Archivi tag: due poesie

Mario Lunetta, (1934-2017), Due poesie inedite, La «forma informe» del poeta di via Accademia Platonica in Roma, Il punto di vista di Giorgio Linguaglossa

Mario Lunetta Dino Ignani

Mario Lunetta, foto di Dino Ignani

«Il tentativo di comunicare, laddove nessuna comunicazione è possibile, è soltanto una volgarità scimmiesca, o qualcosa di orrendamente comico, come la follia che fa parlare coi mobili. […] Per l’artista che non si muove in superficie, il rifiuto dell’amicizia non è soltanto qualcosa di ragionevole, ma è un’autentica necessità. Poiché il solo possibile sviluppo spirituale è in profondità. La tendenza artistica non è nel senso dell’espansione, ma della contrazione. E l’arte è l’apoteosi della solitudine. Non vi è comunicazione poiché non vi sono mezzi di comunicazione».

Samuel Beckett Proust

«Le strutture ideologiche postmoderne, sviluppate dopo la fine delle grandi narrazioni, rappresentano una privatizzazione o tribalizzazione della verità».

 Maurizio Ferraris, Postverità e altri enigmi, Il Mulino, 2017, p. 113

Il punto di vista di Giorgio Linguaglossa

La «forma informe» del poeta di via Accademia Platonica in Roma

In questi due inediti di Mario Lunetta scritti poco prima della sua morte prematura, il poeta romano ritorna allo stile della poesia di Trasumanar e organizzar di Pier Paolo Pasolini, al pluristilismo polimorfico, al materialismo dialettico, alla dialettica materialistica dello stile, ad una poesia di opposizione; adotta per la sua poesia-parlato una «forma informe», un interventismo pluristilistico e plurilinguistico per via del fatto che quell’altra «forma», la forma della poesia maggioritaria con cui si è fabbricata in Italia la poesia istituzionale in questi ultimi decenni, è ormai un veicolo tautologico, usurato e compromesso, quella forma-poesia è diventata non più abitabile e neanche frequentabile. Il poeta di via Accademia Platonica, qui vicino a casa mia, a Roma, ha dismesso dagli anni settanta gli abiti di scena, gli abiti della poesia della «discesa culturale» della generazione degli anni ottanta, per restare poeta di opposizione, di una opposizione marxianamente e intransigentemente materialistica.

Scrive Mario Lunetta:

«La stupidità organizzata è volgare, ci fa orrore. La ideologia attualmente diffusa in gloria di quella recentissima specie zoo(il)logica che sarebbe il poeta da spiaggia o da stadio […] che ‘canta’ al grado zero le sue passioni le sue frustrazioni le sue esaltazioni in versi intrisi di ‘incantevole’ primitivismo semianalfabetico, è l’ultima invenzione del mercato delle lettere (insomma, del mercato) perfettamente omologa al presente del gusto medio radiotelevisivo/rotocalchesco. È l’ultima mistificazione in letteratura, in poesia».

Scrive Gualberto Alvino:

«Ecco le raccolte poetiche degli anni Novanta: Panopticon (1990), Antartide (1993), attraversate da due tensioni non meno antitetiche che mirabilmente fuse nella rapinosa potenza dello stile: da un lato l’esortazione alla discesa in piazza, l’attacco al potere con tanto di nomi e cognomi, alla cultura dominante, alla società dello spettacolo, sotto il segno di una passione civile gonfia di risentimento per un mondo degradato e bestializzato («mute / di cani muti, di pescicani accovacciati […] / falangi alticce di oche, galline starnazzanti»); dall’altro – parola di Francesco Muzzioli – lo «sfrenamento felice del significante» e delle libere associazioni surrealiste.
Ed ecco le raccolte degli anni Zero (Roulette occidentale, Lettera morta), nelle quali continua, e incrudelisce, la critica del consumismo impazzito e l’orrore per il mondo postmoderno. Ma di grande rilievo pare a noi La forma dell’Italia, Poema da compiere (2009) per l’inaudita testura e la superba orchestrazione formale, in cui tutto si genera a partire da un dato non già concettuale bensì ritmico; un ritmo che si fa poliritmicità, energia musicale struttiva, con gli abrupti mutamenti di rotta e di tenuta, la felinità delle mosse, le infinite soluzioni combinatorie che tramutano inesorabilmente – e drammaticamente – la poliritmicità in aritmicità strozzata, soffocante: diastole e sistole d’una disperazione insieme cupa e colma di fiducia, come in tutti i poeti figli della guerra, che non smotta mai nell’oratoria, pur facendosene a tratti tanto accosto da lambirne perigliosamente i cigli.»1]

Dopo Kafka e Beckett la frammentarietà della «forma» parla per se stessa, di se stessa, e indica, per via indiretta, la impossibilità di leggere il reale, di parlare al reale. La «forma informe» del verso libero in auge da diversi decenni in Italia non pensa criticamente la secondarietà del discorso poetico ma si limita a parcheggiare il discorso poetico nella nicchia della cosmogonia dell’io.

Lunetta comprende da subito, fin dagli anni settanta che ci troviamo in un mondo non più presentabile e nemmeno rappresentabile (che non sta più davanti ad un soggetto che osserva), squassato dalla lotta di classe e dalla conflittualità interclasse. Un mondo quindi non più orientabile in una «forma», tanto meno chiusa o algebrica o aperta che sia. Non c’è nessuna algebra, è convinto Lunetta, che sia applicabile a questa «forma» deformata, conflittuale, aporetica. La storia non è presentabile e quindi rappresentabile. Nella poesia lunettiana siamo lontani anni luce dalla edulcorata presentabilità del mondo piccolo-borghese occidentale con le sue «catastrofette» piccolo borghesi e con le sue ulcere dell’anima. La realtà non è rappresentabile, al massimo può essere citabile. C’è un modello maggioritario di pensiero che flirta con la storia e la lotta di classe derubricata a lotta per la sopravvivenza delle classi subalterne. La lotta di classe, ne è convinto Lunetta, è ormai diventata una macchina desueta e celibe alla Duchamp dove scorrono e si scontrano biglie rumorose e indisciplinate che producono cialtroneria, populismo, sovranismo e misticismo.

La realtà è diventata «muta», impresentabile, e la forma-poesia che le corrisponde risulta dissonante; la «forma informe» è diventata qualcosa di ultroneo sia al concetto di rappresentazione che a quello di testimonianza. Lunetta capisce subito, fin dai primissimi anni settanta, che la poesia non deve testimoniare nulla a nessuno, non obbedisce alla regola dell’economia monetaria dello stile e alla economia culinaria della «bellezza» sostenuta dai poeti interessati al mantenimento dell’ordo rerum; capisce che ormai non c’è nulla di cui render testimonianza, la poesia deve soltanto opporsi con tutte le proprie residue forze alla omologazione culturale di massa e al conformismo dei ceti impiegatizi della pseudo cultura. La storia degli uomini sembra esser stata neutralizzata da Agenti di un altro sistema solare che sono scesi sulla terra e l’hanno colonizzata ad insaputa dei terrestri: gli agenti delle Agenzie del multi capitalismo globale che hanno compiuto una vera e propria trasmutazione antropologica e di classe. In queste condizioni planetarie «l’espressione è il volto addolorato delle opere», scriveva Adorno in tempi non sospetti, negli anni sessanta. Appunto, nella poesia di Mario Lunetta si rinviene la calcificazione e la codificazione del dolore nelle parole, non vi sono più le parole corrispondenti al «reale»; l’espressione viene piegata in espressionismo, in disformismo, in pluristilismo, in cacofonismo, in irrispettoso e amusaico plurilinguismo. È questo il motivo della insonorità di fondo di questa poesia, della sua salubre insonorità spinta al massimo del diapason, della ipoacusia di questa poesia, scritta per i non-vedenti e i non-udenti, orgogliosamente e aristocraticamente oppositrice del conformismo di massa e per essere invisa alla paccottiglia letteraria del monolinguismo maggioritario.

1] http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/recensioni/recensione_125.html

mario-lunetta-anni settanta

Mario Lunetta, anni settanta

Mario Lunetta
Due poesie inedite

La «forma informe» del poeta di via Accademia Platonica, Roma

Again or never more

Forse che sì forse che no, quando i tre angeli senz’ali
dai nomi illustri – Mario Monicelli, Carlo Lizzani, Memè Perlini –
sono volati dalla finestra per sfracellarsi sull’asfalto
forse nell’illusione di planare su un materasso di piume,
un attimo prima avevano incontrato allo specchio
per l’ultima volta i loro volti già estranei, incerti
tra un morso di disprezzo o una puntura di rimorso.

Dopo di che, la fine di tutto o quasi: tra fragore di nacchere,
acrocori di chiacchiere intasate, improvvisi crepacci
di silenzio, nel troppo pieno e nel troppo vuoto, contro
uno schermo nero.

Quando alla Villetta della Garbatella si tenne la commemorazione
dell’amico Carlo e del suo cinema e l’immortale sottoscritto
trattenne in fine d’intervento un brivido di commozione, il figlio
del defunto, che somiglia a suo padre in modo impressionante
nel volto, nei gesti e nella voce, lo abbracciò forte, prima che tutto
si sciogliesse in un mutismo irreale.

Cosa resta ormai di ciò che i tre angeli senz’ali
hanno fatto nel cinema e nel teatro, per il cinema e il teatro?
Questo si chiede senza saper rispondere fino in fondo
Il supposto immortale – e si dice nel suo mutismo
senza fiato, in una bava d’incoscienza: tutto e niente.
Ma il tutto è senza dubbio più del niente: solo questo oggi conta,
solo questo ha valore.

Tre angeli senz’ali se ne sono andati per restare tra noi
in nome degli azzardi dell’intelligenza, in questo mondo
capace solo di mettere in scena se stesso senza tregua
davanti a uno specchio ipocrita, tra orrore e idiozia, stupidità e ferocia.
Solo questo è innegabile, solo questo possiamo dire.

Per cui: nessun saluto particolarmente accentuato, in questo
messaggio versicolore scritto in un esperanto maldestro
per tre angeli àpteri inadeguati al volo, ma niente più che un omaggio truccato
a colei che con tutto il bagaglio delle sue arti magiche (sorrisi iridescenti,
malinconie inguaribili, ambiguità fascinose) aiuta a sopravvivere
il supposto immortale senza chiudere le ali, again or never more,
never more or again – per tutto il tempo che rimane,
o che è già scaduto.

8 aprile 2017

Cartapesta

Continuando ad abitare la sua casa di cartapesta
di via Accademia Platonica come una parodia
della pompeiana Villa dei Misteri, aggredito alle spalle
da un fastidioso nùgolo di alfabeti remoti
grezzamente affastellato sotto la pioggia o sotto l’urto
glorioso della luce contro l’azzurro del cielo o il deserto
ingiallito di un foglio di papiro, il respiro di un’aquila
o la fuga precipitosa di una formica, il supposto
immortale esce dal suo torpore per cercare
ingenuamente il vessillo lacerato di quella che si chiama
scrittura Lineare B

imbattendosi invece alquanto oziosamente
nella futile notizia secondo cui il cobra reale, lungo
intorno ai 5 mt, ha una lingua biforcuta sensibilissima
all’odore molecolare delle prede e una vista telescopica
capace di indiv iduare a 100 mt con estrema precisione
uno scoiattolo c he tenta di mimetizzarsi a ridosso
del tronco di un olmo americano, ecc. ecc.

Alquanto frastornato, il supposto immortale
non sa allora trovare altro conforto che pronunciare
a voce alta, specchiandosi in un olio di Cagli
tanto simile a un oscuro geroglifico gremito
di spazi inenarrabili, questo SOS che ha tutta l’aria
di un help pronunciato un attimo prima del naufragio:
Via, tenera amica, guarda ancora l’immortale
che conosci così bene: sì, proprio lui che a stento
ricorda il suo nome.

Se lo fissi un istante coi tuoi grandi occhi di ragazza
pieni di stupore cinematografico, quest’uomo strano
e incomprensibile forse potrà guarire ancora un poco
– o ritardare di un istante la sua fine.

15 aprile 017

mario_lunetta neroMario Lunetta (Roma, 23 novembre 1934 – Roma, 6 luglio 2017) nasce a Roma. Sperimentatore nei più diversi generi letterari e artistici, ha collaborato ai programmi culturali della RAI e a decine di giornali e riviste italiane e straniere, tra cui L’Unità, Corriere della Sera, Il Messaggero, Rinascita, Il manifesto e Liberazione. Curatore di importanti antologie (Il surrealismo, Roma, Editori Riuniti, 1976; Poesia italiana oggi, 1981, e, in collaborazione con Franco Cavallo,Poesia italiana della contraddizione, 1989, entrambe edite a Roma, Newton Compton), ha introdotto e curato opere, tra gli altri, di Italo Svevo, Emily Bronte, Émile Zola,Federico De Roberto,Gustave Flaubert, Dino Campana e Velso Mucci. Nel2004 ha vinto il Premio Nazionale Letterario Pisanella sezione Poesia e nel 2006 il Premio Alessandro Tassoni alla carriera.
In volume ha pubblicato:

Poesia

Tredici falchi (1970); Lo stuzzicadenti di Jarry (1972); Chez Giacometti (1979); La presa di Palermo (1979); Flea market (1983- Premio Pisa); Cadavre exquis (1985 – Premio Adelfia); Autoritratto con acrostici (1987); In abisso (1989); Panopticon (1990), con disegno e lito di C. Cattaneo; Pianosequenza (1990), con acqueforti e acquetinte di S. Paladino; Sorella acqua (1991), con serigrafie di C. Budetta; Antartide (1993); Catastrofette (1997), con un acquerello di E. Masci; Cunnichiglie (1997), con un acquerello di E. Masci; Roulette occidentale (2000), con un disegno di B. Caruso; Doppio fantasma – 91 poesie per 91 artisti (2003); Magazzino dei monatti (2005); Bacheca delle apparizioni, con quattro litografie di L. Boille (2005); Mappamondo & altri luoghi infrequentabili (2006); Nitroglicerina per ermellini, con cinque acqueforti-acquetinte e un rilievo di Bruno Aller (2007); Videoclip, con tre acquerelli e un rilievo di C. Budetta (2007), La forma dell’Italia (2008), Cartastraccia (2008).

Narrativa

Comikaze (1972); Dell’elmo di Scipio Marsilio 1974 – Premio Pisa); I ratti d’Europa (Editori Riuniti, 1977 – finalista al Premio Strega); Mano di fragola (Editori Riuniti, 1979); Guerriero Cheyenne (Manni, 1987); Puzzle d’autunno (Camunia, 1989 – finalista al Premio Strega); L’ubicazione di Lhasa (Camunia, 1993); Mercato delle anime Manni, 1998) – Premio Bergamo); Penalty (Le Impronte degli Uccelli, Roma 1998); Montefolle (Manni-Quasar, 1999); Soltanto insonnia (Odradek, 2000); Cani abbandonati (Odradek, 2003); Figure lunari (Robin, 2004); I nomi della polvere (Manni, 2005); La notte gioca a dadi (Newton Compton, 2008).

Saggistica

La scrittura precaria (1972); Invito alla lettura di Italo Svevo (1972); Il Surrealismo (1976); Sintassi dell’altrove (1978); L’aringa nel salotto (1984); Da Lemberg a Cracovia (1984); Et dona ferentes: sindromi del moderno nella poesia italiana da Leopardi a Pagliarani (1996); Le dimore di Narciso (1997); Invasione di campo: progetti, rifiuti, utopie (2002); Liber Veritatis (2007).
Teatro
La visitatrice della sera (Radiodramma – Radio Frankfurt); Galateo (Teatro delle Voci); Città proibita (Teatro del Palazzo delle Esposizioni di Roma); Antartide (Teatro Belli di Roma); Gigantografia (Festival Internazionale di Ferentino), Coca-Cola di Rienzo Story (Teatro dell’Orologio); Altorilievo, Poema drammatico (Museo Archeologico di Formia); Arkadia nonsense e Smash (Giugno al Casaletto – Villa Zingone); La forma dell’Italia (Atelier Metateatro); Lunapark (Chiostro di San Pietro in Vincoli).
In volume: Coca-Cola di Rienzo Story Book Editore); La mela avvelenata (Cinque dialoghetti blasfemi); Prigioniero politico! (“Le Impronte degli Uccelli” Editrice).

10 commenti

Archiviato in critica dell'estetica, critica della poesia, Senza categoria

Francesco Destro, Due poesie più altre inedite – Con una Lettera di intenti

 

Man Ray devant un portrait de Kiki des années 1930 - 1954 /Michel Sima /sc

Man Ray, In front of Kiki de Montparnasse

Francesco Destro è nato a Padova nel 1994. Studente di Lettere Moderne, nel 2016 ha pubblicato la raccolta Così dolce la sera (Eretica Edizioni) con la prefazione di Alessandro Quasimodo. La sua seconda raccolta, Humanum est, è in attesa di pubblicazione. 

Lettera di intenti

… ho pensato di proporvi queste due poesie che, in un certo senso, sono due facce della stessa medaglia. La prima, Pollicem vertere, è nata due mesi fa come riflessione in seguito alla petizione per rimuovere il quadro Therèse dreaming di Balthus da un museo di NY. Appresa la notizia, ho pensato all’ennesimo caso di rifiuto di considerare qualsiasi espressione artistica come qualcosa che vada continuamente decifrato, preferendo un’idea di arte come semplice intrattenimento dei sensi o vuoto formalismo.

La seconda, Conforme agli standard, è nata invece da un senso di avvilimento dopo l’ennesima spettacolarizzazione e mercificazione della violenza, visto che più testate giornalistiche hanno condiviso il video (non necessario, quantomeno a mio avviso) della donna gettata sui binari, desolante e recente fatto di cronaca. Da qui, ho pensato a quell’essere sempre pronti a filmare o fotografare, ma soprattutto all’ipocrisia di certe persone, a quel condannare il “puramente possibile” (riferimento a Croce e alla sua idea di arte) e all’assurdità di certi “standard della comunità” virtuali e non, come pure all’idea di osceno e a come il popolo ami contraddirsi, imbrogliarsi da sé (pasolinianamente parlando, “er popolo è sempre colpevole” ).

Nei giorni della tentata censura, nei cinema usciva con successo il film su Egon Schiele, cosa che ha rafforzato la mia idea di ipocrisia e di contraddizione (chiaramente, non pretendendo sia un fattore immancabile ed universale).

Scherzosamente, se mi capita di parlare di poesia sostengo che ogniqualvolta si legge una composizione ci si trova di fatto nella condizione di pagare (in tempo, in denaro o in entrambi) per leggere le ‘paturnie’ di qualcun altro. Ebbene, quand’è che questa spesa si rivela proficua?
Arthur Schnitzler scrisse che degli aforismi per primi ci annotiamo quelli che ci danno conferma di ciò che abbiamo pensato o avvertito (in altre parole, che ci danno ragione). Per moltissime poesie il meccanismo è lo stesso: nei versi si cerca traccia di un riscontro, di una consolazione, di un reciproco vissuto. Il poeta, offrendo il suo tentativo di esprimere quell’inesprimibile di cui l’uomo non ha che vaga percezione, dona parole in cui il lettore trova riparo e che solo leggendo comprende di aver già dentro sé.
Tuttavia, pienamente consapevole che la Poesia non esaurisce in questo il suo compito, ritengo che nelle sue plurime manifestazioni dovrebbe continuare ad essere in grado anche di provocare, di sollecitare, di instillare un dubbio, così da andare oltre il genere dominante della poesia-confessione e quel tentare di ridurre la poesia a semplice intrattenimento dei sensi o vuoto formalismo (come l’Arte in generale, mi sembra; significativi sono i recenti tentativi di censura ‘collettiva’ di quadri sulla spinta del politicamente corretto e del progressismo più becero e ignorante).
Da qui si sviluppa la mia ricerca poetica. Nell’assiduo confronto con il nostro Zeitgeist rivendico, quantomeno personalmente, la necessità di una poesia non ermetica, inutilmente autoreferenziale o vuoto esercizio stilistico (seppur mi capiti di negare coi fatti queste due ultime intenzioni), fondata sull’esigenza di apparire e di piacere, di far vedere che (questo soprattutto pensando alla mia generazione, troppo spesso costantemente focalizzata su temi amorosi, mal di schiena e uccellini che fastidiosi cantano di prima mattina e banalizzati anche solo per la resa espressiva).

Seppur avverta anch’io una certa sfiducia nelle parole e sia nutrito dall’impressione di vivere in un oggi in cui più che mai si è fiacchi liberti di una fiacca età (lontane ma profetiche, queste parole di Ada Negri), con tutta la mia inesperienza cerco di restare il più possibile coerente con una responsabilità etica della scrittura che non sia, come più volte espresso fra queste pagine, “un’innocua contemplazione del mostro del Moderno”, cercando inoltre di non arrendermi a quel “raffreddamento delle parole” (fenomeno della “nuova ontologia estetica” qui ampiamente descritto) trovando un compromesso fra la prosaicità e il recupero di parole alte, poetiche o inconsuete nel tentativo di coinvolgere, anche ironicamente, il lettore in questo sforzo (penso a una poesia in cui invito chi legge ad armarsi di vocabolario prima di continuare nella lettura).

In altre parole, tendo a ricercare sì una condivisione di sentimenti ed impressioni (interrogandoci, perché umani, sull’amore, sul rapporto con sé stessi, con e tra gli altri) ma anche un’invito alla riflessione senza avere la pretesa di fornire risposte (in questo, probabilmente acquisisce un senso il mio uso ricorrente di punti di domanda, del forse e del condizionale).
Credo infatti in quella poesia che è un’avida supplica al mondo e a sé stessi di farsi comprendere e raccontare (o meglio, narrare); in quella poesia capace di spezzare l’inanellarsi di banalità e ripetizioni (o dissimularvisi per distruggerla dall’interno) e che spinge per far uscire la figura del poeta dal ruolo marginale cui è stato (o si è?) confinato, guardando con nuova volontà (ma senza cadere in ulteriori epigonismi) al ‘poeta giullare e ribelle’ e condannando il ‘poeta saltimbanco’ che non pone serietà e responsabilità nel proprio lavoro. In tutto questo, ecco il mio scrivere poesie perché non riesco a farne a meno, e non perché immagino siano gli altri a non poter farne a meno. Cercando, fra mille personali contraddizioni, di evitare che ciò che scrivo non sia che un guazzabuglio di parole, e nulla più.

Foto Man Ray to the selfie generation

Man Ray, to the selfie generation

Dittico

Pollicem vertere

“La pornografia è una forma d’arte decaduta”
(Philip Roth, L’animale morente)

Non lo toglieranno, alla fine:
il pollice verso stavolta
non ha sortito effetto.
Resterà lì, smacco in olio su tela,
dimostrazione in cornice
che in fondo è cosa vera,
la fallibilità di certe petizioni. Continua a leggere

15 commenti

Archiviato in poesia italiana contemporanea, Senza categoria

Donatella Costantina Giancaspero LA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA – DUE POESIE con una riflessione di Gianfranco Bertagni: Per un’etica del pudore – e un Appunto impolitico di Giorgio Linguaglossa

Gif scale e donna

Lontano da qui, / dove s’ingorga la vita, vanno abiti / privi di corpi…

 Donatella Costantina Giancaspero vive a Roma, sua città natale. Ha compiuto studi classici e musicali, conseguendo il Diploma di Pianoforte e il Compimento Inferiore di Composizione. Collaboratrice editoriale, organizza e partecipa a eventi poetico-musicali. Suoi testi sono presenti in varie antologie. Nel 1998, esce la sua prima raccolta, Ritagli di carta e cielo, (Edizioni d’arte Il Bulino, Roma), a cui seguiranno altre pubblicazioni con grafiche d’autore, anche per la Collana Cinquantunosettanta di Enrico Pulsoni, per le Edizioni Pulcinoelefante e le Copertine di M.me Webb. Di recente pubblicazione è la silloge Ma da un presagio d’ali (La Vita Felice, 2015).

Appunto impolitico di Giorgio Linguaglossa

ernst-junger-oltre-la-linea“l’enigma non può essere sciolto con un atto di padronanza categoriale ma può solo essere percorso”

(Rovatti, 1992)

“L’io è letteralmente un oggetto – un oggetto che adempie a una certa funzione che chiamiamo funzione immaginaria” 

(Lacan, 1955)

L’Io, afferma Freud, è “innanzitutto un’entità corporea, non soltanto un’entità superficiale, ma anche la proiezione di una superficie ” 

(Freud, 1922)

Scrive Freud: “Vi prego di considerare […] che la coscienza si produce ogni volta che è data […] una superficie tale da poter produrre ciò che si chiama un’immagine”. Il punto zero dell’io è in quel punto in cui la superficie diventa immagine. Per Lacan «L’inconscio è quel capitolo della mia storia che è marcato da un bianco od occupato da una menzogna: è il capitolo censurato. Il soggetto così, dal punto di vista immaginario, si colloca nello iato, a cavallo fra l’immagine e il  corpo in frammenti»1]. Il punto zero del soggetto, il punto zero del «dovere» è il non dovere niente a nessuno, essere libero di non «dovere», essere esentato da debiti e da crediti, da doveri e da poteri, innanzitutto dai Poteri del Linguaggio, rinunziare alla volontà di potenza di chi crede di essere «padrone in casa propria» (Mandel’stam). Ma siamo davvero sicuri di essere padroni in casa propria? Siamo sicuri che la via verso l’autenticità sia la «padronanza» o il «padroneggiamento» delle parole e degli oggetti?- Ma, se io sono «padrone» delle parole, quelle parole saranno soltanto mie? Le posso reclamare come di mia proprietà? Ecco che si vede chiaramente come questa sia la vera follia, quella di dichiararsi «padrone» delle «parole», di reclamare implicitamente la sudditanza dei sudditi i quali devono accedere alla Potenza della mia parola farisaica, farisaica perché proviene da un «atto di proprietà», come se l’io, il soggetto potessero davvero essere padroni di una parola! Farsesca cogitazione di ombre!!! È qui che si denota la follia di questa volontà di potenza di chi crede di operare in nome della parola, fratellino minore del dio biblico, della vendetta e della Potenza!

La poesia della Giancaspero ha questo di buono: ha questa particolare fraganza e flagranza della inappartenenza della parola: che ha rinunciato una volta per tutte alla Potenza detonante della «Parola»; che ad ogni rigo ti trovi davanti alla problematica del «dubbio» se oltrepassare il «confine», la «soglia», il «limite», il «limen»… in fin dei conti, la poesia ci deve richiamare ogni momento al senso della misura delle «cose», alla nostra (della poesia) estrema prossimità con l’indicibile e l’ineffabile, con il limite e con la soglia. E con l’ombra.

L’atteggiamento poetico della Giancaspero è quello di sostare presso qualcuno, qualcosa, un divisorio, una soglia, un limite temporale e/o spaziale, un esitare, un arretrare trattenuti da un pudore che impedisce di sentirsi pienamente padroni in casa propria; questo senso timoroso di aver incontrato l’Estraneo, di averlo frequentato per lunghissimi anni senza avvedersene, senza averlo potuto riconoscere; di aver perduto una casa propria con la conseguente angoscia di non poterla più ritrovare, di non riconoscere più il vasellame, le suppellettili di casa propria, con il conseguente senso di spaesamento, di coabitazione spaesante con il proprio «io», di essere stati con se stessi ma lontano da se stessi, di aver detto addio all’addio, e di aver prorogato l’addio fino al punto estremo del «limite», fino alla cognizione del dolore…

 1] J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio, in Scritti, cit. p. 152

1] Risvolto di copertina di Oltre la linea, Adelphi
Nel 1950, in occasione del sessantesimo compleanno di Martin Heidegger, Ernst Jünger pubblicò il saggio Oltre la linea, dedicato al tema che attraversa come una crepa non solo tutta la sua opera, ma quella di Heidegger e tutto il nostro tempo: il nichilismo. Questa parola era stata evocata da Nietzsche, come se in essa si preannunciasse un «contromovimento», un al di là del nichilismo. Dopo che la storia ha «riempito di sostanza, di vita vissuta, di azioni e di dolori» le divinazioni di Nietzsche, Jünger si domanda in questo saggio, che rimane uno dei suoi testi essenziali, se è possibile «l’attraversamento della linea, il passaggio del punto zero» che è segnato dalla parola niente. E precisa: «Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente e non ne ha subìto la tentazione conosce ben poco la nostra epoca». Cinque anni dopo, Heidegger raccolse la sfida e rispose a Jünger con un testo che è anch’esso essenziale nella sua opera: La questione dell’essere.
Qui pubblicati insieme per la prima volta, questi saggi si presentano, oggi non meno di allora, come un dialogo teso all’estremo, dove risuonano al tempo stesso l’opposizione e l’affinità, e insieme come una doppia risposta a quel fantasma che Nietzsche definì «il più inquietante fra tutti gli ospiti»: il nichilismo.

Si fa respiro il pianto

Contro i muri la resa dell’estate.
Batte in petto un tempo lento.
Il pianto reiterato della tortora sale
dalla grondaia al sonno d’alba.
Si fa respiro la stanza che rischiara
attutita di sogni.

(Inedito)

È domani

Eppure è già domani
a quest’ora fonda della notte,
quando nei condomini
i muri, che separano vita
da vita, hanno spessori
di silenzio
e dalle strade il buio
rimanda rare sirene,
eco sorda di macchine.
S’impiombano attoniti,
nel vuoto, i binari
della metro di superficie.

È domani
e non vale la veglia ostinata,
non servono i rituali del fare
a prolungare l’oggi.
Questo domani,
questo tempo muto, scattato
da una combinazione di lancette,
cielo acerbo, sospeso
sulla zona franca del sonno,
dove, ignoti, già tanti destini
si compiono,
questo è l’oggi.

Tra poco, la notte sbiadirà
in un brusio di appannati risvegli
e frulli, alle finestre, cinguettii,
di luce in luce più canori,
fino al sole pieno,
puntato sulla città.
E sarà azzurro,
azzurro estremo, impietoso,
nel suo occhio fermo,
astratto dagli occhi,
dissuasi, volti altrove;

perché altrove li volge
questo Tempo acuminato,
dov’è vita ferita che dispera la vita,
nei quotidiani martìri,
nelle morti suicide per dignità negata,
nelle stragi, ai tribolati confini,
dove affonda il cuore

e la notte
di un altro domani.1]

Il libro di Pier Aldo Rovatti, Abitare la distanza (2007) è una indagine sulla nostra condizione esistentiva, caratterizzata dal paradosso: siamo dentro e fuori, vicini e lontani, abbiamo bisogno di un luogo, di una casa dove «stare», ma poi, quando cerchiamo questo luogo, scopriamo il fuori, la distanza, l’alterità. Nello scenario del pensiero contemporaneo, il filosofo interroga i pensatori che guardano in questa stessa direzione – Heidegger, Derrida, Lacan, ma anche Merleau-Ponty, Ricoeur, Bateson –, non solo descrivendo una condizione «impossibile» ma soprattutto indicando un modo, un atteggiamento, un “come” stare nel paradosso.
La poesia di Donatella Costantina Giancaspero è una indagine, fatta con i mezzi della poesia, sulla condizione esistentiva dell’uomo, sul paradosso della condizione umana: siamo dentro e/o fuori? Siamo vicini e/o lontani? Stiamo in un luogo? O abitiamo luoghi diversi? Siamo nella distanza? Siamo nell’Altro o fuori dell’Altro? Siamo nel pieno e/o nel vuoto? Ma davvero cerchiamo una «casa»? O cerchiamo qualcosa d’altro che non possiamo confessare? –

La poesia dell’autrice romana punta ad un punto essenziale: il mistero fitto dell’esistenza, sul tragitto che ci conduce continuamente fuori luogo, perché soltanto il fuori luogo ci dà la nitida cognizione del luogo cui aneliamo, e questo fuori luogo è la distanza che ci separa e ci unisce all’Altro. Il fuori luogo, dunque, è costitutivo all’esserci, è la sua dimensione più propria.

La poesia «È domani» è forse la più emblematica del libro, la più misteriosa, per quella individuazione che ha del rabdomantico del «paradosso» rovattiano: l’essere oggi già domani, l’anticipazione del tempo (vissuto e non vissuto) «a quest’ora fonda della notte». Dunque, è «la notte» la situazione esistentiva che consente il disvelamento del «paradosso». La «notte» e il «tempo» costituiscono le due metafore guida della composizione e della poesia gigancasperiana in genere, e sono anche le chiavi interpretative della condizione esistentiva dell’uomo contemporaneo. Riproporre alla lettura la poesia «È domani» voleva avere il significato di una rilettura più ponderata di questa poesia, perché qui c’è una indagine significativa sulla condizione esistentiva dell’esserci. La poesia giancasperiana gira sempre intorno al «paradosso dell’esistenza», ossessivamente, con tutte le sue forze, vorrebbe rischiarare questo punto, questa «zona d’ombra» che contraddistingue la nostra condizione esistenziale:

Lontano da qui,
dove s’ingorga la vita, vanno abiti
privi di corpi…

*

Dentro una zona d’ombra…

*

Un abito interiore

*
Ben vengano, dunque, le riflessioni degli autori sulla propria poesia, perché aiutano l’interprete a capire…

Oggi, per scrivere poesia veramente «moderna» bisognerebbe porsi in ascolto di ciò che noi siamo diventati dopo la fine del modernismo. Forse, la crisi economica che da diversi anni sta sconvolgendo le economie occidentali ci induce a riflettere sugli esiti indotti dalla crescita economica dei decenni trascorsi, su quella bolla speculativa che ha contaminato anche l’esistenza di milioni di individui. La risposta a questa crisi la poesia la deve e la può dare con i mezzi della poesia, non ricorrendo a stentorei squilli di tromba… l’epoca delle avanguardie è finita da cento anni almeno, bisognerebbe prenderne atto.

Oggi che il modernismo si è esaurito, è chiaro che non si può procedere oltre di esso senza avere chiaro il quadro di riferimento storico e ideologico che aveva costituito le basi del modernismo. Il modernismo, che era il prodotto del mondo occidentale in disfacimento che aveva condotto alle tre guerre mondiali, oggi ha più che mai voce in capitolo dato che siamo entrati nella IV guerra mondiale in uno stato di belligeranza diffusa e di apparente normalità. Nelle città dell’Europa occidentale si vive in uno stato di apparente tranquillità, ma la minaccia è ovunque. Ben venga dunque una poesia della normalità apparente come questa della Giancaspero, che ha consapevolezza che quella normalità è finta, fittizia, prodotto di una illusione ottica.

 

gif-lago-al-tramonto

Dentro una zona d’ombra…
*
Un abito interiore

Scrive Gianfranco Bertagni:  

PER UN’ETICA DEL PUDORE

Le verità convergono tutte verso una sola verità, ma i sentieri sono interrotti.

Nietzsche

 Che cosa succede quando tutti i limiti su cui crediamo di basare la nostra esistenza si fanno sfumati, quando ci accorgiamo che non c’è un confine ben determinato a dividere il possibile dall’impossibile, la paura dal desiderio, il soggetto dall’oggetto, l’amore dall’odio, il pensiero dalla realtà?

Tentiamo continuamente di “controllare” e di esaurire il territorio con le nostre mappe ma nel farlo ci rendiamo conto di essere giocati, di non fare altro che progettarci nell’impossibilità. O peggio, quando durante il nostro tentativo viene a galla una qualche eccedenza, continuiamo ad illuderci di possedere, padroneggiare ciò che rincorriamo, riducendo costantemente ciò che incontriamo alle nostre mappe fino al limite estremo di costringere anche noi stessi al loro interno. Tendiamo a confinarci in quella che Heidegger chiama l’ “estasi dell’oblio”, progettando il padroneggiamento assoluto della coscienza su tutto, come fosse il bene supremo, la condizione indispensabile del benessere. Per non correre il rischio di inabissarci in ciò che non sappiamo, tentiamo di costruire un uomo senz’ombra.

Ma se tale progetto fosse condotto a termine come potrebbe un uomo ormai completo (saturo) progettarsi ancora? Come potrebbe desiderare?

Che ne sarebbe poi di quest’ombra alla quale non viene più riconosciuto diritto d’ombra? Che ne sarebbe del simbolo come tramite fra la luce e l’ombra?

Se si pensa l’ombra (l’irrappresentabile, l’eccedenza) come costitutiva dell’uomo, come condizione di possibilità della luce, la sua esclusione o meglio, il tentativo di esclusione diventerebbe estremamente pericoloso. Era Jung ad affermare che “l’ombra se non viene riconosciuta come tale, finisce per agire come un demone onnipotente” (citato in Rovatti, 1992, ediz. 2004, p.47).

La psicologia stessa tende a condannare come male la perdita di sé e a considerare come bene un accrescimento spropositato dell’io. Ma paradossalmente si giunge così ad una condizione, dove per paura di “morire”, di essere risucchiati dall’indicibile, si accetta di non vivere, ci si preclude quella mancanza che sola genera il movimento. Si tratta allora di preservare, di riconoscere ciò che Jung chiama il demone, senza cercar di eliminarlo. Si tratta al contempo di esser consapevoli che un tale riconoscimento non richiede possesso ma umiltà, prudenza, pudore.

[…]

Rovatti (1992) parla di responsabilità dell’atto fenomenologico, responsabilità che risiede proprio in questo procedere al contrario rispetto all’affermazione di un soggetto-padrone. Si tratta anche in questo caso di pudore e di esposizione al rischio che accomunano, secondo Rovatti, sia l’epochè di cui parla Husserl sia il rivolgimento del pensiero di cui parla Heidegger. Si tratta del trattenersi del pensatore di fronte alla pretesa di dire propria della filosofia, nella consapevolezza che “l’enigma non può essere sciolto con un atto di padronanza categoriale ma può solo essere percorso” (Rovatti, 1992, p.81).

Nelle riflessioni successive ad “Essere e Tempo”, per Heidegger, il ritrarsi avrà sempre più a che fare con il linguaggio, con uno sprofondare del linguaggio in se stesso verso la sua propria originarietà, verso la parola poetica. Parola capace di scavare un vuoto e di rompere la pienezza del dire.

gif-maniglia

Contro i muri la resa dell’estate.
Batte in petto un tempo lento

Rovatti propone, rifacendosi a Jabès, di prendere atto dello Straniero che è in noi (come il non padroneggiabile) e di tentare di diventare questo Straniero, di farci guidare dall’ombra piuttosto che dalla luce, attraverso un esercizio di passività che infondo è attività e responsabilità e tramite il quale è possibile arricchire il nostro essere soggetti. Questo Straniero facendo esplodere la nostra illusione di padronanza ci costringe, se vogliamo inseguirlo, al pudore e al silenzio. Ci insegna dunque, qualora vogliamo ascoltarlo, a tacere, ad aprire la parola e a poter così rispondere “del nulla che noi siamo per noi stessi” (Rovatti, 1992, p.101). L’ideale sarebbe lasciare che questo silenzio porti noi e l’altro in un zona di sospensione dove è possibile un dialogo che procede unendo e dissolvendo, in un gioco senza fine.

D’altra parte è soltanto in questa zona di sospensione, di incertezza estrema (raggiungibile) procedendo in un pensiero che ha a che fare con i limiti, i confini) che secondo Derrida (1995) è possibile l’accadere di qualcosa, come il mostrarsi di un “arrivante”, di ciò che eccede ogni possibilità di determinazione.

Ma c’è chi non si vuole arrendere a questa passività che infondo è attività e cerca, per dirla con Derrida, di procedere “oltre i limiti della verità”, oltre “la linea” di cui parla Heidegger (1955) in risposta ad un saggio intitolato “Oltre la linea” (1955).

L’essenza del nichilismo (considerato come condizione normale dell’uomo) di cui trattano il saggio Oltre la linea e la risposta allo stesso, sta proprio nella dimenticanza dell’essere, nella totale eliminazione dell’ombra di cui si parlava all’inizio. Ma, secondo Heidegger, non bisogna desiderare un oltrepassamento del nichilismo, pena il ricadere nella stessa fuga che ha portato alla dimenticanza (soprattutto considerato che i tentativi di oltrepassamento vorrebbero oltrepassare senza modificare il linguaggio) piuttosto, si deve tendere ad un raccoglimento nella suddetta essenza. Essenza né guaribile né inguaribile ma “senza salvezza”e proprio in quanto tale, dice Heidegger, gravida di “un rimando a ciò che è sano e salvo” (ivi, p.113). L’ oltrepassamento si fa infatti problematico nel momento in cui la linea che segna il bordo è messa in pericolo. Ma, dice Derrida, “essa si trova in pericolo sin dal suo primo tracciato, che può istituirla solo dividendola intrinsecamente in due bordi”, e questa divisione intrinseca “divide il rapporto con sé del confine e dunque l’essere se stessa, l’identità o l’ipseità di ogni cosa” (Derrida, 1995, p.11).

Essere presso di sé, o inseguire lo Straniero di cui stavamo parlando, diventa allora possibile solo come attendersi, come sporgersi verso questo confine che non possiamo determinare e che non possiamo superare (confine che si dà in modo privilegiato nella morte, nel pensiero della morte).

Non resta dunque che sopportare l’ “aporia” in cui getta un tale pensiero, “aporia” come impossibilità di passare, come possibilità dell’impossibilità, come qualcosa di molto simile alla “morte” di cui parla Heidegger. Il pensiero conforme all’aporia è un pensiero che non sa più dove andare, afferma Derrida, ma che sa dove sostare. Sosta appunto davanti “a una porta, a una soglia, a un confine, a una linea, o semplicemente al bordo o all’abbordo dell’altro come tale” (ibid, p.12) ed è così che, mentre cerca di oltrepassarlo, il confine lo cattura. La sopportazione (non passiva) dell’aporia sembra essere inoltre “condizione della responsabilità e della decisione”(ivi, p.15).

Nella misura in cui è sopportata, l’aporia è infatti un esperienza interminabile, nella quale si ha a che fare con un dovere che non deve niente, “che per essere un dovere deve non dovere niente” (ivi, p.16), un super dovere insomma, che ordina di agire senza regole e senza norme. Se è vero che una decisione davvero responsabile non deve rispondere ad un qualche ordine prestabilito, ad un sapere presentabile, prendere una decisione di questo tipo significa interrompere il rapporto con ogni determinazione presentabile ma mantenere invece il rapporto con l’interruzione, dove l’interruzione somiglia alla soglia, alla linea da non superare di cui stiamo parlando.

Ritornando al pudore, sia per Junger (autore del saggio) che per Heidegger “il capolavoro della ragione sta nel riconoscere il punto in cui bisogna cessare di ragionare” (Volpi, 1989, p.36) e, i tentativi di oltrepassare la linea che non restano invischiati nella stessa (come abbiamo visto sopra) sono ancora, secondo Heidegger, “in balia di un rappresentare che appartiene all’ambito in cui domina la dimenticanza dell’essere” (1955, trad.it., p.161). Sarebbe quindi bene non parlare di “oltre” la linea ma di “su” la linea, per indicare il raccogliersi presso questa località senza deviare né passare oltre ma sostando e sollevando l’enigmaticità dell’ovvio. E’ poi vero che più ci avviciniamo alla linea più questa si dissolve e con essa l’eventuale tentativo di andare oltre.

Serve dunque una ricerca adeguata per procedere verso il “dimenticato”, ricerca che si attua in un raccoglimento, in un ritorno verso località originarie dove viene chiamato il pensiero che diventa così “rammemorante”.

Una ricerca di questo tipo va esercitata innanzi tutto a partire dal linguaggio. Infondo nel nostro stesso dire “io” ricorriamo a un linguaggio, dipendiamo dal sistema delle parole, dalle loro leggi. E’ immediato quindi che il tentativo di appropriazione diventa costantemente una “distanziazione”, la continua riscoperta della distanza. Questa stessa “distanziazione” è però sempre un modo di approssimarsi, una ricerca di prossimità (Rovatti, 1998, p.22).

da http://www.inprimapersona.it

Il fatto che la scrittura sia radicalmente seconda, ripetizione della lettera, e non voce originaria che accade in prossimità del senso, occultamento dell’origine più che suo svelamento, innesta costitutivamente nella sua struttura di significazione la differenza, la negatività e la morte; d’altra parte solo quest’assenza apre lo spazio alla libertà del poeta, alla possibilità di un’operazione di inscrizione e di interrogazione che deve «assumere le parole su di sé» e affidarsi al movimento delle tracce, trasformandolo «nell’uomo che scruta perché non si riesce più ad udire la voce nell’immediata vicinanza del giardino». Perduta la speranza di un’esperienza immediata della verità, il poeta si deve affidare al lavoro «fuori del giardino», alla traversata infinita in un deserto senza strade prefissate, senza un fine prestabilito, la cui unica eventualità è la possibilità di scorgere miraggi. Partecipe di un movimento animato da un’assenza, il poeta non solo si troverà così a scrivere in un’assenza, ma a diventare soggetto all’assenza, che «tenta di produrre se stessa nel libro e si perde dicendosi; essa sa di perdersi e di essere perduta e in questa misura resta intatta e inaccessibile». Assenza di luogo quindi, e, soprattutto, assenza dello scrittore. Per Derrida «Scrivere, significa ritrarsi… dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola… lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto».

donatella-giancaspero

Costantina Donatella Giancaspero

22 commenti

Archiviato in critica della poesia, filosofia, poesia italiana contemporanea, Senza categoria