Archivi del giorno: 15 settembre 2018

Leopoldo Attolico – Poesie da Si fa per dire. Tutte le poesie 1964-2016,  Marco Saya Edizioni, 2018 pp. 580 € 25 – Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa – Attolico sbarca sulla luna delle follie quotidiane con il suo bagaglio di attrezzi ironico-istrionici

Foto animated blanca_suarezLeopoldo Attolico, (Roma, 5 Marzo 1946), ha pubblicato, a partire dal 1987, sei titoli di poesia e quattro plaquettes in edizioni d’arte, materiale confluito assieme a numerosi inediti nell’opera omnia Si fa per dire, Tutte le poesie, 1964-2016, Marco Saya Edizioni, 2018.

È dunque probabile che la poesia che viene in mente

al soggetto pensante, non scaturisca come le somme di un’addizione

su cui ci si sia affaticati dopo aver tirato una riga sotto gli addendi.

Questo è legittimo pensarlo per il pensiero ingenuo

che pensa una poesia come un’addizione

ma è illegittimo per un pensiero che si ponga criticamente davanti

alla sommatoria di due addendi

.

(Giorgio Linguaglossa)

Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa

Ho letto di recente una decina di libri di poesia pubblicati da Einaudi, Mondadori. Che dire? Sono scritti in una koinè comprensibile e anche condivisibile, confortevole, una koiné internazionale che ha il passaporto europeo e quindi idonea all’esportazione di un materiale lessicale e stilistico confortevole, lodevole, europeista. Tutto ok, tutto politicamente s-corretto. Meraviglioso! Non c’è niente da dire, niente, dico, da critico e ermeneuta della poesia. Appunto, non c’è niente da dire su di essi, e questo lo trovo, appunto, meraviglioso. Che altro potrei dire? Sono stupefatto dalla bravura degli autori… costoro scrivono per la nicchia, per lo specchio della nicchia, scrivono e vivono per la nicchia dello specchio, della riconoscibilità assicurata.

Oggi che il «soggetto» periclita con collasso in quanto assediato dalle emittenti mediatiche, non può che parlare della propria debolezza, del proprio decesso, della propria invisibilità della propria urbana scorrettezza. Baudrillard scrive che «oggi la posizione del soggetto è diventata indifendibile». È davvero così? Siamo arrivati a questo punto? Al punto che la convulsione della soggettività, quella che un tempo si chiamava nevrosi, isteria, psicopatologia è scomparsa, affondata,  dissolta per sempre da quella che è stata definita la strategia della disparizione del soggetto?

Che cosa è accaduto? È accaduta la implosione della cultura del tardo novecento, quella cultura poetica che va da Patrizia Cavalli (Le mie poesie non cambieranno il mondo, 1974) e Valentino Zeichen (Area di rigore, 1974), e arriva ai giorni nostri,  quella cultura della inferenza dell’io e della retorizzazione del soggetto che ha avuto in Italia e in Occidente una grande visibilità, si è esaurita nelle frange minoritarie del post-minimalismo, nei fenomeni mediatici delle scritture superficiarie. La poesia di Leopoldo Attolico sta tutta dentro questa cultura del tardo novecento, se ne ciba in modo cannibalico.

Steven Grieco Giorgio LInguaglossa Letizia Leone 15 dic 2016La strategia della disparizione della scrittura poetica

La disparizione del soggetto ha portato con sé una emorragia della elocuzione, tutta la soggettività è stata divorata e si è riversata sulle superfici della cultura mediatica. Il segreto della strategia dell’oggetto è che non ha desiderio, non crede, non ha fede, non chiede, non esiste ma persiste ed insiste sopra il vuoto della comunità mediatica che aleggia. Direi che la poesia di Leopoldo Attolico (una volta sganciatosi dalla parentela tutela dalla poesia giocosa di cui il capostipite resta il compianto Vito Riviello), partecipa di questo sviamento, affondamento, esaurimento, affoltamento del soggetto nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Ciò che rimane invariata è la poesia maggioritaria che pronuncia i suoi riti apotropaici sempre più auto referenziali, sempre più pleonastici. Ed ecco le spiritose punture di spillo di Attolico nei riguardi della poesia maggioritaria: la poesia al «mitico peppino» (Giuseppe Conte) ne è un esempio gradevolissimo; al poeta Conte «di fronte ad una platea che pendeva dalle sue labbra», viene ricordata «la latitanza di quel significante». E come non avvedersi della puntura di spillo al mitico poeta «pecora»? E quella ad Asor Rosa? In verità, la poesia rischia di precipitare nel buco nero da cui vorrebbe evadere: la poesia del significante, dello stile derubricato in non-stile.

Con l’ironia e il sorriso un po’ demodè, Attolico ci conduce all’interno dei suoi tic, delle sue amnesie, delle sue ansie, delle sue elucubrazioni, delle sue nevrosi, ci racconta anche qualche perla della sua biografia: «Ero giovane, volonteroso, referenziato / timoroso di Dio; una perla rara: / proprio come desiderava l’annuncio di Famiglia Cristiana»; a Stefano Benni viene rinfacciato che «ha scritto una poesia bellissima», tutto qui. Il resto della poesia sono i commenti a margine di quella poesia. Altrove, è l’impianto di riscaldamento che non funziona: «Il tuo cuore è andato in blocco: / non si accende. / O forse si è acceso / ma l’acqua non ha la spinta necessaria, / non sale // Ti dico questo col garbo di un aggiustatore». Viene stigmatizzato che basta scalfire le «liturgie sotto controllo» degli usi mondani perché il mondo si rovesci ed esploda la reazione dell’oggetto contro il soggetto: «Ho scoperto che per fare imbufalire la gente / è sufficiente urtarle il gomito da tergo / mentre sorseggia la tazzulella ‘e cafè al bar / di prima mattina». E così, tra una «constatazione amichevole» e l’altra lo scontro tra il soggetto e l’oggetto trova le sue tregue; così, il soggetto scopre l’oggetto, ad esempio una bellissima ragazza che cammina: «Camminava sul vetro di un autobus / da sotto in su / diretta verso il cielo; / ma si fermò / d’un tratto…». In questa guerra, in questa eterna derisoria belligeranza tra il soggetto e l’oggetto, tra il «“poeta” così quaresimale / penitenziere e penitenziale» e il «mondo», non ci potrà mai essere uno stato di stasi o di requie, bisogna riuscire a «somatizzare» «per non continuare a far confusione fra Erba Gramigna e Malerba… le paturnie di ceronetti…», bisogna vivere e sopravvivere! Fatto sta che Attolico da poeta anti bucolico riesce esilarante quando la sua poesia può pungere i letterati egemoni, è qui che riesce davvero impareggiabile.

È la strategia di disparizione della scrittura poetica che il poeta romano mette in atto, la strategia del significante che scompare per poi subito dopo riapparire nei versi che seguono in un contesto semantico cannibalico. Attolico è complice della disparizione del significante e della disparizione del soggetto, sbarca sulla luna delle follie quotidiane con il suo bagaglio di attrezzi ironico-istrionici. Attolico stesso, il poeta medesimo è un significante che è trasmigrato sulla luna con la macchina desiderante della scrittura non-poetica la quale, contrariamente a quel che ne pensa qualche anima bella, si è inceppata, frantumata. Occorre subito ripararla, occorre un «antitodo» pensa Attolico. È «la realtà sofferta del comico» quella che emerge, la strategia comica della propria auto disparizione: Attolico dispare come un significante, come il ritorno del rimosso del significante; il poeta romano tratta di semafori, di buche della strada, di calzini sporchi, della spocchia dei letterati con casa con vista sul mare, tratta del mare, dell’insignificanza dell’esistenza degli uomini del suo tempo, abbassa tutto il regesto delle tematiche a trucioli, a tematismi, grilleggia e solfeggia il suo umore comico. 

(grafica di Lucio Mayoor Tosi, da sx L. Attolico e G. Linguaglossa)

Forse un giorno

Ricordando l’Eugenio nazionale

Forse un giorno mi scapperà una poesia
fatta di erba e latte
di rossori e di luce
di parole fraterne, come si può e si deve.
Se la tivù non mi avrà rimbambito del tutto
tornerò al perlage che cresce dal profondo
al primo tempo di verve e di lentischio
alla sventata di passero improvviso
che scheggia nell’azzurro
e ti si porta via di frodo in Paradiso.
Farò tesoro dell’essere vissuto
con la botte e col cerchio
da bravo ragioniere mortodifame
-pardon, morto con la sua fame di vivo irriducibile
e resuscitato per caso col ballo di san vito
d’orgoglioso grafomane reiterato e cocciuto.
Dirò alla vita, con grande faccia tosta
che la palinodia è un esercizio vano
che m’illumino d’immenso soltanto a Capodanno
che la malia del sogno l’ho sempre frequentata
andandomene a letto col pigiama
e sognicchiando con un occhio solo.
Sarà poesia di lama e d’innocenza
e i calci negli stinchi
i topici furori allineati e coperti da una vita
si metteranno le mani nei capelli
vedranno i sorci verdi
nel leggermi una volta -come un tempo-
fittavolo del mondo che non muta

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