Archivi tag: Paolo Febbraro

Franco Cordelli, A proposito della Antologia Il pubblico della poesia del 1975 a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli – Poesie di Mario M. Gabriele da  Astuccio da cherubino (1978),  a cura di Giorgio Linguaglossa

Una nota personale di Franco Cordelli

L’Antologia Il pubblico della poesia (1975)

 Quante volte ho raccontato questa storia? Temo più d’una. Ma poiché la ripeterò per una ragione oggettiva, la ristampa de Il pubblico della poesia, spero sia l’ultima.

I problemi sono due. Perché sentii la necessità, chiamiamola così, di compilare questa antologia? Perché oggi, a distanza di quasi trent’anni, la si ristampa?

Potrei rispondere in tre modi.

  1. È stata spesso scambiata per una specie di mania la mia ansia classificatoria. Naturalmente si tratta di una faccenda complessa. Se lasciamo che nei nostri cassetti si accumulino carte, biglietti, lettere, “oggetti desueti”, ecc., il giorno in cui ci capiterà di rimetterci le mani, saremo pieni di orrore. Il passato ci invade l’anima come puro feticcio, come non senso. L’archiviazione, la catalogazione sono il minimo consentito, se non per il riscatto di quegli oggetti (che invero sono tutti psichici), per la loro stessa trascendenza. Inutile aggiungere che la poesia – la concentrazione, il distillato di ciò che lentamente si accumula nel fondo di qualcosa – sarebbe il massimo di trascendenza possibile. Che fare quando i propri oggetti sono precisamente le poesie di tutti gli altri, qualcosa che per definizione si situa, di fronte alla coscienza individuale, a metà strada tra la dimenticanza e la luce, di mezzogiorno o di crepuscolo non importa? È da qui che nacque Il pubblico della poesia. Questo fu uno dei primi impulsi.
  1. Nel 1975 il dominio dell’ideologia avanguardista era allo stremo. Ma non lo si capiva affatto. Era anche nel momento di massimo dispiegamento della propria forza. Ho detto forza e non energia. Tutta l’energia s’era volatilizzata. Il senso di soffocamento, di occlusione, era totale. Che cosa avrebbe dovuto fare un giovane che avesse avuto voglia di scrivere? Occorreva che si creasse da sé lo spazio (interiore) per liberarsi da un modello tirannico. Ma crearselo non era facile affatto. Sembrava impossibile. C’era il rischio, supremo, dell’inattualità – o della ripetizione, dell’epigonismo. Deridevamo chi non aveva fatto suo quello che ritengo sia il patrimonio inalienabile dell’avanguardia, e che posso riassumere nel concetto di sorveglianza. Ma i seguaci dei Novissimi ci sembravano irrimediabilmente sterili. Era evidente che non vi sarebbero state altro che soluzioni individuali. Ed era altrettanto evidente che per conseguire queste soluzioni, occorreva combattere due battaglie e non una sola, quella per se stessi, per il bene, e quella contro gli altri, contro il male.
  1. Finora ho parlato di scrivere. Ma c’era anche il problema, assillante e difficile, di pubblicare. Non mi riferisco in questo momento al problema generale della poesia di venire alla luce: complesso per lo meno in tutta la modernità, problema legato alle vicende del mercato e non già a quello del gusto interno alla sfera della poesia. Mi riferisco a questo secondo aspetto, alle oscillazioni del gusto, alle ideologie di volta in volta chiamate a sostegno. Nel 1975 il dominio di un gusto rispetto ad ogni altro era pressoché assoluto. L’antologia Il pubblico della poesia, stampata da un piccolo editore che nasceva (o rinasceva) allora, si proponeva proprio questo: provare a compiere un gesto di forza, contrapporre ad una forza centrale una forza per l’intanto periferica. Di tentativi simili, in quel momento, ce n’erano una quantità incalcolabile, e così, penso, accade adesso. Ma in quel momento, questo gesto per me si caricava di un significato ulteriore, indiretto, personale. Nel 1973 avevo pubblicato il mio primo romanzo, Procida. Non avevo ambizioni smisurate. Avevo, anzi, ambizioni sbagliate, indotte proprio dall’ideologia dominante e che mi proponevo di combattere. Desideravo il riconoscimento (virtuale) non di tutti ma di una parte. Inutile dire: della parte di coloro che consideravo “i miei padri”, gli scrittori e i critici della cosiddetta Neoavanguardia. Il riconoscimento non venne (a ragion veduta: poiché ignoravo quanto m’ero già distaccato da questi padri presunti, e naturalmente mi sarei messo a ridere se avessi potuto sapere che un giorno costoro mi avrebbero accusato d’essere un militante della parte avversa, e proprio il mio compagno d’avventura nella compilazione dell’antologia, accanto a scrittori più giovani, m’avrebbe invece accusato d’essere rimasto fedele alle mie prime ragioni avanguardiste). Come si vede non era, non era ancora, come non è tuttora, un problema di qualità intrinseca del libro che avevo scritto e di quelli che avrei scritto dopo. Era precisamente un problema di lotta per la sopravvivenza, lotta per prodursi uno spazio culturale, lotta per egregiamente dannarsi l’anima. Era, insomma, un problema di “pubblicità per se stessi”.

Pubblicare. Pubblicità per se stessi. Il pubblico della poesia. Si sarebbe mai sfondato il circolo vizioso? Si sarebbe mai usciti dall’altra parte?

Perché ristampare Il pubblico della poesia? Nel 1975 già sapevo che la letteratura, come l’avevo vissuta, assorbita e assimilata negli anni di formazione, era un puro relitto della Storia. Più volte ho indicato nel 1970 l’anno (simbolico) della fine: l’anno dei suicidi di Mishima (morte del romanzo), di Celan (morte della poesia), di Adamov (morte del teatro). Quel tipo di conoscenza non implicava ovviamente la credenza che non si sarebbe più scritto, né che non si sarebbe più dovuto scrivere. Pensavo che era finito un certo modo di scrivere, un certo tipo di rapporto con la letteratura, e della letteratura con il pubblico. Ancora non si sapeva che questo modo era ciò che si chiama il Moderno.

In ogni modo, questo tipo di coscienza – mentre mi induceva ad ogni understatement nei confronti delle ambizioni in assoluto intrinseche a quell’atto tanto naturale quanto di pura hybris che è scrivere una poesia o un romanzo o una commedia – questa coscienza non era così sciagurata da consegnarmi, nudo, alla militanza – alla militanza come scappatoia, uscita di sicurezza, rivincita. La militanza era quello che era, uno strumento – che lasciava intatta ogni nostalgia per ciò che non c’era più.

Naturalmente subentrava il rischio che la militanza, come pura gestualità, come resa all’evento, poco a poco guadagnasse tutto lo spazio, come è successo a tanti scrittori-ideologi. Di giustificazione in giustificazione sarebbe stato facile uscirne con le ossa rotte. Ripeto: indipendentemente dal proprio personale talento e dalle condizioni storiche. Ovvero, giocando come il gatto con il topo, proprio con la debolezza dell’uno (il talento) e la preponderanza delle altre (le condizioni storiche). Di alibi possibili ce ne sono tanti quante le verità: ma la propria verità (cioè la mia) è una sola, ed era allora quella che è oggi: l’idea che sporcarsi le mani fosse necessario, ma che di questo si trattava, d’uno sporcarsi le mani – non bisognava chiamarlo con un altro nome.

Nel 1975 era necessario. Oggi lo è altrettanto? E si può ripetere ciò che era solo un gesto? Tra l’altro, esso non si è manifestato in quanto conoscitivo: l’avanguardia come momento militante del moderno, la militanza come salute (e malattia) o malattia (e salute) della gioventù, ma anche in quanto boomerang: il ruolo di burattinaio, o di demiurgo, trasferito dall’arte alla vita ha forse alleggerito il senso di colpa togliendogli la sua forma, consumandone i margini? A me pare che, al contrario, lo abbia suffragato, come controprova, o accresciuto – come la vita accresce l’arte, ne testimonia, non meno di quanto l’arte accresce la vita e ne certifica, o compila, il senso. Ma qui entra in scena un paradosso della Storia, chiamiamolo così, un po’ pomposamente. Le diverse esperienze e gli opposti caratteri hanno diviso le strade dei due curatori, rimasti a guardarsi sempre (così credo), ma da lontano. Allora, trent’anni fa, credo d’essere stato io a trascinare Berardinelli nell’avventura. Egli in principio era, se non ricordo male, piuttosto riluttante. Ora la guida è lui, lui è il vero giudice, io della poesia sono diventato un lettore distratto, nella poesia non vedo più la figura d’un’emancipazione “politica”. Perché accade questo? Perché oggi lui è la guida e io mi lascio trascinare? Per Berardinelli non so. Il nodo tra poesia e militanza forse non s’è mai sciolto: a suo modo sente il problema della “giustizia poetica” in modo più cocente di quanto non lo sento io – che ho elaborato frattanto una mia personale teodicea. Io, in questa teodicea, accetto con letizia il contrappasso. Ma, alla letizia, vorrei aggiungere una glossa. All’improvviso, mi sono riconosciuto, come persona che si è formata nel 1968, una caratura tutta speciale, o meglio, forse, un ghigno. Mi sono riconosciuto tardivamente come intrinseco a quel simbolo, parte di esso, riflettendo sulle esperienze, così diverse dalle mie, di persone che avevano fatto tutt’altro che scrivere. Penso a chi fu protagonista fino al 1978, ai terroristi (di famiglia operaia) che non si sono mai pentiti, ma anche a chi fu protagonista dopo, nel quindicennio socialista. Tutti costoro non ignorano i propri errori e la natura di essi, non ignorano cioè il male. Eppure, rimangono ad essi, agli errori, e a ciò che ne stabilisce la natura, diciamo il male, assurdamente, demoniacamente fedeli. È in questo senso, e solo per questa affinità culturale, o generazionale, che non posso sottrarmi alla proposta di ripubblicare l’antologia di trent’anni fa, che di quel tempo è un piccolo riflesso.

Post scriptum.

Confrontato con la nostra antologia, il panorama della poesia italiana contemporanea è migliorato o, viceversa, peggiorato? E poi: la poesia è come la sinistra sempre in crisi, sempre in via di rifondazione? Eccetera. Forse a causa del fatto d’essere diventato un lettore occasionale, ritengo che questo panorama sia migliorato. Non vedendoli più, non incontrandoli, non essendo offuscato dalle loro persone, in genere lamentose, o litigiose, ovvero posto nudo e crudo di fronte ai libri, codesti libri sfolgorano. Tra coloro che non compaiono, o non comparirono, ne Il pubblico della poesia, o che rispetto a quell’epoca sono maturati in modo inequivocabile: Cosimo Ortesta, Iolanda Insana, Anna Cascella, Elio Pecora. Ma poi: Patrizia Valduga, Gianni D’Elia, Marco Palladini, Mario Santagostini (uno dei miei preferiti). Tra i più giovani aggiungo: Riccardo Held, Gilberto Sacerdoti (che però dieci anni fa sembrava più robusto), Alba Donati (uno degli esordi più originali), Paolo Jacuzzi, Umberto Fiori, Fernando Acitelli, Plinio Perilli (questi ultimi due, al contrario di quanto ho detto prima, mi piacciono come persone), Luca Archibugi (a giudicare dai manoscritti), Claudio Damiani, Paolo Febbraro (altro eccellente esordio), Gabriele Frasca, Stefano Dal Bianco, Silvia Bre, Marco Ceriani. In assoluto, il poeta che mi ha più impressionato (ma sono costretto a riferirmi a una lettura dal vivo in un festival) è Enzo Di Mauro. Mi piaceva anche prima, al tempo di Notturna, l’esordio. Ma il suo mutamento, ascoltandolo, mi apparve impressionante. Alessandro Fo non lo conosco, i suoi libri non si trovano.

In quanto alla crisi della poesia, è una bufala retorica. Che non abbia più voce in capitolo, è evidente. Ma prima l’aveva? Piuttosto c’è da dire che chi veramente non ha voce in capitolo sono i poeti. Per due ragioni: perché sono mutati i tempi (non c’è più lo scrittore-intellettuale) e perché i poeti sono meno intellettuali d’una volta. I poeti sono esseri flessibili, si adeguano. Continua a leggere

24 commenti

Archiviato in Crisi della poesia, critica della poesia, poesia italiana del novecento, Senza categoria

 Matteo Marchesini: Quel che resta della poesia. La poesia del corpo. La pseudopoesia. La mutazione genetica dei poeti italiani. La “poeticità privatistica” e l’autoreferenzialità gergale. La pratica dell’emulazione: Amelia Rosselli e Giovanni Pascoli. La parodia involontaria della poesia. La pseudolirica dei poeti tardo-lombardi 

C’è un racconto di Martin Amis in cui si immagina che le sorti degli sceneggiatori e dei poeti siano esattamente rovesciate rispetto a quelle reali. Gli sceneggiatori si muovono in un malsano sottosuolo letterario, arrabattandosi tra reading, riviste semiclandestine e opere pubblicate alla macchia. I poeti, invece, lanciano le loro composizioni come fossero film. Contesi da grandi produttori, guadagnano cifre enormi tra “diritti secondari” e “royalties sui sequel”. Girano in limousine, scelgono i gadget con cui promuovere una ballata, registrano l’incasso clamoroso di sonetti intitolati “E’ l’alto suo disdegno di iersera”, e decidono la cesura di un verso con un agguerrito team aziendale. Il racconto di Amis suona beffardo soprattutto a orecchie italiane, dato che da noi, intorno alla poesia, non si riunisce nemmeno quel pubblico di lettori limitato ma vivace che caratterizza il meno asfittico mondo letterario anglosassone. In Italia, ormai, dei poeti si parla con imbarazzo. Oggi il poeta italiano non solo è emarginato, ma non è neanche considerato uno scrittore (dei narratori che compongono versi si dice: “scrittore e poeta”, identificando la narrativa con la scrittura tout court).

In un paese in cui tutti scrivono poesie e nessuno le legge, riuscire a farsi chiamare poeti sembra troppo facile, cioè irrilevante. La causa e insieme l’effetto di questa situazione è la progressiva perdita della capacità di distinguere i poeti veri. Non a caso, anche tra gli studiosi di letteratura si è creata una divisione dei ruoli netta quanto aberrante. Da un lato c’è il critico di narrativa, non di rado un uomo di mondo che ama legare la sua firma ai libri di cui “tutti” parlano, e dunque diffida della lirica, che del resto non si presta alle sue analisi contenutistiche e poco sensibili alla forma. Dall’altro lato c’è il critico di poesia, non di rado un critico semifallito, impegnato a difendere il suo minimo orticello con discorsi che, a chi guardi da fuori quell’“atomo opaco” che è il mondo dei poeti, non possono non sembrare bizzarri e futili come lo sono quelli degli iniziati a qualche hobby astruso – come i gerghi di certi collezionisti, dei somelier o dei maniaci di giochi di ruolo. I due tipi di critici finiscono per credere che possa esistere una letteratura sana fatta di compartimenti stagni. E certo è vero che oggi la prosa italiana è composta da narratori o saggisti che ignorano la contemporanea poesia italiana: ma si tratta, appunto, di una circostanza patologica, che impoverisce sia i prosatori che i poeti.

Gif volto dolore_2

In generale, la poesia non è più considerata un elemento indispensabile per capire la nostra cultura. La conseguenza è che i poeti veri vivono una condizione frustrante di mancato riconoscimento. Siccome latita un’attendibile polizia antisofisticazione che separi i loro prodotti da quelli degli impostori, si trovano di continuo svalutati: la moneta cattiva scaccia quella buona. Inoltre, poiché le collane dei pochi editori ben distribuiti vengono ormai gestite con criteri di pessimo gusto – spesso sulla base di meri rapporti d’amicizia e di potere – chi non può rivendicare posizioni di forza, difficilmente arriva in libreria. D’altra parte, la visibilità non è più proporzionale alla qualità: oggi il catalogo di Einaudi e Mondadori non vale molto più del catalogo di uno qualunque di quei piccolissimi stampatori che hanno nomi improbabili tipo “L’orcio” o “Selva oscura”.

Così, capita di essere riconosciuti poeti per le ragioni sbagliate, e spesso senza merito. Per esempio – e qui la patologia italiana è ingigantita dalla mediatizzazione – si è considerati poeti a causa delle proprie vicende biografiche: come Alda Merini, della cui produzione si può dimenticare un buon novanta per cento senza danno. In presenza di un minore appeal esistenziale, aiuta la longevità, o l’accurata gestione di una fama acquisita quando esisteva ancora una parvenza di dibattito critico, o magari l’insistenza su certi stilemi immediatamente riconoscibili. Meglio poi se questa accurata gestione e questa insistenza manieristica si appoggiano a un potere editoriale (dal caso nobile di Sereni si è passati a Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi), a un più generale potere “organizzativo” (vedi Davide Rondoni) e magari universitario (si pensi a Franco Buffoni): ma qui si torna dalla poesia all’estrinseco dato biografico, di una biografia pubblica anziché esistenziale.

Eugenio Montale

Milano, 11/12/1960 Nella foto: lo scrittore Eugenio Montale Posato in studio Farabola @ArchiviFarabola [391101]

Se si eccettuano questi casi, è assai scarsa la disponibilità all’ascolto di una società letteraria che, come la società tutta, tende a rispettare solo ciò che ha un immediato riscontro mediatico. La poesia, in questo senso, non vale a formarsi un’identità. Semmai può essere la ciliegina sulla torta, dove la sostanza della torta sta in una “carriera” basata su altre specialità – una carriera da romanzieri, da filosofi, da cantanti o da politici (e si aggiunga pure qualunque altro “mestiere” noto e magari pittoresco). L’importante, insomma, è che il poeta non sia solo poeta, ma semmai “anche poeta…”: come dice, sputando, la signorina Silvani, mentre Fantozzi le recita versi di Lorenzo de’ Medici spacciati per “una mia cosettina giovanile”.

D’altronde, la sufficienza è più che motivata, davanti ai tanti pseudopoeti che scelgono questo genere, in sé difficile, solo perché manca una vera vigilanza sulla qualità dei prodotti, e quindi perché li deresponsabilizza. A chi non vuole cimentarsi con le fatiche della forma, la “poesia” offre oggi un triste ma accogliente rifugio, un ambiente di rassicurante anarchia. Quella lirica moderna che un tempo servì a esprimere il disagio dell’io di fronte alla società borghese, nella nostra società compiutamente massificata diventa il mezzo più facile per esprimere una pseudocreatività quanto mai piccolo-borghese. Come ci sono i pittori della domenica che rifanno Picasso o gli informali (viene spontaneo, per la dose di arbitrarietà e impostura, il paragone con l’arte: solo che qui manca la spietatezza del mercato) così abbondano i versificatori che imitano a costo zero le oltranze della poesia otto-novecentesca.

Gif volto dolore_4

Questa mutazione genetica dei poeti italiani è iniziata dopo la generazione dei nati negli anni Trenta. Di solito in questa generazione – si pensi ai Raboni, ai Sanguineti – i poeti erano ancora intellettuali a tuttotondo. Ma a partire dai nati negli anni Quaranta, lo scenario è cambiato. Superando le inibizioni dovute alle neoavanguardie prima, e poi al rifiuto della letteratura che si respirava nel clima sessantottino, gli autori della generazione di Dario Bellezza hanno proposto una lirica molto meno sorvegliata. Negli anni Settanta, la poesia è rinata come “confessione” o eclettica euforia linguistica, come esibizione individualistica o scoria postavanguardista stilisticamente depotenziata. Era una lirica informe, naturalmente postmoderna, nata da una situazione che anche Pasolini e Montale contribuirono a definire col non-stile dei loro ultimi libri, e che fu ben fotografata nel ’75 dall’antologia Il pubblico della poesia, in cui i trentenni Berardinelli e Cordelli inserirono i loro coetanei. Pare che leggendo l’antologia, e le autopresentazioni dei poeti, Fortini abbia detto che questi nuovi letterati gli sembravano un po’ simili ai pittori, ormai incapaci di dar ragione della loro opera e di inserirla in un orizzonte culturale. Come ha notato Berardinelli, già a questa altezza è diminuita la coscienza critica: si è imposta una nuova naiveté, una creatività sregolata e autoreferenziale.

Gif labbra occhi

Da allora molte cose sono cambiate. Ma l’autoreferenzialità non ha fatto che aumentare, e la coscienza critica non ha fatto che diminuire. All’anarchia post-’68 hanno messo fine una serie di piccoli “colpi di stato”, con cui gli autori più abili a promuoversi sono riusciti a ottenere una canonizzazione puramente editoriale. Intanto è dilagato il bovarismo: che presto, esauritasi l’atmosfera “confessionale”, ha trovato di nuovo espressione nella koinè genericamente ermetica e nel tenue cronachismo lirico che da molti decenni egemonizzano il nostro poetese colto. Molti autori, dopo gli esordi informali e sub-letterari, si sono messi a fare i formalisti, gli iperletterari, gli esoterici. Ma i presupposti, come ha notato Mengaldo, “restano quelli di una poeticità privatistica ed effusiva”.

E’ in questa situazione che la poesia italiana si è svalutata. La “poeticità privatistica” e l’autoreferenzialità gergale hanno reso i suoi contorni sempre più opachi. La nuova lirica non era più memorabile, come quella della prima metà del Novecento; ma non aveva alle spalle nemmeno le impalcature ideologiche che identificavano i non memorabili esperimenti neoavanguardistici. Rischiava, insomma, di essere irriconoscibile. A questo rischio, molti autori hanno ovviato producendo oggetti estremamente stilizzati, muniti di un involucro esterno in grado di renderli subito percepibili come “Poesia”. Anziché comporre poesie vere, cioè organismi complessi e resistenti alle riletture, si sono limitati a proporre un’Idea astratta di poesia – a inventare un’etichetta che dovrebbe garantire da sola, al lettore distratto, di trovarsi nel magico mondo della Lirica. Coi resti delle poetiche novecentesche, questi autori si sono costruiti ognuno una maschera, per recitare sempre lo stesso ruolo nella commedia dell’arte letteraria. Spesso, senza averne la statura, hanno imitato in questo Pasolini, che, come diceva perfidamente Raboni, è stato poeta in tutto fuorché nelle sue poesie: hanno cioè surrogato la rigorosa costruzione dei testi con atteggiamenti, con pose, o con una patina decorativa e “poetizzante” stesa su versi di per sé assai sciatti. L’aura perduta del testo è stata insomma sostituita dal mito dell’Autore, o dall’insistenza su qualche stilema che funge da logo pubblicitario. Giorgio Manacorda ha esemplificato così la situazione: “tutti oggi si mettono in posa: Bellezza faceva sul serio il maledetto (…) Zeichen fa sul serio il dandy, De Angelis fa sul serio il Poeta, Conte fa sul serio il vate, Magrelli fa sul serio il poeta-intelligente, la Lamarque fa sul serio l’ingenua, e Mussapi fa sul serio il nulla”; e D’Elia, potremmo aggiungere, con le sue sgangherate terzine fa sul serio l’éngagé pasoliniano.

Alcuni di questi autori trasformano la Poesia in un feticcio, proprio perché non credono nelle singole poesie. Anziché cercare di volta in volta la forma adeguata a un contenuto urgente, con onesta perizia tecnica e artigianale, vogliono imporre un’idea aprioristica della lirica, stilizzando e “mettendo in posa” le idee e i temi che fiutano superficialmente nell’aria. Questo vizio insieme contenutistico e formale è del resto ben radicato nelle patrie lettere. Sessant’anni fa, in “Il poeta col suo io”, Leo Longanesi ne diede una rappresentazione esilarante. In questa parabola, i passaggi dal clima carduccian-pascolian-dannunziano a quello ermetico, dalla debole rinascita di una poesia “civile” ai nuovi ripiegamenti elegiaci post-neorealisti, vengono ferocemente ridotti ai minimi, tipici termini, con una velocità da gag. Proviamo a riassumerla e a immaginarne una continuazione, proponendo qualche parodia delle mode poetiche più recenti. Ecco come inizia Longanesi: “Il poeta sentì un nodo allo stomaco, poi un alito fresco sfiorò la sua fronte, poi il suo cuore sembrò uscire dal caldo astuccio del suo petto. Era giunta l’ispirazione, finalmente! Allora prese la penna, e scrisse:

Ahi, fredda beltà, quanto mi costi!
Lento il tuo sguardo si posa sulle cose,
e squilla il geranio della tua bocca.

Poi si arrestò e inseguì vaghe immagini che andavano e venivano come folate di vento. Poi bagnò la penna nel calamaio e al sostantivo geranio aggiunse l’aggettivo rosso: ‘e squilla il rosso geranio della tua bocca’”.

Rileggendosi, però, il poeta si accorge di essere ancora invischiato nel carduccianesimo. Maledetta lingua italiana! Ma proprio l’esasperazione gli dà l’energia per compiere la sua rivoluzione lirica, per far implodere la sua levigata forma ottocentesca. Approda così all’essenziale Novecento ungarettiano o quasimodiano:

Sulla tua fredda beltà
squilla
il rosso geranio
della tua bocca
.

Da qui, il gusto della scomposizione gli prende la mano. Mette le parole “in fila indiana, poi per quattro, poi per tre”. Ma mentre si perde nei suoi giochi novecentisti, l’atmosfera ermetica è sconvolta dal vento impetuoso della Storia. E come può lui continuare a cantare tra le nuvole? Quasimodo e compagni insegnano. Ecco allora che l’engagement trasforma così i versi del nostro:

Sulla tua fronte,
Stalin,
squilla
il rosso geranio
della mia bandiera
.

Stavolta il poeta sente “di aver colpito una musa al cuore”: esce dalla torre d’avorio e si iscrive al PCI. Ma presto si sparge la voce che i comunisti rischiano di essere messi fuorilegge. Per fortuna, non ha ancora stampato la sua ode! Basta, basta politica. E’ ora di rifugiarsi in campagna. Cos’è più un’ideologia? Conta il rimpianto, il puro sentimento elegiaco dettato da Natura! Così il poeta torna alla vecchia metrica distesa e zoppicante:

Nella livida luce dell’Avemaria,
si spegne il suono delle tue campane,
o triste pianura di Lombardia.

E questi versi, il poeta li ripeté più volte (…) e sentì che gli intenerivano il cuore, tanto più che in quel momento egli stava proprio camminando su un vasto prato di erba, dove pascolavano quattro mucche: e tanto il prato quanto le mucche erano di sua proprietà”.

pasolini orson-welles 1962

p.p. pasolini e orson welles in La ricotta 1962

Con questa ironica e quasi marxistica nota sull’orgoglio di casta, si chiude la parabola longanesiana. E mettendo insieme i geranii politici, e le relative bandiere, con la “livida luce” elegiaca del finale in terzine, si vede che il corrosivo Leo aveva già fiutato Pasolini. In realtà, se si modifica la geografia e si aumenta la goffaggine, quella terzina potrebbe ormai appartenere all’epigono pasoliniano D’Elia. Continuando il gioco, tentiamo allora una parodia di questo poeta, che canta le sconfitte della sinistra immergendole in un fiacco paesaggismo adriatico. Potrebbe dire il D’Elia: “Nella livida luce dei rosari/si spegne il mare sulla Romagna che trema/all’ultima voce dei funzionarii…/Ah, per chi suona la nostra campana, D’Alema?/Eravamo ginestre aggrappate all’orlo qui/del burrone tra il settantasette e il Pci…”.

Ma il caso D’Elia è abbastanza isolato. Altre sono le strade tipiche, imboccate nell’ultimo mezzo secolo dal “poeta col suo io”. Negli anni Sessanta, si è imposta la neoavanguardia di Sanguineti e sodali. Allora, forse, il camaleontico poeta di Longanesi vi avrebbe aderito, ragionando in questo modo: “basta, non è più tempo di rifugi bucolici. Ha vinto l’alienazione. Sì, lo sento: mi è sottratto qualunque rapporto naturale con le cose. Non mi resta che rispecchiare l’alienazione che provo attraverso un’alienazione scientifica del linguaggio”. Così sdottoreggiando, avrebbe trasformato i vecchi versi in un sanguinetiano pastiche citazionista. Una cosetta del genere:

Ave Maria livida Palus o luce istituzione o
istituto totalità litania nel cielo che è così bello quando è
bello cioè bellico sotto una campana campa il Kampf
che è Dein non Mein di me troppo melancolico per spargere
sangue che squilla come il geranio ammainato del comitato Central Park

Ma nel frattempo, a partire dalla lezione di certo Sereni e di certo Raboni, di Nelo Risi, Luciano Erba e Giorgio Orelli, si è formata un’altra koinè, quella “lombarda”. Per il pallido lirismo del “medio poeta italiano”, è un vero uovo di Colombo. In sostanza, replicando gli aspetti esteriori di questi autori – certo grigiore, certa arida oggettività, certo prosaico cronachismo appena innalzato da un tono di vaga elegia domestica – il poeta medio li sfrutta per legittimare la propria aridità formale, la propria povertà stilistica e la propria impotenza metaforica. Sotto le insegne lombarde, con minimo sforzo prosodico, può semplicemente elencare gli oggetti che gli sono cari, magari condendoli qua e là con qualche incongruo grumo analogico, cioè non abbandonando del tutto il cordone ombelicale che lo lega alle sublimazioni ermetiche. Ne esce una poesia insieme esile e farraginosa, che ostenta la sua natura di referto “dal vero”, ma lascia emergere qua e là un grezzo sentimentalismo. La koinè lombarda ha nutrito i versi depressi di Cucchi e Riccardi, e quelli spigolosi di Buffoni. Fiutando questa possibilità, negli ultimi decenni il poeta longanesiano si sarebbe forse detto che era l’ora di mettere en abyme la mediocrità piccolo-borghese con una poesia altrettanto mediocre e incolore. Lo immaginiamo mentre rielabora i suoi vecchi temi, così lombardeggiandoli:

C’è della gente che dice Avemaria
nella pianura con la nebbia
si vede qua e là un lago
oh lucci di nostalgia
quella domenica del ’71 tra le rive in amore
e due gerani innaffiati al balcone da una pensionata mentre
“Ehi, largo” dice da un camion un autista
ai passanti intirizziti
che nei cappotti coi faldoni si muovono
e portano al prete le raccomandazioni
e le bisbigliano coperti dalle campane.

foto Steven Klein Poesia del Corpo

foto Steven Klein Poesia del Corpo

Ma negli ultimi anni, si è diffusa una nuova koinè. Sulla solita base ermetica, qua e là mescolata a residui avanguardistici, è nata una poesia dalle pose ieratiche, insieme chirurgica e viscerale, orfica e truculenta, gridata e cadaverica. Il suo tema fondamentale è il Corpo. Certo il nostro poeta, dopo aver fiutato le filosofie francesi alla moda, e le parole-chiave dell’odierna chiacchiera semicolta, si butterebbe su questo tema con tetra voluttà, pronunciando la parola “corpo” con la stessa convinzione con cui qualche decennio fa avrebbe pronunciato la parola “popolo”. Ma a questa altezza, in genere, il poeta ha cambiato sesso, ed è diventato poetessa: sono infatti soprattutto le poetesse a indulgere alla retorica sulla corporeità. Questa retorica – con tutti i topoi del sadomasochismo che si porta dietro, con tutte le immaginabili vie crucis sessuali – può presentarsi in una forma fredda, da “autopsia linguistica”, o in una forma infiammata e misticheggiante: ma spesso le due forme si mescolano in una tonalità che vuol essere rituale, liturgica.

La poesia del Corpo rappresenta sotto una luce macabra i dettagli fisici e domestici; mescola volontaristicamente la “carne” ai filosofemi; evoca le tragedie storiche, o i drammi di cronaca vera, solo per la loro capacità di fornire immagini morbose, “estreme”, sacre e dissacranti. L’intento è quello di emulare Amelia Rosselli, ma il risultato è un kitsch che si esprime a volte in testi debordanti, e a volte invece in testi minimali, che fanno pensare a un Ungaretti riscritto da una casalinga dark. A nutrire questa koinè hanno contribuito le poesie rarefatte di Elisa Biagini e le poesie teatralizzate di Mariangela Gualtieri, i trattatelli urlati di Giovanna Frene e il poetese fluente di Maria Grazia Calandrone. Imitandole, il nostro camaleontico poeta (o poetessa) potrebbe riadattare così il suo tema d’inizio:

Ave-Maria
o Ave
Maddalena?
Immacolata o macchiata
lampo nella
carne
(nella clavicola)
che ho
scorticato come
l’animula legata come
capro immolato al
bios-potere o Eichmann
fratello o Eich-Mann affondato
sul campo
spinato sul fiore
geranio di
sangue-campana –
Campana chimera ti
chiamo
sulle tue grandi
labbra di buona
novella

Infine, ci sono i poeti che bamboleggiano. Che fanno i fanciullini, ma senza la sapienza metrica di Pascoli. Che amano tanto il cielo, i prati, i fiori, le “stradine” dei paesaggi patrii. Che tifano per i sentimenti elementari, e spesso per l’elementare sintassi e l’elementare aggettivazione. Sul confine di questa categoria troviamo il bucolico Umberto Piersanti, che però ha ancora la sostenutezza retorica di chi “porge” il distillato di un lungo lavoro: sostenutezza un po’ comica, sia perché è troppo simile al poetese in cui scrivono quasi tutti gli italiani che scombiccheranno versi, sia perché sembra annunciare una densità sapienziale che in realtà si riduce a qualche pensierino sulla fragilità della vita, inserito in un desueto acquerellismo paesaggistico. Ma il massimo rappresentante dei bamboleggianti è Claudio Damiani, che certi critici non esitano a paragonare, oltre che a Pascoli, a Orazio. Se il nostro poeta si convincesse che il carro vincente è quello di Damiani, riscriverebbe i suoi versi così bamboleggiando:

Come sono belle le campane
che fanno din don vicino ai biancospini
dietro alla stradina piccola piccola
dove andiamo tenendoci le mani.
Hai visto come sboccia il geranio
bello rosso come la tua boccuccia?
Come fa bene al nostro cuore
l’Ave Maria, che a te fa chiedere:
“Cosa vuol dire Ave? E c’è Dio papà?”.
E io ti lascio la mano e ti do
un buffetto sulle labbra
e dico vuol dire “ciao”,
fai “ciao ciao” con la mano
sì saluta Dio in questo cielo azzurro
tu che puoi ancora. 

Matteo Marchesini

Matteo Marchesini

La pseudolirica dei poeti tardo-lombardi, dei poeti (o poetesse) mistico-viscerali e dei poeti bamboleggianti, una pseudolirica ad alta stilizzazione ma a bassa coerenza tecnica e formale, ottiene il risultato opposto a quello che ogni poesia dovrebbe proporsi: anziché potenziare il senso della lingua, lo impoverisce coi suoi stereotipi; anziché fare attrito con gli altri codici linguistici e con la realtà circostante, si isola in un limbo di futile arbitrio. Per fortuna, però, accanto a questi pseudolirici ci sono ancora poeti veri. Ed è venuto il momento di fare qualche nome, o finiremo per contribuire anche noi a una completa svalutazione del genere. Pensiamo ad autori che rifiutano l’alibi della stilizzazione e che costruiscono testi densi, stratificati, di grande coerenza formale; ad autori che non si nascondono dietro un finto esoterismo, e inseguono anzi la limpidezza, ma una limpidezza complessa, mai bamboleggiante. Anziché tentare di imporre un’Idea di poesia o un Personaggio, questi autori si affidano solo al valore artigianale dei loro manufatti. Non a caso, i loro modelli li cercano spesso in poeti maturati prima della deriva dell’ultimo mezzo secolo; in poeti, cioè, in cui era ancora ben viva la concezione della lirica come abile artigianato. C’è chi, come Paolo Febbraro e Anna Maria Carpi, deve qualcosa a Caproni; e c’è chi, come Paolo Maccari, ricorda Raboni e Fortini. Patrizia Cavalli ha ben assimilato Penna, e la giovane Mariagiorgia Ulbar riprende insieme Penna e la stessa Cavalli. Umberto Fiori ha imparato qualcosa da Sbarbaro, ed Elio Pecora da Cardarelli e Saba. Dei tempi del “pubblico della poesia”, della creatività sregolata impostasi a partire dagli anni Settanta, è rimasto insomma assai poco. Fare poesia col neoromanticismo anarchico fotografato da Berardinelli e Cordelli, senza finire nel bovarismo, era molto difficile. Forse per riuscirci bisognava essere davvero, e non per moda, dei “romantici” devoti a un’idea insieme orfica e confessionale di poesia. E anziché costruirsi una meschina carriera, come hanno fatto molti sessantenni e settantenni di oggi, bisognava accettare il fatto che un’idea così assoluta di poesia si concretizza solo a sprazzi: bisognava, insomma, avere l’onestà di dichiarare spesso fallimento. E’ questa onestà che ha salvato Giorgio Manacorda, feroce stroncatore dei suoi colleghi e di un’intera “generazione perduta”, ma anche severo punitore di se stesso, pronto a buttare raccolte costate anni di fatica per tenere appena un verso. Se in un’epoca di naiveté e di pavidità intellettuale imperante è rimasta viva la figura del poeta-critico, lo si deve soprattutto a lui.

Articolo uscito sul Foglio il 16 marzo 2013

17 commenti

Archiviato in Crisi della poesia, critica della poesia, poesia italiana contemporanea

Andrea Cortellessa intervistato da Nanni Delbecchi “Spengono i poeti perché sfuggono alla melassa”, “il poeticidio”, “Che fare?”, ed un Estratto da un articolo di Andrea Cortellessa

il poeticidio dei libri di poesia

il poeticidio dei libri di poesia

Faccio copia e incolla da LPLC di un post di Andrea Cortellessa del 23 luglio 2015 che riguarda il nostro discorso sulla presunta chiusura della collana di poesia Lo Specchio della Mondadori:

[…] Venendo agli altri interventi, devo dire che rappresenta un’occasione mancata, soprattutto, quello di Alfonso Berardinelli. Fra quelli in attività è lui il maggior critico di poesia: quello cioè che avrebbe, ancora oggi forse, i maggiori strumenti per rispondere alle domande che in questi giorni si vanno facendo. Ed è oltretutto anche – co-autore nel ’75 con Franco Cordelli di un’antologia, Il pubblico della poesia, che per prima antivide il mondo in cui si andava trasformando quello, cioè il nostro – pienamente e personalmente parte in causa. Col suo pezzo s’è invece iscritto al partito dei tantopeggiotantomeglisti (rappresentato allo stato puro da un intelligente poeta e saggista di destra, Davide Brullo, guarda un po’ sul Giornale: che è fra parentesi la più tipica malattia infantile dell’estrema sinistra culturale del nostro paese. (Aveva davvero ragione, allora, un poeta assai irritato con lui quando lo definiva «Adorno di Monteverde»?)

Dice, il tantopeggiotantomeglista: era così scarsa (qualitativamente), la proposta recente dello «Specchio», che tanto vale che questo chiuda una buona volta i battenti. A parte che, all’atto pratico, se (come è dato oggi prevedere) questa collana semplicemente ridurrà gradualmente le uscite sino all’ineffettualità, il risultato sarà che potrà pubblicare solo le fetecchie di stretta ordinanza (senza potersi permettere i libri “veri”, di Antonella Anedda, Mario Benedetti o Mark Strand), questa obiezione pecca d’essere schiacciata sul presente, sui giudizi che oggi siamo in grado di dare. Se è vero che, concede micragnoso Berardinelli, «di poeti pubblicabili, cioè leggibili (anche se poco vendibili) in Italia ce ne sono circa una dozzina, magari anche venti, o se proprio si vuole si arriva a trenta», semplicemente non è vero – non è quantitativamente vero, intanto – che «non c’è quindi sufficiente materia per alimentare e tenere in vita» le collane di poesia. Se sono venti, o addirittura trenta, questi poeti, essi produrranno mediamente dieci-venti libri all’anno; e le collane “storiche”, fino ad oggi appunto, erano due. Ma il punto non è quantitativo; non così banalmente, almeno. Lo dimostra Paolo Febbraro, con la sua utile “verticale del 1961”: se oggi possiamo concludere che lo «Specchio» di allora (gestito da un certo Vittorio Sereni) «aveva fatto per intero il proprio dovere», lo poté fare perché aveva la possibilità di sbagliare. Cioè di sperimentare, piaccia o meno questo termine; di pubblicare cose che nel presente possono apparire, a questo o quel lettore o critico, illeggibili o «inutili» (per usare l’interessante termine di Berardinelli) ma che ad altri, già oggi, appaiono invece perfettamente leggibili, e magari pure utili; e che magari tanto più appariranno tali ai lettori a venire: quelli che oggi leggono con la massima utilità Auden, sì, ma anche Celan. Scommettere sul futuro è stata una prerogativa profonda dei moderni, e se oggi l’abbiamo persa – non solo ovviamente in ambito editoriale – le conseguenze, a livello economico politico umano, sono sotto gli occhi di tutti.

Andrea Cortellessa

Dice infine, ma che problema c’è se la poesia non verrà più pubblicata su carta? C’è la Rete, bellezza. Un altro amico intelligente, Daniele Giglioli, suole dire che il verso famoso di Hölderlin, «là dove è il pericolo, lì è la salvezza», altro non è che l’ultima risorsa dei disperati. Capovolgiamo i termini: se – come a me pare assai evidente – la rete per la poesia è oggi una specie di pozzo senza fondo, dove si trova tutto e il contrario di tutto (cioè, appunto, il nulla), si potrebbe dire che, là dove parrebbe esserci la salvezza, proprio lì è il pericolo. A sessant’anni di distanza da quando è stato pubblicato il saggio di Calvino con quel titolo famoso, è oggi che navighiamo, frastornati e senza uno straccio d’indirizzo, nel mare dell’oggettività. Dove però, in realtà, regnano indisturbate le soggettività – intemperanti e risentite – degli autopubblicatori e autopromotori social-seriali. (Fu non a caso uno dei protagonisti della generazione del Pubblico della poesia, Dario Bellezza, a usare per primo il titolo Il mare della soggettività.)

Si ripete allora sconsolati: Che fare? Un grosso lavoro è quello che ci attende, e che spetta principalmente a quella generazione di esseri «ibridi», come li ha definiti Mazzoni nel suo I destini generali: quelli che, come lui e come me, si sono formati nel mondo vecchio ma hanno avuto in sorte di vivere la maggior parte della loro esistenza in quello nuovo. Nella rete, e con la rete, occorre ri-costruire dei luoghi non dove non ci sia l’inferno (quello, con buona pace di Calvino, ce lo portiamo dentro), ma dove almeno resti acceso un buon impianto d’aria condizionata. Dove cioè si possa contribuire a ri-costruire dei valori condivisi: non perché calati dall’alto da una nuova classe di mandarini (che, lo sappiamo, non ci sono le condizioni storiche perché si ri-formi); bensì perché discussi insieme, a tutti i livelli, da tutti quelli che “ci stanno”, nei molti sensi di questa espressione (per questo aggiungo con la rete: volendo dire, in forma di rete). Un tentativo fu, nel 2010-2013, quello delle Classifiche di qualità “Stephen Dedalus”, ideate e gestite (fra mille improperi e contumelie) da Alberto Casadei insieme appunto a Mazzoni e al sottoscritto, in collaborazione con Pordenonelegge (vale la pena segnalare, perché non lo si è fatto a sufficienza, che l’attuale attività che porta questo stesso nome non ha alcuna continuità con quella che conducemmo allora). Un altro, in ambito specificamente poetico, è la rubrica Campioni che sto provando a portare avanti su doppiozero, cioè uno di quei luoghi illuminati della rete che vanno moltiplicati (non all’infinito, pena l’effetto-caciara di cui sopra) e messi in grado di funzionare (cfr., in particolare, questa giustificazione non petita), come quello dove ci troviamo ora.

Andrea Cortellessa

Questo infatti lo stiamo già facendo, stiamo già provando a farlo. Ma c’è un’altra cosa che non possiamo fare, invece, col mero volontariato dei singoli. Ed è porre le condizioni perché venga finalmente affrontato quello che, per la cultura editoriale italiana, è stato finora un tabù (rinvio alle risposte desolanti date al questionario sottoposto agli editori italiani dal numero monografico del «verri» sulla Bibliodiversità, il 35 del 2007): l’accesso a finanziamenti pubblici come quelli da decenni riservati, all’editoria di qualità (non necessariamente cartacea), da diversi Stati europei. Per esempio in Norvegia, come segnalava il compianto André Schiffrin in uno dei suoi imprescindibili pamphlet su queste questioni (Il denaro e le parole, a cura di Valentina Parlato, Voland 2010): dove – con un mercato ancora più ristretto, molto più ristretto, di quello italiano – s’è realizzato un circolo virtuoso che fa leva sul circuito delle biblioteche: quei luoghi, cioè, in cui si tocca con mano che il libro – con buona pace di Franco Tatò e delle sue legioni di, dichiarati o meno, imitatori contemporanei – non è, appunto, una merce come tutte le altre. Facile rispondere alla domanda circa il vero motivo per il quale gli editori italiani si sono sempre sottratti a questa discussione. Facile, se si guarda ai risultati impresentabili (a differenza di quelli ottenuti da altri Stati) coi quali la Repubblica Italiana ha sinora provveduto a sovvenzionare le traduzioni all’estero dei nostri libri: quella cioè che è pressoché l’unica forma di effettivo aiuto pubblico sinora introdotta nel comparto.

alfonso berardinelli

alfonso berardinelli

Ma è una risposta sbagliata, esattamente come quella dei tantopeggiotantomeglisti editoriali. Se le collane “storiche” – che per decenni hanno svolto in Italia, né più né meno, una funzione istituzionale – sono venute meno al loro compito, non è questo un buon motivo per chiuderle. Se degli aiuti pubblici all’editoria si è fatto sino a questo momento un uso clientelar-provinciale, non è questo un buon motivo per demonizzarli. Esattamente allo stesso modo in cui la risposta al cattivo funzionamento dei trasporti pubblici non può essere la loro abolizione (se si vuole un esempio meno paradossale, pensiamo alle scuole pubbliche). La collettività siamo noi, anche se sempre più spesso ce ne dimentichiamo. A nessun altro che a noi, dunque, spetta salvaguardare e migliorare i servizi pubblici: all’atto stesso di usufruirne.

Andrea Cortellessa intervistato da Nanni Delbecchi “Spengono i poeti perché sfuggono alla melassa”, ” il poeticidio”

 [«Il Fatto Quotidiano», 9 luglio 2015].

Scoprire la società di massa nel 2015 è come chiudere la stalla quando è scappato l’ultimo dei buoi, e la nostra editoria si appresta a compiere il più efferato dei delitti letterari: il poeticidio. Non ha dubbi Andrea Cortellessa, che in queste denunce è impegnato con il puntiglio inattuale del critico militante:

«Siamo fuori tempo massimo anche dal punto di vista storiografico. E quanto si legge nelle ultime pagine è un esempio di quell’occultamento dei veri valori denunciato da Scrittori e massa. Troppi dei narratori “salvati” da Asor Rosa sono autori Einaudi, cioè della sua casa editrice, che sempre lui provvede a recensire su Repubblica».

Poteva fare un capitolo anche su se stesso?

Volendo sì, visto che ha provato a fare anche il romanziere.

Secondo Asor Rosa l’unico genere immune a questo meccanismo è la poesia.

«Su questo sono d’accordo: la poesia resta fuori dalla melassa mediatica, in quanto priva di un tornaconto commerciale. Questo la rende il genere più vitale della nostra letteratura, ma è anche la sua parte maledetta, nel bene e nel male».

Foto Kolář JiříIl declino della società letteraria si vede anche da qui?

«Certamente. Negli anni Sessanta e Settanta ai poeti era riconosciuta una grande autorevolezza, scrivevano in prima pagina».

E oggi?

Anche oggi i nostri maggiori poeti avrebbero molto da dire sulla società contemporanea, ma non hanno accesso ai media. Nel 2010 Valerio Magrelli ha scritto la poesia intitolata Le ceneri di Mike, in cui ricordava i funerali di Stato per Mike Bongiorno ma non a Edoardo Sanguineti. Ecco un segno dei tempi.

Un altro segno potrebbe essere la chiusura da parte di Mondadori della collana di poesia «Lo specchio», ultima superstite insieme a quella di Einaudi, di cui si rumoreggia.

In teoria le collane storiche di poesia sono tre. Ci sarebbe anche quella di Garzanti, mai ufficialmente chiusa anche se è come se lo fosse, visto che pubblica un libro ogni tre anni. Credo che la Mondadori voglia fare la stessa cosa; non chiudere ufficialmente lo «Specchio» per evitare clamori, ma ridurla sempre di più, lasciarla morire di consunzione. Un poeticidio contrario alla storia e alla vocazione di una casa editrice che fin dagli anni Trenta aveva creduto nella poesia italiana.

books 5

Oggi i poeti non rendono più.     

Ma i poeti non devono rendere! Non bisogna sapere se la poesia rende oppure no. Non ha nessuna importanza; anzi, se vende tanto, probabilmente è cattiva poesia.

Anche la critica non si sente tanto bene.

Altra bella scoperta. Dieci anni fa, in Eutanasia della critica Lavagetto scriveva che i media non hanno più interesse a consultare i critici proprio perché sono critici, alieni da una macchina da profitto che non sopporta obiezioni, come teorizzò nel ’95 Franco Tatò. Nel libro-intervista A scopo di lucro sosteneva che il libro doveva diventare una merce come tutte le altre; a un ventennio di distanza, questa logica ha vinto definitivamente.

Al di là della poesia, come può resistere la buona letteratura?

Visto il disinteresse dei grandi, l’editoria indipendente è sempre di più il canale in cui passa la letteratura di ricerca, o meglio, la letteratura senza aggettivi, che non è certo quella degli opinionisti del Corriere della Sera. Per reagire allo strapotere delle concentrazioni si è dotata di strumenti propri come l’Osservatorio degli editori indipendenti, o di fiere come il recente BookPride. Inoltre proprio oggi viene presentato a Roma il Premio Sinbad, il premio dei piccoli editori che svolgerà i suoi lavori attraverso una serie di discussioni pubbliche.

Una specie di antiStrega?

Non sta a me dirlo, visto che quest’anno sono tra i giurati. Di sicuro al Premio Sinbad non ci saranno le stanze segrete, le cordate preconfezionate, le truppe cammellate dello Strega. Sarà un premio piccolo ma trasparente, espressione della resistenza al sistema. Perché è così: da una parte ci sono i grandi gruppi con i loro best-seller annunciati, dall’altra la riserva indiana. Un’editoria a doppia velocità, come l’Europa.

 È già qualcosa.

Un’editoria a due velocità è un male minore. Ma pur sempre un male.

(LPLC  23 luglio 2015)

27 commenti

Archiviato in poesia italiana