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Acrilico di Marie Laure Colasson, Dialettica dell’immobilità, Storia di una pallottola n. 12, di Gino Rago, La conoscenza si getta à fond perdu negli oggetti

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Marie Laure Colasson, acrilico 2006 

«La conoscenza si getta à fond perdu negli oggetti. La vertigine che ciò suscita è un index veri, lo shock dell’aperto, la negatività». (Adorno) Il negativo del negativo è, ancora una volta, un negativo, non un positivo. Il positivilleggiare della cultura visuale della vetrina mediatica di oggi è un parcheggiare ad “U” l’automobile del design, del positivo entro le strisce della vetrina-parcheggio nella quale l’arte figurativa litiga e gesticola illudendosi disottrarsi così al suicidio annunciato. L’arte che gesticola e vetrineggia è un’arte da obitorio che fa della propria immobilità un movimento, ma all’incontrario, à rebours, verso il centro del buco nero dalla quale è nata e al quale anela tornare. Con le sue figurazioni Marie Laure Colasson opera una dialettica dell’immobilità coloristica,  spicca una radiografia delle tracce di colore, delle ombre di colore che si sovrappongono, una mappa delle orme semi cancellate di tutto ciò che non ci appartiene più, che ci è stato espropriato e che abbiamo dimenticato e rimosso. La figuralità della Colasson è un gettarsi à fond perdu nelle tracce, nei deboli segnali che stanno per spegnersi, nelle deboli ri-illuminazioni. E questa gettatezza è ciò che ci resta, con l’unica consapevolezza che quelle debolissime ri-illuminazioni non sono in grado di illuminare alcunché se non la nostra cecità, la connessione d’accecamento, l’impossibilità di «gettare» lo sguardo al di là dell’orizzonte degli eventi della nostra epoca, al di là della sindrome di accecamento che ci tiene avvinti nel soggiogamento, nel sortilegio. L’atto di dare un senso non è altro se non un conferimento di significati operato dal soggetto. Nella figuralità colassoniana non v’è un atto di senso né alcuna pluralità di atti di senso, siamo piuttosto nel fuori-senso, fuori dal senso. Questo gesto intende il mondo, la storia come un fuori-senso che non conduce in alcun luogo, è questa la posizione colassoniana, nella sua figuralità non v’è né Irrweg né Umweg, i sentieri sono interrotti e, di conseguenza, non v’è neanche una ermeneutica che possa decifrare la stazione del fuori-senso. L’enigma del fuori-senso non lo si può sciogliere tramite il suo risolvimento, lo si può solo abitare, lo si può solo vivere senza alcuna aspettativa né prospettiva di senso. La Colasson giunge così a fare una pittura priva di soggetto nella misura in cui mette in opera  una pittura de-ontologizzata, priva del fondamento e, quindi, anche de-oggettivata.
(Giorgio Linguaglossa)

*

Mi ha sempre colpito la frase di Adorno:

«La conoscenza si getta à fond perdu negli oggetti. La vertigine che ciò suscita è un index veri, lo shock dell’aperto, la negatività».1

E mi sono chiesto che cosa realmente volesse dire il filosofo tedesco. È che l’oggetto è quel prodotto del lavoro umano, e che quindi non è mai un prius, ma un post che è giunto fino a noi. Così l’oggetto quando ci raggiunge si è già incaricato il trasporto di tutto ciò che noi avevamo dimenticato o avevamo giudicato non essenziale. Ed è proprio lì il significativo, ciò che eccede il significato e rimanda alla cosa per essere di nuovo interrogata.

Allora, il racconto dell’oggetto «pallottola» in Storia di una pallottola di Gino Rago, è l’oggetto stesso nel suo farsi, nell’essersi così sedimentato. Descrivere degli «stati di cose» come avviene nelle poesie di Marie Laure Colasson o Mario Gabriele, significa fotografare l’istante della loro immobilità, l’istante del flash. In una poesia di Francesco Paolo Intini ciò che viene refertato nei suoi «stati di cose» è la radiografia del vuoto di significazione. Descrivere un oggetto significa gettarsi a fondo perduto in esso per scoprire le storie che in esso sono nascoste o sono rimaste mute, vuol dire aprire una interrogazione. E allora scopriamo che l’oggetto altro non è che la storia della nostra interrogazione su di esso, l’archeologia di tutte le nostre interrogazioni. L’oggetto parla soltanto se interrogato, altrimenti rimane muto. Alle volte accade che sia l’oggetto stesso che ci parla, e ci scuote dal nostro torpore significazionista.

Il non-identico è tutto ciò che rimane come residuo della conoscenza identificante del soggetto. Quanto essa non riesce ad adeguare viene relegato nell’ambito dell’eterogeneo e del contraddittorio: non-identico è quindi tutto ciò che si sottrae al dominio dell’identità e che quindi viene bollato come non-essente. Il non-identico non è perciò irrazionale, ma irrazionalizzato. Il resto, il residuo, lo scarto è tutto ciò che il pensiero identificante del soggetto non è riuscito ad irreggimentare. Possiamo allora dire che ciò che è significativo è tutto ciò che resta fuori del pensiero identificante del soggetto. Lì è la verità dell’oggetto.
Cogliere il quid dell’oggetto significa coglierne la singolarità, coglierla diventa un ripercorrere a ritroso il processo del suo divenire, in un fitto intreccio di motivi critici ed ermeneutici, di ingredienti fantasmatici e fantastici che hanno contribuito a modellarla, cogliere le ragioni profonde che hanno portato ad una certa modellizzazione secondaria dell’oggetto.

La realtà è un campo di sperimentazioni senza verità, intenzionali e/o prive di intenzioni, frammentate, interrotte. Ciò si configura nel linguaggio, nelle parole di un certo linguaggio che, esso stesso disgregato e frammentato, cerca di aprire l’interno della cosa ricorrendo ad una riconfigurazione delle figure retoriche e dei tropi, «un po’ come le serrature di casseforti ben custodite, aperte non solo da una singola chiave o numero, ma da una combinazione di numeri».2 Solo così può liberarsi quella storia nascosta, coagulata, quel processo storico e sociale accumulato che è la verità della cosa, o le cose della verità che la storia dimentica negli angoli più riposti del suo svolgimento.

«Oggi il filosofo ha di fronte un linguaggio disgregato (zerfallenen Sprache). Il suo materiale sono le macerie delle parole, alle quali la storia lo lega; la sua libertà è unicamente la possibilità della loro configurazione in base al vincolo di verità in esse (nach dem Zwange der Wahrheit in ihnen). Egli può tanto poco pensare una parola come già data quanto inventare una nuova parola».3

(Giorgio Linguaglossa)

1 T.W. Adorno, Ästhetische Theorie; trad. it. Teoria estetica, Einaudi, Torino 1977, p. 55
2 Ibidem p. 146
3 T.W. Adorno, Thesen über die Sprache des Philosophen, in Gesammelte Schriften, Band I, hrsg. von R. Tiedemann, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1973 (Tesi sul linguaggio del filosofo, trad. di M. Farina, in L’attualità della filosofia. Tesi all’origine del pensiero critico, Mimesis, Milano, 2009, pp. 81-86

Gif Hitchcock Sparo

Gino Rago
Storia di una pallottola n. 12

Il barone rampante già da piccolo si arrampicava sugli alberi.
Negli ultimi tempi vive su un platano della Circonvallazione Clodia.
Italo Calvino telefona alla Colasson:
«La vorrei inserire in un mio romanzo con il ruolo di protagonista», dice.

Reparto di cardiologia. Il dott. Carlomagno convoca d’urgenza
il poeta Gino Rago.
Tachiaritmia a 160 battiti al minuto,
il polmone destro è mal messo, l’aria circola a fatica.
Organizza una tavola rotonda.
Cavalieri, esperti di pneumologia, virologia, cardiochirurgia,
anestesia e medicina interna.
Rispondono all’appello anche Re Artù, Angelica,
Orlando furioso, Italo Calvino
e il presidente del consiglio Giuseppe Conte.

Marie Laure Colasson convoca gli Stati Generali presso la sua abitazione
Circonvallazione Clodia n. 21.
Italo Calvino citofona:
«Madame Colasson, ha ragione,
la vita è un romanzo, vorrei entrare anch’io in un suo quadro.
Prima o poi arriva sempre il corvo.
Mi inviti piuttosto agli Stati Generali…».

Marie Laure Colasson:
«La ringrazio, le farò sapere.
C’è un agente degli Affari Riservati che mi pedina,
e poi le sue Lezioni americane, sono banali, tristi,
le preferisco Queneau».

Il noto critico letterario Linguaglossa dà forfait.
Alle pareti “strutture dissipative”, sculture fatte d’aria, anelli, cilindri,
un grembiule imbrattato, abiti di scena, profumi, locandine,
calici di cristallo, draghi di cartapesta, mascherine,
frammenti di plexiglas, scatole di trucchi, bauli,
spille con cammei, sciabole giapponesi,
una falce e martello con la stella rossa dell’URSS,
lattine vuote di olio della Sabina.
E uno stiletto appuntito con il manico di avorio.
Che cade a strapiombo sulla strada
e uccide il cavaliere inesistente.

La sirena della squadra omicidi.
Entra il commissario Ingravallo.
Italo Calvino se la dà a gambe.
«Madame Colasson, lei è in arresto».

(Gino Rago, 10 giugno 2020)

Marie Laure Colasson

Egregio poeta Gino Ragò,

devo ammettere che stasera non sono lucida perché ho bevuto della vodka al melone… Le dico subito le mie rimostranze per essere stata coinvolta, di nuovo, mio malgrado, nella interminabile querelle innescata dal commissario Ingravallo, quell’energumeno incompetente che mi perseguita da anni e che ha già combinato un pasticcio con l’Ambasciata di Francia e il Ministero degli Esteri d’Italia con il suo ministro degli Esteri Di Maio, altro notorio incompetente.
Le dico subito che lo stiletto con il manico di avorio è ancora in mio possesso, ho dovuto recuperarlo dalla testa del cavaliere inesistente dove si era conficcato cadendo dal 4 piano della mia abitazione di Circonvallazione Clodia n. 21. Poiché, come dice Wittgenstein, «il mondo è tutto ciò che accade», anche questo accadimento fa parte del mondo, purtroppo in quel mondo ci sono degli imbecilli e dei mascalzoni come Salvini e i suoi fedelissimi della banda bassotti dei leghisti. Quanto ad Italo Calvino, non ne posso più, le sue Lezioni americane mi hanno annoiato a dismisura con quel panegirico sulla leggerezza che ho trovato veramente banale, gli preferisco Mauro Pierno il quale dimostra di possedere una legéreté invidiabile e un fuori-senso invidiabile. E’ che la poesia ha senso soltanto se è fuori-senso, tutta la poesia sensata che fa del sensorio il proprio catechismo è semplicemente ridicola.
Cmq, Le prometto che la convocherò nei miei prossimi Stati Generali della poesia in compagnia di quel lestofante del critico letterario Linguaglossa il quale sembra più interessato al suo Ufficio di Informazioni Riservate che alla salute della poesia italiana.
Quanto alle mie “strutture dissipative” lascerò un posto per il Signor Eugenio Montale e anche a quel bellimbusto di Italo Calvino… e anche al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Contento?
Lei, caro Gino Ragò, è un burlone, ma io sono una persona seria e non mi piace essere coinvolta in questioni che comportano risvolti di carattere penale. Spero che Lei capirà…
Ciò posto, devo dire che la sua composizione  mi aggrada e la trovo eloquente e folle almeno quanto la sottoscritta.
In attesa della Storia di una pallottola n. 13, La saluto con cordialità.
(Milaure)

Gino Rago

Gentilissima e amabilissima Madame Colasson,

le questioni che Lei solleva e che scaglia sul tappeto verde del biliardo poetico-letterario non soltanto italico sono assai delicate e meritano da parte mia una trattazione seria e ben articolata che ora non posso darLe, mi riservo di farlo presto, sperando di non deludere le Sue attese.
Vado di corsa, sono stato convocato di urgenza all’Istituto di medicina legale della Sapienza: il medico legale, dottor Tancredi, ha esaminato il cranio del cavaliere inesistente e ha fatto una rivelazione sconvolgente che
La scagiona da ogni responsabilità penale: il cavaliere inesistente era già morto quando il Suo stiletto gli si è conficcato nella testa vuota…
Le darò altre news, al più presto,
Le auguro buon tutto, con viva cordialità,
(Gino)

Gino Rago I platani sul TevereGino Rago, nato a Montegiordano (Cs) nel febbraio del 1950 e residente a Trebisacce (Cs) dove è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, dove si e laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005) e I platani sul Tevere diventano betulle (2020). Sue poesie sono presenti nelle antologie Poeti del Sud (EdiLazio, 2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016). È presente nel saggio di Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018). È presente nell’Antologia italo-americana curata da Giorgio Linguaglossa How the Trojan War Ended I Dont’t Remember (Chelsea Editions, New York, 2019). È nel comitato di redazione della Rivista di poesia, critica e contemporaneistica “Il Mangiaparole” e redattore della Rivista on line lombradelleparole.wordpress.com”.

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Due poesie di Chiara Catapano e una poesia di Steven Grieco-Rathgeb – La porosità dell’opera artistica

bello figura femminile con gazza

Mani Kaul era intento a creare un “oggetto puramente cinematico”

Steven Grieco-Rathgeb

12 gennaio 2018 alle 1.08

Cari amici, avrei voluto mettere un mio commento qui ieri sera, ma mi trovo da qualche giorno con una nuova traduzione da svolgere in tempi brevissimi, e sono arrivato a leggere i vostri alle una e mezza di stanotte, quando non ero più in grado di scrivere. Stasera ho riaperto l’Ombra, trovando nuovi eccellenti commenti… Mauro Pierno, Chiara Catapano, Giorgio Linguaglossa!

Il testo di Mani Kaul è duro proprio perché è concretissimo: è duro perché apre vie impensate. Non è solo una questione di idee o di un suo ragionare sull’arte –che si possono facilmente opporre o confutare – MA SULLO STESSO OPERARE PSICHICO, MENTALE DELL’ARTISTA.
E’ dunque un testo duro, che costringe il lettore a fare un serio tentativo di concentrarsi per capirlo. Diversamente, la sua comprensione scivola via e si disperde.
Una delle difficoltà nel capire il testo sta nel fatto che Mani Kaul affronta e sbaraglia, il concetto fasullo di progresso che tanto occupa il pensiero mondiale oggi: quel concetto che a sua volta ha portato alla nozione della convergenza, del climax, su cui ancora si basa la stragrande maggioranza di prodotti culturali, alti o bassi che siano, poesie o installazioni che siano. Lo vediamo subito in poesia: pochissime le poesie che abbiano affrontato la questione centrale dello sviluppo, chiamiamolo, meta-tematico. Si tende invece ancora a parlare molto del contenuto. Quando il concetto di contenuto è ormai antiquato.
Ho molto apprezzato i commenti di Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Chiara Catapano, Mauro Pierno. Interessantissimo quello che dice Tosi, del suo mescolarsi interamente al flusso della vita per cogliere il nascere di un’opera. Le sue poesie sono di questo una diretta testimonianza. Su una cosa non mi trovo d’accordo: tu dici, Lucio, che “L’immagine in movimento farà invecchiare i vecchi dipinti, anche quelli di Van Gogh.” Sarà anche vero, ma ahimè è tutt’altra cosa che già adesso sta determinando quell’invecchiamento: il fatto che noi sempre di più guardiamo le immagini sul computer e non sulla carta. Pensa a questo incredibile cambiamento: le immagini risultano intensificate “artificialmente” dalla luce interna allo schermo. E non ci possiamo fare nulla. Perché sempre più guarderemo le foto dei nostri cari, Van Gogh, e la fotografia d’autore sullo schermo del nostro computer di casa. I colori saranno più intensi, i sorrisi più smaglianti, le forme più profonde.

In risposta al bel commento di Mario Gabriele, devo precisare: Mani Kaul era intento a creare un “oggetto puramente cinematico”, e tutta la parte riguardante i concetti deleuziani “immagine tempo” e “immagine movimento” riguardano solo il cinema: possono far capire a noi poeti molte cose, ma non sono in questa loro forma direttamente applicabili alla poesia o alle altre arti – non prima, almeno, di una ulteriore lunga riflessione estetica sulla questione.
Quello che tu, Mario, chiami ”declassamento dello spazio” in Mani Kaul è un po’ diverso, e si riferisce, operativamente parlando, al cinema, non alla poesia o alla pittura. E comunque tale declassamento viene in gioco nel cinema principalmente come mezzo per abolire la “convergenza”, il climax prospettico, che ha fatto il suo tempo da tanto ormai, ma continua imperterrito a falsare così tanta produzione artistica. In tutti i prodotti culturali, da Hollywood alla quasi totalità dei poeti persiste questo paradigma così profondamente insediato nella mente umana da ormai 5 secoli, da non essere più nemmeno percepito dai fruitori.
Un piccolissimo esempio: in genere si finisce una poesia con una sottolineatura, una intensificazione emotiva di un tipo o l’altro: di “pathos”, di “ira”, di “dolcezza”, di “saggezza”. La tipica chiusa “emotiva” è senz’altro uno dei punti più deboli della poesia oggi, che nessuna avanguardia è riuscita ad abbattere, e che più invalida le nostre composizioni. E’ davvero difficile vedere come i poeti ancora interessati a creare questa convergenza, il climax, nelle loro poesie, possano sfuggire alla forma-poesia novecentesca.

 

 Quello che invece è indubbiamente estrapolabile dal discorso di Mani e trasferibile a tutte le arti compresa la poesia, è la questione dello spazio sacro e lo spazio profano.
Ringrazio Chiara Catapano del primo punto del suo commento: illuminante, perché, ragazzi, la banalità entra ovunque e dovrà fare il suo corso, piaccia o non piaccia. Altro che la porosità dell’opera artistica di cui parliamo noi! I reality ci hanno letteralmente seminato! Chiara infatti evoca il “reale”, ossia “il cinema dal vero” che il filosofo-scienziato-autore e più geniale fantascientista del Novecento, Stanislaw Lem, descrive nel suo Powrot z gwiazd, (Ritorno dall’universo). In questo spettacolo detto “reale”, attori in carne ed ossa vivono tutte le esperienze realissime della vita direttamente davanti agli spettatori: vengono tangibilmente sbranati da tigri, si innamorano, mangiano un panino, scrivono poesie immortali. Poi tutto si scioglie: non era vero nulla! Proprio come il reality. Ma il romanzo di Lem risale agli anni 60 del secolo scorso…
La mia anima artistica non può che gioire di quella meravigliosa aleatorietà di cui parli, Chiara, avvenuto nello spettacolo inscenato nel cortile del carcere. Di questo abbiamo fortemente bisogno.
Sul terzo punto devo ancora pensare, perché viene sollevato un fatto letteralmente rivoluzionario: forse è proprio questo lo spioncino attraverso il quale l’uomo diventa tutto il suo ambiente. Non è detto affatto che l’uomo del dopo plastica, del dopo inquinamento, non sarà così.

Alla fine, come spesso succede, Giorgio Linguaglossa centra la questione in pieno, dicendo: “Mi sembra chiaro. Per cambiare la forma-poesia finora in uso nella poesia italiana, bisogna andare molto in profondità, alla scaturigine della forma-poesia, all’origine. Se ci si ferma a metà strada, se ci si limita a riformattare l’aspetto fono simbolico, che so, o l’aspetto meramente metrico del vers libre, faremo opera di salvataggio della vecchia forma-poesia, faremo del riformismo più o meno moderato…”

Caro Gino Rago, c’è un’altra frase nel Bravo Soldato Schweik, non so se te la ricordi, che dice che i comandanti sono spesso più umili dei luogotenenti. Ma io, diversamente da te, penso che sull’Ombra delle Parole non ci sono né luogotenenti, né comandanti. Perché non ci sono battaglie, e nemmeno guerre qui. C’è soltanto la sincera volontà di offrire poesia, e idee e concetti il più possibile concreti: applicabili concretamente alla poesia. E’ quello che tutti noi stiamo cercando di fare.
A questo riguardo, dedico a te e a noi tutti una poesia cinese dell’ottavo secolo, per ricordarci che nei nostri multiversi – almeno letterari! – la NOE è già esistita più volte in passato. Sì, caro Gino, sono assolutamente d’accordo, coltiviamo l’umiltà! La poesia è di Li I, poeta dell’epoca Tang, che estrapolo dal mio prossimo post:

Spedizione a Nord

vento gelido sulla neve di T’ien Shan
suoni di flauti, dura la marcia
fra le rupi trecentomila soldati
si girano tutti insieme: la luna

E aggiungo qui il geniale incipit della poesia di Mauro Pierno,

L’incontro
a breve in video-conferenza
devastò l’immagine.

Grazie, Mauro!

 

Chiara Catapano

IL CORBEZZOLO ROSSO
(2013)

Nipfjället, la Tundra Comoda – come la chiamano qui – c’innalza sui mille metri sotto il cono d’ombra dello Städjan,

e tra le ossa dell’altopiano riconosci la mia voce, cauto frinire di foglie del Rossello Alpino nell’infinito albeggiare:

sono il Corbezzolo Rosso che t’inquieta il sonno
e macchia la zolla del risveglio avvampandone la linfa.
Mi troverai dentro questa definizione, palpandomi i fianchi;
oseranno i polpastrelli raggiungere la polpa tenera del frutto?
Qui ogni amore lo separa il setaccio della metamorfosi, imposta per magia.
Così tu dovrai vagare alla ricerca dell’orizzonte esatto col quale dialogare,
e sorreggermi fino a casa senza far patire le radici.

È, questa inquietudine che sa di latte, la bussola prestata dall’infanzia alla mia vita.
Mi districavo con essa i capelli nella sera.
Ogni nodo soffoca un lieve incanto, e per quanti ne sciolga non conosce il destino del giorno successivo: altri se ne assieperebbero, frequentazioni incaute di memoria.

Se scoverai il segreto che mi tiene ancorata a terra,
arriverà precocemente la fine dell’estate;
raccoglierai quel che resta della mia voce nella neve sciolta
a margine del bosco. Maturerò nel viola
della Campanula Patula i pensieri che serrano le nostre decisioni.
E a Dalarna dipingerai un cavallino intagliato nel mio ricordo,
souvenir da mercato per le ore giocate a rincorrerci
nell’acqua dove non si tocca.

bello Patrick Caulfield (1936-2005) was one of the pioneers of British Pop Art, his work is my favourite from a British artist and I actually bought, 'I've only the ...

Patrick Caulfield (1936-2005) was one of the pioneers of British Pop Art, his work is my favourite from a British artist and I actually bought, ‘I’ve only the …

Chiara Catapano

 INN

(2012)

I

A Sils l’onda che incide il suo corso fluttuante tra gole d’acciaio è la similitudine che concedo alla mia infanzia.

Intagliavo rami così come i monelli sul Timavo scelgono legno adatto per le fionde, ma poi le tue le spezzavano, gelosi tu sapessi far meglio; la differenza è che io non t’avrei tradito. Ma di questo pare non lasciar traccia il beneficio che da lontano ha saputo, suo malgrado, mutare gli orizzonti fino a piegare l’arco tra Sils e Trieste.

Tu non capisci con quale potenza l’acqua addomestichi il corso al proprio volere: l’Inn procede con intenzione, munifico, nonostante sia rasoio sulla già affilata geometria elvetica.

Filo su filo, senza scintille.

E, dentro, tutto il fuoco della creazione.

Francesco riposa come in un risvolto di vita, cucito per essere – in un giorno di crescita – liberato e adattato alla nuova misura. È paragone da sarta che lo imbriglierebbe nel muto accordo tra donne (sì, anche tra una svizzera ventenne e una donna pisana funziona l’antico patto di reciproco sostegno), se pigiate dentro l’esistenza esse sentissero -magari pure senza conoscersi, magari scostando appena la cortina densa che le separa dalla propria fine – l’inestinguibile canto d’agonia con cui lo spirito femminile si lascia riconoscere all’interno di una metafora.

Lungo le rive di questo fiume, che qui è richiamo, puro accenno al suo fulgore, la tua CC gioca ad abbandonare i sensi – per ripescarli sbiaditi più a valle, nell’ansa amichevole scavata dall’acqua, lontano dalla corrente impetuosa.

Ti ci porto ogni volta che vieni, sperando tu accolga l’invito a rianimare – nel corso dell’infanzia- questa predisposizione all’abbandono di me, cedevolezza che ammolla il petto ammaestrandolo alla giusta disposizione, senza disperare.

Questo tu potresti, ogni volta, in virtù delle fionde che non danneggiai; sebbene ancora non possa vedere l’esito di ciò che non svolsi, in tutta purezza.

Qui ti consegno i polsi. La lametta sei tu, s’agita dentro il tuo seme come dentro un’estinzione.

Così m’acquatto, sfidando il battito blu delle piccole vene che affiorano turgide, che tu le beva una volta per tutte. O mi liberi dalla mia stessa schiavitù, di cui non fosti l’artefice, ma di cui – scoperta – t’impossessasti. Continua a leggere

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PITTURA E POESIA Rosario La Polla – Gino Rago. Noi siamo qui per Ecuba:   metafora delle vittime – Rimane lei per sempre la Regina, Il figlio d’un eroe spaventa i vincitori, Noi siamo qui per  Ecuba –  Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa e Commento di Mariella Colonna

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Note sulla cartella “Ecuba”- Pittura e Poesia Rosario La Polla – Gino Rago.
Caratteristiche delle opere grafiche della cartella “Ecuba”.
Disegni originali ideati ed eseguiti per il presente progetto editoriale – digitalizzati in base
monocroma nera su cartoncino «Tintoretto» – interamente e singolarmente acquarellati a mano dall’Autore e retouché con matita litografica – Tirati in 75 esemplari – cm 33 x 48

Nota di Gino Rago  

Noi siamo qui per Ecuba:  « metafora delle vittime »

Le liriche dedicate a Troia si basano sul destino dei vinti; meglio, sulla sorte delle donne quando sono ridotte a « bottini di guerra ».

Nelle liriche, l’orrore si focalizza nella prospettiva delle vittime, dei  loro corpi umiliati, spogliati  delle loro identità.

Ilio  in fiamme dunque è da intendere come luogo archetipico del saccheggio, della distruzione, dei crimini di guerra, della  deriva di una terra devastata e di un popolo calpestato.

Il destino dei vinti, né omerico, né euripideo, viene seguito nell’articolazione di una sorta di défilé di tre figure femminili emblematiche: Andromaca, Cassandra e soprattutto Ecuba, su cui incombe il trauma della partenza verso un altrove di schiavitù e miseria, nella certezza che nessun tribunale di guerra potrà mai riparare la catastrofe di queste donne (« Ecco, piego  questo mio vecchio corpo/ e batto la terra con le mani», un esempio della potenza di Ecuba.)

Noi siamo qui per Ecuba è paradigma su cui meditare e modello da riattraversare fino  alle riscritture prossime a noi  a riflettere gli snodi traumatici del Novecento: Troiane di Franz Werfel  (1914 e 1920); Troiane di J.P. Sartre (1964); Troiane di Suzuki Kadasci (1977) in cui  i fantasmi del mito “ripetono e insieme rappresentano le atroci esperienze di vite offese e di corpi violati” (D. Susanetti), al di là dei confini dello spazio e del tempo, perché il mito antico è metodo per dare significato e forma alla caotica, altrimenti  indicibile,  realtà del presente. Da qui, il “metodo mitico”, nel poemetto espresso per “frammenti”.

Ma in quale teatro d’azione Ecuba, Elena e Andromaca  agiscono nelle liriche a comporre il poema/ciclo di Troia “Noi siamo qui per Ecuba”?

Per una attendibile definizione del perimetro, o dello scenario  d’azione delle tre  onne non si può prescindere dalle memorie dello Schliemann, l’archeologo cui viene attribuita la scoperta di Troia come acme d’una vita interamente consacrata a trarre dalla leggenda una  storica verità.

Nelle sue memorie Schliemann scrive: «(…) Secondo Omero, Troia è vicina al mare, di fronte all’isola di Tenedo e il suo orizzonte va dalla vetta di Samotracia – ove ha sede Poseidon –  al monte Ida dove siede Zeus. I Greci sono accampati presso il mare; la città non deve essere lontana; ogni sera i Greci tornano all’accampamento e i Troiani tornano in città. Quando Priamo va al campo greco a riscattare il corpo di Ettore, raggiunge il campo durante la nottata. Tra i Greci e i Troiani scorre lo Scamandro. Ettore una volta oltrepassa il fiume e si accampa dall’altra parte, facendosi mandare dalla sua città le cibarie; e Agamennone sente i suoni di flauto e vede le luci del campo troiano dalla sua tenda. Sotto Troia si udivano scorrere due sorgenti, una fredda e una tiepida. In questo paesaggio soltanto Achille poteva essere in grado di inseguire Ettore tre volte di corsa intorno alla città… Perciò la mia attenzione si fissò sulla collina, assai prossima al mare, detta Hissarlik…»

Il poema “Noi siamo qui per Ecuba” adotta  queste memorie a base del  teatro, dello scenario d’azione in cui Ecuba e le altre agiscono , ancorché  nel tratteggiare Ecuba debba segnalare che non ho mai perso di vista l’Ecuba dantesca del XXX Canto dell’Inferno:

«…Ecuba trista, misera e cattiva,/ poscia che vide Polissena morta,/ e del suo Polidoro in su la riva/ del mar si fu la dolorosa accorta,/ forsennata latrò sì come un cane;/ tanto il dolor le fé la mente torta».

Ecuba, figlia di Dimante, fu la seconda e fecondissima moglie di Priamo, re di Troia, cui diede 19 figli, morti quasi tutti nel corso o appena dopo la guerra contro i Greci. Caduta Ilio, fu schiava di Ulisse.

                                                                                                               Roma,  gennaio 2013

grecia La contesa per il tripode tra Apollo ed Eracle in una tavola tratta dall’opera Choix des vases peintes du Musée d’antiquités de Leide. 1854. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs

La contesa per il tripode tra Apollo ed Eracle in una tavola tratta dall’opera Choix des vases peintes du Musée d’antiquités de Leide. 1854. Parigi, Bibliothèque des Arts Décoratifs

Rosario La Polla CoverCommento impolitico di Giorgio Linguaglossa

 Il poeta Gino Rago e il pittore Rosario La Polla «cantano» per volere di Mnemosyne. Ed ecco l’Estraneo che si avvicina e il «mito» che ritorna. E all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich), le nottole del tramonto singhiozzano. E all’approssimarsi del «mito», il tempo ritrova se stesso dopo l’Oblio della Memoria.

La poesia di Gino Rago proviene da Mnemosyne e dall’Oblio della Memoria, dal periechon (dall’infinito della periferia, e quindi del «divino», secondo il pensiero dei greci), dalla perdita dell’Origine e dalla perdita della Patria (Heimat). La sua poesia è il volto codificato del dolore. Il duplice moto di andata e ritorno dal sacro al profano, e viceversa, caratterizza il nunc e l’hic dell’evento che si dà per noi, nella singolarità di un accadimento irripetibile. La guerra di Troia assume l’aspetto di simbolo di tutte le guerre e di tutti gli eccidi della storia umana. La rivisitazione del mito è fatta dalla parte delle donne, delle perdenti, dalla parte di Ecuba, moglie di Priamo e regina di Troia, madre di 19 figli. Il tum dà profondità al nunc per rifrazione e sedimentazione del tempo, e l‘hic, il qui, rivela la singolarità dell’evento. «Nell’evento lo spazio e il tempo fanno uno, ed è il tempo che è primario, che solo nell’evento rompe la continuità della durata e si rivela come istante, perché solo nell’evento il nunc ha contro di sé l’infinità circoscrivente del semper e fa centro, e il punto non è isolabile se non in una convergenza […] Il tempo circolare è il tempo continuo e infinitamente divisibile del logos, dove nessun istante è isolabile, perché in ognuno il principio coincide con la fine… Ciò è vero anche per il mito dell’eterno ritorno, che fin che è mito, ha sempre valore escatologico… Non appena il logos prevale sul mito, la coscienza religiosa lo sente come un’oppressione e cerca l’evasione nella rottura del ciclo e nell’unione definitiva con l’Uno».1

«Ciò che è Perduto non può essere ritrovato se non nella forma di “frammento”, che non indica il Tutto se non come un tutto frammentato e disperso. Di qui il “dolore” della poesia».

La gestualità statuaria di Ecuba di Rosario La Polla narra il mito, fissato e immobilizzato nell’eternità del tempo del «sacro». Il nunc è il tempo della mancanza, della povertà.  Il mito invece è narrazione del tempo del tunc. Sia La Polla sia Gino Rago sono i cantori delle gesta del «sacro». È qui che la storia prende forma nelle vesti striate e multicolori della figura di Ecuba tracciata dal pittore di Trebisacce.  La «Forma» è nella magia del colore. La «Forma» è ciò che rimane. Con le parole di Gino Rago: «lei per sempre la Regina», Ecuba e tutte le donne violentate e fatte schiave di tutti i tempi della storia umana. Negli occhi della «Regina» il tempo si ferma, si irrigidisce nel volto deformato dal dolore.

1 Carlo Diano Linee per una fenomenologia dell’arte 1968, Neri Pozza, p.36.37

2 Michel Foucault Le parole e le cose 1975 p. 139

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Poesie di Gino Rago
Rimane lei per sempre la Regina

Di fronte a noi si muove il re spartano.
A Telemaco vanta le molte virtù e l’astuzia del padre
per la cava insidia nel cavallo di legno. Fatale
ai Troiani ma che gli Achei sottrasse alla rovina.
Noi non siamo qui per Menelao.
Né siamo qui per Elena.
L’amante fuggiasca
che nonostante i crolli, i lutti, le rovine,
il sangue – per dieci anni a correre
ai bordi d’ogni corpo –
sul trono a Sparta siede ancora da regina.
Noi siamo qui per Ecuba,
la sposa ormai prona al suo destino,
la madre a ignorare l’inganno delle dee. Afrodite,
Era e Atena hanno di Paride fatto inerme preda.
«Eppure in cuor mio un tempo amavo i Greci.
Oggi hanno il fuoco negli occhi. Che fine hanno fatto
il rispetto dei vinti, la pietà, la sosta sulle ceneri dei morti.
Chi più ricorda il gesto moderato. L’armonia delle forme …
Sorelle d’Ilio. Fare senno pure nel male. A ciò tutte vi esorto.
Fare senno anche nella sventura. Conviene
alla calma, alla saggezza dopo la disfatta.»
Così la donna china sulla riva si rivolge a tutte le troiane.
Alle spose ferite nell’onore. (Gli sguardi opachi verso terre ignote).
Alle figlie d’Ilio (nel delirio turpe dei guerrieri vincitori).

Le mura franate. I cadaveri umiliati. Il Palazzo violato.
Priamo sgozzato. Lo scettro del Re frantumato…
Noi siamo qui per Ecuba ora che tutto perde.
Ma pure con il passo incerto sulla rena
rimane lei per sempre la Regina.

.
Il figlio d’un eroe spaventa i vincitori

Ecuba ripudia il vecchio corpo.
Raschia la terra con le mani.
Si lacera il seno di fronte al bimbo morto.
Evoca la voce dei defunti
prima dei giorni della schiavitù.
Noi con Ecuba attendiamo Aurora.
La dea dalle ali bianche diffonde il giorno
chiaro sulla città in fiamme.
Le coste risuonano di morte.
L’urlo di Priamo si strozza nella gorgia
dinanzi alle sue terre a ferro
e a fuoco. Noi siamo qui per Ecuba
già nelle fiamme del rogo finale.
Nuvole di polvere tagliano l’azzurro.
Trono, palazzo, torri merlate:
un tonfo di frantumi su macerie ardenti.
Ilio è un nome scritto sulla cenere.
I troiani senza numero periscono
per i capricci di un’unica donna.
Nemmeno Astianatte viene risparmiato:
il figlio di un eroe spaventa i vincitori.
Noi siamo qui per Ecuba.
Cos’altro ancora manca al suo disastro
perché gli Achei lo sentano completo…
La dimora della Bellezza va in fumo.
La casa dell’amore si sfarina.
La fiamma greca incenerisce Troia.
La Regina sul baratro maledice Atena.
E Thanatos danza
sull’uniforme grido dei frammenti.

 

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Noi siamo qui per Ecuba

Paride amò nel talamo di Troia
senza mai saperlo
forse un’idea. Una chioma di cenere.
Una nuvola di nulla. Un cirro.
Senza carne.
Noi siamo qui per Ecuba. Tutto le fu tolto
per una bolla d’aria. Dissennato
il massacro sull’Acropoli
per la spartana rapita. Una sposa fuggiasca.
Sbarcò da Priamo come il simulacro
della bella regnante di Sparta.
A suo dire mossa dall’Olimpo
come fuoco nel sangue o fremito nei lombi
Elena non è mai giunta a Troia.
Una città mangiata dalle fiamme.
Siamo qui per la saggia compagna del suo Re.
Sconfitta va verso la nave.
Lo sguardo fisso nell’occhio dell’Acheo.
Quasi a sfida delle avverse dee
nel disastro aduna sulle schiave
la gloria d’Ilio. Eterna come il mare.
La donna. Ormai bottino di guerra.
La madre. Sulle ceneri.
La Regina. Sul baratro.
Noi siamo qui per Ecuba.
L’unica a sentire che Ilio è la sua anima.
Giammai sarà inghiottita dall’oblio.
Per tutto il tempo viva.
Di cetra in cetra. Da Oriente a Occidente.
Quel sangue prillerà nel canto dei poeti.
Arrosserà per sempre il porfido del mondo.
L’unghia dell’Aurora è già sull’orizzonte.
Perentoria schiocca la frusta di Odisseo
alla sua vela : « Si vada verso l’Isola…»
L’inno dei forti piega le Troiane. Si stacca dalla costa.
E sulla morte resta il gocciolio dell’onda.

grecia Eveone, Un efebo serve il vino al banchetto. Lato A da una kylix attica

Eveone, Un efebo serve il vino al banchetto. Lato A da una kylix attica

commento di Mariella Colonna

Nell’evocare le vicende di Troia la poesia di Gino Rago è un prodigioso e vertiginoso scorrere di parole – ombra in cui l’assenza dell’evento ormai divorato dal tempo si materializza immediatamente nella presenza “ontologica” dentro il corpo la mente l’anima del lettore, qui adesso: chi riesce a leggerla senza lasciarsi “incantare” dal primo livello di significato delle parole che generano la propria ombra, cioè il mistero che racchiudono, entra nel mondo richiamato in vita dal poeta: chi legge il Ciclo di Troia a cuore aperto è già dentro la città in fiamme, sente l’odore acre del fumo, dei corpi bruciati, brancola nel buio alla ricerca dei sopravvissuti, inciampa nei massi e nelle pietre che si staccano dalle mura e dai palazzi assaliti dalla furia del nemico…poi incontra Ecuba piegata che batte la terra con le mani mentre evoca la forza dei defunti e si ferma a contemplare l’icona statuaria di questa Madre che non teme la morte (come un’altra Madre certamente più cara ma non più drammaticamente “vera” di Ecuba) anzi invoca e quasi richiama indietro i morti con la forza dell’amore che è più forte della morte, sempre sul piano dell’essere dominante nell’epica di Rago, al di là dell’evento storico. Qui adesso, non ieri o l’altro giorno, ho incontrato Ecuba per la prima volta nella mia vita culturale e reale, avrei voluto consolarla, avvolgerla nell’abbraccio dell’amore oltre il tempo ma avrei abbracciato me stessa…ho atteso l’Aurora, la bella dea della luce che esalta la devastazione delle rovine Troia, ma ne fa risaltare la drammatica realtà più forte del tempo e dell’oblio che tutto cancellano: Troia diventa così l’emblema di una civiltà violentata dalla civiltà successiva, da piangere e rimpiangere per la grandezza dei suoi personaggi ed eroi. Ettore, il più grande guerriero troiano, trova la morte per mano di Achille, dopo aver varcato le fontane di fuoco e di ghiaccio presso la torre di Priamo e il suo cadavere viene gettato in pasto agli uccelli. Priamo mortoAstianatte scagliato con furia per le mura d’Ilio / per dare fine alla stirpe troiana…Incendiate le Mura,distrutti i sacri Lari/ perduti affetti e beni“Noi siamo qui per Ecuba”è l’affermazione del poeta, che incide con parole solenni la presenza collettiva (noi) di quelli che provano il suo stesso dolore e la sua meraviglia di fronte al coraggio di una vecchia Regina che ora, nella notte dei secoli, è diventata soltanto se stessa sul piano dell’essere ed è vittima dei più astuti, non dei più forti: una moglie e una Madre in cui si raccolgono coralmente le Madri che sanno amare oltre se stesse e gli affetti terreni, diventando simbolo di tutta la comunità e della terra dove hanno vissuto, messo radici, fatto nascere e pianto generazioni di uomini e di eroi. Questa notte dei tempi che Gino Rago ci fa rivivere nella sua piena e complessa drammaticità ha la potenza di un vulcano che arriva fino a noi in continua eruzione di fuoco lava pietre incandescenti, ci fa sentire nel corpo e nell’anima fino a che punto sia aberrante e assurda la morte in guerra che rende disumani vincitori e vinti: infatti uno dei miti vuole che la stessa Ecuba, che a Troia ci si presenta come una statua di fronte all’eterno, fatta schiava da Ulisse, raggiunto il Chersoneso Tracico, abbia vendicato la morte dell’ultimo figlio Palinuro accecando il traditore Polimestore e facendone uccidere i figli. Questi sono i frutti della violenza folle che spesso rende folli i persecutori  e le vittime. 

Giorgio Linguaglossa su L’Ombra delle parole un anno fa definiva Gino Rago poeta del Mediterraneo: essendo la sua civiltà ideale tramontata per sempre… di qui… nel poeta prende vita la ricerca di una patria ideale da far rivivere con l’ausilio della poesia. E la sua patria Rago la ritrova nel passato mitico della guerra di Troia e nelle sventure delle donne di quella città.

Ma, leggendo altre poesie di Rago ci accorgiamo che, al dramma della civiltà omerica rappresentato nell’Iliade, il poeta associa la consapevolezza di quanto sia generosa oggi la natura della sua terra e di quelli che la abitano…in Fatelo sapere alla Regina: …Siamo ricchi di noi/ dei profumi del sole nelle primavere…Olio e ferite, vino e fatica,/ festa e camicia pulita,/vento fanciullo a danzare/ nell’erba, amore nelle mani/ quando cercano/ altre mani, oblio d’anemoni/ sui nervi delle pietre…

Ecco il contrasto, inciso a colpi di scalpello tra l’ombra profonda del passato con l’epica del dolore che annienta e dell’amore coraggioso che riscatta e la gioia incandescente di sentirsi figlio di una terra dove il sole ha fatto crescere le spighe mosse dal vento, dove si lavora con fatica ma si riprende forza con un bicchiere di vino, dove si è ricchi di se stessi per i canti del cuore/ la saggezza del pane, la quieta/ sapienza del sale:/ per le sciabole/ rosse dei papaveri nel grano. In questa dialettica scultorea tra ombra e luce, tra parole – ombra per evocare e far rivivere il passato e parole – sole e natura  Gino Rago offre in dono al lettore la gioia di esserci, oggi – e senza nostalgie o falsi miti che allontanino dalla meraviglia e dal mistero di esistere.

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Gino Rago

Gino Rago nato a Montegiordano (CS) il 2. 2. 1950, residente a Trebisacce (CS) dove, per più di 30 anni è stato docente di Chimica, vive e opera fra la Calabria e Roma, ove si è laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’idea pura (1989),Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005). Sue poesie sono presenti nelle Antologie curate da Giorgio Linguaglossa Poeti del Sud (EdiLazio, 2015) Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2016)   Email:  ragogino@libero.it

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Mariella Colonna

Mariella Colonna.  Sperimentate le forme plastiche e del colore (pittura, creta, disegno), come scrittrice ha esordito con la raccolta  di poesie Un sasso nell’acqua. Nel 1989 ha vinto il “Premio Italia RAI” con la commedia radiofonica Un contrabbasso in cerca d’amore, musica di Franco Petracchi (con Lucia Poli e Gastone Moschin). Radiodrammi trasmessi da RAI 1: La farfalla azzurra, Quindici parole per un coltello e Il tempo di una stella. Per il IV centenario Fatebenefratelli sull’Isola Tiberina è stata coautrice del testo teatrale La follia di Giovanni (Premio Nazionale “Teatro Sacro a confronto” a Lucca), realizzato e trasmesso da RAI 3 nel 1986 come inchiesta televisiva (regia di Alfredo di Laura). Coautrice del testo e video Costellazioni, gioco dei racconti infiniti in parole e immagini (Ed.Armando/Ist.Luce) presentato, tra gli altri, da Mauro Laeng e Giampiero Gamaleri a Bologna nella Tavola Rotonda “Un nuova editoria per la civiltà del video” ha pubblicato, nella collana “Città immateriale ”Ed.Marcon, Fuga dal Paradiso. Immagine e comunicazione nella Città del futuro (corredato dalle sequenze dell’omonimo film di E.Pasculli), presentato nel 1991 a Bologna da Cesare Stevan e Sebastiano Maffettone nella tavola rotonda sul tema “Verso la città immateriale: nell’era telematica nuovi scenari per la comunicazione”. Nel 2008 ha pubblicato Guerrigliera del sole nella collana “I libri di Emil”, ediz. Odoya. Nell’ottobre 2010 ha pubblicato, con la casa editrice Albatros “Dove Dio ci nasconde”.  Nel febbraio 2011 ha pubblicato, presso la casa editrice. Guida di Napoli “Due cuori per una Regina” / una storia nella Storia, scritto insieme al marito Mario Colonna. Un suo racconto intitolato “Giallo colore dell’anima” è stato pubblicato di recente dall’editore  Giulio Perrone nell’Antologia “Ero una crepa nel muro”; nel 2013 ha pubblicato “L’innocenza del mare”, Europa edizioni; nel 2014 “Paradiso vuol dire giardino”, ed Simple; nel 2016 coautrice con il marito Mario di “Mary Mary, La vita in una favola.”

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Gianna Paola Cuneo POESIE – Appunto biografico a cura di Steven Grieco-Rathgeb con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa “Rigore, icasticità delle immagini, ripetizioni cicliche delle medesime figure, lentezza di rappresentazione, concentrazione degli sfondi, paesaggi metafisici”; “Il senso di endlessness”; “Arpocrate, Dio del silenzio, insito nelle cose, nelle piante” – Quadri di Gianna Paola Cuneo

Gianna Cuneo ricordo

Città Ricordo

Appunto biografico a cura di Steven Grieco-Rathgeb

Gianna Paola Cuneo nasce a Roma, e dopo pochi mesi già si trova a Bruxelles dove si trasferisce il padre diplomatico. Nella casa di Avenue de la Folle Chanson la sua prima lingua sarà il francese. Negli anni ’30 vive in Jugoslavia e di nuovo in Belgio dove da bambina scopre l’arte dei primitivi fiamminghi e di Rubens. Gli anni di guerra e di occupazione tedesca le fanno vivere, presto, drammatiche esperienze, che annota nel suo diario d’infanzia.
Di ritorno in Italia nel ’43, l’intera famiglia si rifugia in Abruzzo dove di fronte alla casa di famiglia, a Francavilla al Mare, esisteva ancora lo studio-museo del pittore Francesco Paolo Michetti, e dove Gabriele D’Annunzio scrisse Il Piacere. Il portamento delle contadine dipinte dal Michetti imprimeranno in lei una forte influenza formale. Anche dopo la guerra, Francavilla sarà per molti anni un importante punto fermo per l’arte di G. P. Cuneo. La casa, ricostruita, con il suo studio osservatorio sul mare, sono la sua prima visione dell’orizzonte.

Quando nel ’45 la famiglia riparte di nuovo, questa volta per Chicago, per G. P. Cuneo diario e disegno diventano sempre più importanti, un’ancora per affrontare, in piena adolescenza, il distacco dalla vecchia Europa. L’Art Institute di Chicago le appare subito il ‘suo’ mondo: museo, accademia di belle arti, teatro sperimentale, biblioteca. Ammessa ai corsi a soli 15 anni divampa la passione pittorica e la indomabile necessità di espressione. I suoi quaderni post-cubisti nascono assieme a pensieri e brani di prosa, racconti, di cui alcuni descrivono l’alienazione provata nella metropoli americana. L’ambiente culturale di Chicago è importante in quegli anni. Con il padre Gibbì frequenta professori, artisti e letterati italiani, tra i quali Fermi e Borgese, allora alla Chicago University, Benedetti Michelangeli e Carlo Levi. Quest’ultimo, apprezzando i suoi primi lavori, la incoraggia.
Le estati passate a Positano la riportano in contatto con il Mediterraneo e quel mondo magico, inventato, teatrale, dove luci e sensazioni erano portate all’estrema potenza, dove tutto poteva avvenire. L’attrazione per quella città verticale, dai profumi inebrianti, dai colori in perfetta armonia con l’infinito del cielo, libera il suo tratto e la affida alle dimensioni minuscole del luogo e al contempo infinitamente grandi del cuore e delle emozioni che solo quella terra sa offrire.

gianna cuneo donna

La ragazza di Positano

Tornata a Roma nel ’49, G. P. Cuneo conosce Benedetta Marinetti che si interessa ai suoi lavori e le porta a studio Christian Zervos, critico famoso, fondatore dei Cahiers d’Art, l’importante rivista d’arte moderna francese, autorità su Picasso, Leger, Giacometti, e sull’arte greca. Zervos vuole presentarla in catalogo nella sua prima mostra personale alla Galleria del Pincio, in Piazza del Popolo (…). Lì espongono Guttuso, Pizzinato, Zigaina e il Fronte Nazionale delle Arti. La prima personale, del marzo 1952, le porta un ottimo successo, anche di critica.
G. P. Cuneo parte di nuovo per gli Stati Uniti nel 1953, adesso con il marito Umberto, anche lui in missione diplomatica a New York. Lì subito dopo nasce la figlia Valentina. Nel giro di pochi anni la sua vita si sposta a Londra dove la pittrice rimarrà sei anni. Con uno studio sul Tamigi, riprende la sua attività nell’acceso clima culturale della città dei primi anni sessanta. In questa città può dedicarsi di più alla pittura e alla poesia. Riprende contatto con Zervos, incontra Armitage e Henry Moore. Arrivano dall’Italia registi come Zeffirelli e compositori come Petrassi, la Callas con Medea. (…) Nasce a Londra Fabrizio.
Dalla metà degli anni Sessanta si susseguono anni più difficili: è l’epoca del ritorno a Roma nel disorientamento. Il sole e la luce del Mediterraneo la aiuteranno a superare la crisi. In questa atmosfera G. P. Cuneo vive un periodo di forte produzione poetica: sublimazione indispensabile.
La vita romana è intensa fra arte e vita familiare. Organizza mostre d’arte contemporanea e si introduce negli ambienti della vecchia Roma dove apre le Bateleur in un antico spazio, che ristrutturato farà da sfondo a innumerevoli mostre d’arte, come in un improbabile teatro.

Gianna Cuneo miporto

mi porto una strada

Gli anni ’70 sono l’epoca del ritorno alla Francavilla della sua gioventù, e soprattutto a Capraia. Dopo tanto esodo, tanta vita all’estero, Gianna Paola Cuneo ha modo di riscoprire antiche origini familiari e antenati che vissero qui quando l’isola faceva parte dei possedimenti della Repubblica marinara genovese. E’ un mondo che la affascina e la porta a vivere una nuova percezione della natura e della storia.
E’ anche un periodo marcato dalla casa di via Teatro Valle a Roma, punto di ritrovo di artisti e amici, e dei primi viaggi in Grecia, grazie alla quale si risveglia in lei una forte affinità con la storia e il mito di quel paese. L’incontro con il giornalista Spyros Metaxas la porta a organizzare Viaggio nella tradizione ellenica, una serie di mostre sull’arte popolare greca. Il rapporto con la Grecia si approfondirà nel tempo. Nei suoi viaggi nel Peloponneso ritrova forme e miti arcaici studiati in gioventù: profonde ispirazioni spirituali che trasformano queste visioni in arte.
Con il quadro Vento alla stazione ferroviaria, inizia alla fine degli anni ’80 il nuovo periodo pittorico. Queste ricerche cominciano a rivelare aspetti inattesi dell’attività delle forme, tralasciando schemi formali. Dall’alto del suo studio sul mare assimila una nuova visione, un nuovo ritmo delle cose. Una profonda linea dell’orizzonte si insinua nelle sue composizioni. Emergono tutti gli arpeggi, gli elementi del ricordo, che rivive in un clima “panteistico”, più penetrante e vicino alla poesia. Le ragioni della pittura e della parola, a volte si intrecciano nel comune linguaggio delle sfumate trasparenze, filtri di bagliori sommersi, rarefatti, contenuti nella memoria.
Questo periodo di forte produzione artistica è anche marcato dal suo addio alla casa di Teatro Valle e l’approdo a Trastevere, nuovo epicentro della sua vita culturale e creativa.
Con il susseguirsi di estati elleniche, nonché letture e osservazioni sul mito e sugli eroi, G. P. Cuneo rivisita in maniera nuova soggetti a lei già noti: questi anni a cavallo del secolo sono da lei chiamati il “periodo elegiaco” della sua arte. Sotto i cieli delle isole del Saronico e nel suo studio di Trastevere scrive e dipinge ispirata da fauni e argonauti, e misteriosi orizzonti marini.
Nel 2003 esce la sua prima raccolta di poesie, La Musa del Transatlantico, edita da Il Gabbiano, e vincitrice del Premio Elio Vittorini, edizione 2010; un libro di prose La danza dell’orizzonte Ed. Campanotto (2010)

Gianna Cuneo notturno

pesca notturna

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa. “Arpocrate, Dio del silenzio, insito nelle cose, nelle piante”

Non c’è alcun dubbio sulla cittadinanza ideale di queste poesie di Gianna Paola Cuneo nella sua versione trilingue, e sul piacere poetico-pittorico di esperire l’astratto-concreto delle sue visioni come se fossero i suoi quadri rovesciati, i quadri della stagione romana degli anni Cinquanta e Sessanta, con quelle figure bronzee che si stagliano in primo piano o sullo sfondo di angoli di una città fantasma, su vie e incroci di vie deserte con i palazzi dai colori caldi e asciutti come se una immane siccità fosse intervenuta a colorare quei palazzi romani; tutta la difficoltà risiede nella corposità delle immagini carpite dal vuoto e campite con tenacia e concentrazione per consegnare agli utenti un tessuto compatto di parole-immagini, una musica quasi pittorica, una poesia quasi pittura di incredibile fascino e, addirittura, come diceva Cage, “talvolta troppo bella” parlando della musica di Morton Feldman. Tutta la icastica precisione delle immagini della poesia di Gianna Cuneo vuole semplicemente dare un equivalente visivo al senso di “endlessness”; dove la massima delimitazione e concentrazione delle immagini dà vita al senso dell’infinito e del vuoto.

Gianna Cuneo orizzonte

danza dell’orizzonte

Rigore, icasticità delle immagini, ripetizioni cicliche delle medesime figure, lentezza di rappresentazione, concentrazione degli sfondi, paesaggi metafisici… Ci si può chiedere come da pochissime immagini alternate con pochi intervalli, a tanto ammonta il materiale di base della sua poesia, Gianna Cuneo riesca a tenere il lettore in ascolto attento con la sua versificazione essenziale, intenta soltanto alla esecuzione delle immagini e ai silenzi intorno agli oggetti.  Ecco, il silenzio intorno agli oggetti, questo è un aspetto  decisivo nella sua pittura, ma anche nella sua poesia entra il «qui e ora» degli Stoici, punto di intersezione dell’individuale e dell’universale, dove l’unità dei colori sfuma nell’unità di uno spazio virtuoso che si allarga e si espande. Analogo modo di sentire è presente nella sua poesia dove le campiture descrittive sono sempre individuate nel punto nel quale c’è l’accadimento umano. Molto limitata è la gamma di visioni e di paesaggi, armonie e figure, su tutto gioca un dio omerico con le sue bizze infantili e le sfumature dei suoi umori. Il mare è una di queste ossessioni visive di Gianna Cuneo, e gli dèi dell’antica Grecia vi compaiono di frequente, come le sfumature cangianti della sua tavolozza lirica basata sulla ripetizione, il colore e il silenzio. È una questione di concentrazione e di massima essenzialità nella gerarchia delle parole; Per la Cuneo scrivere con l’inchiostro o con il colore è la stessa cosa, cioé in sostanza, come il tessitore di tappeti, non poter tornare indietro a correggere – lo stesso faceva Cage con un afflato appena più vaticinante. Una stessa immagine ripetuta e detta in maniera diversa. Il tempo, questa deità dispotica e bizzosa, nelle sue poesie scorre pianamente e lentamente, in unità plastiche aggregate in maniera desultoria, apparentemente senza conflittualità residua fra un decorso musicalmente necessario e l’intenzione espressiva come di affresco, di campiture visuali da cui non emerga nulla di simile a un attacco di colore o un accento di immagine. È una implacabile ossessione per l’ordine e il disegno che Gianna Cuneo deriva dalla sua pittura – un procedere logico ed emotivamente neutro concepito grazie a tecniche visuali, che formula il tempo modulare del suo discorso poetico.

Gianna Cuneo emersione

Emersione alla Cala rossa

Senza alcun ricorso a pratiche linguistiche desunte dal post-ermetismo o dallo sperimentalismo, mai condivise grazie alla sua formazione intellettuale cosmopolita, Gianna Cuneo riesce a produrre in parole la bellezza dolcemente disumana e stranamente appassionata di un mondo che vive nell’immateriale delle immagini (tale in poesia e tale nella sua pittura), che sembra respirare nella natura ma è come irreparabilmente abitato dalla presenza umana, un mondo contemporaneo segnato dalla fine della dialettica storica e dell’utopia. Su tutto domina la figura di «Arpocrate, Dio del silenzio», un enigmatico non-dire che è il segreto del silenzio della sua pittura e della sua poesia.

Arpocrate, Dio del silenzio,
insito nelle cose, nelle piante,
lo perseguita, come un’erinni
Il mare è grigio e fermo. Sopra,
Vi si pongono i gabbiani, come
Su un lago triste e opaco. Poche
Barche, rivoltate, in abbandono.

Gianna Cuneo musa

Musa del transatlantico

Poesie di Gianna Paola Cuneo

Novembre – sera

Dalla finestra guardo
L’amplesso grigio del cielo
Di novembre con la terra
E le cose.
Da un fumaiolo solo
Usciva un po’ di fumo
Che s’è spento.
Scendono dalle nubi, isolate,
Le rondini, e volano a sud
Stridendo.
Sul tetto, contro l’orizzonte,
Sagoma nera di metallo,
Gira su stesso,
Un finto gallo.

12 novembre 1962

Ti ho visto in sogno

Ti ho visto
In sogno
All’improvviso
Fra le case
Brune, di Londra,
Hai detto
Resterò un momento
Eri tornato
Adolescente
Sereno, possente
Come un dio.
Ho tolto
Nel sogno
Dal tuo volto
I solchi, i segni
Il veleno del dubbio
Del vuoto.
Nella notte
D’ambra bruciata
Cercavamo la mia casa
Inabitata da anni.
Ti ho detto
Vieni a vedere
Senza sapere
Cosa.

16 gennaio 1963

Capraia

Emersa dall’azzurro
Da anni mi chiamavi
Da secoli
Colla tua forte voce
Pietrosa,
Irta di rupi e arsa.
Ci sono,
Ci sei
E vi ho incontrato
Occhi come i miei.
E vedo
Le case degli Avi
Sgretolarsi, grigie
Inverosimili
Sopravvissute all’oblio.

Il giorno del mio arrivo, gennaio 1964

Gianna Cuneo ferroviaria

Vento a una stazione ferroviaria

Arrivo

Ho visto da lontano
La Civitata fendere il mare
Il verde delle forre,
Sulla tua groppa irsuta,
Avvicinarsi.
Questo volta mi attendi vuota
Più sola,
E il vento ti tormenta le rovine.
Non posso rinunciare
Al caldo delle pietre consumate
A un solo brandello di vita:
Mi manca la tua estate,
E la mia.

Capraia, settembre 1965

Saluto

Dai varchi vuoti
Del sogno
Affioro alla luce.
Ho lasciato tra le rupi
Azzurre
Le cupole grigie
Di garitte antiche
Di case diroccate,
Le grandi immobili foglie
Dei fichi
E sono scesa al mare
Per l’addio.

Capraia, settembre 1965

Foschia sul mare

Mi viene di parlare
Senza sapere che dire, oggi,
La voce raggelata
In questo caldo settembre
Da inutili agonie.
Il mare tace, calmissimo,
La ventola, soltanto, del comignolo,
Arrugginita, stride sul tetto,
Girandosi: un rumor di carrucola,
Duro, che ricomincia impietoso
Come un sguardo freddo,
Come un veleno di parole amare.
La calda foschia di settembre
Coprirà tutto: le nitide visioni,
Capraia, il mio anelito puro
Fino all’orlo lontano dei monti,
L’amore.
E non si può farne il bilancio:
Un occhio di luce nella nebbia
Non rischiara, a pochi passi,
Si ferma e si raggruma, ingigantendo
Come una lente, smisurati pulviscoli.
Devo uscire dal cerchio degli sguardi
E di nuovo sbagliare sola.
Suddenly she seems to change the subject

settembre 1996

Gianna Cuneo eclissi (1)

eclissi di luna

Wondering

Coves of Riverhead,
Unseen landscapes
Of trees and dunes,
Bushes and leaves
Self-ignoring perfections
Of added loneliness.
In blithe winter sun
Cold wind, wild, blowing
Carves those rare faces
And crimps courageous eyes,
Staring away at sea.
Distant winds, daring,
Sweep gray granite monuments
Of men and tears.
Why is memory lost of them?
I wonder, while the winds
Torment tree trunks.,
In decaying, forgotten forests.
I wonder who wonders.

Riverhead, 15 gennaio 1987

Cale di Riverhead, paesaggi inosservati di alberi e dune, arbusti e foglie, perfezioni che ignorano se stesse, di più forte solitudine. Nell’allegro sole invernale un vento freddo, impetuoso, gonfio, scolpisce quei rari volti e raggrinza occhi coraggiosi, che fissano il mare là fuori. Venti lontani, impavidi, spazzano monumenti di uomini e di lacrime, in granito grigio. Perché di loro è perso il ricordo? Me lo chiedo, mentre i venti frustano i tronchi di alberi in foreste che marciscono, obliate. Mi chiedo chi chiede.

(trad. Steven G.-R.)

Achilles’ Bay

We arrived together at Achilles’ Bay
Not knowing, attracted by a strange stillness
Of deep turquoise sea, as imagined
In dreams or seen through distant glass.
Getting there, to half-moon shore
We walked through high vegetation
With no cicada sound piercing the sun
No whisper of running stream,
As heard before, near the discovered waters.
There, at Achilles’ Bay, remember, the wind
Changed, unpredictable, powerful
Disarming our hypnotized minds,
Confused by heat and silence
And visions of time before, painfully emerging.
So far from us, distant visions could reappear
Being recalled only by your whispered name,
Achilles, that ends in a whisper of wind.
No city, no grave, no tower
No Hermit, no sheep or goat,
Not even ruins emerge there
But empty horizons, closed
By rocks as amphitheatre,
To embrace your name, Achilles.

Skiros, 1987

Arrivammo insieme alla Baia di Achille, ignari, attratti da una strana quiete di mare profondo turchese, come immaginato in sogni o visto attraverso un vetro lontano. Giungendo lì, alla riva a mezzaluna, camminando attraverso il verde folto senza un suono di cicala a trafiggere il sole, nessuno scorrere di torrente, come sentimmo prima, vicino alle acque scoperte rivelate. Lì, alla Baia di Achille, ricorda, il vento cambiò, imprevedibile, potente, ci disarmò il pensiero ipnotizzato, confuso dal caldo e dal silenzio, e visioni di un tempo prima che affioravano dolorose. Così, lontano da noi, visioni distanti potevano riemergere richiamate dal solo tuo nome sussurrato, Achilles, che finisce in un sussurro di vento. Non città, non tomba, non torre, nessun Eremita, non pecora né capra, nemmeno rovine emergono lì, ma vuoti orizzonti, chiusi da rocce come anfiteatro, ad abbracciare il tuo nome, Achille.

(trad. Steven G.-R.)

Gianna Cuneo atlantide

In vista di Atlantide

Genius loci

La bianca carcassa della mia casa
Appare nella nebbia invernale,
Spazzata dall’aria fredda.
La facciata è una faccia,
E mi guarda triste, interrogandomi.
Le persiane verdi sbiadite sono
Tutte chiuse. Immagino, da fuori,
Come se vi entrassi, le poltrone
Coperte da pezze, come le ho
Lasciate. I mobili amici, fermi
Al loro posto a guardarsi, in
Attesa. E i quadri, densi di
Solitudini, presenza-assenze, che
Narrano al vuoto le loro storie.
Le piante, le grandi piante, vive,
Sono state distrutte, frusciando
Al vento, mi avrebbero salutato
All’arrivo. L’essere sub-umano,
L’assassino degli alberi, forse
È già all’inferno, incatenato
Alla televisione (sub rosa dictum)
Arpocrate, Dio del silenzio,
insito nelle cose, nelle piante,
lo perseguita, come un’erinni
Il mare è grigio e fermo. Sopra,
Vi si pongono i gabbiani, come
Su un lago triste e opaco. Poche
Barche, rivoltate, in abbandono,
in un fossato di silenzio.

Francavilla, dicembre 1989

Frammenti d’agosto

Ammutoliti dal silenzio
Massi lavorati sugli spalti
Dolmen dell’uomo e castelli
Simili, ormai, consumati
Aneliti di pietra, arcaici
Gesti umani isolati nell’oblio
Ove l’erica ricopre e s’arrovella
E la vita dell’uomo non matura:
Le sue pupille verdi scrutano il finito.

Capraia, luglio 1995

Peinture

Songe, rêve, réalité
Réalité d’un rêve ; ombre,
Forme des formes,
Physiognomie de l’ombre
Paysage du temps –
Peinture : coup de poignard
De l’âme historique !
Conscience historique – siècles
Enfermés de la naissance à la mort.
Image vivante, mystèrieuse, de l’homme.

Rome, Décembre 2005

Pittura

Sogno, visione, realtà
Realtà di un sogno, ombra
Forma di forme,
Fisionomia dell’ombra
Paesaggio del tempo –
Pittura: colpo di pugnale
Dell’anima storica!
Coscienza storica – secoli
Rinchiusi dalla nascita alla morte.
Immagine vivente, misteriosa, dell’uomo.

(trad. Gianna Paola Cuneo)

Gianna Cuneo legge

Gianna Cuneo

Egeo

All’ombra di una petroliera nera
L’attesa
Vento dal mare, sole catrame
Attesa
Gioco di bandiere, gioco di luci
Riflessi
Sapore di porto in gola
Lontane, le montagne viola
Sbiadite
Planata di uccelli bianchi
La mia nave, lenta
Arriva.

agosto 2010

Ombres

Quelque chose d’ancien dans l’air
Dans la force brune des oliviers
Et la parole, de loin ecoutée,
Perdue dans le vent.
Les robes, le draps flottent dans l’ombre
Des jardins. Un être humain passe
Au bord de la mer : ombre.
Loin, les voiles blanches, en fuite
Folles amies de l’espoir…

Poros, agosto 2013

Ombre

Qualcosa di antico nell’aria
Nella forza bruna degli ulivi
E la parola, ascoltata da lontano,
perduta nel vento.
Le vesti, i drappi volano
Nell’ombra dei giardini.
Un uomo passa sul mare – ombra.
Lontano, vele bianche in fuga
Folli amiche della speranza…

(trad. Gianna Paola Cuneo)

Steven Grieco 2

Steven Grieco

Steven J. Grieco Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi. È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia. Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka.

In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Èin corso di stampa un libro di poesie presso Mimesis editore. indirizzo email:protokavi@gmail.com

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