
Cari signori poeti delle parole morte,
Il vostro viaggio è finito.
Gino Rago
La sella vuota
“Cari signori poeti delle parole morte,
Il vostro viaggio è finito.
La corsa senza freni sui prati
è terminata. A che vi serve il cavallo?
Restituite al mondo la sella ormai vuota.
Non vi serve più l’aria.
Restituite l’ossigeno a chi saprà ingoiarlo.
Scrivere per sé stessi
carezzando l’io, il mio, il soltanto io
spinge le parole nell’abisso di ghiaccio.
Regalate il cavallo. Restituite l’aria.
Lasciate la sella vuota a chi saprà usarla.
Cari signori poeti delle foglie appassite,
se dite ‘futuro’ il presente vi divora.
Se dite ‘vita’ la morte vi frantuma.
Giorgio ha ragione. Non c’è destino
per le parole morte. Trascinate versi,
amori, parenti, amici nella valigia,
congedatevi dal mondo senza cerimonie.
Siete già nel gelo universale.
Restituite senza rimpianti l’aria che respirate, il cavallo e la sella vuota.”
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Giorgio Linguaglossa
18 giugno 2017 alle 15.54
caro Mario,
Vorrei dire ad Alfredo Rienzi e ad altri innumerevoli che ci hanno accusato di redigere «manifesti», organizzare «gruppi», «movimenti», «tesi», «decaloghi», «avanguardie», «retroguardie» etc. che, di contro alla immobilità degli ultimi 50 anni della poesia italiana, per la prima volta in Italia è apparsa una pratica della poesia e una teoria della poesia e della scrittura letteraria in generale, che non è più soltanto una avanguardia» né una «retroguardia», né un «movimento», né abbiamo aperto un esercizio per la vendita al dettaglio degli affari propri e correnti, né una legge finanziaria con tanto di capitoli ma è qualcosa di diverso, è un movimento di pensiero e di azione teorica da parte di alcuni poeti di diversissima estrazione e provenienza che ha deciso di rimettere in moto il pensiero poetico, non si tratta di una vendita all’asta al miglior acquirente, né di una domiciliazione bancaria delle proprie rendite di posizione, né di una poetica pubblicitaria e di vendite promozionali come è avvenuto nel corso del secondo novecento, la nostra non è né una cosa né l’altra… contro i timorosi del «nuovo», contro i conservatori ad oltranza, contro chi reclama la conservazione della tradizione (come se essa fosse un capitale che sta in banca a produrre altro capitale parassitario ad interessi fissi), contro chi è recalcitrante alle nuove forme estetiche, contro chi pensa che scrivere poesia lo si possa fare a spese della tradizione utilmente collocata nel proprio bagaglio pret à porter, riporto qui un pensiero di Adorno:
“Gli argomenti contro l’estetica «cupiditas rerum novarum», che così plausibilmente possono richiamarsi alla mancanza di contenuto di tale categoria, sono intrinsecamente farisaici. Il nuovo non è una categoria soggettiva: è l’obbiettiva sostanza delle opere che costringe al nuovo perché altrimenti essa non può giungere a se stessa, strappandosi all’eteronomia. Al nuovo spinge la forza del vecchio che per realizzarsi ha bisogno del nuovo… Il vecchio trova rifugio solo nella punta estrema del nuovo; ed a frammenti, non per continuità. Quel che Schömberg diceva con semplicità, «chi non cerca non trova», è una parola d’ordine del nuovo […] Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obbiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo (e ciò è esemplare per le categorie dell’arte moderna) è interiormente mutato. All’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o sanzionati. C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti e se si sarebbero legittimati. Questa concezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella continuità. Il gesto sperimentale, nome per modi di comportamento artistici per i quali il nuovo è vincolante, si è conservato; esso però indica ora un elemento qualitativamente diverso… indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo”. “la categoria del nuovo è centrale a partire dalla metà del XIX secolo – dal capitalismo sviluppato -. “L’oscuramento del mondo rende razionale l’irrazionalità dell’arte: essa è la radicalmente oscurata”. “Nei termini in cui corrisponde ad un bisogno socialmente presente, l’arte è divenuta in amplissima misura un’impresa guidata dal profitto” .1]
Scrivevo tempo fa, riprendendo una affermazione di Paul Valéry secondo il quale «il mercato universale ha oggi prodotto un’arte più ottusa e meno libera», che l’Amministrazione degli Stati moderni ha imparato la lezione, è l’Amministrazione globale che gestisce la Crisi e gli oggetti della Crisi, e che la Crisi è nient’altro che il prodotto di una Stagnazione Permanente.
«Non sarà più possibile trattare le parole nei limiti di un linguaggio oggetto, perché se da qualche parte esse fanno sentire il loro peso, sarà dalla parte del soggetto: lungi dall’eclissarsi, come molti nietzschiani vorrebbero far dire al testo di Nietzsche, il “soggetto” diviene tanto più importante come questione per tutti (e di tutti) quanto più l’uomo rotola verso la X (con la spinta che Nietzsche ci aggiunge di suo). Passivo, quasi-passivo, attivo nella passività; soggetto-di solo in quanto (e a questa condizione) di sapersi-scoprirsi soggetto-a… La frase di Nietzsche documenta, come tutte quelle che poi la ripetono, una condizione della soggettività, di cui sarebbe semplicemente da sciocchi volerci sbarazzare (sarebbe un suicidio teorico)… Ma sappiamo anche che è innanzi tutto e inevitabilmente una questione di linguaggio, e che l’effetto davanti al quale preliminarmente ci troviamo è un effetto di parola». 2]
Un aneddoto.
Vi racconto un aneddoto. Una volta una rivista di questi giovanotti che scalpitano e sgomitano mi ha rivolto un questionario con domande sulla «critica della poesia». Mi avevano chiesto, questi giovani, che cosa intendessi per «critica della poesia», quale «scuola di pensiero estetico seguissi», se esistesse, a mio giudizio, oggi, «una critica della poesia»… E via di questo passo.
Io gli risposi che non sapevo cosa fosse la «critica della poesia», che non seguivo «nessuna scuola di pensiero estetico e che, a mio avviso, non esisteva la critica della poesia».
La risposta di quei giovanotti fu più o meno questa, mi chiesero: «se avessi inteso prendermi gioco delle loro domande e se intendessi proprio quello che avevo scritto». Inutilmente io ribadii che ero serissimo e che non mi sarei mai permesso di prendermi gioco di nessuno, tantomeno delle loro domande. Il risultato fu che le mie risposte alle domande del questionario non videro mai la luce in quella rivista.
Questo aneddoto lo riferisco perché illumina bene il livello della «pseudo-cultura» che quei giovanotti hanno introiettato e come sia ormai interiorizzato tra gli «appassionati alla poesia» un genere di credenze e convincimenti tipici di una cerchia sacerdotale la quale non ammette chi pone in discussione i presupposti della pseudo-cultura di quella cerchia di sacerdoti del conformismo culturale. Intendo dire con questo aneddoto quanta strada all’indietro le nuove generazioni abbiano percorso dal pensiero critico di persone della mia età. Si è trattato, a mio modesto avviso, di una regressione a un pensiero soteriologico, sacerdotale,di chi si crede di detenere le chiavi per l’accesso al Paradiso delle lettere…
Insomma, non posso non notare una sorta di regressione profondissima verso un pensiero acrilico e acritico, L’aspetto più ridicolo è il concetto di cultura di cui quei giovanotti sono portatori, un concetto dal quale sono stati espunti gli elementi di critica delle ideologie e di critica tout court.
L’aspetto umoristico è che questi giovanotti hanno interiorizzato il meccanismo mentale dell’Amministrazione globale della Crisi, ovvero, il principio della censura e dell’esclusione di chi non condivide la loro cultura agiografica del presente. E questo è proprio il metodo di dominio che l’Amministrazione delle cose ha in Occidente: l’Amministrazione gestisce le CRISI insinuando nelle menti deboli di pensiero critico la convinzione secondo cui occorre espungere dal catalogo degli «addetti ai lavori» chi non la pensa come la maggioranza imbonita, chi la pensa in modo diverso. E chi agisce in modo diverso.
(Giorgio Linguaglossa)
Chi ha paura delle idee?
In proposito scrive Maurizio Ferraris: «l’inventore della scrittura cercava un dispositivo contabile, ma con la scrittura si sono composti versi, sinfonie e leggi;, l’inventore del telefono voleva una radio, e viceversa; chi ha inventato le tazze da caffè americano non prevedeva la loro destinazione parallela a portapenne; l’inventore dell’aspirina pensava di avere scoperto un farmaco antinfiammatorio, mentre una delle sue più interessanti qualità è che sia un farmaco antiaggregante, quindi fluidificante del sangue, come sì è capito più tardi; l’inventore del web pensava a un sistema di comunicazione tra scienziati, e ha dato vita a un sistema che ha trasformato l’intera società. Lo stesso cellulare è evoluto da apparecchio per la comunicazione orale ad apparecchio per la comunicazione scritta e la registrazione, smentendo l’assunto secondo cui la comunicazione costituirebbe un bene superiore alla registrazione, e l’oralità un veicolo di scambio più gradito, naturale e addirittura appropriato della scrittura…».3]
1] T.W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, 1970, trad. it. pp. 32,33
2] Pier Aldo Rovatti, Abitare la distanza, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2007, pp. XX-XXI
3] Maurizio Ferraris, Emergenze, Einaudi, 2016 pp. 120 € 12
Pensieri poesie e aforismi intorno alla Nuova Ontologia Estetica
Il soggetto è quel sorgere che, appena prima,
come soggetto, non era niente, ma che,
appena apparso, si fissa in significante.
L’io è letteralmente un oggetto –
un oggetto che adempie a una certa funzione
che chiamiamo funzione immaginaria
il significante rappresenta un soggetto per un altro significante
- (J. Lacan – seminario XI)
*
L’«Evento» è quella «Presenza»
che non si confonde mai con l’essere-presente,
con un darsi in carne ed ossa.
È un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote l’io,
o, sarebbe forse meglio dire, lo coglie a tergo, a tradimento
Il soggetto è scomparso, ma non l’io poetico che non se ne è accorto,
e continua a dirigere il traffico segnaletico del discorso poetico
La parola è una entità che ha la stessa tessitura che ha la «stoffa» del tempo
La costellazione di una serie di eventi significativi costituisce lo spazio-mondo
Con il primo piano si dilata lo spazio,
con il rallentatore si dilata e si rallenta il tempo
Con la metafora si riscalda la materia linguistica,
con la metonimia la si raffredda
*
Nell’era della mediocrazia ciò che assume forma di messaggio viene riconvertito in informazione, la quale per sua essenza è precaria, dura in vita fin quando non viene sostituita da un’altra informazione. Il messaggio diventa informazionale e ogni forma di scrittura assume lo status dell’informazione quale suo modello e regolo unico e totale. Anche i discorsi artistici, normalizzati in messaggi, vengono silenziati e sostituiti con «nuovi» messaggi informazionali. Oggi si ricevono le notizie in quella sorta di videocitofono qual è diventato internet a misura del televisore. Il pensiero viene chirurgicamente estromesso dai luoghi dove si fabbrica l’informazione della post-massa mediatica. L’informazione abolisce il tempo e lo sostituisce con se stessa.
È proprio questo uno dei punti nevralgici di distinguibilità della Nuova Ontologia Estetica: il tempo non si azzera mai e la storia non può mai ricominciare dal principio, questa è una visione «estatica» e normalizzata; bisogna invece spezzare il tempo, introdurre delle rotture, delle distanze, sostare nella Jetztzeit, il «tempo-ora», spostare, lateralizzare i tempi, moltiplicare i registri linguistici, diversificare i piani del discorso poetico, temporalizzare lo spazio e spazializzare il tempo…
Ovviamente, ciascuno ha il diritto di pensare l’ordine unidirezionale del discorso poetico come l’unico ordine e il migliore, obietto soltanto che la nostra (della NOE) visione del fare poetico implica il principio opposto: una poesia incentrata sulla molteplicità dei «tempi», sul «tempo interno» delle parole, delle «linee interne» delle parole, del soggetto e dell’oggetto, sul «tempo» del metro a-metrico, delle temporalità non-lineari ma curve, confliggenti, degli spazi temporalizzati, delle temporalisation, delle spazializzazioni temporali; una poesia incentrata sulle lateralizzazioni del discorso poetico. Ma qui siamo in una diversa ontologia estetica, in un altro sistema solare che obbedisce ad altre leggi. Leggi forse precarie, instabili, deboli, che non sono più in correlazione con alcuna «verità», ormai disabitata e resa «precaria».
La verità, diceva Nietzsche, è diventata «precaria».
Il «fantasma» che così spesso appare nella poesia della «nuova ontologia estetica», si presenta sotto un aspetto scenico. È il Personaggio che va in cerca dei suoi attori. Nello spazio in cui l’io manca, si presenta il «fantasma».
Dal punto di vista simbolico, è una sceneggiatura, il «fantasma» è ciò che resta della retorizzazione del soggetto là dove il soggetto viene meno; il fantasma è ciò che resta nel linguaggio, una sorta di eccedenza simbolica che indica una mancanza. L’inconscio e il Ça rappresentano i due principali protagonisti della «nuova ontologia estetica». Il soggetto parlante è tale solo in quanto diviso, scisso, attraversato da una dimensione spodestante, da una extimità, come la chiama Lacan, che scava in lui la mancanza. La scrittura poetica è, appunto, la registrazione sonora e magnetica di questa mancanza. Sarebbe risibile andare a chiedere ai poeti della «nuova ontologia estetica», mettiamo, a Steven Grieco Rathgeb, Anna Ventura, Mario Gabriele o a Donatella Costantina Giancaspero che cosa significano i loro personaggi simbolici, perché non c’è alcuna significazione che indicherebbero i fantasmi simbolici, nulla fuori del contesto linguistico. Nulla di nulla. I «fantasmi» indicano quel nulla di linguistico perché Essi non hanno ancora indossato il vestito linguistico. Sono degli scarti che la linguisticità ha escluso.
I «fantasmi» indicano il nulla di nulla, quella istanza in cui si configura l’inconscio, quell’inconscio che appare in quella zona in cui io (ancora) non sono (o non sono più). L’essenza dell’inconscio risiede non nella pulsione, nell’essere istanza di quel serbatoio di pulsioni che vivono sotto il segno della rimozione, quanto nella dimensione dell’io non sono che viene a sostituire l’io penso cartesiano. La misura di questa dimensione è la sorpresa, l’esser colti a tergo. Tutte le formazioni dell’inconscio si manifestano attraverso questo elemento di sorpresa che coglie il soggetto alla sprovvista, che, come nel motto di spirito, apre uno spazio fra il detto e il voler-dire. Come nei sogni, dove l’io è disperso, dissolto, frammentato fra i pensieri e le rappresentazioni che lo costituiscono, così l’inconscio è quella istanza soggettiva in cui l’io sperimenta la propria mancanza. Come aveva intuito Freud: l’inconscio, dal lato dell’io non sono è un penso, un penso-cose, esso è formato da Sachevorstellung, è costituito da rappresentazioni di cose. La formula «penso dove non sono» è la formula dell’inconscio, che si rovescia in un «non sono io che penso». È come se «l’io dell’io non penso, si rovescia, si aliena anche lui in qualcosa che è un penso-cose».
Il «fantasma» inaugura quella dimensione della mancanza che si costituisce nella struttura grammaticale priva dell’io, cioè della dimensione della parola come luogo in cui il soggetto «agisce».
A questo punto apparirà chiaro quanto sia necessario un indebolimento del soggetto linguistico affinché possa sorgere il «fantasma». Nella «nuova ontologia estetica» non c’è più un soggetto padronale che agisce… nella sua struttura grammaticale l’io si è assottigliato o è scomparso. O meglio, il soggetto viene parlato da altri, incontra la propria evanescenza. Continua a leggere