
Lontano da qui, / dove s’ingorga la vita, vanno abiti / privi di corpi…
Donatella Costantina Giancaspero vive a Roma, sua città natale. Ha compiuto studi classici e musicali, conseguendo il Diploma di Pianoforte e il Compimento Inferiore di Composizione. Collaboratrice editoriale, organizza e partecipa a eventi poetico-musicali. Suoi testi sono presenti in varie antologie. Nel 1998, esce la sua prima raccolta, Ritagli di carta e cielo, (Edizioni d’arte Il Bulino, Roma), a cui seguiranno altre pubblicazioni con grafiche d’autore, anche per la Collana Cinquantunosettanta di Enrico Pulsoni, per le Edizioni Pulcinoelefante e le Copertine di M.me Webb. Di recente pubblicazione è la silloge Ma da un presagio d’ali (La Vita Felice, 2015).
Appunto impolitico di Giorgio Linguaglossa
“l’enigma non può essere sciolto con un atto di padronanza categoriale ma può solo essere percorso”
(Rovatti, 1992)
“L’io è letteralmente un oggetto – un oggetto che adempie a una certa funzione che chiamiamo funzione immaginaria”
(Lacan, 1955)
L’Io, afferma Freud, è “innanzitutto un’entità corporea, non soltanto un’entità superficiale, ma anche la proiezione di una superficie ”
(Freud, 1922)
Scrive Freud: “Vi prego di considerare […] che la coscienza si produce ogni volta che è data […] una superficie tale da poter produrre ciò che si chiama un’immagine”. Il punto zero dell’io è in quel punto in cui la superficie diventa immagine. Per Lacan «L’inconscio è quel capitolo della mia storia che è marcato da un bianco od occupato da una menzogna: è il capitolo censurato. Il soggetto così, dal punto di vista immaginario, si colloca nello iato, a cavallo fra l’immagine e il corpo in frammenti»1]. Il punto zero del soggetto, il punto zero del «dovere» è il non dovere niente a nessuno, essere libero di non «dovere», essere esentato da debiti e da crediti, da doveri e da poteri, innanzitutto dai Poteri del Linguaggio, rinunziare alla volontà di potenza di chi crede di essere «padrone in casa propria» (Mandel’stam). Ma siamo davvero sicuri di essere padroni in casa propria? Siamo sicuri che la via verso l’autenticità sia la «padronanza» o il «padroneggiamento» delle parole e degli oggetti?- Ma, se io sono «padrone» delle parole, quelle parole saranno soltanto mie? Le posso reclamare come di mia proprietà? Ecco che si vede chiaramente come questa sia la vera follia, quella di dichiararsi «padrone» delle «parole», di reclamare implicitamente la sudditanza dei sudditi i quali devono accedere alla Potenza della mia parola farisaica, farisaica perché proviene da un «atto di proprietà», come se l’io, il soggetto potessero davvero essere padroni di una parola! Farsesca cogitazione di ombre!!! È qui che si denota la follia di questa volontà di potenza di chi crede di operare in nome della parola, fratellino minore del dio biblico, della vendetta e della Potenza!
La poesia della Giancaspero ha questo di buono: ha questa particolare fraganza e flagranza della inappartenenza della parola: che ha rinunciato una volta per tutte alla Potenza detonante della «Parola»; che ad ogni rigo ti trovi davanti alla problematica del «dubbio» se oltrepassare il «confine», la «soglia», il «limite», il «limen»… in fin dei conti, la poesia ci deve richiamare ogni momento al senso della misura delle «cose», alla nostra (della poesia) estrema prossimità con l’indicibile e l’ineffabile, con il limite e con la soglia. E con l’ombra.
L’atteggiamento poetico della Giancaspero è quello di sostare presso qualcuno, qualcosa, un divisorio, una soglia, un limite temporale e/o spaziale, un esitare, un arretrare trattenuti da un pudore che impedisce di sentirsi pienamente padroni in casa propria; questo senso timoroso di aver incontrato l’Estraneo, di averlo frequentato per lunghissimi anni senza avvedersene, senza averlo potuto riconoscere; di aver perduto una casa propria con la conseguente angoscia di non poterla più ritrovare, di non riconoscere più il vasellame, le suppellettili di casa propria, con il conseguente senso di spaesamento, di coabitazione spaesante con il proprio «io», di essere stati con se stessi ma lontano da se stessi, di aver detto addio all’addio, e di aver prorogato l’addio fino al punto estremo del «limite», fino alla cognizione del dolore…
1] J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio, in Scritti, cit. p. 152
1] Risvolto di copertina di Oltre la linea, Adelphi
Nel 1950, in occasione del sessantesimo compleanno di Martin Heidegger, Ernst Jünger pubblicò il saggio Oltre la linea, dedicato al tema che attraversa come una crepa non solo tutta la sua opera, ma quella di Heidegger e tutto il nostro tempo: il nichilismo. Questa parola era stata evocata da Nietzsche, come se in essa si preannunciasse un «contromovimento», un al di là del nichilismo. Dopo che la storia ha «riempito di sostanza, di vita vissuta, di azioni e di dolori» le divinazioni di Nietzsche, Jünger si domanda in questo saggio, che rimane uno dei suoi testi essenziali, se è possibile «l’attraversamento della linea, il passaggio del punto zero» che è segnato dalla parola niente. E precisa: «Chi non ha sperimentato su di sé l’enorme potenza del niente e non ne ha subìto la tentazione conosce ben poco la nostra epoca». Cinque anni dopo, Heidegger raccolse la sfida e rispose a Jünger con un testo che è anch’esso essenziale nella sua opera: La questione dell’essere.
Qui pubblicati insieme per la prima volta, questi saggi si presentano, oggi non meno di allora, come un dialogo teso all’estremo, dove risuonano al tempo stesso l’opposizione e l’affinità, e insieme come una doppia risposta a quel fantasma che Nietzsche definì «il più inquietante fra tutti gli ospiti»: il nichilismo.
Si fa respiro il pianto
Contro i muri la resa dell’estate.
Batte in petto un tempo lento.
Il pianto reiterato della tortora sale
dalla grondaia al sonno d’alba.
Si fa respiro la stanza che rischiara
attutita di sogni.
(Inedito)
È domani
Eppure è già domani
a quest’ora fonda della notte,
quando nei condomini
i muri, che separano vita
da vita, hanno spessori
di silenzio
e dalle strade il buio
rimanda rare sirene,
eco sorda di macchine.
S’impiombano attoniti,
nel vuoto, i binari
della metro di superficie.
È domani
e non vale la veglia ostinata,
non servono i rituali del fare
a prolungare l’oggi.
Questo domani,
questo tempo muto, scattato
da una combinazione di lancette,
cielo acerbo, sospeso
sulla zona franca del sonno,
dove, ignoti, già tanti destini
si compiono,
questo è l’oggi.
Tra poco, la notte sbiadirà
in un brusio di appannati risvegli
e frulli, alle finestre, cinguettii,
di luce in luce più canori,
fino al sole pieno,
puntato sulla città.
E sarà azzurro,
azzurro estremo, impietoso,
nel suo occhio fermo,
astratto dagli occhi,
dissuasi, volti altrove;
perché altrove li volge
questo Tempo acuminato,
dov’è vita ferita che dispera la vita,
nei quotidiani martìri,
nelle morti suicide per dignità negata,
nelle stragi, ai tribolati confini,
dove affonda il cuore
e la notte
di un altro domani.1]
Il libro di Pier Aldo Rovatti, Abitare la distanza (2007) è una indagine sulla nostra condizione esistentiva, caratterizzata dal paradosso: siamo dentro e fuori, vicini e lontani, abbiamo bisogno di un luogo, di una casa dove «stare», ma poi, quando cerchiamo questo luogo, scopriamo il fuori, la distanza, l’alterità. Nello scenario del pensiero contemporaneo, il filosofo interroga i pensatori che guardano in questa stessa direzione – Heidegger, Derrida, Lacan, ma anche Merleau-Ponty, Ricoeur, Bateson –, non solo descrivendo una condizione «impossibile» ma soprattutto indicando un modo, un atteggiamento, un “come” stare nel paradosso.
La poesia di Donatella Costantina Giancaspero è una indagine, fatta con i mezzi della poesia, sulla condizione esistentiva dell’uomo, sul paradosso della condizione umana: siamo dentro e/o fuori? Siamo vicini e/o lontani? Stiamo in un luogo? O abitiamo luoghi diversi? Siamo nella distanza? Siamo nell’Altro o fuori dell’Altro? Siamo nel pieno e/o nel vuoto? Ma davvero cerchiamo una «casa»? O cerchiamo qualcosa d’altro che non possiamo confessare? –
La poesia dell’autrice romana punta ad un punto essenziale: il mistero fitto dell’esistenza, sul tragitto che ci conduce continuamente fuori luogo, perché soltanto il fuori luogo ci dà la nitida cognizione del luogo cui aneliamo, e questo fuori luogo è la distanza che ci separa e ci unisce all’Altro. Il fuori luogo, dunque, è costitutivo all’esserci, è la sua dimensione più propria.
La poesia «È domani» è forse la più emblematica del libro, la più misteriosa, per quella individuazione che ha del rabdomantico del «paradosso» rovattiano: l’essere oggi già domani, l’anticipazione del tempo (vissuto e non vissuto) «a quest’ora fonda della notte». Dunque, è «la notte» la situazione esistentiva che consente il disvelamento del «paradosso». La «notte» e il «tempo» costituiscono le due metafore guida della composizione e della poesia gigancasperiana in genere, e sono anche le chiavi interpretative della condizione esistentiva dell’uomo contemporaneo. Riproporre alla lettura la poesia «È domani» voleva avere il significato di una rilettura più ponderata di questa poesia, perché qui c’è una indagine significativa sulla condizione esistentiva dell’esserci. La poesia giancasperiana gira sempre intorno al «paradosso dell’esistenza», ossessivamente, con tutte le sue forze, vorrebbe rischiarare questo punto, questa «zona d’ombra» che contraddistingue la nostra condizione esistenziale:
Lontano da qui,
dove s’ingorga la vita, vanno abiti
privi di corpi…
*
Dentro una zona d’ombra…
*
Un abito interiore
*
Ben vengano, dunque, le riflessioni degli autori sulla propria poesia, perché aiutano l’interprete a capire…
Oggi, per scrivere poesia veramente «moderna» bisognerebbe porsi in ascolto di ciò che noi siamo diventati dopo la fine del modernismo. Forse, la crisi economica che da diversi anni sta sconvolgendo le economie occidentali ci induce a riflettere sugli esiti indotti dalla crescita economica dei decenni trascorsi, su quella bolla speculativa che ha contaminato anche l’esistenza di milioni di individui. La risposta a questa crisi la poesia la deve e la può dare con i mezzi della poesia, non ricorrendo a stentorei squilli di tromba… l’epoca delle avanguardie è finita da cento anni almeno, bisognerebbe prenderne atto.
Oggi che il modernismo si è esaurito, è chiaro che non si può procedere oltre di esso senza avere chiaro il quadro di riferimento storico e ideologico che aveva costituito le basi del modernismo. Il modernismo, che era il prodotto del mondo occidentale in disfacimento che aveva condotto alle tre guerre mondiali, oggi ha più che mai voce in capitolo dato che siamo entrati nella IV guerra mondiale in uno stato di belligeranza diffusa e di apparente normalità. Nelle città dell’Europa occidentale si vive in uno stato di apparente tranquillità, ma la minaccia è ovunque. Ben venga dunque una poesia della normalità apparente come questa della Giancaspero, che ha consapevolezza che quella normalità è finta, fittizia, prodotto di una illusione ottica.

Dentro una zona d’ombra…
*
Un abito interiore
Scrive Gianfranco Bertagni:
PER UN’ETICA DEL PUDORE
Le verità convergono tutte verso una sola verità, ma i sentieri sono interrotti.
Nietzsche
Che cosa succede quando tutti i limiti su cui crediamo di basare la nostra esistenza si fanno sfumati, quando ci accorgiamo che non c’è un confine ben determinato a dividere il possibile dall’impossibile, la paura dal desiderio, il soggetto dall’oggetto, l’amore dall’odio, il pensiero dalla realtà?
Tentiamo continuamente di “controllare” e di esaurire il territorio con le nostre mappe ma nel farlo ci rendiamo conto di essere giocati, di non fare altro che progettarci nell’impossibilità. O peggio, quando durante il nostro tentativo viene a galla una qualche eccedenza, continuiamo ad illuderci di possedere, padroneggiare ciò che rincorriamo, riducendo costantemente ciò che incontriamo alle nostre mappe fino al limite estremo di costringere anche noi stessi al loro interno. Tendiamo a confinarci in quella che Heidegger chiama l’ “estasi dell’oblio”, progettando il padroneggiamento assoluto della coscienza su tutto, come fosse il bene supremo, la condizione indispensabile del benessere. Per non correre il rischio di inabissarci in ciò che non sappiamo, tentiamo di costruire un uomo senz’ombra.
Ma se tale progetto fosse condotto a termine come potrebbe un uomo ormai completo (saturo) progettarsi ancora? Come potrebbe desiderare?
Che ne sarebbe poi di quest’ombra alla quale non viene più riconosciuto diritto d’ombra? Che ne sarebbe del simbolo come tramite fra la luce e l’ombra?
Se si pensa l’ombra (l’irrappresentabile, l’eccedenza) come costitutiva dell’uomo, come condizione di possibilità della luce, la sua esclusione o meglio, il tentativo di esclusione diventerebbe estremamente pericoloso. Era Jung ad affermare che “l’ombra se non viene riconosciuta come tale, finisce per agire come un demone onnipotente” (citato in Rovatti, 1992, ediz. 2004, p.47).
La psicologia stessa tende a condannare come male la perdita di sé e a considerare come bene un accrescimento spropositato dell’io. Ma paradossalmente si giunge così ad una condizione, dove per paura di “morire”, di essere risucchiati dall’indicibile, si accetta di non vivere, ci si preclude quella mancanza che sola genera il movimento. Si tratta allora di preservare, di riconoscere ciò che Jung chiama il demone, senza cercar di eliminarlo. Si tratta al contempo di esser consapevoli che un tale riconoscimento non richiede possesso ma umiltà, prudenza, pudore.
[…]
Rovatti (1992) parla di responsabilità dell’atto fenomenologico, responsabilità che risiede proprio in questo procedere al contrario rispetto all’affermazione di un soggetto-padrone. Si tratta anche in questo caso di pudore e di esposizione al rischio che accomunano, secondo Rovatti, sia l’epochè di cui parla Husserl sia il rivolgimento del pensiero di cui parla Heidegger. Si tratta del trattenersi del pensatore di fronte alla pretesa di dire propria della filosofia, nella consapevolezza che “l’enigma non può essere sciolto con un atto di padronanza categoriale ma può solo essere percorso” (Rovatti, 1992, p.81).
Nelle riflessioni successive ad “Essere e Tempo”, per Heidegger, il ritrarsi avrà sempre più a che fare con il linguaggio, con uno sprofondare del linguaggio in se stesso verso la sua propria originarietà, verso la parola poetica. Parola capace di scavare un vuoto e di rompere la pienezza del dire.

Contro i muri la resa dell’estate.
Batte in petto un tempo lento
Rovatti propone, rifacendosi a Jabès, di prendere atto dello Straniero che è in noi (come il non padroneggiabile) e di tentare di diventare questo Straniero, di farci guidare dall’ombra piuttosto che dalla luce, attraverso un esercizio di passività che infondo è attività e responsabilità e tramite il quale è possibile arricchire il nostro essere soggetti. Questo Straniero facendo esplodere la nostra illusione di padronanza ci costringe, se vogliamo inseguirlo, al pudore e al silenzio. Ci insegna dunque, qualora vogliamo ascoltarlo, a tacere, ad aprire la parola e a poter così rispondere “del nulla che noi siamo per noi stessi” (Rovatti, 1992, p.101). L’ideale sarebbe lasciare che questo silenzio porti noi e l’altro in un zona di sospensione dove è possibile un dialogo che procede unendo e dissolvendo, in un gioco senza fine.
D’altra parte è soltanto in questa zona di sospensione, di incertezza estrema (raggiungibile) procedendo in un pensiero che ha a che fare con i limiti, i confini) che secondo Derrida (1995) è possibile l’accadere di qualcosa, come il mostrarsi di un “arrivante”, di ciò che eccede ogni possibilità di determinazione.
Ma c’è chi non si vuole arrendere a questa passività che infondo è attività e cerca, per dirla con Derrida, di procedere “oltre i limiti della verità”, oltre “la linea” di cui parla Heidegger (1955) in risposta ad un saggio intitolato “Oltre la linea” (1955).
L’essenza del nichilismo (considerato come condizione normale dell’uomo) di cui trattano il saggio Oltre la linea e la risposta allo stesso, sta proprio nella dimenticanza dell’essere, nella totale eliminazione dell’ombra di cui si parlava all’inizio. Ma, secondo Heidegger, non bisogna desiderare un oltrepassamento del nichilismo, pena il ricadere nella stessa fuga che ha portato alla dimenticanza (soprattutto considerato che i tentativi di oltrepassamento vorrebbero oltrepassare senza modificare il linguaggio) piuttosto, si deve tendere ad un raccoglimento nella suddetta essenza. Essenza né guaribile né inguaribile ma “senza salvezza”e proprio in quanto tale, dice Heidegger, gravida di “un rimando a ciò che è sano e salvo” (ivi, p.113). L’ oltrepassamento si fa infatti problematico nel momento in cui la linea che segna il bordo è messa in pericolo. Ma, dice Derrida, “essa si trova in pericolo sin dal suo primo tracciato, che può istituirla solo dividendola intrinsecamente in due bordi”, e questa divisione intrinseca “divide il rapporto con sé del confine e dunque l’essere se stessa, l’identità o l’ipseità di ogni cosa” (Derrida, 1995, p.11).
Essere presso di sé, o inseguire lo Straniero di cui stavamo parlando, diventa allora possibile solo come attendersi, come sporgersi verso questo confine che non possiamo determinare e che non possiamo superare (confine che si dà in modo privilegiato nella morte, nel pensiero della morte).
Non resta dunque che sopportare l’ “aporia” in cui getta un tale pensiero, “aporia” come impossibilità di passare, come possibilità dell’impossibilità, come qualcosa di molto simile alla “morte” di cui parla Heidegger. Il pensiero conforme all’aporia è un pensiero che non sa più dove andare, afferma Derrida, ma che sa dove sostare. Sosta appunto davanti “a una porta, a una soglia, a un confine, a una linea, o semplicemente al bordo o all’abbordo dell’altro come tale” (ibid, p.12) ed è così che, mentre cerca di oltrepassarlo, il confine lo cattura. La sopportazione (non passiva) dell’aporia sembra essere inoltre “condizione della responsabilità e della decisione”(ivi, p.15).
Nella misura in cui è sopportata, l’aporia è infatti un esperienza interminabile, nella quale si ha a che fare con un dovere che non deve niente, “che per essere un dovere deve non dovere niente” (ivi, p.16), un super dovere insomma, che ordina di agire senza regole e senza norme. Se è vero che una decisione davvero responsabile non deve rispondere ad un qualche ordine prestabilito, ad un sapere presentabile, prendere una decisione di questo tipo significa interrompere il rapporto con ogni determinazione presentabile ma mantenere invece il rapporto con l’interruzione, dove l’interruzione somiglia alla soglia, alla linea da non superare di cui stiamo parlando.
Ritornando al pudore, sia per Junger (autore del saggio) che per Heidegger “il capolavoro della ragione sta nel riconoscere il punto in cui bisogna cessare di ragionare” (Volpi, 1989, p.36) e, i tentativi di oltrepassare la linea che non restano invischiati nella stessa (come abbiamo visto sopra) sono ancora, secondo Heidegger, “in balia di un rappresentare che appartiene all’ambito in cui domina la dimenticanza dell’essere” (1955, trad.it., p.161). Sarebbe quindi bene non parlare di “oltre” la linea ma di “su” la linea, per indicare il raccogliersi presso questa località senza deviare né passare oltre ma sostando e sollevando l’enigmaticità dell’ovvio. E’ poi vero che più ci avviciniamo alla linea più questa si dissolve e con essa l’eventuale tentativo di andare oltre.
Serve dunque una ricerca adeguata per procedere verso il “dimenticato”, ricerca che si attua in un raccoglimento, in un ritorno verso località originarie dove viene chiamato il pensiero che diventa così “rammemorante”.
Una ricerca di questo tipo va esercitata innanzi tutto a partire dal linguaggio. Infondo nel nostro stesso dire “io” ricorriamo a un linguaggio, dipendiamo dal sistema delle parole, dalle loro leggi. E’ immediato quindi che il tentativo di appropriazione diventa costantemente una “distanziazione”, la continua riscoperta della distanza. Questa stessa “distanziazione” è però sempre un modo di approssimarsi, una ricerca di prossimità (Rovatti, 1998, p.22).
da http://www.inprimapersona.it
Il fatto che la scrittura sia radicalmente seconda, ripetizione della lettera, e non voce originaria che accade in prossimità del senso, occultamento dell’origine più che suo svelamento, innesta costitutivamente nella sua struttura di significazione la differenza, la negatività e la morte; d’altra parte solo quest’assenza apre lo spazio alla libertà del poeta, alla possibilità di un’operazione di inscrizione e di interrogazione che deve «assumere le parole su di sé» e affidarsi al movimento delle tracce, trasformandolo «nell’uomo che scruta perché non si riesce più ad udire la voce nell’immediata vicinanza del giardino». Perduta la speranza di un’esperienza immediata della verità, il poeta si deve affidare al lavoro «fuori del giardino», alla traversata infinita in un deserto senza strade prefissate, senza un fine prestabilito, la cui unica eventualità è la possibilità di scorgere miraggi. Partecipe di un movimento animato da un’assenza, il poeta non solo si troverà così a scrivere in un’assenza, ma a diventare soggetto all’assenza, che «tenta di produrre se stessa nel libro e si perde dicendosi; essa sa di perdersi e di essere perduta e in questa misura resta intatta e inaccessibile». Assenza di luogo quindi, e, soprattutto, assenza dello scrittore. Per Derrida «Scrivere, significa ritrarsi… dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola… lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto».

Costantina Donatella Giancaspero
posso dire semplicemente che i versi proposti mi sono piaciuti?
Da qualche giorno, mi perdo nei meandri dei commenti critici a corredo dei testi proposti… scusate, sarà l’evento insolito della neve nel mio profondo Sud, che modifica anche la mia attuale percezione dell’esterno da me, ma mi sembra di non capirci più nulla nemmeno di poesia… Mi limito a dire alla signora Giancaspero che il suo inedito ha destato la mia curiosità, soprattutto per una certa differenza con la scrittura letta in precedenza sempre tra queste pagine. Magari, anche a lei, la frequentazione di questa Rivista ha fatto bene. Come accaduto a me 😀
ELOGIO DELLA LENTEZZA DELLA POESIA
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/01/07/donatella-costantina-giancaspero-la-nuova-ontologia-estetica-due-poesie-con-una-riflessione-di-gianfranco-bertagni-per-unetica-del-pudore/comment-page-1/#comment-17145
Il punto zero del «dovere» è il non dovere niente a nessuno, essere libero di non «dovere», essere esentato da debiti e da crediti, da doveri e da poteri, innanzitutto dai Poteri del Linguaggio, rinunziare alla volontà di potenza di chi crede di essere «padrone in casa propria» (Mandel’stam). Ma siamo davvero sicuri di essere padroni in casa propria? Siamo sicuri che la via verso l’autenticità sia la «padronanza» o il «padroneggiamento» delle parole e degli oggetti?- Ma, se io sono «padrone» delle parole, quelle parole saranno soltanto mie? Le posso reclamare come di mia proprietà? Ecco che si vede chiaramente come questa sia la vera follia, quella di dichiararsi «padrone» delle «parole», di reclamare implicitamente la sudditanza dei sudditi i quali devono accedere alla Potenza della mia parola farisaica, farisaica perché proviene da un «atto di proprietà», come se l’io, il soggetto potessero davvero essere padroni di una parola! Farsesca cogitazione di ombre!!! È qui che si denota la follia di questa volontà di potenza di chi crede di operare in nome della parola, fratellino minore del dio biblico, della vendetta e della Potenza!
La poesia della Giancaspero ha questo di buono: ha questa particolare fraganza e flagranza della inappartenenza della parola: che ha rinunciato una volta per tutte alla Potenza detonante della «Parola»; che ad ogni rigo ti trovi davanti alla problematica del «dubbio» se oltrepassare il «confine», la «soglia», il «limite», il «limen»… in fin dei conti, la poesia ci deve richiamare ogni momento al senso della misura delle «cose», alla nostra (della poesia) estrema prossimità con l’indicibile e l’ineffabile, con il limite e con la soglia. E con l’ombra.
L’atteggiamento poetico della Giancaspero è quello di sostare presso qualcuno, qualcosa, un divisorio, una soglia, un limite temporale e/o spaziale, un esitare, un arretrare trattenuti da un pudore che impedisce di sentirsi pienamente padroni in casa propria; questo senso timoroso di aver incontrato l’Estraneo, di averlo frequentato per lunghissimi anni senza avvedersene, senza averlo potuto riconoscere; di aver perduto una casa propria con la conseguente angoscia di non poterla più ritrovare, di non riconoscere più il vasellame, le suppellettili di casa propria, con il conseguente senso di spaesamento, di coabitazione spaesante con l’io, di essere stati con se stessi ma lontano da se stessi, di aver detto addio all’addio, e di aver prorogato l’addio fino al punto estremo del «limite»…
Giorgio, secondo me è una questione di carattere – e soprattutto di passione intesa come forza che immettiamo in quello che facciamo e viviamo – l’uso e il significato che attribuiamo alla “potenza” in poesia. Un carattere come il mio – e parlo di me, ma penso ad esempio alla potenza della poesia di De Palchi o alle sferzate di Roberto Bertoldo – non potrebbe mai essere o apparire, perché siamo sempre e comunque apparenza, non foss’altro perché la scrittura è già un falso di sé, delicato come uno zefiro… E questo non significa che una brezza sia più o meno di un Grecale che taglia il viso nella bufera (per rimanere al freddo, come sto io oggi). Piuttosto accetto un discorso di equilibrio che, di fatto, è quello che ci vuole in tutto.
Chiedo scusa per la mia passione anche nei commenti, ma alcune incongruenze tra la poesia odierna e quanto ci siamo detti nei giorni scorsi, mi stanno spiazzando. Rileggerò con più calma tutto.
Mi convince pienamente, anzi, mi commuove, la poesia di Costantina Giancaspero: lieve come un colibrì, ma profonda come un pozzo gigante.Con al fondo un’acqua limpida, onesta, intelligente. E come taglia ,quell’espressione insostituibile.”tempo acuminato”!Bravissima, e auguri di ogni bene, Anna Ventura
Sagredo evoca “lucidità lirica” emanata dalla poesia della signora Giancaspero. Scusate credevo che il Novecento e le sue declinazioni fossero terminate almeno qui. Sbagliavo. Su chi o cosa, fate voi. Continuo a rileggere queste pagine a ritroso per meglio comprendere qualcosa in più…
Se Margherita Guidacci, Daria Menicanti – alta voce poetica,( da me già riesumata in una nota su alcuni versi recenti di Giuseppina Di Leo), ingiustamente dimenticata o sottovalutata – e Costantina Donatella Giancaspero, la Costantina dei versi odierni, venissero, per quei miracoli possibili soltanto alla/in poesia, a trovarsi nella stessa stanza della grande casa comune della lirica europea (quella sempre sognata e auspicata da R.M.Rilke…) avrebbero tra di loro molto da dirsi e da darsi per quella cifra di “poesia sapienziale”, sì, ma ben radicata nell’esistenza reale, come reali sono i binari della metropolitana scoperta…
Gino Rago
Il Tempo nella poesia È domani, da sottolineare la costruzione per “bypassamento”dell’oggi. L’oggi e gli inutili rituali del fare.
Interessante costruzione temporale: Eppure (è uno scarto) è già domani/ è domani/ tra poco la notte sbiadirà/ è la notte di un altro domani.
Si nota un passaggio successivo è migliorativo nella versificazione di Donatella Costantina Giancaspero rispetto ai versi precedenti.
La seconda era già di mia conoscenza, è già stata pubblicata qui o sulla Scialuppa, non ricordo bene, ma colpisce, è efficace. La prima francamente no.
ELOGIO DELLA LENTEZZA: IL VUOTO
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/01/07/donatella-costantina-giancaspero-la-nuova-ontologia-estetica-due-poesie-con-una-riflessione-di-gianfranco-bertagni-per-unetica-del-pudore/comment-page-1/#comment-17164
“E’domani” una poesia che finisce dove comincia. Ma potrebbe iniziare e finire dovunque. Come certe musiche all’atterraggio dopo un volo né lungo né breve. C’è dell’amarezza, non so se per la ripetizione o la mancanza di senso nell’oggi.
Domani è una parola carica di promesse; che guarda avanti, nel vuoto. Ci si può mettere di tutto, anche ” altrove (…)Tempo acuminato,/dov’è vita ferita che dispera la vita”.
Se Donatella C. Giancaspero voleva dire senza creare sorpresa, c’è riuscita. ” lieve come un colibrì” scrive Anna Ventura. Sono d’accordo.
Mi è ignoto il motivo che ha spinto Linguaglossa a pubblicare la poesia E domani, già apparsa il 9 settembre del 2016. Naturalmente nessuno del coro plaudente se n’è accorto, ma questo dimostra l’accuratezza e la profondità delle loro letture. Applaudo io al comitato di redazione, che mi sembra un passo avanti di grande importanza
escludimi pure, io me ne ero accorto (vedi sopra)
Carissimo Almerighi faccio ammenda non me ne ero accorto, talvolta anch’io perdo i pezzi. da qualche parte. Per Linguaglossa pare che da un po’ di tempo esista soltanto poesia al femminile…viva la parità!
lungotevere Mellini
Sotto i platani
musica pazza
un ratto
un’alcova.
1968
ELOGIO DELLA GENTILEZZA IN POESIA
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/01/07/donatella-costantina-giancaspero-la-nuova-ontologia-estetica-due-poesie-con-una-riflessione-di-gianfranco-bertagni-per-unetica-del-pudore/comment-page-1/#comment-17295
Ringraziando tutti gli amici per il loro contributo critico, vorrei aggiungere qualche altra considerazione.
Nella presentazione a un libro di Ferdinando G. Menga (La passione del ritardo), a cura di Fabio Ciaramelli, ho trovato la citazione di un testo di Heidegger, “Il sentiero di campagna”. Ne sono riportate alcune frasi conclusive:
“A lungo, quasi esitando, si affievolisce, nella notte, il suono di undici rintocchi. […] Con l’ultimo rintocco la quiete diventa ancora più silenziosa. Raggiunge anche coloro che in due guerre mondiali sono stati sacrificati prima del tempo. Il Semplice è diventato ancora più semplice. Il sempre Medesimo desta meraviglia e libera. La benevolenza del sentiero di campagna è ora del tutto chiara. Parla l’Anima? Parla il Mondo? Parla Dio?
Tutto parla della rinuncia nel Medesimo. La rinuncia non prende. La rinuncia dona: dona la forza inesauribile del Semplice. La benevolenza rende familiare in una lunga provenienza.”
A spiegazione di questa riflessione di Heidegger (peraltro molto suggestiva), Ciaramelli scrive: “Nella quiete silenziosa della notte, quando finalmente «le cose che sono» tacciono, si lascia intendere la semplicità dell’essere, cioè quella risonanza verbale che nella vita quotidiana viene per lo più occultata dalle maschere ontiche del linguaggio identificante. Solo rinunciando al molteplice, la sua provenienza lontana può rendersi familiare: solo allora ci si sente a casa nella semplicità dell’originario”.
La tesi filosofica alla base di questa descrizione è dunque la seguente: “il semplice, e solo il semplice, è l’originario.” (cit.).
Ora, dopo un’approfondita riflessione, mi sono domandata se anche la mia poesia “È domani” si potesse leggere nella stessa chiave del brano citato: vale a dire, se, come dalla “quiete silenziosa” del sentiero di campagna caro al filosofo, anche dal silenzio notturno che io descrivo nei miei versi, da quell’atmosfera di sospensione in cui «le cose che sono» tacciono, potesse emergere la “semplicità dell’essere”, ovvero il Semplice che Heidegger identifica con l’Originario. Bene: la risposta è affermativa, poiché alla “veglia ostinata” e ai “rituali del fare” è senz’altro possibile attribuire lo stesso senso che ha la vita quotidiana in Heidegger, ovvero di condizione in cui il linguaggio identificante maschera appunto la semplicità dell’essere.
Ma posso aggiungere che nella mia poesia c’è anche di più: accanto al silenzio (condizione per il manifestarsi dell’essere), c’è il buio, c’è il vuoto: in una parola, c’è il Niente, che, però, come sappiamo da Heidegger, non equivale al Nulla, non è nihil absolutum, ma una realtà posta né nel mondo, né fuori da esso. Il Niente, ossia quella “soglia” che, così bene, individua e descrive Giorgio Linguaglossa, il “limen” che si rivela nell’Angoscia, vale a dire in quel senso sospeso di spaseamento, dove «tutte le cose e noi stessi sprofondiamo, in una sorta di indifferenza […] non nel senso che le cose si dileguino, ma nel senso che proprio nel loro allontanarsi le cose si rivolgono a noi […] non rimane nessun sostegno» (Heidegger). Azzardando un parallelismo, si potrebbe citare Montale: “in questi silenzi in cui le cose/ s’abbandonano e sembrano vicine/ a tradire il loro ultimo segreto” (I limoni)…
La mia poesia, in definitiva, si presta a una lettura filosofica in linea con i principi ispiratori della Nuova ontologia estetica. Per questo motivo, io credo che Giorgio Linguaglossa l’abbia riproposta ne L’Ombra, pur avendola già pubblicata.
Grazie!!
ABITARE LA DISTANZA IN POESIA
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/01/07/donatella-costantina-giancaspero-la-nuova-ontologia-estetica-due-poesie-con-una-riflessione-di-gianfranco-bertagni-per-unetica-del-pudore/comment-page-1/#comment-17311
Il libro di Pier Aldo Rovatti, Abitare la distanza (2007) è una indagine sulla nostra condizione esistentiva, caratterizzata dal paradosso: siamo dentro e fuori, vicini e lontani, abbiamo bisogno di un luogo, di una casa dove “stare”, ma poi, quando cerchiamo questo luogo, scopriamo il fuori, la distanza, l’alterità. Nello scenario del pensiero contemporaneo, il filosofo interroga i pensatori che guardano in questa stessa direzione – Heidegger, Derrida, Lacan, ma anche Merleau-Ponty, Ricoeur, Bateson –, non solo descrivendo una condizione “impossibile” ma soprattutto indicando un modo, un atteggiamento, un “come” stare nel paradosso.
La poesia di Donatella Costantina Giancaspero è una indagine, fatta con i mezzi della poesia, sulla condizione esistentiva dell’uomo, sul paradosso della condizione umana: siamo dentro e/o fuori? Siamo vicini e/o lontani? Stiamo in un luogo? O abitiamo luoghi diversi? Siamo nella distanza? Siamo nell’Altro o fuori dell’Altro? Siamo nel pieno e/o nel vuoto? Ma davvero cerchiamo una «casa»? O cerchiamo qualcosa d’altro che non possiamo confessare? –
La poesia dell’autrice romana punta ad un punto essenziale: il mistero fitto dell’esistenza, sul tragitto che ci conduce continuamente fuori luogo, perché soltanto il fuori luogo ci dà la nitida cognizione del luogo cui aneliamo, e questo fuori luogo è la distanza che ci separa e ci unisce all’Altro. Il fuori luogo, dunque, è costitutivo all’esserci, è la sua dimensione più propria.
La poesia «È domani» è forse la più emblematica del libro, la più misteriosa, per quella individuazione che ha del rabdomantico del «paradosso» rovattiano: l’essere oggi già domani, l’anticipazione del tempo (vissuto e non vissuto) «a quest’ora fonda della notte». Dunque, è «la notte» la situazione esistentiva che consente il disvelamento del «paradosso». La «notte» e il «tempo» costituiscono le due metafore guida della composizione e della poesia gigancasperiana in genere, e sono anche le chiavi interpretative della condizione esistentiva dell’uomo contemporaneo. Riproporre alla lettura la poesia «È domani» voleva avere il significato di una rilettura più ponderata di questa poesia, perché qui c’è una indagine significativa sulla condizione esistentiva dell’esserci. La poesia giancasperiana gira sempre intorno al «paradosso dell’esistenza», ossessivamente, con tutte le sue forze, vorrebbe rischiarare questo punto, questa «zona d’ombra» che contraddistingue la nostra condizione esistenziale:
Lontano da qui,
dove s’ingorga la vita, vanno abiti
privi di corpi…
*
Dentro una zona d’ombra…
*
Un abito interiore
*
Ben vengano, dunque, le riflessioni degli autori sulla propria poesia, perché aiutano l’interprete a capire…
Oggi, per scrivere poesia veramente «moderna» bisognerebbe porsi in ascolto di ciò che noi siamo diventati dopo la fine del modernismo. Forse, la crisi economica che da diversi anni sta sconvolgendo le economie occidentali ci induce a riflettere sugli esiti indotti dalla crescita economica dei decenni trascorsi, su quella bolla speculativa che ha contaminato anche l’esistenza di milioni di individui. La risposta a questa crisi la poesia la deve e la può dare con i mezzi della poesia, non ricorrendo a stentorei squilli di tromba… l’epoca delle avanguardie è finita da cento anni almeno, bisognerebbe prenderne atto.
Oggi che il modernismo si è esaurito, è chiaro che non si può procedere oltre di esso senza avere chiaro il quadro di riferimento storico e ideologico che aveva costituito le basi del modernismo. Il modernismo, che era il prodotto del mondo occidentale in disfacimento che aveva condotto alle tre guerre mondiali, oggi ha più che mai voce in capitolo dato che siamo entrati nella IV guerra mondiale in uno stato di belligeranza diffusa e di apparente normalità. Nelle città dell’Europa occidentale si vive in uno stato di apparente tranquillità, ma la minaccia è ovunque. Ben venga dunque una poesia della normalità apparente come questa della Giancaspero, che ha consapevolezza che quella normalità è finta, fittizia, prodotto di una illusione ottica.
“La risposta a questa crisi la poesia la deve e la può dare con i mezzi della poesia, non ricorrendo a stentorei squilli di tromba…”
(cit.Giorgio Linguaglossa)
rimanendo sull’argomento testuale, concordo. Grazie, Giorgio, per il richiamo. Lo sai, che accetto sempre e comunque i tuoi consigli.
Angela, ti invito a restare sull’argomento testuale.
LA POESIA È UN ENIGMA
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/01/07/donatella-costantina-giancaspero-la-nuova-ontologia-estetica-due-poesie-con-una-riflessione-di-gianfranco-bertagni-per-unetica-del-pudore/comment-page-1/#comment-17339
In ultima analisi, la poesia è un Enigma. Quando qualcuno parla, parla l’Enigma, tenta di forzare la porta dell’Enigma.
Fuori dell’Enigma c’è la comunicazione, l’utilizzazione del linguaggio per meri scopi contingenti, socialmente necessari perché fondati sul patto federativo che vuole tutti gli uomini di una comunità in comunicazione reciproca.
Riporto qui una Glossa che avevo scritto a margine della poesia di Mario Gabriele:
Il fatto che la scrittura sia radicalmente seconda, ripetizione della lettera, e non voce originaria che accade in prossimità del senso, occultamento dell’origine più che suo svelamento, innesta costitutivamente nella sua struttura di significazione la differenza, la negatività e la morte; d’altra parte solo quest’assenza apre lo spazio alla libertà del poeta, alla possibilità di un’operazione di inscrizione e di interrogazione che deve «assumere le parole su di sé» e affidarsi al movimento delle tracce, trasformandolo «nell’uomo che scruta perché non si riesce più ad udire la voce nell’immediata vicinanza del giardino». Perduta la speranza di un’esperienza immediata della verità, il poeta si deve affidare al lavoro «fuori del giardino», alla traversata infinita in un deserto senza strade prefissate, senza un fine prestabilito, la cui unica eventualità è la possibilità di scorgere miraggi. Partecipe di un movimento animato da un’assenza, il poeta non solo si troverà così a scrivere in un’assenza, ma a diventare soggetto all’assenza, che «tenta di produrre se stessa nel libro e si perde dicendosi; essa sa di perdersi e di essere perduta e in questa misura resta intatta e inaccessibile». Assenza di luogo quindi, e, soprattutto, assenza dello scrittore. Per Derrida «Scrivere, significa ritrarsi… dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola… lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto» .
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/01/07/donatella-costantina-giancaspero-la-nuova-ontologia-estetica-due-poesie-con-una-riflessione-di-gianfranco-bertagni-per-unetica-del-pudore/comment-page-1/#comment-17440
Non si può comprendere questa poesia se non ci muniamo di solidi concetti psicanalitici. Ci troviamo in mezzo ad una situazione topicalmente inconscia, nel momento della abreazione di alcuni contenuti ideativi e pulsionali appena antecedenti l’atto linguistico, o che l’atto linguistico lascia intravvedere.
Lasciamo quindi la parola ad Alessandro Ciappa:
L’Inconscio dunque non è un abisso. L’inconscio non è un flusso di energia cieco. Esso è piuttosto il luogo in cui qualcosa accade e in cui cadono, sotto la spinta della rimozione, le rappresentazioni di cose, rappresentanze pulsionali, che consistono “ nell’investimento, se non nelle dirette immagini mnestiche della cosa, almeno nelle tracce mnestiche più lontane che derivano da quelle immagini ”.
L’inconscio, ci suggerisce Freud, è un sistema di tracce (tracce mnestiche), e non impronte, si noti, da cui si originano rappresentazioni di cose. La differenza, adesso, tra rappresentazione inconscia e rappresentazione conscia consiste, ribadisce Freud, in due distinte trascrizioni di uno stesso contenuto.
Ci troviamo di fronte a un punto nodale: la distinzione tra Sachevorstellung e Wortvorstellung serve per comprendere come sia possibile la comunicazione tra i vari apparati psichici. Seguiamo Freud:
La rappresentazione conscia comprende la rappresentazione della cosa più la rappresentazione della parola corrispondente, mentre quella inconscia è la rappresentazione della cosa e basta. Il sistema Inconscio
contiene gli investimenti che gli oggetti hanno in quanto cose, ossia i primi e autentici investimenti oggettuali; il sistema Prec nasce dal fatto che questa rappresentazione della cosa viene sovrainvestita in seguito al suo nesso con rappresentazioni verbali.
In altre parole, ciò che consente al sistema inconscio di spingersi nella coscienza, di “farsi sentire ” nelle sue varie forme sintomatiche è un progresso nella rappresentazione, una concatenazione di rappresentazioni che tende ad associare alla Sachevorstellung una Wortvorstellung.1]
***
“I processi ideativi, cioè quegli atti di investimento che sono i più lontani dalle percezioni, sono in se stessi privi di qualità e inconsci e acquistano la capacità di diventare coscienti solo connettendosi ai residui delle
percezioni verbali” 2]
L’inconscio non è l’inconoscibile. L’inconscio si manifesta, seppur attraverso il velo di sintomi, lapsus, sogni; il suo manifestarsi consente quanto meno di avvertirne la presenza. Presenza che non si confonde mai con l’esser presente, con un darsi in carne ed ossa; eppure è un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote il soggetto, o sarebbe forse meglio dire lo coglie a tergo nel suo discorso cosciente, nel suo voler-dire, nei suoi atti, nei suoi desideri, nelle sue intenzioni, lo coglie cioè in un vacillamento che non è nulla di superficiale ma lo concerne nel suo stesso, nel suo più radicale essere.
L’inconscio è un inter-detto, esso non ha nulla dell’oscurità, dell’abissale o di una qualsiasi sorta di magma pulsionale feroce e muto. L’inconscio è sì muto, ma solo perché in esso sono presenti unicamente Sachevorstellung. L’inconscio pensa, ma pensa-cose.
1] http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/psiche/ciappa.pdf pp. 23.4
2] Freud Metapsicologia trad. it. Boringhieri,
Sono d’accordo con Giorgio Linguaglossa sulla “poesia del silenzio”: non c’è infatti silenzio senza parola, come, d’altra parte le parole senza silenzio si attorciglierebbero l’una all’altra fino a precipitare nel caos e autodistruggersi. Il silenzio è la condizione per entrare nel gioco del “desiderio” che induce a cercare appassionatamente i segnali, le suggestioni dell’Inconscio…anche se non riusciamo ad afferrarle, perché la poesia è mistero…cito Linguaglossa:
“In ultima analisi, la poesia è un Enigma. Quando qualcuno parla, parla l’Enigma, tenta di forzare la porta dell’Enigma.
Fuori dell’Enigma c’è la comunicazione, l’utilizzazione del linguaggio per meri scopi contingenti, socialmente necessari perché fondati sul patto federativo che vuole tutti gli uomini di una comunità in comunicazione reciproca.”
Questo enigma ci seduce e ci attrae senza peraltro concedersi mai del tutto: e questo è il bello dell'”inconscio”: rincorrerlo e riuscire ad afferrarne i palpiti, le carezze, i messaggi, la sofferenza e la gioia, le tracce del destino: tutto questo lascerà un’impronta più o meno profonda nelle nostre vite, dipende da quanto profondamente ci lasceremo coinvolgere.