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Poesie per bambini di Osip Mandel’štam,  prima traduzione in italiano a cura di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova da ”Il fornello a petrolio”, Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa, la struttura sincipitale della poesia per bambini

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Giorgio Linguaglossa

Sulla scrittura delle Poesie per bambini di  Osip Mandel’štam

Osip Ėmil’evič Mandel’štam nasce a Varsavia da una famiglia della media borghesia ebraica. I primi versi Osip li pubblica nel 1910 su «Apollon», la rivista della nuova scuola poetica: l’acmeismo. Nikolaj Gumilëv, l’inventore dell’acmeismo, nel 1913 scriveva: «In cambio del simbolismo sorge una nuova tendenza, comunque la si voglia chiamare: acmeismo (dalla parola acmè, il più alto grado di qualcosa, il fiore, la stagione del rigoglio), oppure adamismo (visione virilmente ferma e chiara della vita), che in ogni caso esige un maggior equilibrio di forze e una più esatta cognizione dei rapporti tra soggetto e oggetto di quanto non sia avvenuto nel simbolismo».

Nel 1912 Mandel’štam entra nella prima “Corporazione dei poeti acmeisti”, si lega con Nikolaj Gumilëv e Anna Achmatova. Nel 1913 pubblica Kamen (Pietra), nel 1922 Tristia. Le poesie per bambini Il fornello a petrolio di cui qui si presentano un congruo numero, sono del 1925. Nel 1923 Mandel’štam viene colpito dal primo «invito» a non pubblicare versi. Di qui in avanti il poeta vivrà unicamente dei magri redditi che gli derivano da traduzioni e da qualche sporadica collaborazione letteraria.

Nella notte tra il 13 il 14 maggio 1934 il poeta viene arrestato dagli agenti della polizia segreta. Durante gli interrogatori gli contestano una sua poesia scritta contro Stalin. Mandel’štam trascorre tre anni di confino a Voronež, durante i quali scrive le grandi poesie della maturità. Scontata la pena il poeta e la moglie tornano a Mosca, dove il 2 maggio 1938 Mandel’štam viene arrestato e deportato. Ufficialmente, la data della morte è il 27 dicembre 1938.

Tutta la poesia della maturità di Mandel’štam, se si fa eccezione di Pietra, che pur rivela una perfetta levigatezza del verso di squisita fattura ellenistica, poggia sulla consapevolezza che la concezione del mondo del poeta si trova sempre in contrasto con il proprio tempo, «contropelo rispetto al mondo». Nel Discorso su Dante egli parla di una capacità visiva affatto speciale e specifica del poeta che gli permette, al pari degli uccelli rapaci e dei defunti della Commedia, di distinguere gli oggetti lontani, di scorgere i particolari a distanze enormi, pagando lo scotto di ciò con la cecità verso il presente. Già in uno dei suoi primi saggi, Sull’Interlocutore, l’allora ventiduenne poeta parlava della «preziosa consapevolezza della verità poetica»; sin da giovane si considerava un «costruttore»: «dalla triste gravezza anch’io un giorno creerò il bello». Nessun disgusto per la materia grezza, la acuta percezione della sua pesantezza, delle sue qualità intrinseche (la solidità, il peso, il colore, l’incastro): di qui l’idea di una poetica non «di tipo normativo», bensì «biologica», basata cioè sulle qualità originarie, fisiologiche, della materia. Mandel’štam non usava mai il termine «creazione», né il verbo «creare», concetti questi che gli erano totalmente estranei; l’acmeista ha bisogno dello spazio tridimensionale, per lui la terra «non è un fardello, non è un caso infausto, bensì il palazzo donatoci da Dio». Se per Mandel’štam si può costruire soltanto nell’ambito della tridimensionalità, ne consegue che muta radicalmente lo sguardo dell’artista verso il mondo degli oggetti: questo mondo può essere ostile all’artista, ovvero al «costruttore», perché gli oggetti ci sono dati per fungere da materiale da costruzione. La pietra ne è un esempio eloquente. È «come se essa agognasse ad una esistenza diversa» e si volesse inserire «nella volta a crociera» di una «cattedrale gotica». E proprio come la cattedrale gotica rappresenta il compimento della pietra, «per l’artista la visione del mondo è un’arma e uno strumento, come il martello nelle mani del muratore; l’unica realtà è l’opera stessa» (Il mattino dell’acmeismo).

Mandel’štam aveva un concetto corporeo della parola, distingueva «la forma interna della parola dalla parola-segno e dalla parola-simbolo» cara ai poeti simbolisti. Accolse freddamente i celebri versi di Gumilëv sulla «parola» ma senza spiegarne mai il motivo; diversamente da Gumilëv intendeva anche l’importanza del numero dei versi e delle strofe di una composizione. Infatti, usava contare il numero delle righe e delle strofe di una poesia ed il numero dei capitoli nella prosa. A Voronež, Mandel’štam assiste meravigliato alla nascita di poesie di sette, nove, dieci, undici versi che entravano in azione gli uni con gli altri fino a comporre poesie più lunghe: stava nascendo una nuova forma. Venivano alla luce di getto, misteriosamente, nuove poesie di una lunghezza inusitata.

Nelle composizioni de Il fornello a petrolio si assiste ad una peculiarissima fusione delle immagini, dei concetti e delle rime dal punto di vista dell’occhio infantile. È il nuovo tipo di sguardo che determina la nuova forma della poesia.

Le poesie qui tradotte fanno parte di un ciclo di composizioni di genere «leggero», da non intendere nel senso di «cose minori», bensì nel senso di «esercitazioni», esercizi tematici con i quali spesso i poeti provano il proprio bagaglio tecnico in relazione ad oggetti «semplici», prima facie, ma che nascondono in sé notevolissime difficoltà di costruzione e di assemblaggio. Di tale natura è per l’appunto il tentativo compiuto con le poesie del ciclo Il fornello a petrolio. Innanzitutto, un oggetto di uso quotidiano (il fornello a petrolio, il ferro da stiro, le galline «parlanti» etc.), per un interlocutore letterariamente non smaliziato: i bambini, per i quali sarebbe superfluo approntare poesie stilisticamente elevate che rimarrebbero del tutto incomprese, meglio puntare sulla semplicità, mediante tecnicismi elementari ed universali che formano la base per la comprensione della poesia «alta», ossia i giochi di parole, i lapsus ed i giochi di immagini, con le parole di Mandel’štam, una struttura «sincipitale». Orbene, non si creda che un poeta del calibro di Mandel’štam voglia unicamente occuparsi di esercizi fonematici o di equilibrismi di immagini. Niente di più alieno dalle sue vere intenzioni. Il poeta russo tenta qui una vera e propria «muscolatura» delle immagini, pone in essere una ricca strumentazione di nervature interne sotto forma di gioco, di sciocchezze, di nugae. Ormai vicino alla morte, Mandel’štam in una lettera a Tynianov ci chiarisce il concetto di certa sua produzione: «È già un quarto di secolo che, mischiando le cose serie alle sciocchezze, io sputo sulla poesia russa, ma presto i miei versi entreranno in lei mutando qualcosa nella sua struttura e nel suo corpo…». C’è in queste poesie una sorta di sospensione del mondo degli adulti, dove le leggi stesse della gravità e della connessione spazio-temporale sembrano saltate. Ma non è Mandel’štam il poeta che aveva scritto: «L’uomo non è più padrone a casa sua… Tutto il vasellame si è ammutinato. La scopa chiede riposo, la pentola non vuole più bollire… Hanno cacciato di casa il padrone ed egli non osa più entrarvi?». Sì, è il poeta russo che si prova qui con il mondo degli oggetti che non obbediscono più alle leggi della fisica degli adulti. Gli oggetti sembrano essersi ammutinati e si comportano in modo bizzarro.

Dunque, «sciocchezze» di tipo superiore, «sciocchezze» per l’educazione estetica dell’umanità futura. L’interesse dei poeti verso l’infanzia lo si può riscontrare, in generale, quando le sorti dell’umanità seguono momenti di criticità, e non è un caso che un poeta come Mandel’štam si rivolga ai bambini russi quale concreto «interlocutore» della poesia a venire, quando la lotta per l’imposizione di un nuovo modello di poesia è divenuta problematica e l’esito stesso, la stessa sopravvivenza della poesia nel «nuovo» mondo appariva problematica. D’altra parte, Mandel’štam non aveva bisogno di un lettore qualsiasi. Non certo che disprezzasse i lettori come detestava gli attori che solevano recitare versi in stile «trombonesco», aveva bisogno di un «interlocutore», di qualcuno che lo ascoltasse quando leggeva i versi appena composti. Ma per questo ufficio era sufficiente la moglie Nadežda. L’educazione estetica dei lettori era un concetto che lo faceva sorridere di scherno; a questo ci pensavano già i simbolisti con la loro aura sacrale, i futuristi e i lefovci con l’estetizzazione della politica. Mandel’štam preferiva parlare degli «uomini», non dei «lettori»: «gli uomini conserveranno le poesie… se ne avranno bisogno, le troveranno da soli, trovano sempre quello di cui hanno bisogno».

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Nell’isola di Sevan, Mandel’štam aveva notato che le lenti del binocolo “Zeiss” aumentavano l’intensità del colore, lo rendevano più puro. Mandel’štam non si stancava mai di lodare le capacità di questo binocolo, finché non lo citò in una delle sue poesie più belle.

In un certo senso, l’operazione che il poeta compie in queste Poesie per bambini è di riuscire ad ottenere una poesia più immediata, ingenua, che lo conduca più in prossimità degli oggetti e ne sveli la particolare nobiltà «fisiologica»; tutto ciò senza ricorrere al alcuna nobiltà denominativa. Non per nulla Mandel’štam possedeva un acutissimo senso del tatto, come i bambini, toccare le cose lo aiutava a riconoscerle. Per lui il poeta «tocca» la forma interna degli oggetti ancor prima che questi si materializzino in parole. Il toccare lo aiutava a ricordare, ed il ricordo era lo stadio che immediatamente precedeva il vestito di parola. In queste poesie per bambini, Mandel’štam per prima cosa ricompone per lo sguardo infantile oggetti ad essi familiari, che nella vita quotidiana dell’epoca essi avevano continuamente sotto gli occhi (per esempio, il ferro da stiro incandescente che le nostre nonne ponevano sul davanzale della finestra per farlo raffreddare; il fornello a petrolio con le sue particolarità costruttive, etc.).Questi oggetti vengono animati dall’interno come se fossero delle entità viventi e parlanti: così l’elettricità è paragonata ad un «fuoco freddo» che fa illuminare la lampadina; il latte non bollito si trasforma in yogurt per via di trasmutazione quasi magica, e così via. Ovviamente, nella versione in italiano raramente è stato possibile rendere i parallelismi fonetici che stigmatizzano le trasmutazioni; cionondimeno, non tutta la freschezza e l’agilità di queste composizioni viene perduta; ciò che resta è sufficiente a farci apprezzare l’alta qualità della manifattura poetica che è alla loro base. Ad esempio, nella composizione numero dieci è stato possibile conservare la rima del testo russo con una analoga in italiano. Tanto basta a rendere lo squisito sapore dell’originale, nonché, degno di nota è il raffinatissimo nesso incrociato dei «violinisti» e dei «trombettieri» legati dalla giuntura della rima in «elle» e dall’unità di luogo e di tempo dell’azione: il mercato.

L’interesse per la poesia infantile era comune ai poeti della generazione di Mandel’štam; ricordiamo qui per inciso le poesie della bambina ucraina che Velimir Chlébnikov commentò già prima degli anni ’20, dove la ingenua «trasgressione… solleva il velo dai versi monotonamente rivestiti dal metro». Lo sforzo di Chlébnikov era orientato verso la rottura della struttura sillabico-tonica della versificazione simbolista. La trasgressione consapevole e ingenua era intesa nel senso di un recupero del parlato quotidiano. Se Chlébnikov fu il primo ad introdurre nella poesia russa le rime «marginali», prima di lui repertorio della poesia comica, un grande continuatore di questo indirizzo è rappresentato da Majakovskij e dalla rivista “Novij Satirikon”, nonché dal poeta umoristico Sasa Cërnyj, autore, tra l’altro, di uno splendido racconto lungo, Diario di un cane, pubblicato a Parigi nel 1926, dove il mondo degli adulti è illuminato dal riflettore del punto di vista dello sguardo infantile. Ad esempio, anche nella prosa il punto di vista infantile-ingenuo produrrà i racconti stranianti di Daniil Charms. La teorizzazione di Chlébnikov sulla lingua come di «un gioco alle bambole», così che «la parola è una bambola sonora e il dizionario una raccolta di giocattoli», fu una delle più feconde per la poesia russa. Poiché «la lingua si è naturalmente sviluppata a partire da poche unità basilari dell’alfabeto», compito del poeta per Chlébnikov sarà di riassemblare, sulla base di pochi «straccetti sonori» una lingua transmentale che si sviluppi a partire da pochi radicali con l’aggiunta di suffissi e affissi, in direzione di un linguaggio «stellare», «pentaraggiale», universale, dove i tradizionali nessi semantici e sintattici si affievoliscono per far posto ad un nuovo processo di etimologizzazione e semasiologizzazione dei testi. Se in Chlébnikov è uno sguardo infantile che osserva la lingua, in Mandel’štam lo sguardo infantile costruisce gli oggetti. Mandel’štam invidiava nei bambini quella loro particolare attitudine ottica che permette loro di ricostruire, da oggetti immobili gli oggetti in movimento; impadronirsi di questa facoltà avrebbe significato una grande acquisizione per un poeta. Affinare la facoltà ottica e tattile significava poter padroneggiare in misura eccelsa gli oggetti, riconoscerli in ogni loro istante, riuscire a rappresentarli in modo più icastico, completo. Per Mandel’štam i cinque sensi erano una «finestra sul mondo», in particolare, la vista ed il tatto, i più sublimi; facoltà che nell’uomo moderno erano ormai in declino. Tratti infantili erano presenti anche nella personalità di Mandel’štam, il quale era solito vantarsi, dinanzi all’Achmatova, delle prodigiose capacità della propria vista, e di frequente, per le strade di Pietroburgo, sfidava la amica poetessa a chi leggeva per primo il numero dei tram in arrivo. La moglie di Mandel’štam fungeva da arbitro. Con grande scorno di quest’ultimo, vinceva sempre la Achmatova. Mandel’štam era solito chiamarla la «piccola vespa», si era convinto della suprema acutezza della vista della Achmatova e la ammirava. Nessuno riusciva a capire perché mai Mandel’štam frequentasse assiduamente il museo zoologico di Pietroburgo: per sfogliare libri e studiare la struttura della vista di uccelli, insetti, lucertole, mammiferi. Fu così che «l’occhio sincipitale» degli insetti entrò in una delle sue poesie più alte. Mandel’štam era convinto che i bambini vedessero meglio e più in profondità degli adulti, fu per questo che intraprese a scrivere un ciclo di poesie per bambini, per tentare di impadronirsi di questa suprema capacità visiva. Era convinto che per poter costruire una grande poesia fosse necessario riconoscere gli oggetti in modo sintetico e diacronico, con sguardo plastico ed animistico, con occhio parallattico e sincipitale.

Risposta all’inchiesta “lo scrittore sovietico e l’ottobre” inaugurata dalla rivista “Citatel’ i pisatel’” (Lettore e scrittore) del 1928

La rivoluzione di ottobre non ha potuto fare a meno di esercitare un’influenza sul mio lavoro, poiché mi ha tolto la «biografia», la sensazione di un significato personale.

Le sono grato per aver posto fine una volta per sempre alla sicurezza spirituale e al vivere di rendita culturale… Mi sento debitore della rivoluzione, ma i doni che le offro non le sono, per ora, necessari.
La domanda su come debba essere uno scrittore, mi è del tutto incomprensibile: per rispondere dovrei inventare uno scrittore, il che significherebbe scrivere le sue opere in sua vece.
Sono altresì profondamente convinto che, sebbene gli scrittori dipendano dai rapporti di forza sociali e ne siano condizionati, la scienza moderna non possegga alcun mezzo per evocare la comparsa di questo o quell’autore che ritiene auspicabile. Dato lo stadio embrionale dell’eugeneutica, gli incroci e gli innesti culturali possono dare i risultati più inaspettati. È invece possibile una produzione in massa dei lettori. Per questo esiste un mezzo diretto: la scuola.

Mandel’štam aveva compreso un fatto fondamentale: che per fare poesia occorre ritornare ad avere uno sguardo, in un certo senso, «infantile» (dizione di Mandel’štam), che occorre ripristinare uno «sguardo sincipitale» (dizione di Mandel’štam) delle api e delle lucertole, e «stereometrico» (dizione di Mandel’štam), che occorre vedere la «parola» (del linguaggio poetico) dall’interno e dal di fuori, da destra e da sinistra, dall’alto e dal basso (dizioni di Mandel’štam)… e che questa particolare attitudine del linguaggio umano e di quello poetico è una attitudine naturale… soltanto le stratificazioni culturali ottundono lo sguardo costringendoci ad un VEDERE istituzionalizzato ed nomologato.. La poetica dell’acmeismo, nelle intenzioni del poeta russo mirava a mettere in risalto le cose non solo perché esse sono cose in senso ontologico ma perché le cose nel linguaggio sono altra cosa dalle cose in sé. Mandel’štam diceva che «bisogna considerare la parola come un fascio, ed il significato si stacca da esso in varie direzioni senza però dirigersi verso alcun punto ufficiale».

Straordinaria e acutissima intuizione.

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da Il fornello a petrolio di Osip Mandel’štam
I
Le belle gallinelle andarono dalle spocchiose pavonesse:
“Dateci almeno una pennuccia, suvvia, coccodè – coccodè”
“Ci mancherebbe altro!
Che vi siete messe in testa?
Pensate: a cosa vi serve?
Noi non siamo vostre amiche: ma pensa, coccodè – coccodè”

II

Un pan di zucchero
né morto né vivo.
Hanno preparato del tè fresco:
serviteci pure lo zucchero!

III

Per guarire e lavare
Il vecchio dorato fornello a petrolio,
gli tolgono la testolina
e lo riempiono d’acqua.

Il ramaio, dottore del fornello a petrolio,
guarirà il fornello malato:
lo pulisce con l’ago sottile.

IV

Amo molto la biancheria,
sono amico di una camicia;
non appena la vedo –
stiro, ripasso, scivolo:
– Se voi sapeste quanto
mi fa male stare sul fuoco!

V

“Per me che sono non bollito, rozzo,
è facile diventare yogurth!”
diceva a quello bollito
il latte non bollito.

Ma quello bollito
risponde con dolcezza:
“Io non sono un completo rammollito:
ho la pellicina”. Continua a leggere

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Iosif Brodskij (1940-1996), Lettera al generale Z. (1968), Brodskij e la Guerra, inedito, prima traduzione italiana a cura di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova

Onto brodskij

Iosif Aleksandrovic Brodskij è nato a Leningrado nel 1940. Nel 1964 fu arrestato con l’accusa di parassitismo e condannato, dopo un processo che scatenò violente reazioni nell’opinione pubblica mondiale, a cinque anni di lavori forzati. Rilasciato dopo 18 mesi tornò a vivere a Leningrado. Nel 1970 fu costretto dalle autorità sovietiche a emigrare. Si stabilì in USA, dove tenne corsi in varie università e svolse un’ampia attività pubblicistica oltre che poetica. Brodskij ha esordito pubblicando nel 1958 alcune poesie in una rivista clandestina. Venne subito riconosciuto come uno dei lirici più dotati della sua generazione. Ebbe il sostegno di Anna Achmatova che gli dedicò una delle sue raccolte (1963). Dopo il rilascio seguito alla prima condanna, si dedicò soprattutto alla traduzione di poeti inglesi (Donne, Hopkins). La sua raccolta di versi Fermata nel deserto, in cui l’introspezione con venature ironiche si unisce all’afflato metafisico, uscì a New York nel 1970 confermando lo straordinario estro poetico di Brodskij. Dopo l’emigrazione tenne corsi in varie università e svolse ampia attività pubblicistica (Fuga da Bisanzio (Less than one), 1986) e poetica (Elegie romane, 1982). Nel 1987 fu insignito del premio Nobel per la letteratura, e nel suo discorso a Stoccolma individuò le radici della sua opera di classico contemporaneo in quattro poeti: Anna Achmatova, Marina Ivanovna Cvetaeva, Robert Frost e W.H. Auden. Le motivazioni del Nobel: “for an all-embracing authorship, imbued with clarity of thought and poetic intensity”. Nel 1991 fu nominato poeta laureato degli Stati Uniti. Morì nel suo appartamento di Brooklyn per un attacco di cuore il 28 gennaio 1996. Innamorato dell’Italia, espresse il desiderio di venire seppellito a Venezia, città di acqua e canali come la natale Leningrado, e lì ha trovato per sempre riposo.

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IOSIF BRODSKIJ E LA GUERRA

 Nell’esemplare appartenuto all’autore del secondo tomo dei “Componimenti di Josiph Brodskij”, dopo la data 1968, veniva annotato: ”autunno; dopo l’invasione della Cecoslovacchia”. È plausibile che il modello della poesia fu suggerito a Brodskji dalla “Lettera al generale X“ di Antoine De Saint-Exupèry, uno degli scrittori preferiti della sua giovinezza. Pervaso dal pathos del pacifismo e dell’antitotalitarismo, il saggio fu scritto nel 1943 in una base militare del Nord Africa due mesi prima della morte dello scrittore e pubblicato postumo. In Russia circolò nei samizdat nella traduzione di Marina Kazimirovna Baranovich.

In Brodskij la Lettera al generale Z acquisisce una connotazione maggiormente ironica conservando, tuttavia, l’ambientazione tropicale che ricorda i film sulle imprese della Legione Straniera o di altri corpi di spedizione nei paesi caldi. In tal modo, a paragone delle posizioni di Brodskij su altre imperialistiche azioni del potere sovietico (vedi la poesia non pubblicata sulla rivoluzione ungherese del 1956), la Lettera al generale Z fu scritta in uno stile più iconoclastico, simbolico. Una particolare attenzione merita la ricorrente topica del gioco delle carte, l’iniziale calembour – carte geografiche/carte da gioco – della prima strofa che richiama l’avventurismo, il barare, lo spreco.

Un possibile impulso alla genesi del motivo delle carte fu il racconto, noto a Brodskji, della vedova di Bulgakov sull’incontro con Saint-Exupèry presso il consigliere dell’ambasciata americano a Mosca il primo maggio del 1935: ”Il francese – che risultò essere anche un pilota – raccontava dei suoi pericolosi voli. Faceva vedere inconsueti giochi di prestigio”.

Nei dettagli “LGZ” richiama sia la poesia del poeta americano Reed Whittemor Un giorno con la Legione Straniera, che Brodskji tradusse, che la lettera da lui scritta a Breznev sebbene qui il destinatario del poeta sia un’entità più surreale. Giova aggiungere che Brodskij rimandò la composizione di “LGZ” ai versi da lui composti sotto l’influenza poetica di Auden:

  “Ancora più acutamente il tema della responsabilità per gli atti storici della patria appare in Brodskij come un particolare sentimento di vergogna, disonore. Alla domanda se ci fossero stati momenti in cui aveva fortemente desiderato fuggire dalla Russia, rispose: «Sì, quando nel 1968 i carri armati sovietici invasero la Cecoslovacchia. Allora, ricordo, ebbi la voglia di fuggire ovunque possibile. Prima di tutto per la vergogna. Per il fatto che appartengo allo stato che compie queste azioni. Perché, bene o male, parte della responsabilità ricade sempre sul cittadino di questo stato». Reagì all’occupazione della Cecoslovacchia con la “LGZ”, il cui protagonista, un vecchio soldato dell’impero, si rifiuta di combattere. (dal libro di Lev Losev Josiph Brodskij, 2006)  

Stefania Pavan, saggio su Odissej Telemaku  (Odisseo a Telemaco) di Iosif Brodskij – La guerra di Troia / è terminata. Chi abbia vinto, non lo ricordo).

LETTERA AL GENERALE Z
La guerra, Vostra Grazia, è solo un gioco vuoto.
Oggi – fortuna e domani – un buco.
(Canzone sulll’assedio de La Rochelle) (1)

foto Kharkiv

Much-loved pub destroyed
In the city of Kharkiv, in north-east Ukraine, the beloved Old Hem bar – named after the owner’s literary hero Ernest Hemmingway – was destroyed by Russian shelling.
An extraordinary image shared widely on social media showed the building which once housed the pub reduced to rubble. The owner – now in western Ukraine – told the BBC that he hopes to return one day to his city and rebuild his bar.
“We will win and Hem will rise again,” Kostiantyn Kuts said [La scorsa settimana mi sono seduto in un parco del centro città, con l’erba tagliata con cura, le aiuole in fiore, e mi sono gustato un gelato al caffè. La città  (Kharkiv) è ancora in gran parte vuota, ma il numero di colpi di artiglieria russa è sceso da dozzine al giorno a solo una manciata. Le sirene dei raid aerei continuano a ululare regolarmente, ma Kharkiv non si sente più sull’orlo della catastrofe.]

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Generale! Le nostre carte sono una merda. Passo.
Il Nord non è affatto qui ma nel Circolo Polare Artico.
E l’Equatore è più ampio della banda dei vostri calzoni.
Perché il fronte, generale, è al Sud.
A una tale distanza una radiotrasmittente
trasforma qualsiasi ordine in boogie-woogie.

Generale! La confusione è degenerata in bordello.
L’impraticabilità delle strade non consentirà di ammassare riserve
e cambiare la biancheria: il lenzuolo è carta smerigliata;
questo, sapete, mi dà sui nervi.
Mai finora, credo, sia stato così
imbrattato l’altare di Minerva.

Generale! Stiamo così a lungo nel fango
che il re di cuori esulta in anticipo
e il cuculo tace. Dio ce ne scampi,
tuttavia, dall’ascoltare il suo verso.
Ritengo che bisogna dire merci
che il nemico non attacca.

I nostri cannoni stanno con le canne sprofondate a terra,
le palle si sono afflosciate. Soltanto i trombettieri,
estraendo le trombe dai
foderi, come accaniti onanisti,
le lucidano giorno e notte così che all’improvviso
quelle emettano un suono.

Gli ufficiali vagano, disprezzando il regolamento,
in calzoni a sbuffo e giubbe di diversi semi.
I soldati nei cespugli sulle terre arse
si abbandonano l’un l’altro ad una vergognosa passione
e arrossisce, abbassando il vessillo scarlatto,
il nostro sergente-scapolo.
————————————-
Generale! Io ho combattuto sempre e ovunque
per quanto fossero scarse e incerte le possibilità.
Non avevo bisogno di un’altra stella
oltre quella che è sul vostro cappello.
Ma ora sono come nella favola su quel chiodo:
piantato nel muro, privato della capocchia.

Generale! Purtroppo la vita è una.
Per non cercare maggiori prove,
ci toccherà bere fino in fondo
il nostro calice in questi boschi insignificanti:
la vita, probabilmente, non è così lunga
da accantonare il peggio a tempo indeterminato.

Generale! Solo alle anime sono necessari i corpi.
Certo le anime, si sa, sono estranee alla gioia maligna
e qui, penso, ci ha portato
non la strategia ma la sete di fratellanza: (2)
è meglio mettere bocca negli affari altrui
se non ci raccapezziamo nei nostri.

Generale! Adesso ho la tremarella.
Non capisco il perché: per vergogna o per paura?
Per mancanza di donne? O semplicemente è un ghiribizzo?
Non aiutano né il dottore né il guaritore.
Perché probabilmente il vostro cuoco
non distingue dove sia il sale, dove lo zucchero.

Generale! Ho paura che siamo finiti in un vicolo cieco.
Questa è la vendetta di uno spazio ampio.
Le nostre piche si arrugginiscono. La presenza di piche –
non è ancora garanzia di un bersaglio.
E la nostra ombra non si sposterà davanti a noi
persino all’ora del tramonto.
—————————————–
Generale! Voi sapete che non sono un vigliacco.
Tirate fuori il dossier, fate delle indagini.
Sono indifferente al proiettile. In più
non temo né il nemico né la posta in gioco.
Che mi piantino pure un asso di quadri
tra le scapole – chiedo le dimissioni!

Io non voglio morire per
due o tre re che
non ho mai visto in faccia
(non si tratta di paraocchi ma di tende impolverate).
Tuttavia non ho nemmeno voglia di vivere
per loro. A maggior ragione.

Generale! Sono stufo di tutto. Mi
annoia la crociata. Mi annoia
la vista nella mia finestra di montagne
immobili, boschetti, anse di fiumi.
E’ brutto quando il mondo all’esterno
è stato concepito da chi è tormentato dentro.

Generale! Non penso che, abbandonando
le vostre fila, le indebolirò.
Non sarà una grossa sciagura:
io non sono un solista ma uno estraneo all’ensamble.
Tolto il bocchino dal mio zufolo,
brucio la mia uniforme e spezzo la sciabola.
———————————————
Anche se non vedi gli uccelli, si sentono.
Il cecchino, tormentandosi di sete spirituale, (3)
non si sa se l’ordine o la lettera della moglie,
appollaiato su un ramo, legge due volte
e per noia il nostro artista si mette
a disegnare un cannone con la matita.

Generale! Soltanto il Tempo apprezzerà voi,
le vostre Cannes, le fortificazioni, l’accampamento, le coorti.
Nelle accademie andranno in estasi,
le vostre battaglie e le vostre nature morte
serviranno a far dilatare occhi,
sguardi sul mondo e l’aorta in generale.

Generale! Devo dirvi che voi
siete come un leone alato all’ingresso
di un portone. Giacché voi, ahimè,
non esistete proprio in natura. (4)
No, non è che siete morto
o siete stato battuto – voi non ci siete nel mazzo di carte.

Generale! Che mi mandino sotto processo!
Voglio portarvi a conoscenza del caso:
il totale delle sofferenze dà l’assurdo;
che l’assurdo abbia un corpo!
E si profila la sua sagoma
con qualcosa di nero su qualcosa di bianco.

Generale! Vi dirò un’altra cosa:
Generale! Vi ho usato per la rima con la parola
“è morto” – cosa mi è successo ma (5)
Dio non ha completamente separato
il grano dalla pula e adesso
usare questa rima – è una balla.
————————————————-
Nella landa desolata dove di notte ardono
due lampioni e marciscono i vagoni,
toltomi a metà il vestito
da clown e strappate le spalline,
mi blocco, incrociando lo sguardo
della macchina fotografica Leitz o gli occhi della Gorgone.

Notte. I miei pensieri sono colmi di una
donna, meravigliosa dentro e di profilo.
Quello che mi succede adesso
sta più in basso dei cieli ma più in alto dei tetti.
Quello che mi succede adesso
non vi offende.
———————————————
Generale! Voi non esistete e il mio discorso
è rivolto, come al solito, ora
in quel vuoto, i cui contorni sono i contorni
di un vasto, sordo deserto
che sulle mappe, cosa che voi ed io
abbiamo potuto vedere, non è nemmeno menzionato.

Generale! Se tuttavia voi mi
ascoltate, significa che il deserto cela
in sé una certa oasi, allettando
con ciò il cavaliere; e il cavaliere, quindi,
sono io; sprono il cavallo;
il cavallo, generale, non galoppa da nessuna parte.

Generale! Avendo combattuto sempre come un leone
lascio una macchia sulla bandiera.
Generale! Anche un castello di carte – è un porcile.
Vi scrivo un rapporto, mi attacco alla borraccia.
Per chi è sopravvissuto al grande bluff,
la vita lascia un brandello di carta.

(Autunno 1968)

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1) Nell’epigrafe, composta da B., il “buco” appare come metafora della morte a seguito di una pallottola.
2) Nella propaganda sovietica l’invasione della Cecoslovacchia veniva spacciata per “aiuto fraterno”.
3) Imprecisa citazione dalla poesia di Puskin “Il profeta”.
4) Nella sua corrispondenza da Mosca “Paris-Soir” Saint-Exupèry scriveva di Stalin: ”Si può quasi credere che non esista per quanto sia invisibile la sua presenza”.
5) In russo la parola “umiràl” fa rima con la parola “gheneràl” (generale).

 

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Tutte le Poesie d’amore di Iosif Brodskij (1940-1996) a Marina Basmanova, la Musa del grande poeta russo, prima traduzione in italiano a cura di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova, Il blog sospende per le ferie estive e riapre il 31 agosto, Un saluto a tutti i lettori

Sotto le iniziali M. B. si cela il grande amore di tutta la vita di Brodskij, la Musa indiscussa a cui il poeta dedicò nel corso degli anni numerosissimi versi: Marina Basmanova. Così la descriveva, un po’ severa, Anna Achmatova: “Sottile, intelligente e com’è bella! E neanche un filo di trucco! Solo acqua fredda”. Ed effettivamente c’era in questa ragazza qualcosa di misterioso e grande.
Era nata e cresciuta a Leningrado. Suo padre era un artista famoso, allievo di Petrov-Vodkin. Trasmise quasi in eredità alla figlia l’amore per la pittura. Quando Marina, ancora una illustratrice all’inizio del suo percorso, andava all’Ermitage per immergersi nel lavoro dei grandi maestri, attirava involontariamente l’attenzione di molti visitatori. Alta e snella, con la fronte ampia, capelli marrone scuro lunghi fino alle spalle, sembrava uscita da un quadro del Rinascimento.

Il tuo ricciolo non si arrotola nell’anello
(e non si trovano dita per questo)
nel tentativo di delineare il viso
come prima lo delineava la ciocca.
(J. B.)

Non le mancavano gli ammiratori ma lei non aveva fretta di rinunciare alla sua libertà. Secondo la testimonianza degli amici che la conoscevano bene, la Basmanova si distingueva dalle sue coetanee anche per un altro aspetto: l’amore per tutto ciò che era misterioso ed enigmatico. Aveva inventato un suo linguaggio cifrato per tenere un diario e sulla parete della sua stanza era tracciato sempre in codice un inusuale motto: “Essere, non sembrare”. Perché scelse proprio lui, non lo sa nessuno. Passano gli anni e una degli amici intimi di Brodskij, la scrittrice Ljudmila Stern, nel suo libro “Brodskij: Osja, Josif, Joseph” così ricorderà la Basmanova: “Sembrava molto timida. Non brillava per acutezza e non partecipava alle punzecchiature verbali quando ci sfottevamo reciprocamente. A volte se ne stava per tutta la sera senza aprire bocca”.
Brodskij e Marina si incontrarono per la prima volta il 2 marzo del 1962 ad una festicciola a casa del futuro famoso compositore Boris Tishchenko. Il poeta aveva 22 anni e Marina due di più. Da quel giorno non si separarono più. Lui le leggeva i suoi ultimi versi, Marina lo iniziava alla pittura e lo portava per musei e mostre. Gli amici ritenevano concordi che presto si sarebbero stufati l’uno dell’altro: l’irriverente, sofferente Brodskij e la tranquilla, giudiziosa Marina. Fuoco e acqua. Luna e sole. Marina amava Brodskij col suo stesso ardore? E’ difficile dirlo… Di certo lui la idolatrava!

Io ero soltanto ciò
che tu sfioravi col palmo della mano,
su cui nella sorda, scura
notte chinavi la fronte.
(J. B.)

Ma già allora non tutto era rosa e fiori. Né il padre della Basmanova né i genitori di lui vedevano di buon occhio la loro relazione. E, cosa fondamentale, la stessa Marina non voleva sposarsi. I due litigavano spesso e di continuo “si lasciavano per sempre”. In seguito a questi screzi Brodskij cadeva in una profonda depressione. Spesso andava a casa degli Stern pallido come una mummia, con fresche bende insanguinate ai polsi, in silenzio fumava in cucina una sigaretta dopo l’altra. Ljudmila temeva che l’amico potesse davvero prima o poi farsi seriamente del male. Perciò, quando per l’ennesima volta si presentò da loro con le mani bendate, Victor Stern gli disse a bruciapelo: “Ascolta, Osja, smettila… così spaventi la gente. Se un giorno decidi davvero di farla finita, chiedimi di spiegarti come si fa”. Brodskij accettò il consiglio, non li “spaventò” più ma le cose non andarono meglio.
In questa storia non mancò un banale triangolo amoroso. All’inizio degli anni ’60, Brodskij aveva stretto una solida amicizia con Anatolij Najman, Evghenij Rejn e Dmitrij Bobiscev: facevano tutti parte del gruppo di poeti vicini ad Anna Achmatova la quale, tuttavia, stimava Brodskij più degli altri e gli aveva predetto una grande gloria poetica. Per questo, quando alla vigilia del nuovo anno 1964 Brodskij riuscì a sfuggire alla polizia, temendo di essere arrestato per parassitismo, chiese a Bobiscev di prendersi cura di Marina. Lui la portò da alcuni suoi amici in una dacia a Selonogorsk e la presentò come “la fidanzata di Brodskij”. Tutta la compagnia la accolse festosamente ma, siccome la timida Marina sedette tutta la sera in silenzio, presto si dimenticarono di lei. Cosa successe dopo nessuno lo sa: forse sofferente per l’indifferenza dei presenti o perché da tempo nutriva un interesse per il bel Bobiscev, fatto sta che la silenziosa Marina passò la notte con lui. Agli amici che lo rimprovereranno di aver tradito la fiducia di Brodskij, Bobiscev replicò di non ritenersi affatto colpevole asserendo che Marina era andata da lui e non viceversa e che alla sua domanda se non era la fidanzata di Brodskij, lei aveva risposto alterata: “Io non mi considero la sua fidanzata e quello che pensa lui, sono affari suoi”…

Che peccato che ciò che fu per me
la tua esistenza, non fu per te la mia esistenza.
(J. B.)

Quando giunsero a Brodskij le voci del tradimento di Marina, si precipitò a Leningrado, disgustato da tutto. Passeranno gli anni e ricorderà così tutto ciò: “Non me ne importava niente se mi sbattevano in galera o no. E tutto il processo successivo era una sciocchezza a confronto di quello che era accaduto con Marina…”.
Direttamente dalla stazione piombò da Bobiscev, ci fu tra i due una dolorosa spiegazione che li rese nemici per tutta la vita. Quindi andò da Marina ma lei nemmeno gli aprì la porta. Dopo qualche giorno Brodskij fu arrestato direttamente in strada e rinchiuso in un ospedale psichiatrico; ne seguì il famoso processo al termine del quale fu mandato a scontare una pena di tre anni nella regione di Archangelsk. In seguito, quando già viveva in America, raccontò senza remore alla Stern che: “Tutto ciò era per me meno importante della storia con Marina. Tutte le mie forze interiori se ne erano andate per riappacificarmi con questa infelicità”.

Addio, cara. Togliti l’anello, abbonati ad una rivista di moda.
E puoi sputare in faccia a chi prenderà il mio posto.
(J. B.)

Nel villaggio di Norenskaja Brodskij scrive alcuni tra i suoi versi migliori di nuovo grazie a Marina che lo raggiunse lì e vi rimase a lungo. Lui era pronto a perdonarle tutto purché non finisse la loro favola e stessero ancora insieme. Ma… arrivò Bobiscev e la Basmanova se ne andò con lui. Ma poi tornò. E così per diverse volte. Brodskij soffriva, vagava per la casa vuota ma non poteva cambiare nulla: non si sceglie l’amore, come la patria e i genitori. Tra questi incontri e addii nel 1968 nacque il loro figlio Andrej al quale fu dato solo il cognome della madre forse per evitargli il complesso destino di altri figli famosi, quali il figlio dell’Achmatova e Gumilev e il figlio della Cvetaeva. Il poeta sperava che ora Marina si decidesse ad ufficializzare la loro unione ma Marina rifiutò anche questa volta e nemmeno la notizia dell’espulsione del poeta dall’URSS le fece cambiare idea. Nonostante le sue speranze Brodskij se ne andò da solo.
In seguito Marina mise fine anche alla storia con Bobiscev, preferendo crescere da sola il figlio.
La ferita bruciò ancora a lungo: come per vendicarsi del tradimento, Brodskij si trasformò in un cinico che non credeva più nell’amore e cambiava donne come fossero guanti, asserendo più volte che non poteva vivere sotto lo stesso tetto se non col suo amatissimo gatto Mississipi. Ma continuò a scrivere versi dedicati a M.B. Una volta, in risposta ad un invito a tornare a Leningrado, rispose con amarezza: “No, non si torna sul luogo dell’amore!”
Tuttavia tutto cambiò quando nella vita di Brodskij apparve una giovane studentessa italiana di madre russa di trent’anni più giovane e straordinariamente somigliante a Marina, Maria Sozzani: nel 1991 si sposarono e dopo un anno nacque la loro unica figlia che chiamarono Anna in onore di Anna Achmatova. Gli anni passati con la giovane moglie furono felici e dall’inizio degli anni ’90 Brodskij non dedicherà più versi alla Basmanova.
Ma nel 1989 aveva scritto una poesia nella quale questa volta si era rivolto a lei con parole ironiche e sprezzanti:

…. Un quarto di secolo fa nutrivi una gran passione per il kebab e i datteri,
disegnavi a china sul block notes, cantavi un po’,
ti divertivi con me; ma poi ti sei messa con un ingegnere-chimico
e, a giudicare dalle lettere, sei diventata straordinariamente stupida…

Quando Ljudmila Stern lesse questi versi, gli scrisse una lettera furente: “Joseph, perdonami o detestami ma non posso tacere. Cosa hai annunciato al mondo con questa poesia? Che, alla fine, hai smesso di amare M.B. e ti sei liberato dopo un quarto di secolo del suo incantesimo? Che sei guarito dalla “malattia cronica?” Ed in onore di questo avvenimento l’hai colpita nel plesso solare? A che scopo l’indipendente “libero figlio dell’etere” sputa attraverso l’oceano in faccia alla donna che ha amato ‘più degli angeli e di Sé Stesso’?”
Brodskij non rispose ma poco prima della morte, chissà perché, dedicò a Marina Basmanova tutti i componimenti scritti nel corso della sua vita per diverse donne. Riunendoli nel libro Nuove stanze per Augusta, scrisse semplicemente e laconicamente: “Questa è una raccolta di versi di una ventina d’anni che hanno più o meno un solo destinatario. In una certa misura è la cosa principale della mia vita”.
Marina Basmanova continua a vivere a San Pietroburgo…e continua a tacere: non ha scritto memorie, rifugge dai giornalisti, non si è mai lamentata, non ha mai commentato i suoi rapporti con Brodskij, non si trovano sue foto. Non ha mai nemmeno visitato la Casa-Museo allestita in quella “stanza e mezzo” sulla via Pestelja, che dà il nome al famoso saggio che Brodskjj dedicò alla memoria dei suoi genitori che, com’è noto, non vide più dal giorno della sua partenza né vivi né morti. D’altronde lei, Marina, in quella casa non ci aveva mai messo piede.

Tra le poesie qui presentate riteniamo che “Anno Domini”, scritta presumibilmente nel gennaio del 1968 (lo stesso anno di nascita del figlio), meriti una particolare attenzione.
Sebbene il titolo ripeta quasi letteralmente quello del libro dell’Achmatova “Anno Domini MXMXXI”, Brodskij sottolineò più volte che il “suo” Anno Domini non aveva alcuna attinenza con l’opera della grande poetessa.
Si tratta della prima composizione in cui Brodskij codifica la vita personale e l’attività artistica in immagini che richiamano un convenzionale “Impero Romano”. Ciò si spiega con la passione che egli nutriva in quel periodo per l’antichità, per il mondo latino e i suoi poeti lirici. Seguiranno Post aetatem nostram, il ciclo Lettere ad un amico romano, il lavoro teatrale Marmo, pubblicato nel 1984.
Non si può non sottolineare che l’avvenimento chiave dell’anno precedente era stato la pubblicazione del Maestro e Margherita di Bulgakov. Inizialmente Brodskij aveva avuto un atteggiamento critico nei confronti del romanzo ma, successivamente, ammise che gli avvenimenti salienti della prosa russa degli anni ’60 erano stati la riscoperta di Bulgakov e la pubblicazione del Dottor Zivago di Pasternak.
Se la descrizione del vecchio governatore, insonne e malato, rimanda alle pagine dedicate da Bulgakov a Ponzio Pilato, secondo la professoressa polacca Szymak-Peiforova (traduttrice e profonda conoscitrice dell’opera di Brodskij) la figura del misterioso scrittore, raffigurato in Anno Domini, “… potrebbe essergli stata suggerita dal passo in cui Pilato invita Levi Matteo ad entrare al suo servizio e diventare il custode della sua biblioteca. Tutta la composizione viene, così, ad essere una riflessione su una ipotetica collaborazione dello scrittore col potere, sulla responsabilità dell’artista, una variante del comportamento dello scrittore successivamente vigorosamente respinta e condannata dal poeta”.

Iosif brodskij 5

Iosif brodskij a Venezia

INDOVINELLO PER L’ANGELO

a M.B.*

Il mondo delle coltri è rovinato dal sonno.
Ma nello sguardo teso di qualcuno
si profila nel crepuscolo notturno
il mare tagliato dalla finestra.
Due barche mettono a nudo il fondo
facendo un tutt’uno con un paio di scarpe.
La coperta rigonfia e le onde richiamano
la doppia tessera del domino.

Stretta al cuscino, la mano
scivola lungo i fusti perpendicolari
irrompendo in queste nuvole
col suo gesto sgrammaticato.
La calza sfilata sulla pietra,
ricurva nel buio come un cigno
a mo’ di svasatura guarda il soffitto
come fosse una rete annerita.

Due mari con l’aiuto di una parete,
con l’aiuto di un pensiero incerto
qui in qualche modo così divisi
che le reti da pesca nel buio pendono
vuote in questa profondità
ma aspettano tuttavia di venire a galla
grazie al filo che, unendole entrambe,
passa attraverso la croce della finestra.

Gialla, una stella riluce sull’onda,
si profilano le barche immobili.
Solo la croce ruota alla finestra
simile ad un semplice argano.
Verso la superficie da due vuoti
due reti risalgono
sperando: la croce le sposterà
e le lascerà andare in un altro posto.

C‘è così tanto silenzio che non si sentono parole,
che ad una finestra vuota pare
che la speranza di un ricco bottino
sia più forte dell’immobilità della casa.
Ed ecco nel buio della notte
alla finestra col suo chiar di luna
due orticelli sembrano un’onda
e il cespuglio di fronte al portico – un’onda schiumosa.

Ma la casa è immobile e il recinto
nell’oscurità si tuffa a mo’ di galleggiante
e un’ascia piantata nel portico
da sola fa la guardia ai tronchi affondati.
L’orologio stride. In lontananza
soffoca con un brontolio il motoscafo,
come schiaccia ostriche nella sabbia
con il piede un incorporeo osservatore.

Due occhi trasudano un grido.
Solo le palpebre, emettendo un fruscio,
nel buio li proteggono
come fossero ante.
Per quanto tempo affogare questo dolore,
travolgere con la parola a motore,
per concederle che come vaiolo si diffonda
sul caldo biancore dell’avambraccio?

Per quanto tempo? Fino al mattino? Poco probabile.
E il vento fruscia nel tentativo
di togliere il velo di gelsomino
dal volto aperto del cancelletto.
La rete è stata scelta, nei cespugli l’upupa
con un fischio anticipa il furto.
E in silenzio si blocca colui
che vaga nel buio sulla spiaggia.

(1962)
* su questa poesia compare per la prima volta la dedica “a M. B.”

iosif brodskij sulla scrivania
a M. B.

Ho abbracciato queste spalle e sbirciato
quello che accadeva dietro la schiena
e vidi che la sedia spostata in avanti
era diventata un tutt’uno con la parete illuminata.
C’era nella lampadina una incandescenza intensificata,
sfavorevole per il logoro mobilio
e perciò il divano all’angolo scintillava
di pelle marrone come fosse gialla.
Il tavolo era vuoto. Il parquet luccicava.
La stufa era scura. Nella cornice impolverata
si è congelato il paesaggio. E soltanto la credenza
mi sembrava allora animata.
Ma una falena girava per la stanza
e deviò il mio sguardo dalla immobilità.
Se un tempo ha vissuto qui un fantasma
allora ha abbandonato questa stanza.

(Komarovo, 2 febbraio 1962)

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Antologia della poesia di Nikolaj Gumilëv (1886-1921), Prima traduzione in italiano, a cura di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova 

          

Nikolaj Stepanovič Gumilëv nacque a Kronnstadt, nel 1886 e morì nel 1921 fucilato dai bolscevichi. Studiò in un liceo diretto dal poeta Annenskij. Cominciò a pubblicare poesie dal 1902. Nel 1905, ancora al liceo, uscì la sua prima raccolta poetica, Il cammino dei conquistatori. In seguito si trasferì a Parigi per studiare alla Sorbona. Nel 1909 fonda il giornale “Apollon”.
Nel 1910, alle celebrazioni del poeta simbolista Ivanov incontrò la poetessa Anna Achmatova che sposò pochi mesi dopo. Nel 1911 fondò con Gorodeckij l’associazione “Gilda dei poeti” per tornare alla concretezza e alla solidità del lavoro dell’artigiano. Presero parte della Gilda anche Anna Achmatova e Osip Mandel’štam, il movimento fu denominato Adamismo ma passerà alla storia come acmeismo (da acmé, vertice).
Gumilëv tradusse in russo Gilgamesh, Leopardi, Gautier, Shakespeare, Baudelaire, Browing e altri. Dopo la Achmatova, nel 1919, sposò Anna Engel’gardt, L’ultimo libro è Colonna di fuoco del 1921. Arrestato il 3 agosto 1921 con la falsa accusa di partecipazione a un complotto monarchico, della congiura di Tangacev – fu fucilato il 25 agosto con altri compagni. Un aneddoto raccontato dalla moglie di Mandel’štam, Nadezda, lo descrive bene. Siamo nel gelido inverno di Pietroburgo, nel 1919, la temperatura è abbondantemente sotto i venti gradi. Un ricevimento in un salone terribilmente gelido. Si presenta Gumilëv con un leggerissimo abito estivo (non possedeva abiti invernali), e cammina senza battere ciglio nel salone gelido come se nulla fosse. Ufficiale zarista, era stato insignito di una importante onorificenza di guerra per il coraggio mostrato in combattimento. Parteggiò per i bianchi. Fu arrestato la sera e la mattina seguente venne ucciso dai bolscevichi.

nikolaj-stepanovic-gumilev

Nel ringraziare Giorgio Linguaglossa e “L’ombra delle parole“ per l’ospitalità data al nostro lavoro su un poeta poco tradotto e, di conseguenza, poco conosciuto in Italia, vorremmo attirare l’attenzione del lettore sulla poesia “Il tram che si era perso” che è considerata una delle più misteriose della poesia russa. Lo stesso Gumilëv raccontò che l’aveva scritta in pochi minuti come se qualcuno “dal di dentro” gli dettasse i versi che combinano i due generi della visione e della ballata. Come il protagonista della “Commedia” di Dante, l’io lirico della composizione si trova fin dall’inizio in un luogo sconosciuto ma, se Dante vede dinanzi a sé un bosco, Gumilëv delinea un paesaggio fortemente urbanizzato.

In una sorta di reincarnazione (tema già affrontato nella poesia “Il ricordo”) il poeta rivive tre rivoluzioni: quella francese, la rivolta di Pugacëv del 1773 e la rivoluzione bolscevica. Per la prima notiamo i rimandi alla figura del boia (raffigurato qui per licenza poetica in camicia rossa e non nella consueta camicia bianca), le teste mozzate, la cesta sul cui fondo giacciono, le insegne insanguinate. La rievocazione della figura di Mar’ja (Mascia), la protagonista del racconto di Puskin La figlia del capitano, ci riporta all’epopea di Pugacëv: anche qui una licenza poetica. Gumilëv “inventa” un altro finale, dal momento che nell’originale la nostra eroina non muore ma sposa felicemente il suo amato. Ma in Mascia si compone l’immagine della Russia prerivoluzionaria, quella che Gumilëv tanto amava e riteneva essere la vera Russia.

L’immagine del tram simboleggia la rivoluzione del 1917 e l’invocazione “Fermate, conducente// fermate il vagone” esprime compiutamente la posizione del poeta nei confronti dell’epoca che viveva e che, come è noto, lo portò davanti al plotone d’esecuzione. Ma nessuno ormai poteva fermare il vagone e Gumilëv doveva andare avanti, riconoscendo con amarezza che “la casa con tre finestre e il prato grigio” che baluginavano sarebbero rimaste per sempre nel passato: “Non ho mai pensato// che si possa amare così ed essere tristi”.

Anna Achmatova scrisse: “Gumilëv è un poeta ancora non compiutamente letto. E’ un visionario, un profeta. Predisse la sua morte con ogni particolare fino all’erba autunnale”.

Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova

Poesie di Nikolaj Stepanovič Gumilëv

Cosa ho letto? Vi annoiate, Leri, *
E se ne sta sotto il tavolo Socrate.
Siete stufa dell’antica fede?
– Che bel ballo in maschera!
Eccomi nella mia angusta stanzuccia
mi rallegro per la vostra lettera.
Com’è adorabile il cappello di Faust
sul caro volto di fanciulla.
Ero con voi, completamente innamorato,
me ne andai, stringendomi per la nostalgia.
E’ più terribile di un cappello calzato
Il gesto di una mano che si allontana.
Ma serbai il ricordo
Dei giorni stupendi e inquieti,
il mio pavido fantasticare
sui vostri dolci occhi.
Davvero li rivedrò di nuovo
e resterò immobile per il dolore e l’amore
e a loro, splendenti, avvicinerò
i miei occhi tartari?!
E di nuovo ricominceranno i nostri incontri,
il vagabondaggio notturno a casaccio
e le nostre chiacchierate maliziose
e le Isole e il Giardino d’Estate?
Ma, ah, potrò forse io non essere cupo,
posso forse scacciare il dubbio?
Eppure la malinconia può
essere appena
una bella avventura.
e, giustamente, il giorno ingrigendo colse
di nuovo Socrate sul tavolo,
perciò “Emaux et carmees”
con “La faretra” nella stessa polverosa foschia.
E così voi, simile ad un gatto,
dicevate al notturno: “Addio!”
e vi porta velocemente verso la Psiconeuroska, **
risuonando e saltando, un tram.

(1916)

* Larissa M. Rejsner
** istituto dove la Rejner studiava

*

ad  Anna Achmatova 

Mi avete dato un album aperto, *
vi cantavano corde di lunghi versi,
io lo portai via e, arrabbiato,
lungo il cammino chiusi di scatto la serratura.
Brutto segno! Mi tormentavo,
dinanzi a lui leggevo versi,
pregavo ma non si aprì,
era più spietato delle furie della natura.
E mi toccherà abituarmi
alla consapevolezza, colma di nostalgia,
che devo penetrarvi dentro
come nel vostro cuore – come un ladro.

(maggio 1917)

UN SOGNO

Cominciai a gemere per un brutto sogno
E mi svegliai davvero afflitto:
sognai che amavi un altro
e che lui ti aveva offesa.

Correvo via dal mio letto,
come un assassino dal suo patibolo
e osservavo come fiocamente rilucevano
i lampioni con occhi di fiera.

Ah, forse, così randagio
non vagava nessuno
in quella notte per le vie oscure,
lungo letti di fiumi asciutti.

Ecco, starò davanti alla tua porta,
non mi è concessa altra via
sebbene io sappia che mai
oserò oltrepassare questa porta.

Lui ti ha offeso, lo so,
sebbene fosse solo un sogno
tuttavia sto morendo
dinanzi alla tua finestra chiusa.

(1917)

MEMORIALE

Ed eccola tutta la vita! Turbinio, canto,
mari, deserti, città,
immagine baluginante
del per sempre perduto.

Infuria la fiamma, suonano le trombe
e volano rossi cavalli,
poi labbra che emozionano
parlano, sembra, della felicità.

Ed ecco di nuovo estasi e dolore
di nuovo, come sempre, come sempre
Il mare agita la canuta criniera,
si alzano deserti, città.

Quando alla fine, ribellatomi
al sonno, io sarò di nuovo io –
un semplice indiano che si è assopito
nella notte sacra vicino al ruscello?

(1917) Continua a leggere

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Aleksandr Aleksandrovič Blok, Poesie, La sconosciuta e altre poesie, nuova traduzione in italiano a cura di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova

foto spavento Il momento dello sbalordimento e del terrore è il momento in cui l'homo sapiens si accorge di avere un linguaggio.

Giorgio Linguaglossa: «Il momento dello sbalordimento e del terrore è il momento in cui l’homo sapiens si accorge di avere un linguaggio.»
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Aleksandr Blok (San Pietroburgo, 28 novembre 1880 – 7 agosto 1921) il maggiore poeta simbolista russo – era nato a Pietroburgo nel 1880. Esordì con il ciclo Ante lucem (1898-1900), di cui facevano parte poesie pubblicate più tardi nel volume Versi sulla Bellissima Dama (1905). In questi versi Blok, seguendo le dottrine del poeta filosofo Vladimir Solovjov (1853-1900), canta la quintessenza umana della femminilità eterna, invoca la Sposa celeste in un rapimento estatico, saturo di sensualità, di teneri sospiri, di sensazioni ineffabili.
Il fallimento della rivoluzione del 1905, in cui aveva creduto, infrange nel poeta le speranze di un rinnovamento spirituale e politico della società, e a partire dal 1906 la sua voce rivela delusione e amarezza. L’ironia, unita a un sentimento di rivolta e di insofferenza, trova posto nella sua anima ormai libera dall’estasi e dai sogni giovanili.
Nel dramma La baracca dei saltimbanchi, rappresentato a Pietroburgo nel 1906, Blok deride con spietato sarcasmo, in un susseguirsi di immagini grottesche e illusorie, le sue precedenti esperienze mistiche. Nei versi del ciclo Il mondo terribile, la Sposa celeste è ormai una creatura terrena, una prostituta. Pietroburgo è uno squallido aggregato di bettole fumose e sporche, di vecchi straccioni mendicanti, di vagabondi, di relitti alla deriva. Nel dramma La sconosciuta il sacro tempio si trasforma in una casa di tolleranza.
L’amore ideale, nebuloso, ormai svanito, lascia il posto all’amore per la Russia, che Blok vede come entità concreta e divina, come una creatura sofferente. «La Russia resta sempre la stessa: un’entità lirica», scriveva alla madre nel 1909, e aggiungeva: «Qualunque cosa accada, essa resterà sempre la Russia dei miei sogni». Da questo amore, dall’entusiasmo suscitato in lui dagli avvenimenti del 1917 e soprattutto dalle giornate di Ottobre, nacquero due poemi: I dodici e Gli Sciti, entrambi scritti nel 1918.
Blok sentì la «musica» della Rivoluzione, presagì l’ineluttabilità del cataclisma che avrebbe spazzato via tutte le ingiustizie del «mondo terribile», del vecchio mondo. Nei Dodici sono mirabilmente amalgamate le emozioni e i presentimenti dell’imminente lotta sociale. Nei giorni in cui lavorava a questo poema, il poeta incontrò alcuni noti esponenti del Partito comunista e così si espresse con loro: «A voi interessa la politica, il partito, mentre noi poeti cerchiamo l’anima della Rivoluzione. Essa è stupenda, e qui siamo tutti con voi».
A confermare il carattere «sacro» della Rivoluzione appare in chiusura l’immagine di Cristo, quasi in contraddizione con tutto il contenuto del poema. Cristo che avanza davanti alle dodici guardie rosse, simboleggianti gli apostoli, è un puro simbolo poetico che sta ad esprimere la benedizione etico-religiosa della Rivoluzione da parte del poeta. Tutto il poema è in movimento continuo, movimento irrefrenabile che ha un’unica direzione: «Avanti!». La ricchissima gamma di contrasti lessicali, la sequela di immagini come lampi di magnesio, le dissonanze, gli elementi polifonici che si fondono in un’armonia superiore, tutto ciò concorre a creare quel ritmo incalzante, terribile e continuo, che si fa particolarmente solenne nelle strofe finali. In questa creazione il genio musicale e pittorico di Blok raggiunge il vertice. In seguito, svanito l’ardente entusiasmo dei primi mesi della Rivoluzione, oppresso e deluso dall’arido e pedantesco apparato burocratico che lo circondava, avvilito da difficoltà e incomprensioni, il poeta si abbandonò a un cupo pessimismo. Stanco e isolato si spense il 7 agosto del 1921.
(Paolo Statuti)

Aleksandr Blok
Aleksandr Blok

.

La sconosciuta

Nelle sere, nei ristoranti
l’aria calda è selvaggia e sorda
e governa le grida degli ubriachi
lo spirito dannoso e primaverile.

In lontananza, sulla polvere dei vicoli,
sul tedio delle dacie fuori città
sembra quasi d’oro la ciambella del fornaio
e risuona un pianto di bambini.

Ed ogni sera, al di là delle sbarre,
con le bombette alla ventitrè,
passeggiano con le dame in mezzo ai borri
navigati bontemponi.

Sul lago scricchiolano gli scalmi
e gridolini femminili risuonano
e nel cielo, a tutto abituato,
senza senso si incurva il disco.

Ed ogni sera l’unico amico
nel mio bicchiere si riflette
e dalla misteriosa ed aspra umidità
è, come me, stordito e sottomesso.

Accanto ai tavoli vicini
se ne stanno assonnati lacchè.
E gli ubriachi con occhi di coniglio
gridano: ”In vino veritas!”1

Ed ogni sera, all’ora stabilita
(o è soltanto un mio sogno?)
una figura di fanciulla, avvolta nelle sete,
si muove nella finestra nebbiosa.

E lentamente, passando in mezzo agli ubriachi,
sempre senza accompagnatori, sola,
esalando profumi e nebbie,
si siede vicino alla finestra.

E sanno di antiche credenze
le sue elastiche sete
ed il cappello con le piume da lutto
e la sottile mano inanellata.

E, raggelato dalla strana vicinanza,
scruto dietro il velo scuro
e vedo una riva incantata
ed una incantata lontananza.

Profondi misteri mi sono affidati,
mi è stato affidato il sole di qualcuno
e tutti i meandri dell’animo mio
penetrò un aspro vino.

E le oblique piume di struzzo
dondolano nel mio cervello
e gli azzurri occhi senza fondo
fioriscono su una riva lontana.

Giace nella mia anima un tesoro
e la chiave solo a me è affidata!
Hai ragione, mostro ubriaco!
Lo so: la verità è nel vino!

1 In latino nel testo russo

(24 aprile 1906)

*

Aveva aspettato tutta la vita. Era stanca di aspettare.
E sorrise. E si chinò.
Una ciocca non raccolta di capelli
calò sulle spalle scure.

Il mondo non è né grande né ricco.
E non bisognerebbe guardare con sguardo scuro!
Ma la gente dice solo
che bisogna aspettare ed essere docili…

Ma qua un piffero
canta straziante, dolente, delicato:
“Dondola la culla di un’altra,
accarezza il bimbo non amato…”

Io anche sono qui. Col mio destino,
sulla lira adirata come una scure.
Così sottomesso e rabbioso.
Faccio affari nei mercati del mondo…

Credo alla foschia dei tuoi capelli
e alla tua magnificenza.
Il mio animo orfano – il tuo cane fedele,
fa risuonare ai tuoi piedi la catena…

Ed ecco di nuovo, ecco di nuovo,
incontrandomi con questo sguardo scuro,
voglio chiamarti per nome,
respirare e vivere con te accanto…

Sogno! Cos’è il sonno della via?
Veleno – dietro altro veleno…
Io tradirò te, come quel sogno
senza tradire, senza fingere…

E’ divertente vivere! E’ divertente sapere
che sotto la luna non c’è nulla di nuovo!
Che ad un morto è concesso di generare
una parola brulicante di vita!

E nessuno si preoccupa
di ciò che io darò alla gente, di ciò che tu hai dato a me
ma la gente – sulla lapide
scriverà come epitaffio – Poeta.

(13 gennaio 1908)

*

Oh primavera senza fine e senza limiti –
senza fine e senza limiti è il sogno.
Ti riconosco, vita! Ti accolgo!
E ti saluto col suono dello scudo!

Ti accolgo, fallimento
e, fortuna, a te il mio saluto
nella incantata regione del pianto,
nel mistero del riso non c’è vergogna!

Accolgo le dispute insonni,
il mattino nelle scure cortine della finestra
affinché i miei occhi infiammati
irriti ed inebri la primavera.

Accolgo deserti paeselli!
E pozzi delle città della terra!
L’illuminata vastità del cielo
e la sofferenza del lavoro dei servi!

E ti incontro sulla soglia –
col vento impetuoso nei riccioli di serpente,
col nome enigmatico di Dio
sulle labbra fredde e serrate…

In previsione di questo incontro ostile
non abbasserò lo scudo…
Tu non allargherai mai le spalle
ma sopra di noi – un sogno inebriante!

E guardo e misuro l’ostilità
odiando, maledicendo e amando!
Nonostante la sofferenza, la morte – lo so –
fa lo stesso: io ti accolgo!

(14 ottobre 1907)

*

Aleksandr Blok 6

Quando voi state sul mio cammino, Continua a leggere

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 Il mattino dell’acmeismo  – Nel 1919 viene pubblicato il terzo manifesto dell’acmeismo scritto da Osip Mandel’štam (1891-1938). Prima traduzione integrale in italiano a cura di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova

osip mandel'stam

   Osip Ėmil’evič Mandel’štam (Varsavia, 15 gennaio 1891 – Vladivostok, 27 dicembre 1938) nasce a Varsavia da una benestante famiglia ebraica. Nel 1900  Mandel’štam si iscrive alla prestigiosa scuola Teniševskij, sul cui annuario, nel 1907, appare la sua prima poesia. Nel 1908  entra alla Sorbona di Parigi per studiare letteratura e filosofia, ma già l’anno seguente si trasferisce all’Università di Heidelberg e, nel 1911, a quella di San Pietroburgo. Nel 1911 aderisce alla «Gilda dei poeti», fondata da Nikolaj Gumilëv e da Sergej Gorodeckij, gruppo intorno al quale si svilupperà il movimento letterario dell’acmeismo di cui Mandel’štam, nel 1913, redige in gran parte il manifesto che verrà pubblicato nel 1919. Nello stesso anno appare la sua prima raccolta di poesie, Kamen’ (Pietra). Nel 1922  si trasferisce a Mosca con la moglie Nadežda, sposata l’anno precedente e pubblica la sua seconda raccolta, Tristia. Da questa data escono vari scritti di saggistica, critica letteraria, memorie: Il rumore del tempo e Fedosia, entrambe del 1925, e brevi testi in prosa, Il francobollo egiziano, del 1928. Nel 1933 pubblica una poesia contro Stalin, una sarcastica critica del regime comunista. Sei mesi più tardi viene arrestato una prima volta dal Nkvd, e inviato con la moglie al confino sugli Urali, a Čerdyn’. In seguito, dopo un suo tentativo di suicidio, la pena verrà attenuata in divieto di ingresso nelle grandi città e, con Nadežda, sceglie di stabilirsi a Voronež. Nel 1938  viene nuovamente arrestato. Condannato ai lavori forzati, è trasferito all’estremo oriente della Siberia dove muore a fine dicembre nel gulag di Vtoraja  rečka, un campo di transito presso Vladivostok.

Mandel'stam, Cukovsky, Livshiz, Annenkov 1914 Karl Bulla.

Mandel’stam, Cukovsky, Livshiz, Annenkov 1914 Karl Bulla

Il mattino dell’acmeismo

     I

Di fronte alla enorme concitazione emozionale, legata alla creazione artistica, è desiderabile che i discorsi sull’arte siano caratterizzati dalla massima compostezza. Per la stragrande maggioranza l’opera d’arte è appetibile solo perché in essa si intravvede la concezione del mondo dell’artista. Tuttavia, la concezione del mondo è per l’artista strumento e mezzo come il martello nelle mani del muratore, solo ciò che è reale – è opera di per sé stesso.

Esistere – è il sommo amor proprio dell’artista. Egli non vuole altro paradiso ad eccezione dell’essere e quando gli parlano della realtà, egli sorride soltanto amaramente perché sa che è infinitamente più persuasiva la realtà dell’arte. Lo spettacolo di un matematico che, senza pensarci su, eleva al quadrato un numero a dieci cifre ci riempie di un certo stupore. Ma troppo spesso perdiamo di vista il fatto che il poeta eleva il fenomeno alla decima potenza e che la modesta apparenza dell’opera d’arte non di rado ci inganna rispetto alla realtà mostruosamente fitta che essa possiede. In poesia questa realtà – è la parola, come tale. Adesso, ad esempio, formulando il mio pensiero secondo la possibilità in forma precisa ma assolutamente non poetica, io parlo con la coscienza non con la parola. I sordomuti si capiscono perfettamente l’un l’altro e i semafori ferroviari assolvono un compito assai complesso senza ricorrere all’aiuto della parola. In tal modo, se dobbiamo considerare il senso come contenuto, tutto il resto che è nella parola, deve essere considerato una semplice aggiunta meccanica che ostacola soltanto la veloce trasmissione del pensiero. Lentamente è nata la parola “come tale”. A poco a poco, uno dopo l’altro tutti gli elementi della parola si sono inseriti nel concetto di forma, solo il pensiero cosciente, il Logos, finora falsamente ed arbitrariamente è considerato il contenuto. Da questo inutile rispetto il Logos ci rimette soltanto; il Logos ha bisogno soltanto della parità con gli altri elementi della parola. Il futurista, che non si è confrontato con il pensiero consapevole, così come sul materiale della produzione artistica, con leggerezza lo gettò fuori di bordo e, sostanzialmente, ripetette il terribile errore dei suoi predecessori.

Per gli acmeisti il significato cosciente della parola, il Logos, è la stessa meravigliosa forma come la musica per i simbolisti.

E se per i futuristi la parola, in quanto tale, ancora gattona, nell’acmeismo essa per la prima volta assume una posizione verticale più rispettabile e fa il suo ingresso nel secolo di pietra della sua esistenza.

II

La lama dell’acmeismo non è uno stiletto e nemmeno il pungiglione del decadentismo. L’acmeismo, per quelli che sono inebriati dal fuoco della creazione, non rinuncia vilmente al suo peso ma lo accoglie con gioia per suscitare ed utilizzare in modo architettonico le forze in esso dormienti. Un architetto dice: – costruisco – significa – ho ragione. La consapevolezza della nostra ragione ci è molto più cara in poesia e, gettando via con disprezzo la futilità dei futuristi, per i quali non c’è piacere maggiore dell’agganciare con un ferro da calza una parola difficile, noi introduciamo il gotico nella relazione delle parole esattamente come Sebastian Bach lo ratificò in musica. Quale folle darà il suo assenso a costruire se non crede nella realtà del materiale, la cui resistenza egli deve vincere. La selce sotto le mani di un architetto si trasforma in sostanza ma non è nato per costruire, colui per il quale il suono dello scalpello che frantuma la pietra non è una dimostrazione metafisica. Vladimjr Solov’ëv ha provato un particolare profetico sgomento davanti a dei grigi macigni finlandesi. La muta eloquenza di un masso di granito lo inquietava come una malvagia magia. Ma la pietra di Tjutčev che “staccatasi dalla montagna, giaceva nella pianura, precipitò da sola o fu spinta per opera di una mano pensante” – è parola. La voce della materia in questa caduta inaspettata risuona come un discorso articolato. A questo invito si può rispondere solo con l’architettura. Gli acmeisti raccolgono con venerazione la misteriosa pietra di Tjutčev e la collocano alla base del loro edificio.

La pietra sembrerebbe anelare ad un’altra vita. Ha scoperto in sé stessa una capacità dinamica in essa potenzialmente celata – come se chiedesse il permesso di partecipare “nella volta a croce” alla felicità di azioni ad essa consone.

III

I simbolisti erano cattivi pantofolai, amavano viaggiare ma non si sentivano a loro agio sia nella gabbia del loro organismo sia in quella gabbia mondiale che costruì Kant con l’aiuto delle sue categorie.

Per tale motivo per costruire con successo, la prima condizione è la sincera venerazione per le tre dimensioni dello spazio – guardare al mondo non come un fardello ed una sciagurata casualità ma come un palazzo donato da Dio. Effettivamente, cosa direte di un ospite ingrato che vive a spese del padrone di casa, usa la sua ospitalità e nel contempo lo disprezza nell’animo e pensa soltanto a come potrebbe metterlo nel sacco. Si può costruire solo in nome delle “tre dimensioni” dal momento che esse sono le condizioni di qualsivoglia architettura. Ecco perché l’architetto è un buon pantofolaio e i simbolisti sono stati dei cattivi architetti. Costruire – significa lottare col vuoto, ipnotizzare lo spazio. La bella guglia gotica di un campanile gotico – è malvagia, poiché tutto il suo significato è pungere il cielo, rinfacciargli il fatto che è vuoto.

IV

L’originalità della persona, quello che ne fa un individuo, è da noi sottintesa e rientra in un concetto molto più ampio di organismo. Gli acmeisti condividono l‘amore per l’organismo e l’organizzazione con il filosoficamente geniale Medioevo. Nella caccia alla raffinatezza, il XIX secolo ha perduto il segreto della autentica complessità. Quello che nel XIII secolo sembrava il logico sviluppo della comprensione dell’organismo – una cattedrale gotica – adesso ha valore dal punto di vista estetico come qualcosa di mostruoso.  Notre Dame è la festa della fisiologia, la sua baldoria dionisiaca. Noi non vogliamo svagarci in una “passeggiata” nel “bosco dei simbolisti” perché noi abbiamo un bosco più intatto, più impenetrabile – la divina fisiologia, la infinita complessità del nostro oscuro organismo.

Il Medioevo, determinando a suo modo il peso specifico dell’individuo, lo sentiva e determinava per ciascuno in modo assolutamente indipendente dai suoi meriti. Il titolo di maestro si applicava volentieri e senza esitazioni. Il più modesto artigiano, l’ultimo scrivano possedeva una solida e misteriosa importanza, un valore religioso tanto caratteristico per questa epoca. Sì, l’Europa passò attraverso il labirinto di una cultura finemente ricamata, quando l’astratta quotidianità, l’esistenza individuale in alcun modo abbellita veniva apprezzata come una impresa eroica. Da lì l’aristocratica intimità, che unisce tutte le persone, così estranea allo spirito “uguaglianza e fraternità” della Grande Rivoluzione. Non è uguaglianza, non è competizione, è la complicità degli esseri nella flotta contro il vuoto e la non esistenza.

Amate l’esistenza della cosa più della cosa stessa e la vostra vita più di voi stessi – ecco il massimo comandamento dell’acmeismo.

V

A=A: che meraviglioso tema poetico. Il simbolismo soffriva, aveva a noia la legge della identità, l’acmeismo ne fa la sua parola d’ordine e lo propone al posto della discutibile: “a realibus ad realiora”*:

La capacità di stupirsi – è la principale virtù del poeta. Ma come non stupirsi allora di fronte alla più fruttuosa delle leggi – la legge dell’identità. Chi sarà pervaso da uno stupore pieno di venerazione di fronte a questa legge – è un indiscutibile poeta. In tal modo, accettando la sovranità della legge della identità, la poesia riceve vita natural durante tutto l’universo senza condizione e limitazione. Pensare in modo logico, significa meravigliarsi ininterrottamente. Noi ci innamorammo della musica della dimostrazione. Il legame logico non è per noi una filastrocca per bambini ma una sinfonia con organo e canto così difficile ed ispirata che al direttore tocca raccogliere tutte le sue capacità per farsi obbedire da tutti gli esecutori.

Come è convincente la musica di Bach! Che potenza di dimostrazione! Provare e provare senza fine: credere nell’arte non è degno dell’artista, è futile, noioso… Noi non voliamo ma  saliamo soltanto su quella torre che noi stessi possiamo costruire.

Vi

Il Medioevo ci è caro perché possedeva ad alto livello il senso del limite e della barriera. Non ha mai confuso piani diversi ed ha fatto capo all’ultraterreno con enorme ritegno. Il magnanimo miscuglio di ragionevolezza e mistica e la percezione del mondo come equilibrio vivo, ci accomuna a questa epoca e ci stimola ad attingere le forze nelle opere, generate nel campo romanico intorno all’anno 1200. Dimostriamo la nostra ragione cosicché in nostra risposta tremi tutta la catena di cause e conseguenze dall’alfa all’omega, impariamo a portare “con più facilità e libertà le mobili catene dell’esistenza”.

* La formula del simbolismo, dettata da V. Ivanov. “Pensieri sul simbolismo” nella raccolta “Solchi e limiti”.

mandel'stam foto segnaletica nel lager 1938

mandel’stam foto segnaletica nel lager 1938

Giorgio Linguaglossa, Continua a leggere

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Iosif Brodskij (1940-1996), Poemetto inedito, Teatrale, Traduzione di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova, Prima traduzione in italiano, stesura del 1995, Commento di Giorgio Linguaglossa, Dialogo di Nude Voci, da Il Mangiaparole n. 7, rivista di poesia e contemporaneistica, luglio/settembre 2019

Il Mangiaparole 7

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TEATRALE

a S. Yursky

“Chi sta lì sotto la cinta muraria?”
“E non è vestito alla nostra maniera: indossa
un abito di lana!” “E ora sta di fronte, ora di spalle”.

“Perché è arrivato qua? Un’altra bocca da sfamare!”
“Perché bussa alle porte della città?”
“Noi non gli piaceremo”. “E viceversa”.

“Che ci dia la sua spada!” “Ed anche il fodero!”
“Da noi non troverà rifugio né moglie!”
“Lui non ci serve”. “E noi non serviamo a lui”.

“Sembra giovane”. “Ma ha la testa canuta”.
“Che ci racconti lui stesso come è finito qui!”
“Forse ha sgozzato qualcuno e si nasconde dal processo”.

“Ce l’ha scritto in fronte!”
“Il destino sceglie noi e non noi il destino!”
“E certo! Vuole andarsene in paradiso sulla gobba di un altro!”

“Non esagerare! E che, noi saremmo il paradiso?”
“Embè: a me piace la mia catapecchia”.
“Ehi, guardia! Non aprire!”

“È chiaro che non è né greco né persiano”.
“Ha uno strano aspetto: niente barba né pèot”
“Che ne pensi, chi è?” “Non ne capisco di queste cose”.

“Ma se un viandante sporco di polvere delle strade
cerca di oltrepassare la soglia,
l’usanza ordina di farlo entrare. E se questo viandante fosse un dio?”

“O un profeta? “ “O addirittura – un eroe?”.
“Intorno c’è un fottio di tutte queste Tebe e Troia”
“Che si fa – si aprono le porte?” “Apri!” “Apri!”

“Entra e di’ come ti chiami,
da dove arrivi e come sei capitato qui?
Parla. La gente aspetta”.

“Ahimè, colui che ha scombinato la vostra pace,
quello che voi toccate con mano,
non sa chi è.

Io non so chi sono, dov’è la mia famiglia.
Persino un pronome è per me
di troppo. Come la data per il giorno.

E spesso mi sembra di non essere nessuno,
acqua che passa in un setaccio.
Soprattutto quando mi guardano cento

occhi. Ma quando mi guarda uno solo –
anche. Non lasciate che il mio gabardine
vi confonda: ora anche un popolano

veste così. Nella mano non ho una spada
ma un ombrello perché protegga la testa
se piove e quando batte il sole.

Non pensate che io rappresenti per voi
un pericolo, celandovi la mia
biografia. Io sono semplicemente la lettera che sta dopo la IU(1)

al confine dell’alfabeto, come ha detto il bardo.
Sarei felice di mostrarvi
da dove sono venuto. Ma là diventa nera la sala

che spaventa per profondità e oscurità.
Essa per me non ha nulla in comune con l’“a casa”.
Normalmente io mi muovo in linea retta,

avendo in mente una qualche cosa.
Ma devo riconoscerlo, a mia vergogna:
io non so dove vado. Penso che vado

nel Regno delle Tenebre. A volte – sgaiattolando,
inciampando. Ma questa è la strada.
Non si può determinare diversamente

la direzione. Alla fin fine se proibisci a te stesso
di pensare a questo, se ti tieni sotto chiave –
ti muovi nella stessa direzione. La vostra città era lungo la strada.

Ed ho bussato alle porte”
“È malato!”
“Suda!” “E l’appetito è triplo!”
“Si vede che i Persiani si sono decisi a farci guerra…”

“O i Romani” “Si, e lui è una loro spia”
“Ecco, ecco, tu lo accogli e lui
dopo porterà qui legioni

e ci annienteranno” “Della città, dove
si drizza anche alle statue, è ridicolo affermare
che si trovi lungo la strada verso l’Ade”.

“Dimostriamogli che ha torto!”
“La nostra città è coacervo di grandi tradizioni!”
“Culla di molti diritti!”

“Che sappia cosa si è perso, talpa senz’occhi!”
“E se è uno spione e mente?”
“Che sappia dove morirà”.

“Ehi, guardia! Ehi, tu – edile!
Mettete alle porte altri cento coglioni
affinché nessuno esca dalla città!”

“Dov’è il nostro storico?” “È sbronzo dal mattino e dorme”
“Trovate il suo eremo puzzolente.
Ditegli: ci serve una guida.

E presto.” “Lo portano già!” “Ehi, vecchio,
fai vedere tu a questo quanto è grande
la nostra città?” “Ich- ich.

Ich-ich. Nei miei occhi – caratteri corpo otto.
Io sono come su un balcone senza cariatidi.
Oh, che nausea! Che nausea.

Allora tu, straniero? Probabilmente tu.
Hai lineamenti irregolari.
Nella nostra città non sono importanti gli occhi ma le bocche.

Andiamo. Ti mostrerò quello che c’è qui.
Veramente la nostra città – non è un granché…
Oh, adesso vomito. Ohi, voglio sedermi un po’…

Guarda: a destra – il nostro antico tempio.
A sinistra – il teatro per gli antichi drammi.
Qui invece teniamo gli schiavi, i badili ed altro ciarpame.

Dietro questo portico classico c’è il nostro Senato.
Qui noi impazzimmo per il colonnato
di marmo, con sopra l’oltremarino.

E questo è il nostro Foro, dove a volte
le greggi muggiscono – dalla parola “noi” –
“si” o “no”. Ma di solito sì. (2)

In ogni caso il sovrano
da noi è lo stesso che c’era qui anticamente.
E anche lui di marmo. Soltanto negli occhi – ambra.

Nulla qui è mutato da quella
data, in cui è stato annunciato il secolo
d’oro e la storia da noi

ha preso alloggio. La gente vive, alimentando
la storia. Altre produzioni, a parte
la storia, non risultano. Noi utilizziamo tre

idee. Prima: meglio una casa
che un campo. Seconda: pascolare il gregge
è piacevole. E terza: non è importante cosa avverrà dopo.

E questo è il nostro antico Foro…Che? Dici che già
ci siamo passati. Con te bisogna stare in campana.
Dici che ti piace la lettera “ж ”? (3)

Beh, “ ж ”, è una bella lettera del nostro alfabeto.
Da lontano assomiglia ad uno scarabeo
ed ipnotizza gli uomini.

E davanti – il nostro antico Colosseo.
Ma i cristiani con i leoni li abbiamo portati nel museo.
Vuoi che andiamo a trovare gli amici?

Questo sta di fronte. Tutto quello che arrivò, ahimè,
dalla giungla o dalla testa,
come i cristiani o gli stessi leoni

è il futuro. E il suo
posto è in un museo. Probabilmente perché
la storia a nessuno

deve assolutamente nulla.
Come una femmina, sia pure intrigata,
anche se l’ha data – tuttavia non è una moglie.

Ti rendi conto dove sei finito, amico?
In questo vaso ci sono popoli ridotti in polvere.
E più avanti – la biblioteca: ma un incendio

non la minaccia. È difficile incendiare un ghiacciaio.
Mi ci sono intrufolato poco tempo fa:
ci stanno libri, ma non si possono aprire. I libri

che se ne stanno intonsi da secoli,
sviluppano la marmoreità e la mano
si abbassa e fa il gesto “ciao”.

Vedi quella torre? La sua inclinazione…
Che dici, devi pisciare? Lì, vicino a quelle colonne.
In esse è nascosta ripiegata nel rotolo,

la geografia. Di che parli, la patta?
Si, falla per strada. E che fa se è giorno?
Per chi lavoro? E se senza di me

ti perderai? Oh, oh, oh, ammazza che schizzo!
Come uno stallone! O la sua imbraca.
E, in linea di massima, anche questa è un’evasione. Ma io –

io non ti tradirò. Che i nostri cani
ci arriccino sopra i nasi. Piscia.
Dici dove sta nella nostra città l’orologio?

Per vedere il tempo da fuori?
Per questo noi non abbiamo un muro.
L’orologio, straniero, è stato inventato

dopo la storia. Da lì – guarda – si vede meglio
quella torre inclinata. Siccome in essa ci sta
un carcere, il tempo del giorno e l’andare dei giorni

lo capiamo a seconda dell’angolo di inclinazione
suo e di quelli meritatamente incarcerati e non grazie
all’orologio a pendolo

appeso sul tavolo. Il suono delle catene è
uguale ai Kuranti (4). E la somma delle condanne altrui –
è il nostro calendario. E il nostro Areopago è questo.

È più facile che ti prendano a sberle,
che ti lascino passeggiare per i prati
di Proserpina…Che è questo chiasso e baccano là?”

“Siamo noi! Ora siamo noi l’Areopago!
Abbiamo visto tutto! Ed ecco il resoconto dei cani:
in esso c’è l’analisi dell’urina. Lui ha la gonorrea!

Deve essere isolato!” “Là mortificano la carne!”
“Sì e non soltanto il prepuzio!“ “Purché smetta di dire
cazzate!” “Ed io dico di non sporcare

la nostra storia!” “Questo sarebbe anche capace
di sporcarla!” “È pure robusto,
se vedeste il pisello….” “La storia

gliela farà vedere lei! Perciò – la sentenza:
Valutato il suo strumento,
nella torre. A vita. Firmato: il coro”.

“Perché? Cosa ho fatto? Non sono un bandito,
non ho rapinato nessuno. Dove guarda
Zeus? Non ho preso a prestito

e per quello che riguarda la mia urina, forse da voi l’erba
ha la gonorrea…” “Non gridare!” “E non accampare diritti!”
“Ehi, guardia! Porta le chiavi e le catene.” “Prima di tutto,

vediamo se c’è posto?” “Certo che c’è!”
“Come può non esserci!” “Deve entrarcene ancora uno!”
Stare in carcere non significa letteralmente ‘stare seduto’,

si può stare anche in piedi” “Anche su una sola gamba!”
“Come un airone o un pino nella taiga”
“Si, abbiamo letto!” “Portalo, eh, eh, eh”

“Trasciniamolo!” La gente in generale è merda.
Nella massa soprattutto. Questa è la legge principale della dinamica –
carceraria. Guardandoti in uno specchio,

cominci a dubitare: tipo, è uno specchio ma inganna.
Tuttavia, riunendosi nel popolo
diventa chiaro: quanto più lontano nel bosco, tanto più sulla bocca. (4)

Che dire a voi prima del sipario. Che, ahimè,
la nostra città non è un’eccezione. Tutte le città
sono uguali. Prendiamo ad esempio voi. Ecco voi

guardate dal futuro. Per voi
questa è una tragedia e un soggetto per vasi;
una scenetta dove un uomo si è invischiato

nella storia. Oppure, dopo aver scavato tumuli,
così fissano le ossa.
Ma nella vera tragedia muore il coro (6)

e non soltanto il protagonista. In generale il protagonista
nella tragedia passa in secondo
piano. L’importante non è un’ape

ma uno sciame. Non un ago ma un pagliaio!
Un albero e non una sua fogliolina.
Non il sole, se le cose stanno così ma l’oriente

ecc ecc. La tragedia è semplicemente il tributo
del presente al passato. Quando, puntando il dito, – “guarda!” –
la schifezza seduta in sala contempla la schifezza

sulla scena – questo è quasi il paesaggio
del tempo! E la cosa si spinge
fino all’ovazione! Considerando la nostra esperienza

questo è ovvio. Proprio come un tipo,
uno dei vostri, si è arrampicato, cigolando,
dal parterre sulla scena, dove è rimasto impantanato

nella storia. Per così dire, si è immedesimato nel ruolo.
Ma lui – è uno. E un solo uomo – è uno zero (7)
e il dolore di un solo per noi non è il dolore

della massa. Questa cosa di per sé stessa
aiuterà a cancellare il marchio
della tragedia dalla nostra città. In generale tutti noi siamo merda,

voi soprattutto. Poiché il teatro è il tempio
dell’arte. Tuttavia nell’andamento dei drammi
i nostri non corrono verso di voi

e i vostri verso di noi – intrufolandosi continuamente nella trama.
Questo ha offeso Apollo più di una volta.
La prigione, per sua essenza, è la risposta

alla sete del futuro di insinuarsi
nella storia, adoperando l’adulazione,
vestendosi ora di latta, ora di Buona Novella,

ora di gabardine ora degli stracci delle idee.
Ma la storia è marmo e basta!
Non passerà! Come questo vostro truffatore.

E a voi, per salvarlo,
sarebbe toccato entrare sulla scena e frantumare
la storia. Ehi, guardia! Chiudi le porte e cala

il sipario”.

 

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Boris Sluckij (1919-1986) e Iosif Brodskij (1940-1996) – Una lontana familiarità – di P. Gorlik e N. Eliceev – Sluckij, quasi da solo, ha cambiato il suono della poesia russa del dopoguerra – traduzione di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova

 

Iosif brodskij 5

Iosif brodskij a Venezia

Negli anni ’60 Sluckij conosce i versi di Brodskij. Riguardo ai tempi della loro conoscenza personale ci sono due testimonianze.
Di una ricorda Lev Losev: “Nell’aprile del 1960 Brodskij andò a Mosca per conoscere Sluckij e, evidentemente, Sluckij gli disse qualcosa di molto favorevole. La poesia “Meglio di ogni dove/si dormiva nella stazione Saviolovskij“ (1960) finisce con parole di gratitudine verso il poeta:

Arrivederci, Boris Abramic.
Arrivederci. Per le parole – grazie.

Un’altra testimonianza della loro amicizia si trova nell’intervista concessa da Evgenij Rejn a Tatiana Bek nel 1992.

T.B.: Brodskij conosceva Boris Abramovich? So che Sluckij era forse l’unico poeta “sovietico” che Brodskij valutava positivamente.
E.R.: Si,li ho presentati io.

…Sluckij ha sempre straordinariamente interessato Brodskij, straordinariamente. Non so perché ma lo chiamava alle spalle in un modo tra il familiare e l’ironico “Boruch” e, essendo una persona molto perspicace, vedeva più lontano e più profondamente degli altri. Ad esempio, egli era certo che Sluckij aveva una natura estremamente ebrea, da cui deriva il suo essere democratico e la fedeltà agli ideali rivoluzionari e la franchezza. Vedeva in lui un profondo e forte carattere ebreo. Un carattere biblico, profetico, messianico, comprendi? Forse era il ‘71 o il ‘ 72, Brodskij aveva già una grande notorietà, addirittura la fama. Ogni volta che mi incontravo con Sluckij (di regola, casualmente – a volte nella Casa del Letterati, a volte ospite di amici) egli mi chiedeva con attenzione di Brodskij. Una volta gli dissi: “La prossima volta che Iosif verrà, vi farò conoscere”: Iosif venne, Sluckij lo chiamò al suo strano telefono – attraverso il centralino interno, ricordi? – e ci fissò un appuntamento alla Casa Centrale dei Letterati al mattino prestissimo. Arrivammo, Sluckji fu molto ospitale, ci incontrò senza nessuna formalità sovietica: comprò dei viveri al buffet, molte bottiglie di birra, venti panini al formaggio, dieci dolcetti. Non come un abituale frequentatore che avrebbe consumato cognac e caffè nero ma come uno zio buono che desiderava sfamare i giovani.
Li presentai. Sedemmo. Ed ecco… un tragico dettaglio. Egli all’improvviso se ne uscì: “Prima che cominciamo a parlare, voglio subito dirvi che sono stato allora sul palco per due minuti e mezzo in tutto”.

T.B.: Non può essere. Si ritiene che Boris Abramovich non abbia mai parlato con nessuno dei suoi interlocutori del fatto che aveva preso parte alla persecuzione di Pasternak.
E.R.: Giuro solennemente che disse all’improvviso questa frase – è la pura verità.

Forse è la testimonianza del fatto che avvertiva Brodskij in modo particolare e con molta emotività. Io addirittura non mi resi subito conto di cosa si stesse parlando, solo dopo alcuni secondi capii. E allora compresi quale impatto avesse avuto su tutta la sua vita questa storia e che ne era ostaggio vita natural durante”.
Brodskij non nascondeva che Sluckij era stato l’unico poeta sovietico che non solo apprezzava e stimava profondamente ma era anche quello da cui aveva preso molto. Alla domanda di Solomon Volkov: “Quale è stato l’impulso che vi ha stimolato a comporre versi?” Brodskij rispose: “Il primo è stato quando qualcuno mi ha mostrato la Literaturnaja Gazeta dove erano stati pubblicati i versi di Sluckij. Avevo forse sedici anni allora. A quei tempi ero autodidatta, andavo per biblioteche … Mi piaceva da morire ma non scrivevo nulla di mio e addirittura non pensavo di farlo. Ed ecco, mi mostrarono i versi di Sluckij che mi produssero una impressione molto forte”.

iosif brodskij sulla scrivania

Brodskij ripetè questo altre volte: “In generale penso che ho iniziato a scrivere versi perché lessi le poesie di un poeta sovietico abbastanza dotato, Boris Sluckij.
K.K. Kuzminskij ricorda quando mostrò a Brodskij le sue prime poesie. Invece di apprezzamenti e consigli Brodskij gli lesse “La fossa di Colonia” di Sluckij: ecco come si doveva scrivere.

Partecipando nel 1975 al simposio “Letteratura e guerra” Brodskij disse esattamente:

“Proprio Sluckij, quasi da solo, ha cambiato il suono della poesia russa del dopoguerra. Il suo verso era pieno di burocraticismi, di gergo di guerra, di espressioni popolari e slogan. Con pari leggerezza utilizzava assonanze, rime dattiliche e visuali, un ritmo traballante e cadenze popolari. La percezione della tragedia nei suoi versi spesso si spostava, suo malgrado, dal concreto e lo storico verso l’esistenzialismo – fonte finale di tutte le tragedie. Questo poeta parla con la lingua del ventesimo secolo … il suo tono – crudele, tragico ed imperturbabile – è lo strumento grazie al quale un sopravvissuto racconta pacatamente, se ne ha voglia, quello che ha vissuto.”

Lev Locev osserva: “Come fosse un inchino deferente al maestro, che gli ha insegnato ad usare il verso giocoso per compiti seri e non giocosi, si pose l’inizio del poema di Brodskij “Isacco e Abramo” (giugno 1962). Là si sfrutta la differenza tra il nome biblico Isacco e la sua variante russificata. (Allora, come non ricordare la famosa poesia di Sluckij “Abramo, Isacco e Giacobbe”…). Tuttavia, l’aspetto più sostanziale che Brodskij ereditò da Sluckij o, almeno, da quello che Brodskij vide in Sluckij, è la comune tonalità del verso, quel dominante stilistico, che documenta la posizione assunta dall’autore come atteggiamento nei confronti del mondo”.

Brodskij ricordò Sluckij per tutta la vita. Lo stesso Lev Locev scrive che, come regola, quando si parlava di Sluckij, Iosif recitava a memoria “La musica sul bazar”.
Sono interessanti e sintomatici i ricordi di Tatiana Bek, che aveva incontrato Brodskij in America: Continua a leggere

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 Boris Sluckij (1919-1986) letto da Evgenij Evtušenko – Poesie inedite Scelte – Ha aiutato la contemporaneità a diventare storia – a cura di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova

Foto strada con neve

foto di Steven Grieco Rathgeb

“Adesso si può dire quello che, chissà perché, non si usa dire in vita. Sì, ne sono convinto: Sluckij era uno dei più grandi poeti del nostro tempo”.

                                     (Evgenij Evtušenko)

La gloria gli giunse ancor prima che uscisse il suo primo libro, subito dopo l’articolo di Il’ja Erenburg sui versi inediti di Sluckij. L’articolo fu pubblicato nell’estate del 1956 nella “Literaturnaja Gazeta” e suscitò uno scandalo letterario. Per quale ragione – per il verso non convenzionale, crudele, quasi antipoetico dello stesso Sluckij o la reputazione del suo estimatore? Bisogna dire che in quell’epoca di qualsiasi cosa Erenburg parlasse, si scatenava una protesta – persino quando l’argomento era Francois Villon o Stendhal.

Un anno dopo uscì il primo libro di Sluckij “La memoria” – l’autore aveva intorno ai 40 anni, aveva cominciato  a pubblicare nei periodici ancor prima della guerra, poi seguì un silenzio severo durato un decennio e mezzo. Non conosco una sola raccolta di versi, che avesse avuto un tale significato nel destino della poesia sovietica come questo – nemmeno “La pera triangolare” di Andrej Voznesenskij né il “Tamburino allegro” di Bulat  Okudžava né “La corda” di Bella Achmadulina. Si parlava in questo libro della guerra con una tale semplicità e forza come nessuno mai aveva fatto prima di Sluckij…

Lo stesso Sluckij – molti anni dopo, guardandosi dal di fuori – compose una poesiola epigrammatica “Sul libro ‘Il ricordo’”:

Come un cercatore di funghi, conoscevo i miei posti,
ho lavato la mia stessa vena.
Avevo uno stampo personale. Un mio marchio.
Un modo di scrivere con propria grafia.

Regalandomi il libretto con questi versi, cancellò l’ultima strofa e ne scrisse sopra una nuova, più precisa, sostituì la vecchia: ”Se è merda – è merda mia”. Effettivamente, anche se le scorie in questo processo creativo di Sluckij erano inevitabilmente molte, riconosciamo facilmente che non cambieresti i cattivi versi di Sluckij con i cattivi versi degli altri poeti.

Sebbene in senso anagrafico Sluckij fosse di pura razza ebrea, egli si sentiva nello stesso livello ebreo e russo, non c’era in questo contraddizione o lacerazione, non gli serviva un passaggio verso l’ortodossia per gettare una passerella sul baratro. Perché per lui il baratro non c’era. Gli ripugnavano qualsivoglia forma di nazionalismo, non c’era necessità di ripudiare l’essere ebreo a favore dell’essere russo o il contrario, entrambi i sentimenti erano stati da sempre assimilati con naturalezza. Tuttavia egli faceva una distinzione: l’essere russo era appartenenza alla storia, l’essere ebreo – un segno di origine, tipo un neo. Ed entrambi non appartenevano alla riga del  passaporto ma al destino, per il quale non era stata ancora inventata la riga. Proprio come ebreo, sentiva fortemente il suo legame col popolo russo…

Il legame tra il poeta e il lettore è sempre drammatico – in Sluckij più che negli altri. Non c’è un profeta nella sua patria – una popolarità universale accompagnava il verso più velocemente comprensibile e pseudo-popolare di Evtušenko di quanto non accadesse con la poesia realmente popolare di Sluckij, che durante la sua vita aveva un auditorio qualificato ma tuttavia assai limitato per gli standard sovietici.

È, pertanto, comprensibile la sua dedica: “Resta un po’ con i miei versi, resta almeno un’ora con me. Fammi sentire il tuo respiro, dietro la schiena”. E questa dedica non è ad un amico e nemmeno ad una donna. Qualsiasi dedica di Sluckij è per il popolo. Sluckij si interessò intensamente del lettore, concretamente del lettore popolare, eroe dei suoi versi che – ecco il paradosso! – amava totalmente un’altra poesia: che parlasse preferibilmente non di lui ma, quand’anche fosse, in una maniera trasformata, canzonettistica. Il lettore di massa preferiva allora la sdolcinatezza sentimentale, invece il verso di Sluckij era severo e scontroso come la stessa realtà.

Sluckij entrò per primo in guerra con il neoclassicismo staliniano in poesia e con il lettore ad esso assuefatto. Cioè col lettore che ormai rifiutava Lebedev-Kumach ma ancora amava Marschak. Prendendo le distanze dalla poetica ufficiale, dalla dolcezza piacevole, dall’ottimismo del patriottismo, Sluckij entrava in conflitto con la filosofia che ne stava dietro. Questa filosofia era stata da lui assimilata con serietà, poiché possedeva prove più persuasive dei versi che germogliavano nel suo terreno. Al chiacchiericcio idealistico della realtà Sluckij contrapponeva la realtà stessa: “Se vedrò, descriverò ciò che vedo, così come lo vedo. Quello che non vedrò, lo ometterò. Detesto la dietrologia”.

In poesia Sluckij fu “un realista” di genere e, sebbene non avesse fondato una “scuola realistica”, tuttavia influenzava interamente e concretamente il poetare di diversi poeti come Bulat Okudžava, Evgenij Evtuscenko, Vladimir Vysockij, Evgenij Rein, Stanislav Kuniaiev indiscutibilmente. Infine, Iosif Brodskij.

Su molti poeti ero in disaccordo con Iosif ma Brodskij  riteneva Sluckij, che chiamava Boroj, Boroch, Baruch, il più dotato tra i poeti russi viventi e recitava con foga a memoria molti versi.

In poesia eravamo d’accordo su Baratinskij, Sluckij e… Brodskij. Ed io ancora non so quale dei due ultimi amo di più e quale ritengo maggiore come poeta.

La disputa letteraria uscì dai confini degli anni a lui vicini, giacché – seguendo Nekrasov, Majakovskij, Chlebnikov – egli disputò con l’atteggiamento canonico verso le regole classiche del verso russo, rompendo la gerarchia e abbattendo le autorità. Ovviamente, tutto questo è intimamente connesso – la sensazione della fine della poesia classica, l’usura della sua ricezione, l’attiva diffusione del neoclassicismo epigonico tra i poeti sovietici, sia pure dotati.

La riforma poetica di Sluckij è duplice ma se si limitasse solo alla semantica, cioè soltanto al rinnovamento del contenuto, esisterebbe oltre la poesia, al di là dei suoi confini.

Io sento il suono e so esattamente dove si trova
e mi perdoni pure un romantico:
non di campane né di angeli né di demoni,
una rondine in catene
risuona di ferri…

Gif nevicata

E in un’altra poesia Sluckij da’ una immagine potente, che si rivolge allo stesso tempo verso la sua severa poetica e la sua missione storica: “Io sono un chiodo arrugginito, destinato alle bare…”

Farò adesso un confronto che può apparire forzato ma io sono certo della sua adeguatezza: la poetica di Sluckij è di tipo biblico. Anche Mezirov mi disse una volta che Sluckij  era un uomo del Vecchio Testamento. Esattamente allo stesso modo – in modo semplice ed elevato – sono descritti nella Bibbia i costumi, le abitudini e la storia dei vecchi allevatori di bestiame. Fatti prosaici risuonano là come storici, un conflitto familiare diventa storia universale. Un intenso storicismo è l’immanente caratteristica della poetica e della filosofia di Sluckij.

Sluckij scrive allo stesso modo sia sull’oggi che sul passato, assimilando la contemporaneità con la distanza storica: sul semplice soldato come sul monumento, su un bagno alle terme come su un avvenimento storico.  Il tran-tran dell’uomo sovietico effettivamente “è caduto pesantemente sulla bilancia della storia” e per questo il tempo per Sluckij, come si diceva anticamente è “immagine lontana“. Anche se quello che da lui viene descritto è avvenuto ieri, Sluckij lo sbircia ugualmente in un binocolo capovolto. Tuttavia, non ha bisogno di alcun binocolo, questa capacità di vista è la presbiopia: essa lo aiuta e lo confonde, a volte si a volte no. Sluckij analizza qualsiasi porzione di storia non di per sé stessa ma nei riflessi del passato e del futuro. Poggiandosi impaziente ora su una gamba ora sull’altra, egli aspetta quando la contemporaneità si trasformerà in storia giacché avverte non il movimento ma i grumi, non il processo ma il risultato.

Senza questa visione storica Sluckij non esisterebbe come poeta. Egli percepiva  anche la contemporaneità come crocevia della storia – diversamente non l’avrebbe semplicemente compresa, essendo presbite.

È facile essere trasparenti nell’epoca della trasparenza, la poesia di Sluckij è stata trasparente nell’epoca della totale oscurità, quando taceva non solo il popolo ma anche la musa terrorizzata.

La sua presbiopia funziona non solo sul giorno passato ma anche su quello successivo, che aveva azzeccato e profetizzato nella poesia dedicata alla mia generazione – quelli nati negli anni ’40 – agli amici Brodskij, Dovlatov, Schemyakin , a me e a Lena Klepikova.

Loro non hanno alcun ricordo della guerra, la guerra ce l’hanno solo
                                               nel sangue,
nelle profondità dell’emoglobina, nella miscela di ossa
                                               malferme.
Li hanno spinti nella luce divina, hanno ordinato:
                                               “Vivi!”
Nel 42, nel 43 e addirittura nel 44.
Si accingono ora a ricevere per intero
tutto quello che la guerra non ha dato loro al momento della nascita.
Non ricordano nulla ma avvertono quello che manca.
Non sanno nulla ma avvertono l’ammanco.
Per questo hanno bisogno di tutto: conoscenza, verità, successo.
Per questo crudele e breve è il discontinuo chiacchiericcio.

Ora, quando l’epoca sovietica si è immersa nel Lete, è comprensibile perché l’anticlassico Sluckij ne sia l’indiscutibile classico. E’ rimasto quello che era: un chiodo arrugginito destinato alla sua bara.

  1. Solov’ëv – Novaja Gazeta (24/02/16, in occasione del 30° anniversario della morte di Sluckij)

Poesie inedite di Boris Sluckij

La storia si è riversata su di noi.
Io mi bagnai sotto il suo rombante acquazzone
Ne subii l’ampiezza e la crescita repentina.
Ne avvertii il potere solenne.

L’epoca si scatenava sopra di me
come un acquazzone su una valle rasserenata
ora sotto forma di una duratura guerra giusta,
ora di una ingiustizia non duratura.

Volesse o non volesse la nostra età,
il nostro secolo fece un inventario, insegnava e sfrecciava e tormentava
la mole delle nostre anime e dei nostri corpi,
sì le nostre anime, non semplicemente inerti manichini.

In quale stoffa si stava intrecciando il nostro filo,
in quali tuoni risuonava la nostra nota,
ora è semplice spiegare tutto questo:
il destino – le sue folate e le sue lungaggini.

Con il marchio del destino sono annotate le colonne
dei questionari che in fretta riempivamo.
Il destino si afferrò, come una quercia, con le radici,
all’inizio, in mezzo e alla fine.

+++

Ognuno aveva le sue ragioni.
Alcuni – per amore della famiglia.
Altri – per motivi di interesse:
titolo, carica, rango.

Ma l’amore equivocato
per la Patria, per la fronte battuta*
nel Suo nome
ha spinto la maggioranza.

E quello che scriveva: “Noi non siamo schiavi!”
a scuola, sulla lavagna
non si mise ad andare contro il destino
che si scorgeva a poca distanza.

E dio, un decrepito vecchio stanco,
nascosto tra le nuvole,
era sostituito da uno dei suoi
che portava stivali di pelle cromata. ** Continua a leggere

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Evgenij Aleksandrovič Evtušenko POESIE INEDITE e L’ultima Intervista rilasciata dal poeta russo – Io vivo nel paese di nome sembrerebbe – Nello stato di nome SEMBREREBBE –  traduzione a cura di  Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova

Evtušenko

Il presidente USA Nixon con Evtušenko

Evgenij Aleksandrovič Evtušenko, nato Gangnus (in russo: Евге́ний Алекса́ндрович Евтуше́нко?; Zima, 18 luglio 1932[1] – Tulsa, 1° aprile 2017), poeta e romanziere russo.

Nacque il 18 luglio 1933, a Zimà (una cittadina della Siberia sudorientale sorta nel XIX secolo intorno a una stazione della linea ferroviaria Transiberiana), figlio di uno studente di geologia dell’università di Mosca e di una nota cantante lirica di origine ucraina, Zinaida Evtušenko, da cui prese il cognome d’arte. Evtušenko trascorse l’infanzia a Mosca. L’estate del 1941, l’invasione nazista dell’Unione sovietica, i primi bombardamenti della capitale colgono la famiglia in un momento di crisi: il padre, abbandonata la moglie, va a lavorare nel Kazakistan in una spedizione scientifica. Nell’autunno il futuro poeta e sua madre lasciano Mosca, per rifugiarsi a Zimà dove rimarranno tre anni.

La vita e lo stato d’animo di quei tempi difficili sono descritti in Nozze di guerra, Sono di razza siberiana, Ballata su un salame, Mi fecero sbalordire ragazzino, ecc. In seguito alla ritirata dei tedeschi, nel 1944 Evtušenko torna a Mosca con la madre che lo lascia, però, poco dopo, per andare a cantare per i soldati al fronte. Abbandonato a sé stesso, il ragazzo trascura gli studi, mentre comincia a scrivere i suoi primi versi. Qualche anno dopo, espulso dalla scuola, irrequieto e desideroso di conoscere stravaganti novità, Evtušenko raggiunge nel Kazakistan il padre che gli procura un lavoro da manovale in una spedizione geologica, a patto che non riveli a nessuno di essere suo figlio.

Evtušenko 1L’attività letteraria e il calcio

Di nuovo a Mosca, egli ritrova sua madre precocemente invecchiata, senza più la bella voce d’un tempo; canta ora in un cinema negli intervalli tra gli spettacoli. A quell’epoca Evtušenko divide il suo cuore tra la poesia e il calcio. Ma, se la sua carriera di atleta finirà presto, sarà proprio un giornale sportivo a lanciare il poeta. Nel 1949, infatti, il redattore del giornale Sovetskij Sport, pubblica un articolo nel quale racconta la passione sfrenata di Evtušenko per i suoi due “sport”, il calcio e la letteratura.

Nello stesso anno Evtušenko si iscrive all’istituto di Letteratura e continua a scrivere poesie liriche, note solo al circolo ristretto degli amici e mai pubblicate, ed elogi di atleti e di gare accolti invece dalla stampa sportiva. Occorre arrivare al 1952 per trovare pubblicata la prima raccolta di versi, Gli esploratori dell’avvenire, che lo stesso autore definisce “non felice”, ma che gli frutta l’ingresso nell’Unione degli Scrittori. In quegli anni, incoraggiamenti giungono a Evtušenko da alcuni tra i più noti poeti sovietici, come Tvardovskij, Semën Isaakovič Kirsanov, Svetlov, Simonov.

La notorietà si afferma

Dopo la morte di Stalin, con l’epoca del “disgelo”, la notorietà del poeta si afferma soprattutto negli ambienti giovanili. Egli legge i suoi componimenti nelle serate studentesche e nel 1955 è quasi portato in trionfo dagli studenti di Mosca, ai quali aveva declamato dei versi dall’alto della scalinata dell’università. Il ventesimo congresso del PCUS (Partito Comunista dell’Unione Sovietica) nel marzo 1956 segna una nuova tappa nella carriera di Evtušenko.

Dopo la condanna ufficiale del culto della personalità, egli pubblica una serie di poesie contro l'”uomo d’acciaio” e i burocrati che ancora segretamente rimpiangono il dittatore (il poema La stazione di Zimà, Gli eredi di Stalin, La mensa degli studenti, Paure, La mano morta, Conversazione, Il destino dei nomi, Città di mattina, O, dispute nostre giovanili, ed altri). Il temperamento ardente e l’odio sincero contro tutto quanto opprime la libertà dell’uomo, spingono il poeta oltre i limiti consentiti.

Nella primavera del 1957, per aver difeso il romanzo di Vladimir Dmitrievič Dudincev Non di solo pane vive l’uomo, contenente una dura critica alla burocrazia staliniana, Evtušenko viene espulso dal Komsomol col pretesto ufficiale di mancato pagamento dei contributi e dallo stesso Istituto di Letteratura. Tuttavia l’amicizia di influenti membri del partito e dell’Unione degli Scrittori permette presto al poeta il ritorno nel Komsomol e nell’Istituto, presso il quale, anzi, viene eletto segretario della locale sezione della Gioventù Comunista. Il 1957 segna l’inizio del periodo dei maggiori successi di Evtušenko.

Bella Achmadulina

In questo periodo di forte ispirazione poetica, lo sostengono i suoi “amici politici” e la poetessa Bella Achmadulina, che diventerà sua moglie. È dello stesso anno l’incontro con Boris Pasternak che si complimenta col giovane poeta. Questi ricambierà l’ammirazione scrivendo, in occasione della morte del grande scrittore, la poesia Il recinto. Accanto ai componimenti di impegno civile, Evtušenko scrive liriche dedicate alle donne amate, cominciando da Achmadulina, dalla quale poi divorzierà, alla madre, agli amici (“Affetto”, “Al mio cane”, “Auguri, mamma”, “Il lillà”, “Verrà la mia amata”, “Marietta”, ecc.).

I viaggi all’estero Il viaggio a Monaco di Baviera e Parigi

Nel suo primo viaggio all’estero, a Monaco di Baviera e soprattutto a Parigi, il poeta si permette delle dichiarazioni poco conformiste e autorizza la pubblicazione a Londra dell’Autobiografia (1963) che provoca nei suoi confronti una campagna di accuse capeggiata dallo stesso segretario generale del Komsomol, Sergej Pavlov. Evtušenko è così costretto ad un’autocritica, nella quale accusa gli editori occidentali di aver falsificato il manoscritto.

Una nuova tempesta scoppia dopo la pubblicazione nella Literaturnaja Gazeta del poema Babij Jar dedicato allo sterminio degli ebrei di Kiev. In uno degli incontri tra i dirigenti del Partito Comunista e quelli della cultura, il segretario generale del PCUS attacca pesantemente il poeta, accusandolo di aver versato col Babij Jar lacrime soltanto per gli ebrei, senza aggiungere una sola parola di compianto per i russi e gli ucraini trucidati nella stessa Kiev. Evtušenko si giustifica, ricordando che questi ultimi furono eliminati perché appartenenti alla resistenza antinazista, mentre lo sterminio degli ebrei fu motivato esclusivamente dall’odio razziale.

Il viaggio a Roma

Riacquistata la fiducia del partito, Evtušenko ottiene ancora di poter andare all’estero a declamare i suoi versi in varie città europee. Ma il poeta ha ormai perso il loquace entusiasmo dei suoi primi incontri all’estero, ed è con un’abilità cauta ed aggressiva insieme che si destreggia tra le domande talora insidiose del pubblico. A Roma, quando gli viene chiesto se conosca il “Samizdat”, (cioè la stampa clandestina di opere non pubblicate dalle edizioni ufficiali), egli non ne nega l’esistenza, ma afferma che ad esso ricorrono gli scrittori di poco talento respinti dalle pubblicazioni ufficiali.

Bella Achmadulina

A chi domanda notizie sulla sorte del poeta leningradese Josif Brodskij, condannato a tre anni di campo di concentramento per “parassitismo”, non avendo voluto accettare un impiego nelle edizioni sovietiche, Evtušenko risponde che Brodskij è un poeta di nessun valore che, quando sarà rimesso in libertà, il pubblico occidentale dimenticherà del tutto (nel 1987 Brodskij sarà insignito del premio Nobel per la letteratura). A questo viaggio in Europa risalgono molte composizioni, tra le quali Così la Piaf usciva dalla scena, Facchino, Processione con la madonna.

I viaggi extraeuropei

Gli anni successivi vedono il poeta impegnato in numerosi viaggi: Medio Oriente, Africa, Stati Uniti, America Latina. Egli ha ormai assunto il ruolo di ambasciatore itinerante della letteratura ufficiale sovietica. Fiero di portare in tasca il passaporto del paese che guida la lotta dei poveri e degli oppressi, il poeta esprime la sua attenzione al mondo, la sua passione per l’uomo. Sono i sentimenti che manifesta nei componimenti dedicati ai paesi visitati; gli ultimi tra questi, qui riportati, sono brani di un poema ancora abbozzato sul viaggio in America Latina compiuto nel 1971: “Le lacrime dei poveri”, “La chiave del comandare”.

Gli scritti di “denuncia”

Per il centenario della nascita di Lenin, nella rivista Novyj Mir dell’aprile 1970, Evtušenko pubblica un lungo poema dal titolo L’università di Kazan (della quale Lenin fu allievo), in cui, rifacendo la storia del celebre ateneo, offre ai lettori un compendio di storia patriottica con la rievocazione di figure di rivoluzionari, scienziati, scrittori, uomini politici. Nell’agosto 1970, sulla rivista bielorussa Neman, Evtušenko pubblica il poema Sotto la pelle della statua della Libertà in cui, ricordando incontri e colloqui con personalità del mondo politico e culturale americano, attacca uomini e istituzioni di quella società.

Nel maggio dell’anno successivo, egli tenta di portarne sulla scena il contenuto in un dramma dallo stesso titolo che viene provato al teatro Taganka di Mosca, ma che non ottiene l’autorizzazione per la presentazione al pubblico. Dopo l’assegnazione del premio Nobel ad Aleksandr Solženicyn, Evtušenko pubblica nel settimanale Literaturnaja Rossija (novembre 1970), una poesia dedicata al 90º anniversario della nascita del poeta Aleksandr Blok, intitolata a A voi, che non stringeste la mano a Blok. In occasione della tragica morte dei tre cosmonauti sovietici Dobrovol’skij, Pacaev e Volkov a bordo della Sojuz 11 nel giugno 1971, una poesia di Evtušenko dedicata alla loro memoria è accolta sulla Pravda, accanto al comunicato ufficiale.

Il poeta, qualche settimana dopo, è la sola personalità della cultura sovietica che si reca a rendere omaggio alla salma di Nikita Chruščëv, nella generale indifferenza riservata, dal mondo ufficiale del suo paese, all’ex segretario del partito e capo del governo. Subito dopo il viaggio nel Vietnam del Nord, dove scrive versi che definiscono i capi cinesi “mocciosi ingrati”, Evtušenko compie una tournée negli Stati Uniti e nel febbraio 1972 è ricevuto da Richard Nixon alla Casa Bianca. In Italia è stato, tra gli anni sessanta e gli anni ottanta, lo scrittore sovietico forse più tradotto e conosciuto.

Ultimi sviluppi

Evtušenko ha pubblicato opere in prosa come: Il posto delle bacche (Jagodneye mesta, 1981), Ardabiola, Non morire prima di morire (Ne umiraj prezde smerti). Nel 1980 è stato pubblicato in Inghilterra un suo libro di fotografie: come fotografo ha esposto in numerose città, sia in Russia sia all’estero. Come regista cinematografico ha diretto: Asilo d’infanzia (Detskij sad, 1984) di cui ha scritto anche la sceneggiatura.

Ha scritto inoltre le sceneggiature di: Io, Cuba (Ja, Kuba), I funerali di Stalin (Pochorony Stalina). È stato insignito in patria del premio Znak Poceta, e nel 1991 dal Comitato Nazionale Ebraico Americano di una medaglia per le sue attività in difesa dei diritti civili. Dal 1993 è insegnante di letteratura russa presso l’Università di Tulsa (Oklahoma), dalla quale ha ricevuto la laurea honoris causa. Il poeta è stato riconosciuto per la XVII edizione del Premio Librex Montale che è stato assegnato il 5 giugno 2006 e infine ha ricevuto in Italia il premio alla carriera del Festival Internazionale di Poesia Civile di Vercelli nel 2007 e nel 2008 è stato ospite d’onore del festival internazionale Scrittori&giovani di Novara.

*notizie tratte da wikipedia

Onto DeRobertis

Ubaldo de Robertis, grafica Lucio Mayoor Tosi

questo lavoro è dedicato al ricordo di Ubaldo de Robertis, gran signore della poesia italiana

Intervista

NELL’EPOCA DEL “SEMBREREBBE”

Evgenji Aleksandrovič, la vostra nuova raccolta si intitola I monumenti non emigrano. Versi del XXI secolo. Come  caratterizzereste questo tempo, questo nuovo secolo? Come sarà per il nostro paese?

Ritengo che noi adesso viviamo in un tempo in cui la Russia cerca una sua nuova identità, vuole capire se stessa. Ora si manifesta da noi una certa situazione plasmatica della società – da questo plasma si abbozza appena il corpo e lo spirito della Russia futura.

Da noi è avvenuto un enorme cataclisma sociale. Solo che, non si sa perché,  abbiamo dimenticato che non si è verificato per caso. Abbiamo dimenticato le drammatiche file in tutti i negozi. Abbiamo dimenticato i treni che si chiamavano “kolbasnijei”(1) perché persino nelle città nei dintorni di Mosca semplicemente non c’era il salame. Abbiamo dimenticato che c’era l’istituto statale della censura e che, senza questo timbro, non si poteva stampare nulla, addirittura gli inviti a nozze. Abbiamo del tutto dimenticato le disgustose commissioni che approvavano i viaggi all’estero, che controllavano in modo umiliante i nostri concittadini sulla lealtà.  E se si dà un’occhiata ancora oltre, allora ci imbatteremo in persone che giacciono fino ai nostri giorni in un eterno cristallo di giaccio, come in sarcofaghi, centinaia di migliaia di corpi di persone che non avevano nessuna colpa nei confronti della propria patria. Ecco io ora converso con voi e, dinanzi a me, sta il paletto D-13. Una volta sono andato alla Kolima con un famoso cercatore d’oro, Vadim Tumanov, che è stato una straordinaria guida perché era stato internato  lì nel lager. Ci siamo imbattuti in un uomo che sedeva a terra e beveva vodka da una bottiglia. L’uomo non sembrava un barbone, era assolutamente istruito. Abbiamo chiacchierato, è venuto fuori che era di Pietroburgo, dottore di non so quale scienza ma qui, secondo voci, era sepolto suo padre in una tomba comune. I documenti erano andati perduti. E vedo alcune colonnine marce, sotto le quali, forse, giaceva anche mio nonno Ermolaj Naumovic Evtušenko, comandante rosso dal portamento alla Capaev. Allora mi sono preso per ricordo questo paletto perché mi rammenti per sempre questo. Le persone dimenticano quanto di terribile e negativo abbiamo avuto nel passato e senza volerlo cominciano ad idealizzarlo. Il nostro presente finora non è diventato quello che volevano quelle donne che con i bambini nelle carrozzine stavano all’interno della catena umana che circondava la Casa Bianca nell’anno 1991. Un giorno quello stesso passato è potuto tornare di nuovo da noi sui carri armati. Sapete, nella mia vita non avevo mai visto tante belle facce  quante in quella notte tra il 19 e il 20 vicino alla Casa Bianca. Forse  soltanto nel 1945, nel giorno della Vittoria sulla Piazza Rossa. Purtroppo non abbiamo ancora realizzato le speranze di quelle persone. Oggi persino la stessa parola “democrazia” è stata compromessa agli occhi della gente.

Si ritiene che il poeta Evtušenko sia autore di versi politici …

Non è esatto che mi avvertano soltanto come un poeta politico. Mi è stato pubblicato un cospicuo volume di versi sull’amore “Non ci sono anni”. La mia prima poesia, grazie alla quale sono diventato famoso, è “Ecco cosa mi succede”. C’è forse in Russia una persona che non la conosca? Se la  ricopiavano a mano. Ed anche la mia prima canzone era sull’amore, ora si canta come canzone popolare, cosa che appare come il massimo complimento “Ah, ho tanti cavalieri ma non ho l’amore vero”.

Ma io potrei pubblicare anche un volume di versi civili. Io non amo la parola “politici”. Però versi civili – suona meglio. Autentici versi civili possono toccare temi politici ma  stanno più in alto della politica attuale sebbene possano essere basati su momenti attuali. Io, ad esempio, sono molto felice di aver impresso alcuni momenti storici nei miei versi e che grazie ad essi  si possa, in linea generale, studiare la storia. Io, per esempio, ero ovviamente sulle barricate il 19 agosto ma poi ho visto come Eltsin gestisce in modo irresponsabile il suo potere, come ha dimenticato la fiducia a lui concessa dalla classe operaia e,contemporaneamente,  anche dalla intellighentja. Sapete chi è per me un eroe dell’ottobre dl ’93? Uno sconosciuto, come mi hanno raccontato, un prete spretato, che uscì e sventolava un fazzoletto bianco ma lo hanno ucciso. Con due colpi: uno dalla parte della Casa Bianca, l’altro dalla parte degli eltsiniani. Ecco quest’uomo è diventato per me un eroe. Perché lui voleva  fermare questo.

Detto questo, uno Evtušenko  solo di versi amorosi – questo non è Evtušenko. Uno Evtušenko solo di versi civili – anche non è Evtušenko. Perciò questo libro “I monumenti non emigrano” è molto mio, in esso tutto è unito in un nodo indissolubile.

I vostri versi sono in realtà  piccole storie della vostra vita?

Mi sono sempre confessato nei versi. Quelli che leggono i miei versi, mi conoscono benissimo come persona. Ad esempio io ho avuto quattro grandi amori. Pongo più in alto di tutto  la riconoscenza verso le donne per il fatto che ci consentono di  esercitare questa grande arte. Ma succede che persone non dotate per l’amore invidiano le persone felici e cercano di farle litigare. Questo, del resto, succede anche nelle amicizie. Infatti un tempo hanno fatto litigare Majakovskij con Esenin, Pasternak con Majakovskij.

Evtušenko 4

Ma raccontate del vostro primo amore.

Non ho mai scritto di lei ma in questa raccolta ci sono versi  dedicati a questo amore. Non ne ho scritto perché è un tema intimo, qualche bigotto potrebbe forse  addirittura esserne scioccato:  io avevo 15 anni e questa donna 27. Era una apicoltrice della regione Altaj (2). Là c’erano paesetti composti esclusivamente di sole vedove di soldati, uccisi in guerra. Quando mi hanno espulso dalla scuola,capitai nell’ Altaj in una spedizione di esplorazione geologica perché non mi pigliavano da nessuna parte, avevo il passaporto con annotazione di mancata lealtà politica. Raccontavo balle, mi aumentavo l’età. Ed ecco che questa straordinaria donna, quando venne a sapere che avevo 15 anni (lei era molto religiosa), sapete, piangeva così tanto,  stava in ginocchio davanti alle icone e chiedeva perdono al Signore. Ecco ho immaginato: e se oggi fosse ancora viva. Vive ancora in quel solitario apiario. E all’improvviso per radio o per televisione sentirà questi versi  dove io mi ricordo di lei con gratitudine e capirà che non ha fatto nulla di male, mi ha soltanto mostrato l’animo femminile. Ed ho il presentimento che succederà proprio questo.

E allora cos’è per voi l’amore?

Per me è una straordinaria fusione, il punto più alto della natura  quando un uomo ed una donna non sentono confini tra il corpo e l’anima. Per  questo l’amore è meraviglioso e non c’è nulla di più alto di questo momento. Quando il corpo si fonde con l’anima, tu non sai dov’è la tua anima e dove il corpo.

E l’amore per la patria – cosa è?

 Capite, anche la patria è un essere vivente. Si compone di donne, bambini, persone che abbiamo incontrato nella vita. La patria non è un insieme di slogan politici e frasi. L’amore per la patria non è l’amore per un sistema politico. Addirittura non è nemmeno l’amore per la natura (sebbene anche la natura sia un essere vivente) ma prima di tutto ci sono le persone. Ho alcuni versi sulla patria, spero che diventeranno importanti per molti, addirittura li cito: ”Non fare un idolo della patria/ non aspirare a diventarne la guida./ Ringraziala per averti nutrito/ ma non ringraziarla in ginocchio./ Anch’essa ha molte colpe/ e tutti noi insieme siamo colpevoli./ È alquanto volgare divinizzare la Russia/ ma disprezzarla è ancora più volgare”.

Ovviamente qualche ipocrita dirà: ”Come è possibile: anche la patria ha molte colpe?” Ma la  patria siamo tutti noi! E noi dobbiamo rispondere di tutto, nello stesso tempo di quello che è stato nel passato e di quello che è ora. E soltanto allora nascerà da noi la responsabilità verso il futuro. Ho scritto una poesia satirica ”Nello stato di nome Sembrerebbe”.  Vi siete accorti che da noi oggi le persone usano spesso la locuzione “sembrerebbe”? Perché? Ma perché nella nostra vita moltissimo “sembrerebbe”. Chiedi: ma tu sei una persona onesta? – ma, sembrerebbe, che sono onesto. Addirittura dicono”sembrerebbe che sono innamorata”. Per questo ho scritto questa poesia satirica. Pensavo che sarebbe stato difficile tradurla in inglese e, se la traduci, allora gli Americani, per esempio, non la capiranno. Ed ecco che, quando con i miei studenti l’abbiamo tradotta a mo’ di esperimento, hanno detto: ”Ma questa è la parola più popolare in America al giorno d’oggi!”. In inglese suona sort of, ne è venuta fuori una traduzione eccellente. In America viene ritenuta una poesia  sull’America, in Russia – sulla Russia.

Voi trascorrete la maggior parte del vostro tempo in America. Non potreste paragonarla al nostro paese. Quali pregi e quali difetti balzano agli occhi qui e là?

 Noi siamo abituati ad accusare gli Americani di tutti i nostri difetti. Accusare qualcuno per i propri difetti è alquanto facile. Diciamo così, se abbiamo un varietà volgare, si dice che tutto questo è venuto dall’America. Ma noi stessi siamo giganteschi produttori di volgarità! I nostri numerosi difetti esistono anche in America ma sotto altri aspetti. Ad esempio noi prestiamo sempre meno attenzione all’istruzione. Mia moglie insegna russo nello stato dell’Oklahoma – ha 135 studenti di varia età. Ci sono lì eccellenti insegnanti ma l’educazione nelle scuole statali è sovvenzionata in modo sempre più misero e per le scuole private non tutti hanno denaro a sufficienza e da noi è lo stesso. Ai miei corsi di cinema e poesia russi vengono ragazzi direttamente dalla scuola ed io vedo come sbagliano in storia, quanto ne sanno poco. E che succede con i nostri ragazzi? La stessa cosa! Mia moglie studiava nell’università di Petrozadovsk (3) alla  facoltà di filologia e mi ha raccontato che è arrivato un ragazzo e le dice: “Maria Vladimirovna, mi hanno detto che per gli esami di ammissione chiederanno I racconti di Bel’kin, (4) io ho girato per tutte le biblioteche, non c’è da nessuna parte questo scrittore! E un ragazzo, quando gli hanno chiesto, chi è stato il più famoso generale della seconda guerra mondiale ha risposto – Suvorov. Evidentemente nella testa dei giovani c’è la stessa pappa dappertutto e, forse, non solo nei giovani!

O prendiamo, ad esempio, la politica. In America è de-intellettualizzata. Ed anche da noi la politica non si unisce ad una filosofia della società. Invece in politica ci deve essere, senza dubbio, un elemento di filosofia della società. In America c’è stato un tempo John Kennedy, quando lo ricordiamo ci viene subito in mente la sua frase: “Non domandare al tuo paese quello che può fare per te ma domanda a te stesso cosa tu puoi fare per il tuo paese”. Frase straordinaria che non si può dimenticare. Ma è stato tempo fa’. Le parole di quali degli ultimi politici ricordiamo? Forse, soltanto gli aforismi di Cernomyrdin. (5)

Ora tutti i problemi sono globali. E per questo non bisogna scaricare sugli altri paesi i nostri propri difetti. Perché io e voi siamo così bravi ma la loro depravata influenza ci ha resi cattivi. La corruzione c’è da noi e da loro. E l’ambizione. Da noi, in verità, si unisce con il complesso d’inferiorità ma questa è già una nostra aggiunta. Ma c’è qualcosa di comune, capite. Comuni difetti, comuni supremazie – entrambi i nostri paesi sono talentuosi e nella scienza e nella letteratura.

Che pensate, la Russia diventerà un giorno un paese civilizzato?

Per quanto il nostro paese si trovi in una situazione plasmatica, noi stessi dobbiamo dapprima rispondere alla domanda alla quale tutti evitano di rispondere: quale società costruiamo? Nessuno risponde a questa domanda. Perché? Perché non conoscono la risposta. Io ritengo che la migliore risposta era contenuta nelle riflessioni di Sacharov sulla convergenza. Sia il socialismo che il capitalismo, come le società predominanti nel pianeta, avevano i loro più e i loro meno. Ci serve qualcosa di terzo, un altro sistema, che contenga tutte le migliori qualità del socialismo che non si possono perdere (penso, ad esempio, all’istruzione gratuita) ed al tempo stesso utilizzare la flessibilità del capitalismo.

E non bisogna temere la critica interna. Se uno stato teme la critica interna – questa è la prima dimostrazione della sua debolezza. Una critica autentica, buona è in fin dei conti costruttiva perché focalizza l’attenzione sui problemi più di punta. Ma parlare apertamente dei problemi di punta –non significa assolutamente che questo sia un coltello nella schiena del proprio paese. Si tratta più spesso di un  bisturi, necessario di fronte al marcio della società. Continua a leggere

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POESIE EDITE E INEDITE di MARINA CVETAEVA (1892-1941) e ARSENIJ TARKOVSKIJ (1907-1989) – Una storia d’amore in versi – A cura di Donata De Bartolomeo e Kamila Gayazova

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Arsenij Tarkovskij

Nessuna di queste poesie di Marina Cvetaeva è stata tradotta in italiano ad eccezione di “Elabuga”, pubblicata e tradotta da Gario Zappi nel suo Poesie scelte di Arsenij Tarkovskij, Scheiwiller, Milano, 1988.
Si tratta di un ciclo di poesie palesemente scritte da Arsenij Tarkovskij à la màniere della Cvetaeva (vedi l’uso delle lineette). L’uno risponde all’altra.

“Io ascolto, non dormo, mi chiami, Marina…”
Gli ultimi anni della vita di Marina Cvetaeva sono stati studiati a fondo ma l’esatta data del suo incontro con Arsenij Tarkovskij non si trova da nessuna parte. E’ noto che pretesto della conoscenza fu la traduzione da parte di Tarkovskij dei versi del poeta turkmeno Kemine. Il titolo completo dell’opera è “Raccolta di canti e versi nella traduzione di Arsenji Tarkovskji con l’aggiunta di racconti popolari scelti sulla vita del celebre poeta”. L’accordo per l’edizione fu stipulato il 12 settembre del 1940 ed il libro uscì probabilmente dopo un mese.
La famosa brutta copia della lettera della Cvetaeva a Tarkovskji, appuntata nel quaderno di ottobre del 1940, fu ricopiata per qualcuno da Ariadna Efron. (1)

marina cvetaeva 1914

Marina Cvetaeva, 1914

“…Caro com.(pagno) T.(arkovskij),
la Vostra traduzione è una meraviglia. Che cosa potete fare – quando siete Voi stesso?
Perché per un altro poeta potete – tutto. Trovate (amate) – e le parole saranno vostre.
Presto Vi inviterò – una di queste sere – ad ascoltare versi (i miei) di un libro futuro. Per questo datemi il vostro indirizzo affinché l’invito non vada vagando – o non resti qui come questa lettera.
Vi pregherei molto di non mostrare a nessuno questa mia letterina, io sono una persona appartata e scrivo a Voi – a che vi servono gli altri? (mani ed occhi) e non dite a nessuno che presto, uno di questi giorni, sentirete le mie poesie, presto ci sarà da me una serata aperta ed allora verranno tutti. Io adesso Vi chiamo da amico.
Ogni manoscritto – è indifeso. Io nella mia interezza – sono un manoscritto
M. C.”

Questa tarda lettera dell’ultima Cvetaeva è totalmente giovanile nello spirito.
La traduzione di Tarkovskij capitò alla Cvetaeva, probabilmente, tramite una sua intima conoscente, la traduttrice Nina Gherasimovna Berner Yakovleva. In gioventù aveva preso parte ad un circolo artistico-letterario alla Bolshaya Dmitrovka, di cui era coordinatore Brjusov. Lì aveva visto per la prima volta Marina ed Asja Cvetaeva, accompagnate da Maximilian Voloscin.
Se giudichiamo dalla lettera, essa è indirizzata ad un uomo già conosciuto, per il quale è nata una simpatia. I due poeti potevano già essersi incontrati a qualche serata letteraria o ad una riunione di traduttori … Ma la Berner asserisce che si conobbero proprio da lei.
E’ sicuramente noto il loro incontro nella casa di Nina Gerasimovna nel vicolo Telegrafnij.

Marja Belkina ricorda quella stanza nella “kommunal’ka” : “…pareti verdi, dove si trovava una mobilia antiquata fatta di un legno rosso e negli scaffali libri francesi con le copertine di pelle.”

Marina Arsen’evna Tarkovskaja, figlia del poeta, nel suo libro Schegge di specchio, uscito di recente, ricorda così: “Sono andata laggiù diverse volte con la mamma – lei era amica di Nina Gherasimovna. La stanza era pitturata di un color verde antico – questo in un’epoca di carta da parati a basso prezzo e decorazioni di argento costoso. Ricordo che c’era lì una mobilia di un legno rosso – uno scrittoio, un divano e una credenza sormontata da un antico specchio. Sia il colore delle pareti che il mobilio si addicevano molto alla padrona di casa , una snella bella donna dai capelli rossi che anche negli anni maturi era assai piacente.”
La stessa Nina Gherasimovna ricordava: “ Si sono conosciuti a casa mia quel giorno. Ricordo molto bene quella giornata. Per qualche motivo uscii dalla stanza. Quando tornai, erano seduti vicini sul divano. Dai loro volti emozionati capii: era successa la stessa cosa alla Duncan e ad Esenin. Si sono incontrati, si sono librati in alto, si slanciati l’uno verso l’altro. Un poeta verso un altro poeta…”.

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Un poeta verso un altro poeta… Questo è molto importante. Quando Tarkovskij giunse nel 1925 a Mosca per studiare, Marina Cvetaeva già da tre anni viveva in Cecoslovacchia. Ma i suoi versi erano molto conosciuti da coloro i quali si interessavano di poesia. I suoi testi si potevano trovare nei negozi di libri usati, potevano essere letti o scambiati tra amici. Il giovane poeta stimava molto la Cvetaeva come un maestro, come un “maitre”, una collega più grande. Marina Arsen’evna scrive che a lei, nata nel 1934, Tarkovskij aveva dato il nome Marina in onore del poeta Cvetaeva.

Quando si incontrarono, Marina era appena tornata dalla Francia. Tarkovskij in quell’estate del 1939 con la sua seconda moglie Antonina al e la loro figlia Elena viveva in Cecenia Inguscezia, dove traduceva i poeti locali.
Aveva alle spalle l’antico, amaro amore per Maria Gustavovna Fal’z, dopo il fortunato matrimonio con Maria Ivanovna Visnjakova, la nascita in famiglia dei due figli Andrej e Marina, poi l’uscita dalla famiglia per Antonina Aleksandrovna Trenina per un amore appassionato… Scrive i suoi splendidi versi ma per l’uscita del suo primo libro ci volevano ancora degli anni, per cui la vita lo costringeva a darsi da fare con le traduzioni.
Tarkovskij non è semplicemente un poeta – è un vero poeta.
Egli non poteva non apprezzare i versi di Marina Cvetaeva, non poteva non passarle accanto anche nella vita senza fermarsi.
Si, sugli anni ’40 della Cvetaeva è stato scritto non poco. Fu un periodo difficile, pesante, insopportabile…tutte queste parole sono appropriate… Tuttavia per un poeta sempre- al di là di tutte le sciagure ed infelicità – più terribile di tutto è il vuoto del cuore.
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MARINA IVANOVNA CVETAEVA (1892-1941) POESIE SCELTE NUOVA VERSIONE a cura di Donata De Bartolomeo e Kamila  Gayazova – Scrive di lei Iosif Brodskij ne Il canto del pendolo «Sul piano formale è considerevolmente più interessante di tutti i sui contemporanei, compresi i futuristi, e le sue rime sono più inventive di quelle di Pasternak»

Pasternak e Mayakovsky
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Marina Ivanovna Cvetaeva (Zvetaeva), in russo: Мари́на Ива́новна Цвета́ева (Mosca, 8 ottobre 1892 – Elabuga, 31 agosto 1941). Scrive di lei Anna Achmatova: «Spesso Marina inizia una poesia con un do di petto». A 18 anni pubblica (1910) Album Serale, la sua prima raccolta di poesie. È l’esordio di un autentico talento: il libro viene recensito dai principali poeti dell’epoca. È  bella, ricca, intelligente, anticonformista. Scriverà centinaia di poesie, diciassette poemi, otto drammi in versi, opere di narrativa e saggistica oltre ad uno scambio epistolare con Rainer Maria Rilke e Boris Pasternak, suo grande platonico amore impossibile. Pasternak le scrive nella sua Autobiografia un commosso riconoscimento: «La verità è che bisognava leggerla attentamente. Quando lo feci rimasi senza respiro per l’abisso di purezza e forza che si spalancava… In breve non è un sacrilegio dire che ad eccezione di Annenskij, Blok e con qualche riserva Andrej Belyi, la Cvetaeva prima maniera era precisamente ciò che avrebbero voluto essere e non furono tutti gli altri simbolisti messi insieme».
Scrive di lei Iosif Brodskij ne Il canto del pendolo «Sul piano formale è considerevolmente più interessante di tutti i sui contemporanei, compresi i futuristi, e le sue rime sono più inventive di quelle di Pasternak». Nella sua poesia c’è una sorta di partitura musicale. Scrive Marina ai suoi lettori: «Il mio libro deve essere eseguito come una sonata. I segni sono le note. Sta al lettore realizzare o deformare». Nel 1911 sposa Sergej Efron a cui fa una promessa che manterrà nonostante i suoi amori collaterali etero e saffici: «Ti seguirò come un cagnolino».
Nel 1912 esce la seconda raccolta, Lanterna magica, e nel 1913 Da due libri. Nel 1917 inizia la rivoluzione, Efron si arruola tra le guardie bianche, e di lui non si saprà più nulla. Assiste ad ogni umiliazione fino ad elemosinare il cibo per sé e le due figlie Alja e Irina che morirà a due anni in un orfanatrofio per denutrizione. Nel 1922 fugge a Praga per raggiungere il marito. Nasce il terzo figlio, della cui paternità si dubita e al quale lei si lega morbosamente. A Praga scrive molte opere importanti: Dopo la Russia, L’accalappiatopi, Il poema della montagna e Il poema della fine. Nel ’25 la famiglia è a Parigi dove vivono di stenti grazie ai lavori domestici di Marina presso varie famiglie. Efron si arruola ai servizi segreti russi ed è accusato di aver partecipato ad un omicidio. Fugge a Mosca con la figlia Alja che condivideva i principi rivoluzionari. Marina resta fedele alla sua antica promessa: «Ti seguirò come un cagnolino». Nel 1939 Marina li raggiunge a Mosca con Mur. In tempo per salutarli poco prima che vengano arrestati.
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mandel'stam foto segnaletica nel lager 1938

osip mandel’stam, foto segnaletica nel lager 1938

Marina invia nei campi di concentramento dove si trovano il marito e la figlia lettere e pacchi con stivali, berretti, scialli, carote essiccate: «a immergerle nell’acqua bollente rinvengono, Alja ricordati che contengono vitamine». Inizia la guerra, i nazisti invadono la Russia, Marina con il figlio nel 1941 sono evacuati a Elabuga, nella Repubblica autonoma di Tataria. Fa domanda per ottenere un posto di lavapiatti in un mensa del Fondo letterario e non lo ottiene. Mur si lamentava della vita che conducevano, pretendeva un abito nuovo ma il denaro che avevano bastava appena per due pagnotte. La domenica 31 agosto del 1941, rimasta da sola a casa, la Cvetaeva salì su una sedia, rigirò una corda attorno ad una trave e si impiccò. Lasciò un biglietto, poi scomparso negli archivi della milizia. Nessuno andò ai suoi funerali, svoltisi tre giorni dopo nel cimitero cittadino, e non si conosce il punto preciso dove fu sepolta. Domenica 31 agosto 1941 rimasta sola a casa, sale su una sedia e si impicca a una trave. Ha 49 anni. Lascia un biglietto d’addio e d’amore profondo: per Mur che la disprezzava per la sua sciatteria e per la sua dubbia reputazione. L’epitaffio era già stato scritto, autografo, il 3 maggio 1913 a 20 anni:
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«… Leggi – di ranuncoli
e papaveri colto un mazzetto –
che io mi chiamavo Marina
e quanti anni avevo… Solo non stare così tetro,
la testa china sul petto.
Con leggerezza pensami,
con leggerezza dimenticami»
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Qualche tempo fa commentando l’uso/abuso delle lineette da parte di una poetessa, pubblicata sulla Rivista internazionale L’Ombra delle Parole, Antonio Sagredo invitava alla lettura di Marina Cvetaeva da lui definita «maestra» nell’uso delle lineette.
L’input è stato da me raccolto e condiviso con Kamila  Gayazova che ha contribuito a questo lavoro con la consueta passione e professionalità.
I testi originali sono stati reperiti in Socinenija (Opere) – 2 v. Mosca,  1988 ed in parte sui numerosissimi siti in lingua russa espressamente dedicati alla Cvetaeva.
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“La lettura è innanzitutto con-creazione… Sei stanco della mia cosa, vuol dire che hai letto bene e – hai letto una cosa buona. La stanchezza del lettore non è una stanchezza che svuoti, ma creativa. Con-creativa. Fa onore al lettore e a me”.
(Marina Cvetaeva, Poet o kritike (Un poeta a proposito della critica) – Sovestkij pisatel’ – Mosca, 1965)
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(Donata De Bartolomeo)

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marina cvetaeva 1914

Marina Cvetaeva, 1914

Poesie di Marina Cvetaeva

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Mi piace che siete malato ma non di me,
mi piace che io sono malata ma non di voi,
che mai la pesante sfera terrestre
scivolerebbe sotto i nostri piedi.
Mi piace che si può essere spiritosa –
Indisciplinata – e non giocare con le parole
e non arrossire per una asfissiante ondata
toccandosi con le maniche con leggerezza.
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Mi piace anche che voi in mia presenza
abbracciate tranquillamente un’altra,
non condannatemi a bruciare
nel fuoco dell’inferno perché non vi bacio,
perché il mio tenero nome, mio caro, non
menzionate né di giorno né di notte – invano …
Perché nel silenzio di una chiesa
non canteranno mai sopra di noi “alleluia”!
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Grazie a voi col cuore e con la mano
perché voi – senza neanche saperlo! –
mi amate così tanto: per la mia quiete notturna,
per la rarità degli incontri nelle ore del tramonto,
per le nostre non passeggiate sotto la luna,
per il sole non sulle nostre teste,
perché voi siete malato – purtroppo! – non di me,
perché io sono malata – purtroppo! – non di voi.
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SOTTO UN CAREZZEVOLE PLAID FELPATO
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Sotto un carezzevole plaid felpato
chiamo il sonno di ieri –
Cosa è stato? Di chi è la vittoria?
Chi è lo sconfitto?
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Tutto ripenso di nuovo,
per tutto di nuovo mi torturo.
In questo, per cui non conosco le parole,
consisteva forse l’amore?
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Chi era il cacciatore? Chi la preda?
Tutto diabolicamente al contrario!
Cosa ha capito, facendo a lungo le fusa,
il gatto siberiano?
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In questo duello di ritrosia
chi, nella mano di chi stava solo la palla?
Quale cuore – il vostro forse, forse il mio
volava al galoppo?
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E tuttavia – cos’è stato allora?
Cosa voglio e cosa rimpiango?
Continuo a non capire: ho forse vinto?
Forse sono stata sconfitta?
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FRIVOLEZZA – CARO PECCATO
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Frivolezza! – caro peccato,
caro compagno di viaggio e mio caro nemico!
Tu hai spruzzato nei mie occhi il riso
e nelle mie vene hai spruzzato la mazurca.
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MI hai insegnato a non conservare l’anello nuziale
con qualunque persona la Vita mi avrebbe sposato!
Iniziare a casaccio dalla fine
e finire ancor prima dell’inizio.
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Essere come uno stelo ed essere come acciaio
nella vita dove noi così poco possiamo …
Curare la tristezza con la cioccolata
e ridere in faccia ai passanti!
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1915
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AD ANNA ACHMATOVA
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Un corpo sottile, non russo –
sui tomi.
Lo scialle dai paesi turchi
è sceso, come un manto.
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Vi si può rendere con una sola
linea nera spezzata.
Il freddo – nell’allegria, la calura –
nel vostro sconforto.
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Tutta la Vostra vita è un brivido
e si compierà – ma in che modo?
La nuvolosa – plumbea – fronte
di un giovane demonio.
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Conquistare qualsiasi persona terrena
per lei è un gioco!
E il verso disarmato
mira al cuore.
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Nell’ora assonnata del mattino –
mi sembra alle quattro e un quarto –
io mi sono innamorata di Voi,
Anna Achmatova.
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(1915)
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Pasternak_croppedpasternak 5
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Sole bianco e basse, basse nuvole,
lungo gli orti – oltre la bianca parete – un camposanto.
E sulla sabbia file di spaventapasseri di paglia
sotto traverse dalla statura umana.
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E, spenzolando attraverso pali di steccato,
vedo: strade, alberi, soldati in disordine.
Una vecchia, una fetta di pane cosparsa
di sale grosso accanto al cancello mastica e mastica …
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Cosa hanno fatto queste grigie case per farti arrabbiare,
Signore! – e a che pro’ tenere sotto tiro il cuore a così tante persone?
Il treno se n’è andato ed ha ululato ed hanno ululato i soldati
ed ha coperto di polvere la strada dietro di sé …
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No, morire! Non nascere mai sarebbe stato meglio
di questo ululato dolente, compassionevole, galeotto
sulle belle donne dalle ciglia nere. Oh, cantano
adesso i soldati – oh, Signore, mio Dio!
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*
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ECCETTO L’AMORE
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Non amavo ma piangevo. No, non amavo tuttavia
solo a te ho indicato nell’ ombra il volto adorato.
Tutto nel nostro sogno non assomigliava all’amore:
né ragioni né indizi.
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Solo noi ha salutato questa immagine dalla sala serale,
solo noi – tu ed io – le abbiamo portato un verso lamentoso.
Il filo dell’adorazione ci ha legati più forte
dell’innamoramento – degli altri.
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Ma l’impeto è passato e dolcemente qualcuno si è avvicinato
che non poteva pregare ma amava. Non affrettarti a condannare!
Ti ricorderò come la più tenera nota
nel risveglio dell’anima.
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Tu vagavi in questo animo triste come in una casa non chiusa.
(Nella nostra casa, in primavera …) non definirmi quella che ha dimenticato!
Io ho riempito di te tutti i miei minuti tranne
Il più triste – quello dell’amore.
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*
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Essere tenera, matta e chiassosa
-bramare di vivere!-
Essere affascinante ed intelligente,
incantevole!
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Più tenera di tutti quelli che sono e sono stati,
non conoscere la colpa …
-oh, indignazione, perché nella tomba
tutti noi siamo uguali!
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Diventare ciò che non è caro a nessuno,
-oh, diventare come ghiaccio!-
senza sapere ciò che è stato
né ciò che verrà,
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dimenticare come il cuore si è spaccato
e si è di nuovo saldato –
dimenticare le proprie parole e la voce
e lo splendore dei capelli.
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Il braccialetto di turchese antico
sul piccolo gambo
su questa sottile, su questa lunga
mia mano …
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*
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Come avesse abbozzato una nuvoletta
da lontano,
dalla manina di madreperla
prendeva la mano.
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Come saltavano le gambe
al di là della siepe,
dimenticare come vicino, lungo il cammino,
un’ombra correva.
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Dimenticare l’ ardore nell’azzurro,
come sono quieti i giorni …
-Tutte le proprie birichinate, tutte le tempeste
e tutti i versi!
.
Il mio miracolo compiuto
scaccerà il riso.
Io, l’eternamente-rosata, diventerò
la più bianca di tutti.
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E non si apriranno – così deve essere –
oh, abbi pietà!
né per un tramonto, né per uno sguardo
né per i campi
.
le mie palpebre abbassate
-nemmeno per un fiorellino!
Terra mia, perdona per sempre,
per tutti i secoli.
.
E tuttavia si scioglieranno le lune
e si scioglierà la neve
quando volerà via questo giovane,
incantevole secolo.
.
*
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Aleksandr Blok 7.
Non penso, non mi lamento, non discuto.
Non dormo.
Non aspiro
né al sole né alla luna né al mare
né alla nave.
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Non mi accorgo di quanto fa caldo tra queste pareti,
di quanto verde c’è nel giardino.
Da tempo il dono desiderato ed atteso
non aspetto.
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Non mi rallegra né il mattino né la corsa
sonora del tram.
Vivo, senza vedere il giorno, dimenticando
la data e il secolo.
.
Sulla fune, che sembra intagliata,
io – sono un piccolo danzatore.
Io – ombra dell’ombra di qualcuno. Io – sonnambulo
di due oscure lune.
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*
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OSIP E. MANDEL’STAM
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Da dove questa tenerezza?
Non sono i primi – questi ricci
che liscio ed ho conosciuto labbra
più oscure delle tue.
.
Spuntavano e si spegnevano le stelle,
da dove questa tenerezza? –
spuntavano e si spegnevano gli occhi
dinanzi ai miei stessi occhi.
.
Inni ancora migliori
ho ascoltato nella notte oscura,
incoronata – oh tenerezza! –
sul petto stesso del cantore.
.
Da dove questa tenerezza
E cosa farne, malizioso
adolescente, cantore errante
dalle ciglia che più lunghe non si può?
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(1916)
.
*
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Si è svegliata la strada. Guarda, stanca
con gli occhi aggrottati delle finestre mute
sui volti assonnati, rossi per il gelo
che scacciano con i pensieri il sonno caparbio.
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Coperti di brina gli alberi neri –
con la traccia misteriosa dei divertimenti notturni,
nel broccato più splendente stanno cupi
come fossero morti tra i vivi.
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Balugina il grigio cappotto sgualcito,
il berretto con il fregio, il volto rattristato
e le mani rosse, premute contro le orecchie,
e un grembiulino nero con un fascio di libri.
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Si è svegliata la strada. Guarda, accigliata
con gli occhi aggrottati delle finestre mute.
Addormentarsi, potersi dimenticare con pensiero consolante
che sogniamo la vita e questo – è un sogno!
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(27 aprile 1920)
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*
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Io ho parlato ed un altro ha sentito
ed ha bisbigliato ad un altro, un terzo ha capito
mentre un quarto, prendendo un bastone di quercia,
è uscito nella notte – verso un’azione eroica. Il mondo su questo
ha composto una canzone e con questa stessa canzone
sulle labbra – o vita! – vado incontro alla morte.
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(6 luglio 1918)
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*
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mandel'stam stalin

Stalin

A BORIS PASTERNAK
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Dis-tanze: verste, miglia…
Ci hanno dis-trutti, dis-tanziati
perché non facessimo rumore
nei due diversi estremi della terra.
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Dis-tanze: verste, lontananze…
Ci hanno scollati, dissaldati
e due mani hanno allungato, crocifiggendo,
e non sapevano che questa è una lega
.
di ispirazioni e tendini …
non ci hanno resi nemici – ma dis-persi,
ci hanno fatti a strati …
una parete e un fossato.
Ci hanno separati, come aquile-
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cospiratori: verste, lontananze …
Non ci hanno separati – ci hanno sparsi.
Lungo i tuguri delle latitudini terrestri
ci hanno scaraventati come orfani.
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Quale ormai ma quale marzo?!
Ci hanno frantumati – come un mazzo di carte!
24 marzo 1925
Nostalgia della patria! Da tempo
smascherata seccatura!
Mi è completamente indifferente
dove essere completamente
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sola, per quali sassi a casa
trascinarmi con la borsa della spesa
in una casa che nemmeno sa che è mia
come un ospedale o una caserma.
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Per me fa lo stesso tra quali
persone rizzare il pelo come un leone
prigioniero, da quale ambiente umano
essere sloggiata – immancabilmente –
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verso me stessa, nell’individualità dei sentimenti.
Come un orso della Kamciatka senza lastra di ghiaccio
dove non acclimatarmi (e non mi sforzo!),
dove umiliarmi – per me fa lo stesso.
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Non mi farò illudere nemmeno dalla lingua
materna, dal suo latteo richiamo.
Mi è indifferente in quale lingua
non essere compresa da chi incontro!
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(da un lettore, di tonnellate di giornali
divoratore, mungitore di pettegolezzi …)
Lui – è del ventesimo secolo,
mentre io arrivo ad ogni secolo!
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Stordita, come una trave
che è rimasta da un viale,
per me sono tutti uguali, per me tutto è uguale
e, forse, più uguale di tutto
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quello che era nativo – più di tutto
da me tutti i segni, tutti i marchi,
tutte le date – sono stati cancellati con un colpo di mano:
l’anima, nata da qualche parte.
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Il mio paese non mi ha protetta così
che la più penetrante spia
lungo tutta l’anima – tutta di traverso!
non troverà un neo!
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Qualsiasi cosa mi è estranea, ogni tempo è per me vuoto,
tutto è la stessa cosa e tutto è uguale.
Ma se lungo la strada un arbusto
si alza, soprattutto – un sorbo …
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(1934)
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Si è svegliata la strada. Guarda, stanca
con gli occhi aggrottati delle finestre mute
sui volti assonnati, rossi per il gelo,
che scacciano con i pensieri il sonno caparbio.
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Coperti di brina gli alberi neri –
con la traccia misteriosa di divertimenti notturni,
nel broccato più splendente stanno cupi
come fossero morti tra vivi.
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Balugina il grigio cappotto sgualcito,
il berretto con il fregio, il volto rattristato
e le mani rosse, premute contro le orecchie
ed un grembiulino nero con un fascio di libri.
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Si è svegliata la strada, accigliata
con gli occhi aggrottati delle finestre mute.
Addormentarsi, poter dimenticare con pensiero consolante
sogniamo la vita e questo – è un sogno!
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(27 aprile 1920)
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Io ho parlato ed un altro ha sentito
ed ha bisbigliato ad un altro, un terzo – ha capito
mentre un quarto, prendendo un bastone di quercia,
è uscito nella notte – verso l’azione. Il mondo su questo
ha composto una canzone e con questa stessa canzone
sulle labbra – oh vita! – vado incontro alla morte.
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*
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cvetaeva-468.
Chi è fatto di pietra, chi è fatto d’argilla –
Io invece sono fatta d’argento e brillo!
La mia occupazione – è il tradimento, il mio nome – Marina,
io – sono l’effimera spuma del mare.
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Chi è fatto d’argilla, chi è fatto di carne –
a costoro la bara e le lastre tombali …
-battezzata nella fonte marina – e nel mio
volo continuamente infranta!
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Attraverso ogni cuore, attraverso ogni rete
batte il mio arbitrio.
Io – vedi questi ricci scomposti? –
non sono fatta del sale della terra.
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Mi frango sulle vostre granitiche ginocchia
e da ogni onda – risuscito!
Evviva la schiuma – l’allegra schiuma –
l’alta schiuma del mare!
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(1920)
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Tu, che mi hai amata con l’inganno
della verità – e con la falsa verità,
tu , che mi hai amato – che oltre
non si va! Oltre la frontiera!
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Tu, che mi hai amata più a lungo
del tempo – gesto della mano divina!
Tu non mi ami più:
la verità in cinque parole.
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(1923)
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I giorni lumache che strisciano,
… cucitrice giornaliera di linee …
Che mi importa della mia stessa vita?
Non è la mia, dal momento che non è la tua.
E mi importano poco le sciagure
personali … una mangiata? Una dormita?
Che mi importa del mio corpo mortale?
Non è il mio, dal momento che non è il tuo.
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(Gennaio 1925)
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La mia strada non passa accanto alla casa – la tua.
La mia casa non passa accanto alla casa – di nessuno.
E tuttavia smarrisco il cammino,
(soprattutto – in primavera!)
e tuttavia mi struggo in mezzo alla gente
come un cane sotto la luna.
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Ospite ovunque gradita!
Non faccio dormire nessuno!
Gioco col nonno ai dadi
e col nipote – canto.
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Le mogli non sono gelose di me:
io – voce e sguardo.
E per me nessun innamorato
ha costruito un palazzo.
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Mi fanno ridere le vostre
grazie non richieste, mercanti!
Innalzo da sola in una notte
ponti e regge.
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(Ma quello che dico – non lo ascoltare!
Tutte chiacchiere – di donne!)
Io stessa al mattino distruggerò
la mia creazione.
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Palazzi – come un covone di paglia – nulla!
La mia strada non passa accanto alla casa – la tua.
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*
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cvetaeva6

Marina Cvetaeva

Il nomadismo del mondo è iniziato nelle tenebre:
sono loro che brancolano lungo la terra notturna – gli alberi,
sono loro che fermentano come vino dorato – i grappoli,
sono loro che vagano di casa in casa – le stelle,
sono i fiumi che cominciano il cammino – controcorrente!
Ed io ho voglia sul tuo petto – di dormire.
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(1917)
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LA TRIPLICE ALLEANZA

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Noi, dietro la timidezza del volto,
celiamo dell’altro.
Noi siamo cuori ribelli.
Noi siamo giovani. Siamo in tre.
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Durante la lezione siamo così silenziosi
tanto ardenti nel maneggio.
Abbiamo versi simili
e sogni unici e medesimi.
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Servire la libertà – è il nostro motto
e finire come eroi.
Abbiamo giurato sull’ombra di Schiller.
Noi siamo giovani. Siamo in tre.
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(1909-1910)
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*( NdT) Si riferisce a Mandel’stam, Pasternak e se stessa.
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Morendo, non dirò: sono stata.
E non ho rimpianti e non cerco colpevoli.
Ci sono al mondo fatti più importanti
di tempeste appassionate ed avventure amorose.
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Tu, che hai bussato con l’ala su questo petto,
giovane colpevole dell’ispirazione,
io ti ordino: – sii!
Io – non smetto di obbedire.
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(1918)
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Ma chi se ne importa!
Siate pecore!
Andate in branchi, in stuoli
senza un sogno, senza un pensiero proprio
dietro Hitler o Stalin:
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mostrate dai corpi fatti a pezzi
la stella o le croci celtiche.
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(23 giugno 1934)
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A mamma
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Nel vecchio valzer di Strauss
noi abbiamo udito il tuo sommesso appello,
da quel momento ci sono estranei tutti i vivi
e consolante il fugace combattimento delle ore.
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Noi, come te, salutiamo i tramonti
ebbri della vicinanza della fine.
Tutto quello di cui siamo ricchi nella sera migliore
tu ce lo hai messo nel cuore.
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Inchinandoti ai sogni infantili senza stancarti
(senza di te soltanto la luna li guardava!)
hai guidato i tuoi piccoli oltre
i pensieri e le azioni di una vita amara.
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Dai primi anni ci era vicino chi soffriva,
noioso il riso ed estraneo il tetto familiare …
La nostra nave non salpò in un buon momento
e naviga secondo il capriccio di tutti i venti!
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Sempre più pallida l’isola celeste – l’infanzia,
noi siamo soli sul ponte.
Si vede che tu, mamma, alle tue figlie
hai lasciato in eredità la tristezza.
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(1907-1910)
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Agli Ebrei
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Chi non ti ha calpestato – e chi non ti ha fuso,
oh, roveto ardente di rose!
Unica cosa che lasciò sulla terra
di incrollabile su di se Cristo:
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Israele! Si avvicina un secondo
tuo impero. Per tutti i centesimi
voi ci avete ripagato col sangue: Eroi!
Traditori! Profeti! Mercanti!
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In ciascuno di voi – persino in quello che a lume di candela
conta l’oro nel sacchetto –
Cristo parla più forte che in Marco,
Matteo, Giovanni e Luca.
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Per tutta la terra – da un capo all’altro –
crocifissione e deposizione dalla croce
con l’ultimo dei tuoi figli, Israele,
in verità seppelliremo Cristo.
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(1916-1924)
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È ora! per questo fuoco –
Sono vecchia!
• L’amore – più vecchio di me! –
-Di 50 gennai
montagna!
-L’amore – ancora più vecchio: –
vecchia come un equiseto, vecchia come un serpente,
più vecchia delle ambre lituane,
più vecchia di tutte le navi trasportate
più vecchia! – delle pietre, più vecchia dei mari…
Ma il dolore, che sta nel petto,
è più vecchio dell’amore, più vecchio dell’amore…
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(1940)
Donata De Bartolomeo è nata a Taranto e vive a Roma, ha tradotto poesie di Osip Mandel’stam, Anna Achmatova, Arsenij Tarkovskij, Aleksandr Blok, Cvetaeva e altri poeti e narratori russi.

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