comparsi sull’Ombra sulla nuova ontologia estetica e una ampia scelta di poesie della NOE (di Mario Gabriele, Gino Rago, mie, Giorgio Linguaglossa, Lucio Mayoor Tosi, Steven Grieco Rathgeb e qualche altro autore) da inviare a Petr Kral il poeta ceco che ha chiesto di essere informato sulla NOE e sui suoi esiti poetici. Non è un caso che un poeta intellettuale come Kral abbia mostrato interesse per questa nuova piattaforma della poesia italiana ed abbia chiesto notizie in proposito. I quotidianisti di Milano e i minimalisti della capitale possono dormire sonni tranquilli, non credo che un poeta come Kral sia interessato alle loro piccole cose…

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  14. gino rago

    Rossana Levati riflette su “L’aedo greco, il poeta di oggi” di Gino Rago

    Tornando a una seconda lettura della poesia “L’aedo greco, il poeta di oggi” che trovo estremamente, infinitamente ricca di spunti e suggestioni, penso anche a un particolare modo di esprimere le differenze tra poesia antica e moderna: la poesia greca è tutta fondata sulla memoria, se la massima deprivazione è proprio quella di non lasciare alcuna memoria di sé, né in questa né nell’altra vita: “Tu morta giacerai, né mai memoria di te ci sarà, nel futuro” è la maledizione di Saffo a una sua nemica, priva del dono delle Muse: “oscura anche in casa di Ade vagherai tra ciechi spettri”, l’oscurità che viene dal non raggiungere e lasciare memoria di sé è la massima maledizione, come invece il ricordo dei grandi eroi o semidei è ancora il motivo principale della poesia omerica o dei racconti erodotei, aspirazione suprema che proprio nel “lasciare traccia” di sé giustifica anche il sacrificio di una morte gloriosa.

    Il mondo è materia bruta e oscura, pesante come la pietra e il fango, elementi grezzi che attirano verso il basso una vita che è solo istinto di sopravvivenza, pane e acqua ne rappresentano dunque il nutrimento vitale, ma un nutrimento che tende al basso, alla pura materialità senza coscienza: in questo mondo gli elementi naturali rappresentano di contro una forza aerea e positiva: vento, pioggia e grandine scendono dal cielo, possono calare su una materia che giace inerte e rappresentano una forza ostile all’uomo, potenzialmente distruttrice, ma che è ancora nelle mani dell’uomo domare, incanalare, combattere.

    Il canto del poeta, termine di unione tra questi due estremi lontani ma non ancora in conflitto, è qualcosa di leggero, che può alzarsi in volo, che può farsi grido, che ha la stessa qualità aerea del vento e della pioggia, ed appartiene a una dimensione non terrena e brutalmente materiale come la pietra e il fango: ancora più su, il sole e le stelle, dominio degli dei e dei poeti, dono che rischiara le notti umane, stelle che possono innocentemente “brillare” ancora a lungo sul sonno, e che i poeti possono, come sanno fare Saffo e Omero, far brillare nei loro versi, o sugli eserciti nemici accampati nella notte sotto il cielo in attesa dello scontro o come termine di paragone della bellezza femminile o della propria irrimediabile solitudine.

    La lunghezza dei versi della prima strofa ha un valore rassicurante, quasi predittivo: un testamento di un padre al figlio che si è probabilmente ripetuto nelle generazioni: l’indicazione di una strada certa, che non dovrà essere abbandonata, ogni verso è una frase compiuta, al tempo stesso un dono: “Ti lascio” ripetuto due volte, una promessa (“Il mare ti riempirà di viaggi”) e una prescrizione: “Ti ordino” , “grida”, “non dire”. Ma il mondo ha dei confini certi e stabili per l’aedo antico, e le frasi che categoricamente si accampano nell’intero verso lo confermano, lo assicurano.

    Nella strofa che riguarda invece il compito del poeta moderno, tutto si abbrevia, si accorcia, perde di fluidità. Il verso è inizialmente un elenco di angoscianti schegge, che solo con fatica si potranno ricomporre, e questo è il compito che resta al poeta, in una unità perduta che nulla conserva dell’antica leggerezza del canto. Il canto dell’aedo non può più volare, non ha più nulla della dimensione aerea del grido che sfidava pioggia e vento.

    La stessa natura si è dissolta, sostituita dal disequilibrio (“la ricchezza del mondo in poche mani”), dall’artificialità di creazioni (plastica, alluminio, vernici, segature, colle) moderne che hanno allontanato la semplicità del mondo, o l’hanno rivestita di una patina innaturale. Il verso ha un ritmo nuovo: un elenco serrato, affranto, dove la “linearità” e la lunghezza del discorso dell’aedo ha perso la sua fluidità, si è spezzata in un faticoso elenco. Ritorna intero, non a caso forse, il verso in cui si parla del mare “che non divide ma che unisce terre”, l’antico luogo dei viaggi, delle partenze e dei ritorni, l’ultima traccia di una natura che esprime la sua persistenza, la sua durata. Il bivio tra ramo e terra in cui si coglie il frutto che cade è ancora il luogo di una scommessa, di una precaria eredità lasciata al figlio del poeta di oggi, a cui è dato di intervenire con la sua volontà, con una scelta che ruota intorno al “se vuoi” incastonato nell’ultimo verso, appena prima del “ricostruisci il mondo”
    Rossana Levati

    Poesia di Gino Rago

    L’aedo greco, il poeta di oggi

    “L’aedo greco disse al figlio:«Non voglio che diventi lo zimbello degli Achei.
    Ti lascio le stelle che brilleranno a lungo nel tuo sonno.
    Il mare che ti riempirà di viaggi. Ti lascio il sole che mio padre lasciò a me.
    Ti ordino di non dimenticare perché ricordare è non morire.
    E grida anche se grandine, pioggia e vento dovessero seppellire la tua voce.
    Non dire mai “mi sento indegno” sottraendoti alla lotta
    Anche se il pane dovesse farsi pietra e l’acqua fango».
    Il poeta di oggi dice al figlio:«Ricomponi ciò che fu intero
    Scheggia dopo scheggia. Ti lascio i cascami radioattivi.
    La ricchezza del mondo in poche mani. Le macromolecole di veleni.
    Ti lascio la plastica. Le segature. Le vernici e il grafene.
    Le parole senza suoni. Le vie del dolore. Il catrame.
    L’alluminio a lamine sottili. Le maschere. I trucioli. Le colle.
    Ti lascio il mare che non divide ma che unisce terre.
    E questi versi: “Il frutto che cade si ferma a metà strada- tra il ramo
    E l’erba e chiede-: Dove sono?” *
    Ecco la tua ricchezza. Da qui se vuoi ricostruisci il mondo».”
    G. R.

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  15. Dalla poesia dei minimalisti italiani si evince che il linguaggio impiegato è pensato in quanto funzionale alla «riconoscibilità mimetica» del «reale». Nella poesia ad esempio di un Petr Král, il linguaggio impiegato viene utilizzato per una finalità non più «mimetica» del reale.

    È ovvio che la «nuova ontologia estetica» guardi con molto interesse alla poesia di Petr Král, di Kjell Espmark, di Dunya Michail, della Frostenson piuttosto che a quella della poesia italiana di fine novecento, ma non per partito presto, quanto perché nella poesia králiana c’è un modo di intendere il «reale» in una accezione non più «mimetica» come è stato in auge nella tradizione poetica italiana maggioritaria di questi ultimi decenni, ma in una accezione diversa, più complessa e problematica.

    Da quanto detto, risulta evidente l’assoluta incoglibilità del linguaggio poetico králiano a seguito della sua reticente funzionalità referenziale e della sua distanza dalla lingua di relazione e dalla utilizzazione in chiave informazionale del linguaggio poetico.

    Un linguaggio poetico deve essere incoglibile per essere significativo e significante, altrimenti ricade nella accessibilità tipica del linguaggio informazionale.

    Scrive Lacan:

    «Nella misura in cui il linguaggio diventa funzionale si rende improprio alla parola, e quando ci diventa troppo peculiare, perde la sua funzione di linguaggio.
    È noto l’uso che vien fatto, nelle tradizioni primitive, dei nomi segreti nei quali il soggetto identifica la propria persona o i suoi dei, al punto che rilevarli è perdersi o tradirli […]
    Ed infine, è dall’intersoggettività dei “noi” che assume, che in un linguaggio si misura il suo valore di parola.
    Per un’antinomia inversa, si osserva che più l’ufficio del linguaggio si neutralizza approssimandosi all’informazione, più gli si imputano delle ridondanze […]
    Infatti la funzione del linguaggio non è quella di informare ma di evocare.
    Quel che io cerco nella parola è la risposta dell’altro. Ciò che mi costituisce come soggetto è la mia questione. Per farmi riconoscere dall’altro, proferisco ciò che è stato solo in vista di ciò che sarà. Per trovarlo, lo chiamo con un nome che deve assumere o rifiutare per rispondermi.

    Io m’identifico nel linguaggio, ma solo perdendomici come un oggetto. Ciò che si realizza nella mia storia non è il passato remoto di ciò che fu perché non è più, e neanche il perfetto di ciò che è stato in ciò che io sono, ma il futuro anteriore di ciò che sarò stato per ciò che sto per divenire.»1]

    1] J. Lacan Ecrits, 1966,Scritti I, trad. it. Einaudi, 1974, p. 293

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    • Caro Gino,
      noto che nella tua poesia La musa degli stracci, hai riportato alcuni miei versi tratti da In viaggio con Godot, pag.102 e precisamente” Mi accorgo solo ora che l’artrite deforma le mani / Tutto cominciò con una caduta”. Dal momento che gli stracci sono diventati patria comune, credo che non sia più necessario precisare la provenienza, come i prodotti sui banchi di Piazza Cina. Un cordiale saluto e grazie della scelta.

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  16. Pingback: La Musa degli stracci – Poesia di Gino Rago – Commenti e poesie di Pier Aldo Rovatti, Andrea Emo, Donatella Costantina Giancaspero, Mauro Pierno, Iuri Lombardi, Anna Ventura, Giorgio Linguaglossa, Wilma Minotti Cerini, Lucio Mayoor Tosi, Dunya

  17. gino rago

    E’ vero caro Mario. Ricorderai che l’attuale “La Musa degli stracci”, nella sua forma che ora sento definitiva, è una rielaborazione e un ampliamento della composizione originaria proposta su L’Ombra come “Collage” e nella quale
    avevo fatto confluire i tuoi versi, ben riconosciuti da te, accanto a un verso di Mariella Colonna e uno di Francesca Dono, versi scelti per la loro efficacia estetica e che ho combinato, a modo proprio di un collage, incastrandoli nel corpo del dettato poetico. Gli esiti finali de La Muse des chiffons sono quelli
    di oggi, del tutto in armonia con uno dei punti decisivi della NOE che è anche
    quello della costruzione poetica per collage.
    I tuoi versi “Mi accorgo solo ora che l’artrite deforma le mani/Tutto cominciò con una caduta” mi colpirono subito e sopra di essi feci ricadere la mia scelta e intorno a essi ruotano gli altri del collage, nella prima parte de La Musa degli stracci. Dunque grazie per il prestito e soprattutto per averli tu scritti.
    GR

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    • anch’io ti ringrazio Gino. Davvero stupefacente!!

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      • gino rago

        “Une rose entre les doigts.”
        “Prends-la”. Tra i versi più belli apparsi, Francesca cara, su L’Ombra delle Parole e son tuoi. Ho allungato le mani mie ansiose e (con quelli di Mario Gabriele e uno di Mary Colonna) li ho agguantato e contestualizzato dans
        La Muse des chiffons. Grazie a te: “Una rosa tra le dita. “Eccola”. Sono una perla di rara bellezza, perché polverizzarli nell’oblio che fagocita tutto?
        GR

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        • caro Gino, nessuno saprà mai perchè l’oblio è così potente con gli umani.
          La nostra natura è semplicemente complicata. Spesso ci aiuta a dimenticare e per motivi intelligentemente “salutari”. Comunque sia, sei tu che hai reso sublime l’incastro dei frammenti. Grande!!! Quindi di nuovo grazie!! Quasi quasi copio Pierno. Grazie Ombra….

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  18. Antonella pPnto

    “Mi accorgo solo ora che l’artrite deforma le mani/Tutto cominciò con una caduta””…
    questi non sono versi, ma è prosa, e basta

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    • Rossana Levati

      Ricordo alcune considerazioni di Giorgio Linguaglossa che sono state pubblicate l’8 Febbraio: mi sono risultate utili nel mio tentativo di comprendere il ritmo di una nuova poesia-prosa che rimane, io credo, tra gli obiettivi dello spazio espressivo ricercato dalla Nuova Ontologia Estetica:

      La Musa degli stracci – Poesia di Gino Rago – Commenti e poesie di Pier Aldo Rovatti, Andrea Emo, Donatella Costantina Giancaspero, Mauro Pierno, Iuri Lombardi, Anna Ventura, Giorgio Linguaglossa, Wilma Minotti Cerini, Lucio Mayoor Tosi, Dunya Mikhail


      Giorgio Linguaglossa ha ribadito che le “serie ritmiche di fonemi” della poesia tradizionale trasmettono la sensazione di “avere una consapevolezza infinitamente incrementata, – quasi un senso di certezza”: sono per tanto più rassicuranti all’orecchio del lettore.
      Ma, come la Noe rifiuta di attribuire alla poesia lo scopo e le funzioni della comunicazione immediata e diretta del linguaggio quotidiano, così rifiuta anche la tradizionale musicalità del ritmo e dei versi di una metrica ormai praticata in tutte le estensioni e direzioni, ricercando volutamente un punto di contatto con la prosa, una non-musicalità evidente e proposta all’orecchio del lettore che ne risulta (ma ciò è calcolato) spiazzato, sorpreso, non più rassicurato, costretto a uscire dal “guscio protettivo” delle parole, almeno della parole in qualche modo inserite in una “catena musicale” tradizionale, prevedibile e rassicurante.

      Che poi questo si avvicini alla prosa è vero, ma sono certamente riconoscibili all’orecchio del lettore i “frammenti” di versi tradizionali: nei due esempi proposti, tre senari e un decasillabo, variamente combinati e “montati” in modo da mimare un discorso prosaico.

      Come ha ricordato Giorgio Linguaglossa nella stessa data: “mi limiterò a dire che la forma esteriore, ossia metro, rima, stanza, ecc. è una tecnica relativamente facile da apprendere, ma che la forma interiore è un tema che presenta enormi difficoltà. La forma interiore è essenziale per il vers libre tanto quanto la metrica strettamente formale ed implica tutti i rapporti strutturali, semantici e sonoro-ritmici(…)
      Direi che è possibile scrivere una sorta di verso libero che consiste di brevi frasi alternate a lunghe pause, ciascuna delle quali diventa un punto o locus di contemplazione. Il lettore silenzioso potrà soffermarsi per secondi o minuti su di esse. Nella recitazione il lettore deve accennare, senza prolungare troppo, queste pause. In queste poesie è più probabile trovare ritmi stocastici che non ritmi lineari.”

      Credo che in effetti ogni lettore possa ricostituire, nella lettura di questi versi, meglio se a voce alta, la propria musicalità, ri-frammentando a sua volta i versi secondo una dizione soggettiva che potrà anche variare da un lettore all’altro e non sarà certo “guidata”, come nella metrica della poesia precedente, dal poeta che indichi enjambement, prolungamenti fonici, rime evidenti, pause in corrispondenza di rime esterne o interne: in ogni caso, la sfida col lettore è stata posta e rimane aperta, e credo che valga la pena di provare.

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    • gino rago

      Gentile Antonella,
      lei conosce lo schema ‘mittente (poeta)—-messaggio (poesia)—-destinatario (lettore)’, nel più roseo dei casi. Ma certamente saprà che in poesia questo schema non è bastante, è riduttivo, ed è anche tossico.
      Se invece siamo in grado di aggiungere anche il ‘contesto’, il ‘contatto’, il
      ‘codice’, tutto cambia.
      All’interno del vero schema mittente ( poeta )— messaggio (poesia)—codice—contatto—contesto—destinatario (lettore), provi a rileggere
      “Mi accorgo solo ora che l’artrite deforma le mani./ Tutto cominciò con una
      caduta” e non Le sfuggirà la bellezza piena, inossidata, dei versi di Mario Gabriele contestualizzati nel dettato de La Muse des chiffons.
      C’è un’etica, certo, per chi scrive; ma ci dev’essere anche un’etica per chi legge.
      Gino Rago

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  19. anche questa è prosa e basta:

    Il nuovo «spazio espressivo integrale» di Tomas Tranströmer

    Quando io parlo di «spazio espressivo integrale», intendo una costruzione poetica che «apre» ad uno sviluppo stilistico, cioè ad una forma-poesia fondata sulla eterogeneità lessicale, pluristilistica, multiprospettica, multitemporale e multispaziale; intendo un nuovo tipo di poesia che è stata inaugurata in Europa, come sappiamo, da Tomas Tranströmer con 17 poesie (1954) una forma non più lineare melodica ma fondata sulla profondità spaziale e temporale del costrutto, in cui le immagini sono collegate in modo da enuclearsi l’una dall’altra. Leggiamo una poesia di Tomas Traströmer:

    Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno.
    Libero dal turbine soffocante il viaggiatore
    sprofonda verso lo spazio verde del mattino.

    Tranströmer non scrive: «La vita è un ricordarsi di un risveglio», ma salta la perifrasi e va direttamente al «risveglio». Scrive: «Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno». Qui siamo all’interno di una costruzione multiprospettica: l’equivalenza introdotta dalla copula «è» introduce non una identità ma una dissimiglianza, una non-identità: è il «sogno» che viene ad occupare il posto centrale della composizione, il suo peso specifico all’interno della composizione è talmente forte da deformare la composizione stessa facendola sbilanciare verso la significazione dell’inconscio. Infatti, il secondo verso non si muove più lungo la linea della dorsale unilineare della melodia monodica (tipica di una certa tradizione cui appartiene Sandro Penna), ma introduce una complessificazione, il soggetto diventa «il viaggiatore» (anche questo attante dislocato a fine verso), il cui peso specifico viene molto accentuato dalla dislocazione a fine verso. Il risultato è che l’equilibrio dinamico e semantico (la significazione primaria e secondaria) del primo distico viene ad essere sbilanciato verso la fine verso. Il terzo verso introduce una formidabile amplificazione e intensificazione multi prospettica nel componimento, lo spazio della composizione si apre a ventaglio come a seguire il moto discendente del «viaggiatore» che si è lanciato dal paracadute, o che si è lasciato cadere dal e col «paracadute» nel vuoto dell’atmosfera.
    Ma qui il poeta non nomina affatto il vuoto e l’atmosfera che si aprono davanti al volo del «paracadute», è sufficiente aver articolato la composizione intorno ai due attanti «pesanti» («sogno» e «viaggiatore»), sono essi ad aprire la composizione verso una pluralità di punti di vista spaziali, infatti il lettore vede con i propri occhi il discendere del «viaggiatore» che si getta col «paracadute» «dal sogno» verso le insondabili profondità dell’inconscio. Il «viaggiatore» non può che scendere in verticale: «sprofonda»… dove? «verso lo spazio verde del mattino». Qui, con una formidabile accelerazione Tranströmer indica il lento affiorare della coscienza che si riprende gli abiti del giorno e scaccia nell’oscurità i fantasmi del «sogno», ricaccia indietro il mondo multiprospettico e labirintico dell’inconscio. La parola che chiude la terzina è «mattino». Il «mattino» ricaccia indietro il mondo di fantasmi dell’inconscio e restituisce alla coscienza il dominio sull’io.
    Da questa breve analisi si rende evidente che in questo caso lo «spazio espressivo integrale» della poesia trastromeriana non è più fondata sulla equivalenza del principio di identità («è») e sulla simiglianza dissimiglianza tra tutti gli attanti come nella poesia eufonica e melodica di Sandro Penna, in Tranströmer lo «spazio espressivo integrale» trova applicazione dal, se così possiamo dire, principio di multiprospettiva e di non-identità tra tutti gli attanti (sogno, viaggiatore, mattino) i quali obbediscono ad una diversa ed evidente filosofia della composizione. Con 17 poesie di Tranströmer la poesia europea è cambiata per sempre, penso che i lettori non possano che convenire.
    Leggiamo quest’altra strofa:

    Entrammo. Un’unica enorme sala,
    silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
    come una pista da pattinaggio abbandonata.
    Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

    Lascio ai lettori la lettura di questa strofa secondo i nuovi criteri ermeneutici della «nuova ontologia estetica», ovvero, secondo il nuovo concetto di «spazio espressivo integrale».

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  20. Ringrazio Rossana Levati per aver compreso perfettamente il nocciolo della rivoluzione estetica della nuova ontologia estetica. Anche all’interno della redazione c’è chi non ha ben compreso il carattere rivoluzionario della nuova concezione. Per qualcuno che voglia ripassare la lezione sulla nuova poesia, copio e incollo questo mio commento alla poesia di Mario Gabriele:

    L’idea del «Soggetto parlante» è qualcosa che è in viaggio, qualcosa di inscindibile dal linguaggio, anch’esso sempre in viaggio nell’accezione mutuata dalla linguistica e in particolare da de Saussure, di un soggetto nel linguaggio, ovvero di quel soggetto colto nella sua inferenza con il significante in quanto condizione causativa del Soggetto. Questa premessa, se ricondotta nel campo psicoanalitico, implica che non vi sia ambito del desiderio, e che dunque non si possa dare propriamente parlando alcun fenomeno dell’esistenza, se non all’interno di una dimensione che potremmo definire con Lacan «originariamente linguistica», determinata cioè dall’«Altro» come luogo della parola fondata così sulla totalità dell’ordine simbolico in quanto ordine causativo del Soggetto.

    Il frasario:

    «Solo il Verbo può giudicare»

    indica sardonicamente il tema della poesia e della intera raccolta di Mario Gabriele, il dogma implicito del «Verbo» unico depositario del «giudizio». L’autore capovolge sardonicamente questo assunto dogmatico sul quale si è retto il potere dell’Occidente con il semplice indicare a dito il «Verbo», il vero falsario della storia degli uomini. Il soggetto quindi parla metonimicamente in quanto pronuncia una ordalia, scopre la nudità del «re», di che stoffa è fatta la sua menzogna.

    Ormai non c’è più da aspettare Godot, siamo già da un pezzo in viaggio con Godot, solo che non ce ne siamo accorti; o meglio, le belle anime della poesia non ne hanno voluto prendere atto. Ormai il «Verbo» è un involucro vuoto, un significante con dentro il vuoto.

    Il linguaggio, ci dice Agamben, deve necessariamente presupporre se stesso. Il linguaggio, ci dice Mario Gabriele, è fatto con la stoffa di un altro linguaggio, è linguaggio di linguaggi, frantumi di linguaggi rottamati. Non c’è meta linguaggio se non nel linguaggio. Non c’è linguaggio che non sia metalinguaggio sembra dirci Gabriele.

    il quale tiene in piedi le fila del proprio discorso rispetto all’indicibilità come condizione assoluta della dicibilità. Non si dà indicibilità senza dicibilità. Essa dà, per così dire, figura alla «Cosa significata», le dà una struttura narrativa, una scena in cui possa apparire come oggetto perduto. Perché è il Soggetto ad essere perduto per sempre, che si è smarrito nella selva oscura della linguisticità della civiltà mediatica.

    Il linguaggio del fantasma di Mario Gabriele rappresenta la finzione che dischiude la verità del soggetto come mancanza, vuoto, abisso, finzione attraverso cui si articola quell’al di là del desiderio – desiderio di nulla e nulla del desiderio al contempo – che Lacan designa, sulla scorta della nozione freudiana di istinto di morte, come «godimento», la beanza irraggiungibile della identificazione tra la parola e la cosa.

    Mario Gabriele presta moltissima cura alla messa in scena del testamentum.

    Una sorta di testamento. Come in un testamento che si rispetti c’è di tutto, c’è tutto l’essenziale: i beni immobili e quelli mobili, i beni materiali e quelli immateriali, il tutto riunito in una sola composizione. Un Aleph. Che brilla di luce sinistra, spettrale. Fermo restando che una poesia così è simile ad un rinvenimento di un cratere istoriato di epoca ellenistica o più antico ancora, e il critico deve vestire i panni dell’archeologo per riportare in vita una parvenza di ciò che tutti quei frammenti richiamano alla memoria. Più che lavoro di restauro (e non solo) qui occorre un lavoro di ricostruzione di tutti quei frammenti sparsi e disarticolati che un giorno lontano significavano qualcosa…

    Le parole con le quali è scritto questo rogito testamentario sono quei «fantasmi» che un tempo hanno abitato l’universo linguistico mediatico e il nostro immaginario e che, in quanto tali, prendono possesso della pagina bianca.

    «Il linguaggio del fantasma»

    Nel «linguaggio del fantasma» noi vediamo allestita la messa in scena del venir meno del soggetto-autore di fronte al mancare della «significazione», quella sorta di estrema quanto inconscia riparazione simbolico-immaginaria a un cedimento strutturale avvenuto a livello ontologico, cedimento da cui proviene ciò che Lacan chiama, nel suo significato più generale, il «soggetto parlante». Il fantasma è così al contempo un’illusione ma anche l’estrema risposta al venire a mancare della «Cosa significata» come fondamento dell’esserci del soggetto, ma anche un «venire in presenza» di qualcosa che dimorava nel regno delle ombre dell’inconscio. Ciò che qui importa è proprio l’aspetto scenico, il luogo retorico in cui il soggetto si ritrova come osservatore e autore (assente), regista e attore (assente) al contempo di quello che può a tutti gli effetti essere definita la narrazione della sua mancanza. Il «fantasma» è infatti, in ultima istanza, una frase. A livello linguistico, simbolico, si presenta come una proposizione; a livello immaginario, si presenta come una scena. Il «linguaggio del fantasma» è legato a una dimensione liminale, una sorta di sipario chiuso oltre il quale resta velato quel nulla dell’infondantezza del soggetto, quel vuoto di significanti in cui si manifesta l’abisso del metalinguaggio di Gabriele.

    Siamo qui davanti ad una esemplificazione tra le più brillanti della poesia contemporanea che abbiamo definita «Nuova poesia ontologica», indicando questo tipo di poesia come appartenente alla «Nuova ontologia estetica» che stiamo investigando da qualche tempo su questa rivista.

    L’inconscio del fantasma linguistico di Gabriele si manifesta, seppur attraverso il velo di sintomi, lapsus, citazioni, frammenti; il suo manifestarsi consente di avvertirne la presenza. Presenza che non si confonde mai con l’esser presente, con un darsi. Tuttavia è un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote il soggetto, o sarebbe forse meglio dire lo coglie a tergo nel suo discorso cosciente, nel suo voler-dire, nei suoi atti, nei suoi desideri, nelle sue intenzioni, lo coglie cioè in un vacillamento che non è nulla di superficiale ma lo concerne e lo coinvolge nel suo stesso, nel suo più radicale essere.

    L’inconscio del fantasma linguistico di questa poesia è un inter-detto, esso non ha nulla della oscurità, dell’abissale o di una qualsiasi sorta di magma pulsionale. L’inconscio pensa cose e le pensa linguisticamente agghindate.

    Ho scritto in altra occasione riferendomi ad alcune eccezioni sollevate da Claudio Borghi:

    «comprendo molto bene il tuo «disorientamento» dinanzi alla nostra ricerca di una nuova ontologia estetica, io è dall’inizio degli anni Novanta del Novecento che tento di indagare la crisi della forma-interna della poesia, l’ho fatto con la rivista “Poiesis” che avevo fondato nel 1993 e tenuta in vita fino al 2005. Complessivamente ne sono usciti 34 numeri. Ma è accaduto che in questi ultimi 29 anni la crisi delle forme estetiche (e non solo) si è andata aggravando, la crisi ha impresso una accelerazione forsennata al crollo delle forme estetiche tradizionali, non è affatto colpa mia e dei miei compagni di strada se la crisi si è abbattuta come un maglio sulle forme estetiche che abbiamo conosciuto in poesia. Così, è avvenuto che quell’endecasillabo della tradizione che va da Bertolucci de La camera da letto al Bacchini degli ultimi libri, ormai non ha nulla da offrirci, è una forma estetica del passato e noi non possiamo restare fermi a dirci come erano belli i tempi nei quali scrivevamo e vivevamo come Attilio Bertolucci e Bacchini, con tutto il rispetto per quelle forme poetiche e la loro poesia.

    Del resto, oggi, non vedo in giro in Italia ricerche alternative a questa che abbiamo messo in campo. Tenterò di spiegarmi. La «nuova ontologia estetica» è nata da una presa d’atto della crisi irreversibile della forma-poesia che abbiamo conosciuto nel secondo Novecento e in questi ultimi anni del nuovo secolo, è una risposta che è partita dai «fondamenti» della scrittura poetica, e, in particolare, da un nuovo concetto dei due elementi fondanti la forma-poesia: la «parola» e il «metro», entrambi visti non più come «contenitori» di grandezza fissa ma come entità a grandezza variabile; sia la «parola»che il «metro» sono entità elastiche, mutanti, noi percepiamo queste unità come enti dotati di tempo e di spazio «interni», non solo «esterni» come intendeva la poesia tradizionalmente novecentesca ed epigonica.

    Che cosa voglio dire? Che spetta a ciascun poeta offrire una propria soluzione a questa crisi della forma-poesia e interpretazione a questi nuovi modi di intendere sia la «parola» che il «metro», e si tratta di quello che abbiamo denominato «tempo interno», che non è da intendere come un tempo interno fisso valido per tutti ma come una temporalità interna all’oggetto e al soggetto e una spazialità interna al soggetto e all’oggetto, per dire così.

    Non era Tynianov che 100 anni fa ha scritto che «si può scrivere poesia anche senza una unità metrica»?

    Cito a memoria. se noi accettiamo questo assioma possiamo concludere che oggi si può parlare non più di unità metrica ma di «unità metriche», ciascun poeta ha il diritto di sperimentare nuove e diverse «unità metriche», non dobbiamo farci intimidire da coloro i quali stigmatizzano che la nostra non è poesia ma prosa travestita da poesia, questi rilievi li restituiamo volentieri ai mittenti.
    È di questi giorni la scoperta scientifica di una nuova forma di esistenza della materia: un «cristallo temporale» che ha una struttura atomica che cambia nel tempo: l’itterbio. Incredibile, vero? la scienza ci viene in aiuto mostrandoci che anche la materia può avere una struttura atomica mutagena. E perché non possiamo pensare allo stesso modo la poesia? Perché non possiamo pensare ad una poesia che è retta non più da una struttura atomica fissa ma da una mutabile nel tempo? (esterno ed interno?)».

    Il frammento e la citazione nella poesia di Mario Gabriele rappresentano, in quanto finzione, il limite dell’ordine simbolico, un ordine simbolico che abita la zona anestetizzata dall’esistenza dell’universo mediatico.

    Ecco la ragione della assoluta modernità della poesia di Gabriele.

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    Sul «Frammento»

    Riporto un frammento di una mia riflessione già apparso su questa Rivista sulla poesia di Mario Gabriele:

    “Mario Gabriele utilizza il «frammento» come una superficie riflettente, un «effetto di superficie», un «talismano magico», una immagine di caleidoscopio, un «cartellone pubblicitario»; impiega il «frammento» e la composizione in «frammenti» come principio guida della composizione poetica; ma non solo, è anche un perlustratore e un mistificatore del mistero superficiario contenuto nei «frammenti», ciascuno dei quali è portatore di un «mondo», ma solo come effetto di superficie, come specchio riflettente, surrogato di ciò che non è più presente, simulacro di un oggetto che non c’è, rivelandoci la condizione umana di vuoto permanente proprio della civiltà cibernetico-tecnologica. È una poetica del Vuoto, una poesia del Vuoto. E il Vuoto è un potentissimo detonatore che l’innesco dei «frammenti» fa esplodere. La sua poesia ha l’aspetto di un fuoco d’artificio che si compie in superficie; si ha l’impressione, leggendola, che si tratti di una diabolica macchinazione della simulazione e della dissimulazione, ci induce al sospetto che sia la nostra condizione umana attigua a quella della simulazione e della dissimulazione: non sappiamo più quando recitiamo o siamo, non riusciamo più a distinguere la maschera dalla «vera» faccia. La poesia diventa un gelido e algebrico gioco di simulacri, di simulazioni e di dissimulazioni, una scherma di sottilissime simulazioni, citazioni, reperti fossili, lacerti del contemporaneo utilizzati come se fossero del quaternario. È una poesia che ci rivela più cose circa la nostra contemporaneità, circa la nostra dis-autenticità di quante ne possa contenere la vetrina del telemarket dell’Amministrazione globale, ed è legata da analogia e da asimmetria al telemarket, danza apotropaica di scheletri semantici viventi…

    Ricevo da Ubaldo de Robertis questa citazione di Osip Mandel’stam sulla poesia. Credo che si attagli perfettamente alla poesia di Mario Gabriele e alla nostra sensibilità:

    “Non chiedete alla poesia troppa concretezza, oggettività, materialità. Questa pretesa è ancora e sempre la fame rivoluzionaria: il dubbio di Tommaso. Perché voler toccare col dito? E soprattutto, perché identificare la parola con la cosa, con l’erba, con l’oggetto che indica? La cosa è forse padrona della parola? La parola è psiche. La parola viva non definisce un oggetto, ma sceglie liberamente, quasi a sua dimora, questo o quel significato oggettivo, un’esteriorità, un caro corpo. E intorno alla cosa la parola vaga liberamente come l’anima intorno al corpo abbandonato ma non dimenticato. […] I versi vivono di un’immagine interiore, di quel sonoro calco della forma che precede la poesia scritta. Non c’è ancora una sola parola, eppure i versi risuonano già. È l’immagine interiore che risuona, e l’udito del poeta la palpa”.* (da Osip Mandel’stam, in La parola e la cultura).

    Il treno del tempo: successione, salto in avanti, salto all’indietro, cambiamento, continuità, discontinuità, interruzione, ripresa, reversibilità, irreversibilità

    LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA Mario M. Gabriele: Una poesia testamentum. Inedito. Le parole con le quali è scritto questo rogito testamentario sono fantasmi linguistici, rottami, spezzoni, frammenti che un tempo hanno abitato l’universo mediatico – Il Fantasma è così al contempo un’illusione ma anche l’estrema risposta al venire a mancare della «Cosa significata», al declassamento ontologico del Soggetto parlante

    Torniamo alla lettura della poesia. Precisamente a questi versi della poesia di Mario Gabriele:

    Un gendarme della RDT, lungo la Friedrichstraße,
    separava la pula dal grano,
    chiese a Franz se mai avesse letto Il crepuscolo degli dei.
    Fermo sul binario n. 1 stava il rapido 777.
    Pochi libri sul sedile. Il viso di Marilyn sul Time.

    In questo testo poetico la profondità del tempo è diventata profondità dello spazio. Il treno del tempo: successione, salto in avanti, salto all’indietro, cambiamento, continuità, discontinuità, interruzione, ripresa, reversibilità, irreversibilità etc., è diventato il treno dello spazio. Il lettore nell’atto della lettura è costretto a cambiare continuamente il suo registro temporale, con l’effetto che il tempo diventa, magicamente, spazio. Il tempo si è spazializzato, ha assunto profondità spaziali. E lo spazio si è temporalizzato.

    L’esperienza umana del Soggetto è scomparsa, è uscita fuori dell’orizzonte degli eventi della poesia. La poesia di Gabriele si è liberata del pesante fardello di un orizzonte di lettura unilineare e unitemporale, qui si aprono diversissime direzioni temporali che diventano direzioni spaziali. La spazializzazione del tempo è una delle caratteristiche precipue di questo tipo di poesia che io ho indicato con la denominazione di Nuova Ontologia Estetica perché i suoi assunti sono, in guise diverse da ogni autore, adottati da vari poeti che seguono questa nuova ontologia ciascuno con modalità stilistiche proprie. Così, il tempo diventa visibile attraverso lo spazio. Accostare tessere diversissime in un insieme, in un mosaico, diventa un puzzle, un Enigma che può anche non essere interpretato perché è prioritario per l’Enigma essere vissuto. Per sua essenza, l’Enigma rifugge da atti di padronanza categoriale, e rifugge da letture unidirezionali. Il «tempo interno» è nient’altro che questo processo che interviene tra l’autore e il lettore, ma è anche una caratteristica di ogni singola «tessera» o «immagine»; in fin dei conti, ogni «immagine» è analoga all’altra, c’è nell’orizzonte degli eventi del mondo e non ha bisogno di essere spiegata ma è un darsi e un moltiplicarsi di superfici riflettenti nelle quali l’uomo contemporaneo può riflettere la sua Assenza, la sua mancanza ad essere. Una problematica di carattere squisitamente esistenzialistica..

    Il tempo può essere percepito ed esperito soltanto come una delle dimensioni dello spazio, ed esso spazio è la modalità con la quale l’esistenza è stata vissuta ed esperita. Dunque, l’esistenza è dentro lo spazio e dentro il tempo come una serie di scatole cinesi.

    Qui siamo davanti ad un «tempo interno» che è diversissimo dalla visione retrospettiva e memoriale di un Proust, ma più simile a ciò che nel romanzo hanno fatto narratori come Salman Rushdie con i suoi romanzi Versetti satanici (1988) e Midnight’s children (1981) e Orhan Pamuk con Il mio nome è rosso (2000) e Il museo dell’innocenza (2008). L’utilizzazione dei frammenti nel romanzo moderno è una procedura assodata da tempo, in poesia l’accademismo e la tradizionalizzazione delle forme estetiche ad opera di letterati conservatori, in poesia dicevo questa nuova forma di pensare la scrittura letteraria qui in Italia è stata osteggiata e ritardata.

    Platone nel Timeo parla del Tempo Cronos come di una «icona in movimento di Aion, come di una «immagine mobile dell’eternità». È singolare che Platone per indicare il «Tempo-Cronos» ricorra alla parola «immagine». Singolare ma significativo in quanto noi possiamo afferrare qualcosa intorno al «tempo» soltanto se ce lo rappresentiamo come una «immagine», cioè attraverso una figurazione spaziale.

    Chi sogna ad occhi aperti sa molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto ad occhi chiusi. La poesia di Mario Gabriele è simile ad un sogno ad occhi aperti. Ne L’interpretazione dei sogni Freud ci dice che il sogno «è una messinscena originaria», anteriore alla stessa distinzione tra «soggetto» e «oggetto». Le immagini mobili che fluttuano sulla superficie riflettente degli attimi temporalizzati della poesia di Mario Gabriele sono messe in scena sostitutive di quella originaria, sono la traduzione di concetti temporali in figurazioni spaziali.

    Scrive Giacomo Marramao:

    «il tempo baudeleriano si è spogliato di tutte le prerogative spaziali. Per il semplice fatto di costituire una dimensione reale dell’esperienza umana, il tempo vissuto non può assolutamente darsi indipendentemente dallo spazio. Ed essendosi in tal modo spazializzato il tempo, tutta l’esperienza vissuta appare come spazializzata. Anzi: identica allo spazio. Lo stesso tempo può rendersi propriamente visibile, essere ‘sinestesicamente’ percepito ed esperito, solo come una delle dimensioni dello spazio, che viene pertanto complessivamente a coincidere con la stessa estensione dell’esistenza […] Questo movimento è esattamente un movimento prospettico “l’atto con cui, per giungere alla profondità, si apre nel campo visivo una strada che lo sguardo percorre”. Si spiega così il significato recondito delle “magiche prospettive” che Baudelaire dispone nelle sue memorabili descrizioni paesaggistiche e che fa corrispondere le sue analisi delle tele di Delacroix alle proiezioni che l’esperienza organizza nei “quadri” del suo vissuto: “evaporazione e centralizzazione (o condensazione) dell’Io: è tutto qui (Oeuvre, II, 642). evaporazione inebriante e condensazione nel ricordo e nel rimpianto rappresentano i confini, i termini estremi, di un movimento del vissuto che tende a coincidere con lo spazio. Un’esistenza spazializzata è un’esistenza evaporata in numero: “Il numero – sottolinea Baudelaire – è una traduzione dello spazio (ivi, 663). E poiché sempre di spazio vissuto si tratta, anche il numero andrà inteso nel senso di numero vissuto. Sta qui la chiave segreta dell’immagine baudeleriana di “ripetizione”: essa prospetta la virtualità di esperire una moltiplicazione dell’esistenza attraverso un’infinita estensione di campo delle sensazioni. La moltiplicazione dell’esistenza divenuta numero dipende così da quella misteriosa facoltà di ripetere il suo salto lungo tutta la superficie dell’essere: di rimbalzare come un’eco lungo la misteriosa curva di uno spazio tempo i cui confini non sono mai tracciati definitivamente. Non per nulla i versi più belli e significativi di baudelaire sono proprio quelli che esprimono il riecheggiamento:

    Comme des longs éclos qui de loin se
    confondent…
    C’est un cri par mille sentinelle…

    Non si dà, pertanto, né reale né possibile esperienza del tempo a prescindere dallo spazio. La grande intuizione baudeleriana circa la costruzione di una profondità di campo quale condizione imprescindibile per afferrare-insieme (null’altro se non questo è il significato di “comprendere”) gli eventi che ci accadono sopravanza, in questo senso, la nozione di “tempo vissuto” di Bergson: non più Spazio come morte del tempo, estinzione della sua fluente autenticità nel rigore esclusivo della misurazione cronometrica, ma spazializzazione come conditio sine qua non per poter fare esperienza…
    […]
    Poiché solo all’apparire del “perturbante” si dileguano gli idoli. Exeunt simulacra».1]

    *
    Il nostro modo di esistenza ha prodotto la moltiplicazione degli istanti, la moltiplicazione delle temporalità, la moltiplicazione delle immagini.
    Che cos’è l’immagine? L’immagine è l’istante.
    Che cos’è l’istante? Per Parmenide l’istante, o meglio l’istantaneo è: «L’istante. Pare che l’istante significhi (…) ciò da cui qualche cosa muove verso l’una o l’altra delle due condizioni opposte [del Passato e del Futuro]. Non vi è mutamento infatti che si inizi dalla quiete ancora immobile né dal movimento ancora in moto, ma questa natura dell’istante è qualche cosa di assurdo [atopos] che giace fra la quiete e il moto, al di fuori di ogni tempo…» (Parm., 156d-e).

    La moltiplicazione dell’esistenza tipica della nostra civiltà post-moderna ha prodotto la conseguenza di una moltiplicazione di superfici riflettenti quali sono le immagini nella civiltà telemediatica. Questo processo è esploso in questi ultimi decenni a velocità forsennata ed ha prodotto una profonda modificazione del nostro modo di percepire e recepire il mondo; il mondo si è frantumato in una miriade di spezzoni. Fare un processo al mondo per quanto accaduto non è nelle nostre intenzioni, questo della moltiplicazioni delle superfici riflettenti è un dato di fatto incontrovertibile e noi e Mario Gabriele non altro abbiamo fatto che prenderne atto e fare una poesia di superfici riflettenti. Questo processo epocale fra l’altro ha prodotto una conseguenza anche sull’idea di Soggetto e di Io (idea teologica e filosoficamente destituita di fondamento già da Freud e dal sorgere della psicanalisi). Il Soggetto è scomparso. È diventato un fonatore. Anche l’enunciato è qualcosa di diverso dal Soggetto enunciatore. Il predicato si è scollegato dal Soggetto. Si tratta di questioni che la filosofia del nostro tempo ha chiarito in modo ritengo sufficientemente credibile. Fare oggi una poesia del Soggetto che legifera nella sua sfera di influenza, è, a mio avviso, una ingenuità filosofica ed estetica. La poesia dell’Io è un falso, e una banalità.

    Quanto ai concetti di armonia, di eufonia, di musica del verso musicale, di poesia e di anti poesia etc. sono concezioni tolemaiche legate ad una visione tolemaica e ingenua della poesia che ha fatto il suo tempo e verso i quali mi viene da sorridere, anzi, provo addirittura nostalgia per quell’età in cui si scriveva credendo ingenuamente in quelle categorie estetiche. La nuova ontologia estetica di cui qui si parla lascia questi concetti semplicemente come abiti dismessi sulla sedia a dondolo per chi vuole ancora dondolarsi in ozio intellettuale. Pecchiamo di arroganza? Forse. Non lo so. E neanche mi interessa.

    G. Marramao Minima temporalia luca sossella ed. 2005 pp. 95 e segg.

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  21. la recito a memoria per voi. Omaggio a Maria Rosaria Madonna.

    E’ un inizio. Freddo di silenzio.
    E’ UN NUOVO INIZIO. FREDDO FELDSPATO DI SILENZIO.
    Il silenzio come una
    IL SILENZIO NUOTA COME UNA STELLA
    e il mare è un che un bambino
    E IL MARE E’ UN AQUILONE CHE UN BAMBINO
    tiene una
    TIENE PER UNA CORDICELLA.
    Un vento per il bosco
    UN ANTICO VENTO SOLFEGGIA PER IL BOSCO
    se vuoi, una palla di gomma
    E LO PUOI AFFERRARE, SE VUOI, COME UNA PALLA DI GOMMA
    che contro
    CHE RIMBALZA CONTRO IL MURO
    e indietro
    E TORNA INDIETRO.

    grande!
    Grazie OMBRA.

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    • Ecco la poesia originale di Maria Rosaria Madonna ritrascritta e ri-composta da Mauro Pierno, il quale ha fatto un vero e proprio lavoro di ri-appropriazione di una poesia di una grande poetessa delle nuova ontologia estetica (morta nel 2002). Non c’è dubbio che a nuova riscrittura di Mauro Pierno sia una vera e propria poesia… Complimenti Mauro.

      Maria Rosaria Madonna
      Due poesie tratte da Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016)

      È un nuovo inizio. Freddo feldspato di silenzio.
      Il silenzio nuota come una stella
      e il mare è un aquilone che un bambino
      tiene per una cordicella.
      Un antico vento solfeggia per il bosco
      e lo puoi afferrare, se vuoi, come una palla di gomma
      che rimbalza contro il muro
      e torna indietro.

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  22. Antonella PInto

    la MUSA E’ STRACCIATA

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  23. copio e incollo la traduzione di una poesia cardine della nuova ontologia estetica di Gino Rago tradotta da Adeodato Piazza Nicolai

    Gino Rago

    La Musa degli stracci

    Non c’è niente di più opaco
    Della trasparenza totale.
    Il corpo è colore e odore.
    I sospiri delle onde richiamano il vento.
    Ora soltanto sboccio. Una rosa tra le dita.
    «Prendila».
    Mi accorgo solo adesso che l’artrite deforma le mani.
    Tutto cominciò con una caduta.]
    Spremere fuori il mistero
    Ti muovi viva nel tuo stesso corpo.
    Ma nuvolaglie increspano
    Le visioni razionali.
    […]
    Ritirarsi? Sì. Ritirarsi.
    Ma dalle forme consunte del poetico.
    E rifarsi un vestito.
    […]
    Un abito tutto nuovo di parole
    Per la festa e per il quotidiano.
    Confezionarsi un capo nuovo
    Nell’atelier di ritagli di stoffa. È nuova
    La poesia fatta con gli scampoli.
    Chi più interroga l’oracolo?
    Chi pone più domande radicali?
    Entra nella sala degli specchi come una Regina
    La Musa degli stracci.

    THE RAG MUSE

    There is nothing more obscure
    Than total transparence.
    The body is color and odor.
    The sighs of the waves recall the wind.
    Just now I am blossoming. A rose in my fingers.
    «Take it».
    Only now I am aware that arthritis deforms the hands.
    All started with the fall.
    […]
    Squeeze out the mistery.
    You move alive in your own body.
    But crisp clouds disrupt
    rational visions.
    […]
    To retire? Yes. To retire.
    But from consumed poetic forms.
    And sew again a new suit.
    […]
    A suit of words that is all new
    For the feast and the quotidian.
    Manufacture a new dress
    With remains of cloth in the atelier. New
    Poetry made with leftovers.
    Who now asks the oracle?
    Who proposes radical questions?
    Enter in the room of mirrors like a Queen
    The rag Muse.

    © 2018 English translation by Adeodato Piazza Nicolai of the poem La Musa degli stracci by Gino Rago. All Rights Reserved.

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  24. Antonio sagredo

    Caro Gino,
    forse la signora Antonella Pinto voleva dire questo:

    che la Musa stracciata diventa straccio essa stessa (diviene a far parte degli stracci), quindi straccio tra gli stracci, e non qualcosa di diverso dagli stessi stracci se si afferma come Musa degli stracci… che segna una distinzione.
    Infatti dire Musa degli stracci significa affermare una gerarchia, come dire: mettermi a capo degli stracci, cioè capo come Musa.
    Spero di essermi spiegato bene.
    La signora Antonella Pinto intendeva non offendere la Musa affatto, credo.
    Poi non so se questa signora conosce i miei versi, e Ti ringrazio di tanta tua benevolenza nei miei riguardi.
    a.s.

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  25. Antonio Sagredo ha sempre voglia di giocare… vediamo se riesce a scherzare su questo passo di Nietzsche:

    “Non c’è dissolutezza peggiore del pensare”
    (W. Szymborska)

    “Non c’è pensiero che non sia gioco, ma chi gioca con il pensiero è un buffone”
    (G. Linguaglossa)

    F. Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125

    125. L’uomo folle. – Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. “È forse perduto?” disse uno. “Si è perduto come un bambino?” fece un altro. “0ppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” – gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare
    bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto piú freddo? Non seguita a venire notte, sempre piú notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di piú sacro e di piú possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatòri, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione piú grande:
    tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtú di questa azione, ad una storia piú alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!”. A questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti.
    Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. “Vengo troppo presto – proseguí – non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono
    vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest’azione è ancora sempre piú lontana da loro delle piú lontane costellazioni: eppure son loro che l’hanno compiuta!”. Si
    racconta ancora che l’uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: “Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?”.

    Aforisma, 341

    Che faresti se un giorno o una notte un demone si introducesse di soppiatto nella tua solitudine più solitaria e ti dicesse: «Questa vita, quale la stai vivendo adesso e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte; e in essa non ci sarà niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e ogni sospiro e ogni cosa incredibilmente piccola e grande della tua vita dovrà per te ritornare, e tutto nello stesso ordine e successione – e così pure questo ragno e questo chiaro di luna tra gli alberi, e così anche questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta – e tu con essa, granello di polvere!» – Non ti getteresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così avrebbe parlato? Oppure hai vissuto una volta un attimo prodigioso, per cui gli diresti: «Tu sei un dio e mai ho sentito una cosa più divina!»? Se questo pensiero acquistasse potere su di te, avrebbe su di te, quale sei, l’effetto di trasformarti e forse di schiacciarti; la domanda di fronte a tutto e a ogni cosa: «Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?» graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! O quanto dovresti amare te stesso e la vita per non desiderare nient’altro che quest’ultima eterna conferma e suggello?

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  26. antonio sagredo

    La risposta a una domanda inaccessibile è una risposta.

    ——————————————————————————————————
    —————————————————————————————————–
    Il suono della Cenere

    Ascese a me la parola intatta dai miei fili inconsapevoli e sul palco il canto
    e il suono della Cenere smorzato da serrate labbra e orecchie inascoltate.
    Al poeta fu detto: non ti basta più il patibolo, i gradini sono divorati dalle
    soglie!
    Nemmeno un volto cremisi fra tante maschere di gesso e di grassa gelatina.

    Cieche, come tritoni nel calvario di luminose oscurità, le stanze se ne
    andarono
    via da me lentamente… battelli in fuga dai moli e dai marosi! Muti gli stendardi. Non avevo che da stordire i gridi dei gabbiani che invano
    beccavano il sangue
    dei tramonti… i rostri pregarono le polene deformi di non sbattere sulle
    spume.

    Come una mazzata disattesa mi crollò quel sangue dal futuro – creature
    albine
    di conoscenza e di fede mi dissero tutto ciò che non ci sconvolse da tutte le disfatte e le condanne… e mi dissero gementi che m’avrebbero restituito gli occhi, ma non le mie visioni! Ero l’unico sano in un cottolengo di dislocati cerebri!

    E non pregavano per coloro che non c’erano, soltanto gli assenti non ci
    stupirono.
    Noi che dovremo in questo secolo di genocidi senza fine ristabilire la
    dolcezza
    e sui moli sorridere ai suoni e ai rintocchi della Cenere, proprio noi gli
    assassinati
    da Dio, dobbiamo scannare gli angeli per definizione come in un alogico
    assioma

    interdetto alla finzione! Il suono – di me – della Rovina – in me – dai miei gesti genera le stazioni degli Ossari… avanzi di città noi canteremo… non riconosceremo più i sobborghi dalle macerie, dai suoi fanali arsi di visioni… novembre, novembre degli arcobaleni mai è stato il mese dei morti!… è
    tutto l’anno

    in un secolo s’è ristretto come la legge delle visioni arse dagli occhi – e non mi silenzia il rumore di Dio! Il mio nobile disprezzo per la Storia! Il madrigale s’è oscurato per la Conoscenza! Oriente e Occidente non hanno più i monistici princìpi! E il suono della Cenere è crollato come il sangue dalle
    sorde ottave alle alcove… gemens, gemens!

    Credevo la Conoscenza una presenza di fedeltà, non una figura o una
    finzione,
    ma è un assassinio, un condursi alla forca o al rogo per soltanto dire andiamo a morire da Poeti, allegramente! Si ritrassero le stelle dalla propria luce, l’acqua, il fuoco e l’aria dalla Terra, e l’uomo dagli dei… il Nulla si ritrasse da se stesso,

    come il Tutto! Non sono un cinico, disse Ruben, sono assente come una metafora… le figure sono una tortura e non conosco la differenza fra le macerie! Accidia è là dove mi sorprendono con un Pensiero! Il resto non è nemmeno un delirio o un caos… non ho che la mia presenza: vivo per vivere e non per prepararmi a vivere!

    Basta con Dio e gli Dei! Con queste fandonie!… sono questi pastori che generano stermini: trionfi dei genocidi e delle Ceneri! Vedrete che mattanza questo secolo! Ci sarà da ridere come in una finzione di cartone, mi diranno solo su un palco è possibile! La realtà è altra cosa… ma i divani sanguinano… è ora di finirla con

    questa Terra! È una caduta di stile il Tempo! Come il mancato volo della mia Parola! Al poeta, si disse, non basta più il patibolo, i gradini sono divorati dalle soglie! Nemmeno un volto cremisi fra tante maschere di gesso e di
    grassa gelatina.
    Tento di piantare nel mio giardino un frutteto come Astrov, o come Antonio!

    Antonio Sagredo

    Maruggio/Campomarino, 4/11/15 agosto 2015
    (dal 4 agosto in treno Rm-Br)
    ————————————————————————-

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  27. antonio sagredo

    “Non c’è pensiero che non sia gioco, ma chi gioca con il pensiero è un buffone”
    (G. Linguaglossa)

    Ha ragione il Lingualossa: anche Shakespeare era un buffone… giocava con le parole : essere o non essere, questo è….; ma questo -passato per un dilemma – da tempo per me non ha più senso, se mai lo ha avuto.
    ——
    quanto alla Szymborska, poetessa di secondo ordine, anche secondo Andrzej Nowicki, che scrive :
    “Non c’è dissolutezza peggiore del pensare”… facilmente rovesciabile:
    Non c’è pensiero migliore se non la dissolutezza.
    ———————————————
    Quanto al Nietzsche è ancora più facilmente rovesciabile e ho dato una risposta inaccessibile con i versi de >> Il suono della cenere, o se volete con
    i versi de >>La cenere del suono.
    grazie, as

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  28. caro Sagredo,

    allora, riepiloghiamo: Nietzsche: serie B; Brodskij, serie B; Auden, serie B; Szymborska, serie B; Eliot, serie B; – Mi vuoi dire chi è di serie A?
    *
    una poesia di Giorgio Linguaglossa da “Risposta del Signor Cogito” (non edita su carta)

    Preambolo del Signor K. «La «nuova poesia ontologica»?,
    suvvia Cogito, siamo seri…»

    La Musa degli stracci – Poesia di Gino Rago – Commenti e poesie di Pier Aldo Rovatti, Andrea Emo, Donatella Costantina Giancaspero, Mauro Pierno, Iuri Lombardi, Anna Ventura, Giorgio Linguaglossa, Wilma Minotti Cerini, Lucio Mayoor Tosi, Dunya Mikhail


    Il treno è in viaggio. Porta soldati con l’elmo a punta.
    Verso il fronte russo.
    Il Signor K. siede nel vagone ristorante,
    ha con sé la valigetta diplomatica.
    Cogito ha nella tasca interna della giacca
    la fotografia di Enceladon.
    […]
    Il Signor K. misurò con ampi passi lo spazio del vagone ristorante.
    «L’ideale sarebbe far fuori i tipi come Lei, Cogito,
    voi siete dei rompiscatole, con tutto il rispetto
    per il vostro ruolo.
    La bellezza di Enceladon? Suvvia, Cogito, non sia ridicolo.
    Che vuole, sarebbe semplice per me
    far premere il grilletto da uno dei miei sodali,
    ma, sarebbe, appunto, eccessivamente ludico,
    ed io detesto le soluzioni finali, preferisco, invece,
    complicare ciò che è semplice.
    Giocare con Lei, Herr Cogito, tutto sommato, mi diverte,
    è come il gioco con il gatto e il topo.
    Del resto, in fin dei conti, l’arte è un’attività onanistica.
    Ha qualcosa dello specchio da toeletta, ma rammenta
    lo specchio ustorio…
    Qualcosa di… dis…dicevole…».
    […]
    «A cosa devo la sua visita?», chiede Cogito sopra pensiero
    mentre fuma un sigaro italiano.
    […]
    «Ecco, diciamo – rispose il Signor K. –
    che interverrò, di persona,
    di quando in quando, a secondo dei miei umori atrabiliari
    negli eventi del mondo.
    Lei, Marie Laure Colasson e Vincenzo Petronelli?
    Sì, penso che possiamo prendere un caffè, insieme. La «nuova
    poesia ontologica»?,
    suvvia Cogito, siamo seri…
    Mi congedo. E mi prendo la libertà di comparire.
    E scomparire.
    Di quando in quando…».

    traduit par Edith Dzieduszycka

    Préambule de Monsieur K. “La nouvelle poésie ontologique”?
    allons Cogito, soyons sérieux…”

    Le train est en voyage. Il porte des soldats avec le casque en pointe.
    Vers le front russe.
    Monsieur K. est assis dans le wagon restaurant,
    près de lui, la valise diplomatique.
    Cogito a dans la poche intérieure de sa veste
    la photographie d’Enceladon.
    […]
    Monsieur K. arpenta a grands pas l’espace du wagon restaurant.
    “L’idéal serait d’éliminer les individus comme vous, Cogito,
    vous êtes des emmerdeurs, avec tout le respect
    pour votre rôle.
    La beauté d’Enceladon? Allons, Cogito, ne soyez pas ridicule.
    Que voulez-vous, ce serait simple pour moi
    de faire appuyer sur la détente par un de mes compagnons,
    mais ce serait, justement, bien trop ludique,
    et moi je déteste les solutions finales, je préfère, au contraire,
    compliquer ce qui est simple.
    Jouer avec Vous, Herr Cogito, tout pesé, m’amuse,
    c’est comme le jeu du chat et de la souris.
    Du reste, en fin de compte, l’art est une activité onaniste.
    Il a quelque chose du miroir de la toilette, ma rappelle
    le miroir ardent…
    Quelque chose …d’in…convenant…”
    […]
    ” A quoi dois-je votre visite?” demande Cogito distraitement
    en fumant un cigare italien.
    […]
    “Voilà, disons – répondit Monsieur K. –
    que j’interviendrai, en personne,
    de temps en temps, selon mes humeurs atrabilaires
    concernant les évènements du monde.
    Vous, Marie Laure Colasson et Vincenzo Petronelli?
    Si, je pense que nous pouvons boire un café ensemble. La “nouvelle
    poésie ontologique”?,
    allons, Cogito, soyons sérieux…
    Je prends congé. Avec la liberté d’apparaitre.
    et disparaitre.
    De temps en temps…”

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  29. “…la libertà di comparire… e sparire… di quando in quando…” Mi piace.

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    • I punti di attacco, di distacco e di ripresa sono sorprendenti. L’ironia poi cesella tutto evitando fughe. “Si, penso che possiamo prendere insieme un caffè.”Ma io dico anche “bere una tazza di tequila senza saccarosio” come ho scritto in un mio testo inedito.

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  30. Rossana Levati

    Campo dei Fiori (C. Milosz)

    (…)
    Proprio qui, su questa piazza
    Fu arso Giordano Bruno.
    Il boia accese la fiamma
    Fra la marmaglia curiosa.
    E non appena spenta la fiamma,
    Ecco di nuovo piene le taverne.
    Ceste di olive e limoni
    Sulle teste dei venditori.
    (…)
    Eppure io allora pensavo
    Alla solitudine di chi muore.
    Al fatto che quando Giordano
    salì sul patibolo
    Non trovò nella lingua umana
    Neppure un’espressione,
    Per dire addio all’umanità,
    L’umanità che restava.

    Rieccoli a tracannare vino,
    A vendere bianche asterie,
    Ceste di olive e limoni
    Portavano con gaio brusìo.
    Ed egli già distava da loro
    Come fossero secoli,
    Essi attesero appena
    Il suo levarsi nel fuoco.

    E questi, morenti, soli,
    Già dimenticati dal mondo,
    La loro lingua ci è estranea
    Come lingua di antico pianeta.
    Finchè tutto sarà leggenda
    E allora dopo molti anni
    Su un nuovo Campo dei Fiori
    Un poeta desterà la rivolta.

    La poesia di C. Milosz, di cui ho riportato alcune strofe, e in particolare il finale, mi sembra che dica con chiarezza alcune cose:
    a) Il poeta, come l’eretico, mina il mondo alle sue fondamenta,è provocatorio, sconvolge le certezze comuni
    b) Il poeta non condivide la lingua dell’umanità, neppure quando deve dire addio all’umanità che resta dopo di lui
    c) Il poeta, come la sua Musa, può scomparire ma, per fortuna nostra, ha anche il dono di ri-comparire nel mondo. Miracolosamente. E “desterà la rivolta”. Oltre che la disobbedienza.

    Mi sembra utile ricordare che la poesia porta in calce questa indicazione: Varsavia, Pasqua 1943

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  31. antonio sagredo

    dall’elenco riferito da Linguaglossa solo Nietzsche è di serie A, il cui pensiero filosofico e la poetica che ne deriva sono una pietra miliare della Storia tutta.
    Ma non (faccio) è questione di serie. Non classifico affatto, ma riferisco un valore minore rispetto ad uno maggiore.
    Ma a quando un commento, anche negativo, dei miei versi?
    ———————————————–
    Quanto riguarda la traduzione dei versi di Milosz in italiano, la signora Levati dovrebbe riferire che il nome del traduttore è Pietro Marchesani, perché qualche anno fa ho precisato nel blog il problema del traduttore e la qualità della traduzione,
    Perché, signora Levati, in origine era la traduzione del polonista Paolo Statuti (eccellente), poi fu tolta non si sa da chi e venne messa quella del polonista Marchesani (che era una brutta copia di quella di Paolo Statuti).Riporto la traduzione dello Statuti (da questo blog, a sua volta ripresa dal blog dello stesso Statuti).
    —————————–

    Campo de’ fiori

    A Roma in Campo de Fiori
    Ceste di olive e limoni,
    Selciato con spruzzi di vino
    E con schegge di fiori.
    Frutti rosati di mare
    Ammassati sui banchi,
    Bracciate d’uva nera
    Sulle pesche vellutate.
    Proprio su questa piazza
    Fu arso Giordano Bruno,
    Il boia accese il rogo
    Fra il popolino curioso.
    E appena il fuoco si spense,
    La folla tornò a bere,
    Ceste di olive e limoni
    Sulle teste dei venditori.
    Rammentai Campo de Fiori
    A Varsavia presso la giostra,
    Una chiara sera d’aprile,
    Al suono d’una gaia orchestra.
    La musica soffocava
    Gli spari dal ghetto,
    Volavano le coppie
    Alte nel cielo terso.
    A tratti il vento alle fiamme
    Strappava neri aquiloni,
    E la gente ridendo
    La fuliggine afferrava.
    Gonfiava le gonne alle ragazze
    Quel vento dalle case in fiamme,
    Scherzavano liete le folle
    Nella domenica festosa.
    Si dirà che la morale
    E’ che a Varsavia o a Roma
    La gente si diverte, ama
    Incurante dei martiri sul rogo.
    Oppure si vedrà la morale
    Nella fugacità delle cose
    Umane, nell’oblio che nasce
    Prima ancora che il fuoco cessi.
    Io invece pensavo allora
    A quelli che muoiono soli,
    Pensavo che quando Giordano
    Salì su quel patibolo,
    Non trovò nella lingua umana
    Nemmeno una parola
    Per dire addio all’umanità,
    L’umanità che restava.
    Già correvano a ubriacarsi,
    A smerciare bianche asterie,
    Ceste di olive e limoni
    Recavan nel gaio brusìo.
    E lui era già distante,
    quasi fossero secoli,
    La sua scomparsa nel fuoco
    Essi attesero appena.
    Di questi morenti, soli,
    Già obliati dal mondo,
    Anche la lingua ci è estranea,
    Come lingua d’antico pianeta.
    Finché tutto sarà leggenda
    E allora dopo tanti anni
    Nel nuovo Campo de Fiori
    Un poeta accenderà la rivolta.

    (1943, Varsavia)

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  32. antonio sagredo

    Ma attendo che Linguaglossa pubblichi il poema su Giulio Cesare Vanini (1585-1619) ;
    MDCXIX

    Tholosae combustum

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  33. Rossana Levati

    Gentile signor Sagredo,
    confermo che le “Poesie” di C. Milosz a mia disposizione sono edite da Adelphi e tradotte da Pietro Marchesani, come per altro ho precisato il 13 Febbraio in calce ad “Ars poetica?” dello stesso autore da me riportata in quell’occasione.
    Purtroppo non posseggo altre edizioni

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  34. Di questo ti nutri
    di scarti di luce, di altro,
    pigmenti di vita, di colori?
    Colori sbiaditi, odi incomprese, parole?
    Stai comodo, l’obesa virtù anch’essa sublime, t’osserva sospesa,
    a scatti ti segue la Musa Perpetua,
    registra ogni istante, registra ogni cosa.
    Miserere del tempo, miserere degli uomini.T’osservo guardarmi!
    Di questo dunque tu soffri, poeta?
    Registrati allora, declina i tuoi dati
    che ella sappia, che usi, che elabori
    i tuoi casi.

    un omaggio alla nostra Musa degli Stracci…

    grazie, OMBRA.

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  35. antonio sagredo

    Secondo miserere…

    La meraviglia di una figura s’è incavata per l’assenza di un argine,
    sul selciato gli zoccoli di una musica accidentata, e non potevo io i tasti
    e i toni concedere agli strumenti per deviare la soglia dalla banale quotidianità:
    una privazione dei tempi tracimare nel vuoto il volto di una metonimia!

    E ricordai i bocci come grumi amari soffocare la bellezza dei miei sett’anni
    saltare i confini dei cortili con le pupille armate a caccia di nespole, melograni
    e accenti… chicchi di madreperla sulle piombate secchie picchiare per non sentir
    in petto quel che una lingua mortale non diceva allegramente.

    La vecchia amata dai rosari neri cesellava con gli occhi i suoi pensieri,
    come un pulcino la circondavo per schernire le letanie dei suoi nastri funebri.
    Miravo dal trono di una seggiola l’afasia di rugate labbra, le preghiere
    di epoche lontane mutavano le infanzie di novelle storie in raccapricci.

    E mi ritrovai, distrutti i castelli, coi malleoli sbucciati, tra rovine in aria sui freddi
    pianerottoli, le scale coi cugini in chiave di catastrofi, le viole mortali nelle lande
    di Tommaso, il burattinaio della città felice tramare il Caro Male , la piazza Dante
    squassata dai capricci di Carmelo, e il trucco di un Angelo, ed io, interdetto – alla
    leggenda!

    Antonio Sagredo

    Roma, 21 gennaio 2014
    ( dalla 17-ma ora alle 19-ma, ca.)
    e 31/01.

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  36. L’ha ribloggato su RIDONDANZEe ha commentato:
    Secondo miserere…

    La meraviglia di una figura s’è incavata per l’assenza di un argine,
    sul selciato gli zoccoli di una musica accidentata, e non potevo io i tasti
    e i toni concedere agli strumenti per deviare la soglia dalla banale quotidianità:
    una privazione dei tempi tracimare nel vuoto il volto di una metonimia!

    E ricordai i bocci come grumi amari soffocare la bellezza dei miei sett’anni
    saltare i confini dei cortili con le pupille armate a caccia di nespole, melograni
    e accenti… chicchi di madreperla sulle piombate secchie picchiare per non sentir
    in petto quel che una lingua mortale non diceva allegramente.

    La vecchia amata dai rosari neri cesellava con gli occhi i suoi pensieri,
    come un pulcino la circondavo per schernire le letanie dei suoi nastri funebri.
    Miravo dal trono di una seggiola l’afasia di rugate labbra, le preghiere
    di epoche lontane mutavano le infanzie di novelle storie in raccapricci.

    E mi ritrovai, distrutti i castelli, coi malleoli sbucciati, tra rovine in aria sui freddi
    pianerottoli, le scale coi cugini in chiave di catastrofi, le viole mortali nelle lande
    di Tommaso, il burattinaio della città felice tramare il Caro Male , la piazza Dante
    squassata dai capricci di Carmelo, e il trucco di un Angelo, ed io, interdetto – alla
    leggenda!

    Antonio Sagredo

    Roma, 21 gennaio 2014
    ( dalla 17-ma ora alle 19-ma, ca.)
    e 31/01.

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