
la realtà, così come esposta alla nostra percezione, ci sfugge continuamente. Di per sé non è ancora il reale
Le fonti della poesia[1]
Nonostante siano anni che ogni giorno salgo le scale dell’antica casa sede del mio atelier, non riesco a ricordarne il numero di scalini. Di per sé, non è affatto strano. Di sicuro ognuno di noi, in altre occasioni, ha vissuto situazioni simili. Sarebbe assurdo se, da queste lacune della mia memoria attuale, desumessi che gli oggetti, nella fattispecie gli scalini che non ho notato, o che ho notato soltanto in quanto sfondo o come insieme, non esistono… Ugualmente, se a causa della mia attenzione orientata altrove, in una giornata soleggiata “non vedo” l’uomo seduto al tavolo accanto al mio del ristorante dove pranzo, nonostante lo abbia tutto il tempo davanti agli occhi, sarebbe sciocco concludere che l’uomo in questione sia invisibile. Nonostante queste e altre siano prove quotidiane dell’orientamento della nostra percezione, non possiamo non ammettere di esserne sorpresi in molte situazioni, anche meno convenienti. A volte riusciamo a sorprenderci per l’errore della nostra attenzione e ci meravigliamo della certezza della nostra convinzione che un evento abbia avuto luogo nonostante non sia così, che sia avvenuto in un certo modo, anche se in realtà non è vero, che non abbiamo visto cose davanti ai nostri occhi, ma altre che non esistevano. La nostra percezione si fa gioco di noi, un gioco infido ma coerente.
Di sicuro sarebbe poco pratico, difficile e perfino impossibile vedere la realtà come è realmente, come reale, vale a dire in tutta la gamma di segnali che ci trasmette in tutti i contesti e dettagli, nella sua microstruttura, in tutta la sua totalità. Se vogliamo orientarci in essa, se vogliamo che rimanga chiara, non possiamo percepirla altrimenti che in modo selettivo; quindi, percepiamo consapevolmente solo ciò che attrae la nostra attenzione per qualsiasi causa e in un determinato momento, ciò che al nostro apparato mentale nel contesto della situazione attuale sembra essere importante, cruciale, o almeno interessante.
Per questo motivo, la realtà, così come esposta alla nostra percezione, ci sfugge continuamente. Di per sé non è ancora il reale. Non è ancora settorizzata in cose e ambienti, non è ridotta a rapporti immediati, non è codificata in termini, e quindi è naturalmente molto più estesa e complicata della nostra realtà. In relazione ai nostri bisogni antropoidi e individuali, essa è priva di una differenziazione pratica. Pertanto, è per noi an sich inutile. E sarebbe certamente un ostacolo piuttosto che un vantaggio il vederla in una condizione “genuina”. Questa realtà, che non percepiamo coscientemente, è solo un surrogato del reale da cui nella nostra coscienza gli oggetti, gli eventi e le relazioni reali, per effetto del nostro sforzo percettivo e apercettivo prendono forma e si creano come mondo, come realtà attribuitaci. Il nostro mondo, la nostra realtà è una realtà interpretata, relativa alla nostra esistenza umana, collettiva e individuale.
Se è così, e credo che i fatti siano così evidenti e psicologicamente noti che probabilmente non necessitano di un supporto argomentativo aggiuntivo, è necessario notare due cose: Nel senso comune del termine, l’interpretazione presuppone un atto volitivo. Ciò, tuttavia, è in disaccordo con il nostro reale come realtà “interpretata”. L’azione mentale selettiva è solo in piccola parte una concentrazione della coscienza. In misura molto maggiore è l’azione delle funzioni inconsce mentali, dei riflessi condizionati e incondizionati, dell’ordinamento subliminale, la valutazione e la strutturazione del materiale che si offre alla nostra percezione. Vale a dire: nella parte inconscia del nostro apparato mentale sono memorizzate le strutture della percezione e del comportamento che ci portano a reazioni immediate, le quali non richiedono dei percorsi analitici del nostro ragionamento cosciente. Queste strutture sono costruite in parte su dati mediati dall’insieme dei nostri strumenti percettivi, dei quali, tuttavia, si può senza esitazione affermare la reale limitatezza, che certamente, però, è inferiore a quella delle informazioni classificate e ridotte dalla coscienza. Ma non solo. Sotto molti aspetti, si basano su sistemi di informazioni genetiche e, come testimoniato da alcuni fenomeni, di extrarecettori. In secondo luogo, è opportuno notare che, nei casi in cui l’interpretazione della realtà è conscia, lo è quando derivata dalla tradizione culturale, e qualora avvenga sulla base della propria esperienza o riflessione non è generalmente intesa come interpretazione, ma come conoscenza. Tutto questo ha gravi implicazioni. Infatti, mentre ogni interpretazione può essere discutibile in quanto prodotto di un ragionamento potenzialmente carente, la conoscenza ci sembra essere tradizionalmente definitiva.
[1] (novembre 1991, manoscritto)
Il problema della lingua
L’aggiramento, come quando di notte, la lanterna in mano, si aggira un oggetto oscuro in modo che lo si possa osservare da ogni lato, mi sembra essere l’unico modo in qualche misura praticabile per illuminare, in quanto non mi rimane che affidarmi al linguaggio lineare, questo mezzo di comunicazione estremamente inadeguato, che ho purtroppo a disposizione anche quando non si tratta tanto di confermare la realtà in cui mi muovo, ma piuttosto di evidenziare le caratteristiche dei suoi tratti paradigmatici. Sono consapevole del fatto che la maggior parte di noi si affida ancora alla propria lingua etnica, credendo che ci si possa effettivamente ed adeguatamente esprimere anche laddove ha inizio il processo di rifiuto del nostro mondo. È una forma strana, non dissimile dal labirinto di specchi, dell’antiriflesso di una situazione di impasse in cui sono intrappolati, in quanto alla fine li riporta al punto di partenza, dal quale forse sinceramente volevano liberarsi. Nessuna lingua è caduta così dal cielo, e ognuna ha la sua storia. È un prodotto temporaneo e storicamente determinato della civiltà in cui è nato, interagendo con la quale ha sviluppato se stesso così come la civiltà, con la quale mostra una corrispondenza sia lessicale sia sintattica, e la cui logica è derivata e adeguata alla logica dello schema paradigmatico di un certo tipo, in modo da poterla rispecchiare come reale, certificandola come il volto di pietra di un angelo sul doccione di una fontana barocca, sulla superficie d’acqua del proprio serbatoio. Giriamoci intorno una volta, quindi, e torniamo al punto di partenza.
L’amour fou di André Breton
Sappiamo che la maggior parte delle persone formate dalla nostra civiltà non ricorda i sogni. E ritiene che ciò non sia nemmeno necessario. I sogni, nel contesto della società attuale focalizzata sulla produzione e sul consumo, sul potere e la ricchezza, non sono importanti e la loro valorizzazione, ad opera della psicoanalisi del XX secolo, non ha cambiato molto. Ecco perché molti di noi sono spesso convinti di non sognare affatto e di solito è inutile assicurare loro del contrario. Tutto ciò che è fuori dalla portata dell’utilità all’interno dello schema della civiltà in cui ci troviamo, viene solitamente allontanato, ignorato e in definitiva negato, perché gran parte di esso ci appare come fonte di confusione, ostile o, nel migliore dei casi, inutile. Pertanto, anche nel caso di un evento rimarchevole, ma che sfida la normale logica paradigmatica, la maggior parte di noi è sempre disposta a negarlo, considerandolo una svista, un errore, un’illusione ottica e uditiva, un’interpretazione falsa o perfino fraudolenta, e troppo spesso non siamo addirittura in grado di percepire un evento del genere. Qualunque cosa vera accada, per noi rimane piuttosto qualcosa di irreale: come se l’evento avesse luogo al di fuori del nostro mondo tridimensionale.
Nel L’AMOUR FOU André Breton descrive un avvenimento accaduto a lui e alla sua giovane moglie il 20 luglio 1936, durante una passeggiata pomeridiana sul lungomare vicino a Le Fort-Bloqué, nel piccolo villaggio termale Le Pouldu, sulla costa meridionale della Bretagna. L’intero episodio non mostra niente di particolarmente straordinario. In buona coscienza si può difendere la convinzione che ciascuno di noi abbia assistito ad eventi simili molte volte nella vita, ma a differenza del surrealista Breton la maggior parte di noi non presta loro nemmeno lontanamente la stessa attenzione. Se però iniziamo ad occuparcene per qualche ragione, e soprattutto se li consideriamo sistematicamente, se superiamo il solito ed eloquente “scetticismo”, che per noi è facile rifugio in quanto si inserisce nel consenso della civiltà dei nostri tempi razionalisti; se allentiamo le briglie della nostra curiosità, sorella della lucida intelligenza, ben presto scopriamo che eventi simili avvengono nella nostra vita più di quanto siamo abituati e disposti ad ammettere. Se poi diventiamo veri “cacciatori” di tali esperienze, se focalizziamo su di loro la nostra attenzione, allora diventeranno gradualmente ma sempre più intensamente presenti. Più significativi, reciprocamente coerenti, e il loro significato si accrescerà. Infine, dopo un periodo di tempo più o meno lungo, ci sarà un momento in cui la nostra attuale realtà consolidata, la nostra immagine del mondo inizierà a trasformarsi in maniera significativa. Si arriverà ad uno spostamento dell’interpretazione della realtà, inizieremo a trattare la realtà in maniera diversa, scovando passaggi verso una realtà alternativa magica.
Dunque, il detto giorno della passeggiata, Breton e sua moglie si trovavano sul tratto di costa tra la fortezza Le-Fort Bloqué e una casa solitaria chiamata Le Loch. Chiunque conosca la Bretagna può testimoniare che questa regione, ingiustamente sopravvalutata come una regione dotata di un fascino particolare, riesce ad essere mortalmente noiosa, monotona e spesso suscita il legittimo desiderio di abbandonarla prima possibile. Ad ogni modo: mentre passeggiavano lungo il litorale inespressivo e scialbo la coppia sentì improvvisamente una strana alienazione, perfino repulsione reciproca. Più continuavano a passeggiare più entrambi diventavano aggressivi e intolleranti, fino a sentire un astio ingiustificabile ma comunque molto intenso. Il silenzio fu l’unico e probabilmente l’ultimo baluardo in questa situazione scomoda capace di impedire il sorgere di un’inimicizia aperta e fatale. Tutto questo flusso apparentemente inspiegabile di sentimenti negativi durò per diversi chilometri, fino al momento in cui i Breton raggiunsero il casale Le Locle e il non lontano boschetto adiacente. Dopo di che, il loro stato d’animo iniziò inspiegabilmente a schiarirsi, fino a consolidarsi definitivamente in un senso di appartenenza e simpatia. Quella stessa sera, quando i Breton tornarono dai loro parenti nella vicina città costiera di Lorient, e riferirono della loro escursione, appresero con loro stupore che quella casa solitaria e l’intera area circostante sono conosciuti come “luoghi maledetti.” A suo tempo furono teatro di un omicidio per avidità. Un uomo di nome Michel Henriot, il proprietario di quella casa cupa, sparò alla moglie, non prima di averla assicurata per una somma ingente, con la clausola esplicita che il premio sarebbe stato versato anche in caso di omicidio. L’intera regione maledisse l’assassino e la sua casa, che da allora rimase vuota.

Ne L’amour fou André Breton descrive…
La registrazione ologrammatica
Non vedo alcun motivo per cui si possa escludere del tutto, con particolari presupposizioni, l’ipotesi dell’impregnazione di un determinato spazio, materiale od oggetto con un complesso di informazioni portate dal campo emozionale psicoenergetico, se rifiutiamo l’idea metafisica della parete che separa la materia e lo spirito, sempre che non si pretenda di supportare la primitiva concezione dualistica, secondo cui qualsiasi interazione diretta tra i fenomeni psichici e quelli materiali è da considerarsi assurda. Perché, però, escludere la registrazione di cariche di energia psichica nelle strutture atomiche della materia inanimata, e per quale motivo rifiutare a priori l’idea che il medium della memoria non deve essere sempre soltanto la struttura di neuroni “animali”, e che la memoria non è solo posseduta dall’elefante ma anche dall’albero, non solo dall’uomo ma anche dalla pietra? Oppure, in altre parole: se sto scrivendo questo testo sul mio computer, in totale evidenza, di sicuro molti mi applaudirebbero se alla mia precedente domanda “sciocca” contrapponessi una frase piena di sarcasmo caustico, ma passerebbe sotto silenzio il fatto che i miei controargomenti, più o meno eleganti, che vedrei apparire sullo schermo di fronte a me, vengono registrati dal computer grazie a micro-impulsi elettrici su un supporto magnetico altrettanto non psichico e privo di neuroni come un “hard disk”? No: dietro la riduzione delle proprietà “mentali” unicamente al campo umano, o, se non altro, anche ad una parte degli animali non si nasconde nient’altro che anacronistici pregiudizi religiosi, che riservano l’anima e la capacità spirituale solo alle “creature di Dio”, vestite con i talari più scientifici o filosofici. Forse non è tanto il sembra, ma piuttosto il come comunicano l’uomo e la pietra nella trasmissione di informazioni che permangono nella pietra o nella persona come una registrazione ologrammatica, e però a questi tentativi di decifrare esattamente questo mistero opponiamo resistenza con un riferimento aprioristico alla sua irragionevolezza irremovibilmente supposta ma non dimostrata.
L’indagine surrealista, che finora, anche a seguito di un’alienazione ideologica decennale purtroppo non ha avuto luogo abbastanza sistematicamente, ha tuttavia rilevato che con un allenamento sistematico e la permanente concentrazione dell’attenzione, ad esempio, su sogni chiave, è possibile attuare e perfezionare queste capacità. Anche l’interazione tra la struttura psichica e non psichica della materia non è probabilmente qualcosa impossibile da apprendersi, in determinate circostanze. Sono convinto che il primitivo dualismo “spirito” e “materia”, che è ancora (ma che spero, per quanto riguarda le tendenze contemporanee della scienza giovane, non per sempre) concepito nel nostro pensiero scientifico e filosofico, può essere altro che la disinterpretazione di due aspetti dello stesso fenomeno d’energia. Perché tra essi non potrebbe avvenire un atto comunicativo, anche se la sua comprensione e applicazione va per il momento ben oltre la nostra intuizione e pratica, a causa del nostro approccio alla realtà impropriamente concepito? Forse non è altro che l’accettazione della realtà come qualcosa più della semplice coulisse di un palcoscenico, dove va in scena il dramma della nostra “realtà quotidiana”, apparentemente compresa ma che ci sfugge di continuo. Davvero a noi si chiede così tanto?
Il 6 aprile 1958, poco dopo la mezzanotte, insieme alla mia amica Zlata Adamová, la quale allora cooperava con il gruppo surrealista di Praga, lasciammo il wine bar “V Zátiší” in piazza Betlémské a Praga. La città a quell’ora era già silenziosa e sembrava deserta. Attraversammo via Liliová, sul lato sinistro, dove al primo piano di una finestra aperta era appesa una gabbia con un canarino. Nel momento in cui passammo vicino, l’uccello improvvisamente si svegliò e prese a cantare brevemente in modo strano. Poi non sentimmo altro che i nostri passi e scambiammo solo poche frasi: il silenzio di questa città totalitaria era opprimente. Accompagnai Zlata, che allora viveva in via Všehrdova a Malá Strana, ma per motivi che non posso ora spiegare deviando per via Platnéřská e quindi Kaprova, prima di dirigerci verso il Rudolfinum attraversando il ponte Mánes. Forse non volevamo tornare a casa. Forse i nostri passi erano guidati da altre forze inconsce. Arrivati nella piazza davanti al Rudolfinum (allora chiamata Soldati dell’Armata rossa), lungo il marciapiede che passa per l’Istituto di Arti decorative, ma sul lato opposto della strada, barcollando si fece strada verso di noi per il piazzale deserto una coppia strana, spaventosa e, ovviamente, ubriaca: l’uomo, estremamente emaciato e alto, con una giacca di pelle consumata e la faccia ruvida, somigliante ad un autista di autocarri. Ponendo la mano sinistra intorno alle spalle della donna, la quale a malapena gli arrivava alla vita, l’abbracciò. Era sporca, con i capelli incredibilmente scompigliati e un volto debosciato e senile. L’uomo le parlava, ma quando fummo soltanto a pochi passi di distanza da loro, con nostra implicita sorpresa scoprimmo che le stava recitando una poesia. Era una parafrasi dei versi di Nezval: “Manon, lei è una farfalla. Manon, lei è un’ape. Manon, lei è una rosa gettata in chiesa.” I pesanti passi dei due ubriachi si allontanarono. Fummo investiti da un vento freddo. Incapaci di fermarci e di voltarci, continuammo a camminare, rigidi come marionette. Infine, dopo pochi metri, ci arrestammo e guardammo l’un l’altra. La mia gola si sbloccò e con una rivelazione improvvisa e terribile dissi: “Ci è venuta incontro la duplice morte.” Arrivammo in silenzio sul ponte Mánes, ci fermammo ancora stupiti vicino al parapetto e volgemmo i nostri sguardi verso l’adiacente Ponte Carlo, dove due dei lampioni sul ponte brillavano per qualche ragione incomprensibile di un rosso sangue. Mi sentii devastato. A Zlata dissi, con una premonizione che rasentava la certezza: “È accaduto un avvenimento luttuoso.” Poi, non parlammo quasi più. Accompagnai la mia amica a casa e tornai a piedi al quartiere Dejvice, dove a quel tempo abitavo occasionalmente. La mattina seguente, verso le nove, mi recai in tram al centro. Quando passai accanto all’Istituto di Arti decorative, vidi sopra l’entrata principale due bandiere nere. “È morto qualcuno?” presentendo qualcosa chiesi a un passante, il quale aveva in mano il giornale del mattino; “Stanotte è morto Nezval,” mi informò. Il giorno dopo la bara con i resti Nezval fu esposta nella sala dirimpetto del Rudolfinum.
La Poesia
Nonostante gli sforzi intensi e pluriennali del Surrealismo di spostare il concetto di poesia dal campo letterario, dove secondo noi appartiene, se è vera poesia, soltanto indirettamente, al campo della magia immaginativa, alla sfera dell’esperienza, al monde merveuilleux, ci troviamo di fronte, da questo punto di vista, ad una resistenza passiva ma stranamente ostinata, la cui essenza sembra essere molto più profonda di quanto si possa spiegare con la sola goffaggine accademica o con la semplice incomprensione. Per quanto cerchiamo di mettere le cose nella giusta prospettiva, la poesia, con una testardaggine tale da far riflettere, è ancora intesa e definita esclusivamente in termini di teoria formale della letteratura come genere lirico o come un testo che esprime, in maniera più o meno condensata, una comunicazione in qualche modo espressiva, impressiva o riflessiva, e ciò con l’utilizzo di certi trucchi letterari chiamati “ornamenti poetici”. La famosa opinione di Lautréamont, secondo il quale tutti e non uno soltanto dovrebbero fare poesia, nel senso della sua collettivizzazione come concepita per molto tempo dai nostri predecessori, per fortuna non si è concretizzata. Dico ‘per fortuna’, e ciò senza alcun grado di sarcasmo, perché l’idea che ogni persona, anche se solo occasionalmente e non quotidianamente, prenda in mano la penna o si sieda alla macchina da scrivere per comporre una poesia, è per me assolutamente deprimente, non importa quanto antidemocratica possa sembrare questa mia asserzione. Ad ogni modo, alla “poesia” si dedica nel mondo una quantità insopportabile di persone, le quali di solito non sanno cosa essa sia e come origini. Ogni inflazione, e quindi anche un’inflazione nella scrittura di testi, anche la migliore (ma di un’inflazione del genere non si può parlare nemmeno) è sintomo di decadenza e non di libertà. È un bene che non tutti noi cuociamo il pane e piantiamo vigneti, ma è anche certamente un bene che noi tutti mangiamo il pane e che molti di noi bevono il vino, e sono in grado di sentire il piacere di questa esperienza. Ma d’altra parte: sarebbe davvero inauspicabile che “tutti” facciano poesia, se con ciò non intendiamo la tradizionale attività con la penna in mano, ma piuttosto la capacità di poter sperimentare la realtà come magica e poetica, di sollevarsi contro l’eterno grigiore della contemplazione pragmatica e di trovare una nuova cultura
Il Surrealismo
Se il Surrealismo, che ripete instancabilmente di non essere una corrente letteraria o artistica, fino ad ora si è dedicato con una tale intensità e tenacia proprio alla poesia, lo ha fatto principalmente perché era consapevole del danno causato dalla civiltà sull’uomo a causa del suo crescente privilegiare unilateralmente la sua capacità razionale a scapito di quella irrazionale, poetica e magica. Poiché questa unilateralità non è stata e non è mai, in nessun momento, innocente e innocua. Al contrario: se oggi troviamo che i giorni di questa civiltà sono contati, se possiamo quasi giorno per giorno e passo dopo passo seguire il suo processo di decomposizione, se la osserviamo affogare lentamente nelle sue stesse contraddizioni di potenza e nella sua morchia fisica e morale, siamo consapevoli che si tratti del suo destino, che per quando riguarda il suo sviluppo non tocca soltanto un’area geografica, uno o due continenti, ma l’intero globo, e non solo l’umanità ma tutte le più complesse forme di vita, e che questa sua agonia è stata causata proprio da questa sua unilateralità, che non ha preso in considerazione né la natura né la psiche umana nel suo insieme, ma che l’ha percepita parzialmente e pragmaticamente, interpretandola solo come strumenti o oggetti di beneficio materiale. Anche se il Surrealismo, da questo punto di vista, ha riportato nel corso del XX secolo un certo successo, anche se è riuscito ad espandere la sfera della coscienza poetica dell’uomo con immagini e opere oggigiorno talmente parte della consapevolezza generale che dobbiamo allontanarci da loro per non finire intrappolati nella gabbia dello stereotipo, sappiamo fin troppo bene che le sue forze sono ancora troppo deboli e la sua sfera di influenza troppo limitata per poter opporsi con successo all‘intera evoluzione catastrofica della civiltà. Quali forze sarebbero comunque sufficienti per un simile proposito?
È ingiusto che la critica esterna, come a volte accade, ci accusi di aver fallito nelle nostre intenzioni. Il Surrealismo non ha mai affermato di essere, di per sé, in grado di cambiare il mondo, ma si è sempre trovato dalla parte del cambiamento, perché aveva già compreso l’insostenibilità del mondo attuale molto tempo fa, nei giorni in cui gli apologeti “rivoluzionari” della civiltà contemporanea erano ancora soffocati dall’adorazione per il progresso tecnologico e dall’ammirazione per le ciminiere fumanti delle fabbriche. Inoltre, è molto chiaro come non vi sia ancora all’orizzonte alcuna forza capace di impedire l’apocalisse imminente. Lo sviluppo della civiltà presenta una sua inerzia e delle sue leggi insovvertibili dalla forza di volontà, quantunque disperata. Ciò non significa che intendiamo arrenderci: se anche la fine è inevitabile, non altrettanto sono le circostanze in cui si verifica. Le prospettive attuali sono deprimenti, ma sono davvero inevitabili? Il Surrealismo certamente cercherà di dare una possibilità alla speranza, alla possibilità di preparare una consapevolezza sociale per una trasformazione possibilmente dignitosa, di preparare già ora una nuova configurazione della coscienza che porti all’iniziazione di un mondo diverso, meno difettoso. Siamo consapevoli che questa volta il cambiamento dovrà essere talmente profondo da non aver più nulla a che fare con quella cultura e civiltà. La prossima volta non si tratterà più dello sviluppo evolutivo del processo storico presumibilmente obiettivo, ma della svolta dettata dallo stato del nostro pianeta, e di un inizio completamente nuovo.
La Poesia dal punto di vista surrealista
Da un punto di vista surrealista, la poesia non può essere intesa altrimenti che come un’esperienza personale, individuale, che ha luogo su un livello magico, che tocca l’essenza dell’esistenza di ogni vita. Si tratta di un modo di sperimentazione concreto, non è un modo specifico di comunicare pensieri e sentimenti. Quando si ascrivono gli attributi della poesia al mezzo della parola scritta in un testo immaginativo o al mezzo dell’icona di un’immagine immaginativa, si cade in un equivoco. Se diciamo che la poesia o un dipinto è poetico, che ha in sé la poesia, non significa null’altro che ci offre l’esperienza poetica inculcatavi dall’inconscio di un poeta o di un pittore. In realtà, non sono nulla più che traslocatori più o meno efficaci di esperienze magiche registrate dal pittore o dal poeta capaci, in circostanze favorevoli, di trasferire queste esperienze in senso analogico nell’eventuale lettore, spettatore, nel percipiente, vale a dire nel destinatario sensibile del messaggio del testo o dell’immagine. Certamente una tale trasferimento deve essere sufficientemente efficace. Deve avere un effetto suggestivo. Anche il sogno, per costruzione ed effetto, sarà sempre allarmante, perfetto o affascinante. L’inconscio non è un dilettante. Pertanto, il dipinto o una poesia “brutta” non sono altro che dipinti e poesie non suggestive, che a un esame più attento si rivelano prodotti arbitrari della fantasia speculativa e non prodotti dell’inconscio. Il surrealista, che trasmette attraverso alcune tecniche automatiche i prodotti del proprio inconscio su carta o su tela, nel caso si tratti di prodotti veramente autentici dell’inconscio, comunica con loro automaticamente anche la loro persuasività e suggestività, proprio come l’inconscio li comunica in maniera diretta al dormiente in un sogno vivido.
Perché il Surrealismo non è un’arte?
L’idea surrealista è l’idea della libertà dello spirito creativo, e poiché questa libertà non può in nessun caso essere raggiunta nel contesto della civiltà contemporanea, è l’idea del rifiuto assoluto, l’idea della ribellione contro questa civiltà. Ovunque e ogni volta che si ostacola la creatività di un essere umano, un animale o una pianta, creatività che tende a liberare la vita dal gravame della civiltà (ad es. dalla sua volontà di potenza, dalla volontà di un’idea assoluta, la cosiddetta verità, dalla volontà di proprietà, dalla volontà di dominio sugli altri, ecc. – volontà che è un prodotto della cultura) l’ideologia surrealista è uno strumento adoperabile per rilevare una tale condizione e per la sua demistificazione e defeticizzazione. Il Surrealismo, in questo senso, è unico e insostituibile, perché è la struttura unificante di tutte le tendenze simili e correlate in tutte le discipline intellettuali. Il Surrealismo è uno strumento intellettuale che va costantemente intensificandosi nel corso della storia, che riconosce, in termini di varie discipline, anche i soli germi delle idee anti libertarie, poiché non persegue nessun obiettivo pragmatico o professionale. Non manifesta una rassegnata accettazione di tutto ciò che, anche solo in maniera potenziale, possa violare la libertà dell’uomo e le sue forze creative, perché non è in alcun modo dipendente da questa civiltà, né consapevolmente dovrebbe esserlo.
A differenza della tradizionale arte “d’avanguardia”, che vuole raggiungere il successo nel contesto della civiltà contemporanea, il Surrealismo rifiuta il successo. L’unico successo del Surrealismo è quello di fornire diritto di dimora a quegli spiriti sovversivi che nel mare della civiltà contemporanea non avrebbero forse nemmeno il coraggio di sognare di opporsi a questa civiltà. Il Surrealismo è la ricerca durevole delle non-libertà umane, il tentativo permanente di una proposta di realizzazione di una realtà più libera, più vicina alla libertà. In ogni caso, il Surrealismo di oggi non è quello di ieri. Il desiderio ossessivo per la libertà dello spirito e dell’uomo è quel filo rosso su cui sono infilate tutte le perle bianche e nere dei tentativi surrealisti di risolvere i problemi fondamentali di questo desiderio. In questa prospettiva, nella società totalmente razionalista del nostro tempo il Surrealismo si distanzia e, con riserve, continua a distanziarsi dalla coercizione dell’utilità pragmatica, rivolgendosi all’arte come ad un’isola di libera creatività umana.
L’archetipo organizzatore del macro e del microcosmo
L’unione inversa di parti bilateralmente simmetriche di una singola struttura è uno dei principi morfologici fondamentali della natura, l’archetipo organizzatore del macro e del microcosmo. In quel momento mi fu chiaro il contenuto magico del messaggio che mi aveva raggiunto in quella nebbiosa giornata autunnale. Soltanto allora mi fu evidente come la forza numinosa di quella mia visione non fosse il risultato della crisi soggettiva, quantunque sconvolgente. Il suo effetto ammaliante prendeva origine dal contatto magico dell’inconscio con l’archetipo dell’universo, dal cogliere, sul campo irrazionale, uno dei segreti più profondi della realtà. La demonizzazione animistica di quest’attimo fu poi conseguenza della percezione magica, che registra sempre la realtà interiore come una parte integrante della realtà psichica. Solo allora la mia vista interiore si rischiarì. Come in una sintesi onirica mi resi conto del principio simmetrico delle formazioni cosmiche, dei poli magnetici, delle strutture cristalline e biologiche. Nei giorni e nelle notti seguenti, in preda ad una trance superficiale, passai in rassegna ciò che mi circondava, riconoscendo all’improvviso dei e demoni di antiche religioni, i volti assorti, indagatori, beffardi e malevoli della realtà, privati delle maschere civilizzatrici dell’utilità e dell’applicabilità immediate. Arrivare alla decisione di usare questo potenziale magico per tracciare immagini col metodo della visione inversa fu quindi un breve passo.
Per far risaltare la sua forza magica, non era possibile usare nessun altro mezzo se non quello delle tecniche fotografiche capaci di riprodurre l’impressione della realtà con fedeltà naturalistica. Tecniche a metà tra macchina fotografica e laboratorio, che riorganizzai in cucina di alchimista, dove creavo una nuova realtà partendo dagli ingredienti che trovavo. Il fatto di trasfondere vitalità spirituale in alberi, pietre, micro e macrostrutture, che di solito nel mondo reale passavano inosservati, elevava l’attività creativa al rango di reale creaturazione del mondo. Ciò produceva l’identificazione con animali, piante e minerali, processo questo favorito dalla magia e represso dalla civilizzazione: nel momento in cui la natura si psicologizza, l’essere umano ne diviene parte.
Per caratterizzare questo metodo nella maniera più precisa possibile, lo chiamai inversaggio, parallelamente alla denominazione dei metodi creativi surrealisti più antichi introdotti da Max Ernst. Questa questa mia scoperta l’ho connotata con la seguente definizione:
L’inversaggio è un metodo surrealista di creazione della realtà magica attraverso l’unione di due o più immagini inverse di oggetti reali, delle loro parti o di strutture immateriali, superficiali. Il principio dell’inversione non è basato su tendenze estetiche della coscienza, ma preesiste come archetipo morfologico dominante nell’inconscio, vale a dire nella realtà irrazionale. Il carattere archetipico dell’inversione dà luogo all’inversaggio, che origina dalle immagini fotografiche della realtà creata dall’azione di acqua, fuoco, ghiaccio, calore, erosione, corrosione, gravità, divisione cellulare, crescita ecc., con una implicita forza numinosa. Il significato extra-estetico dell’inversaggio non può essere altro che il rivolgere la nostra attenzione verso una percezione alternativa, magica e, in questo modo, sconvolgere il monopolio della repressiva visione ottica cosiddetta “oggettiva” della costruzione unilateralmente razionalistica del mondo.
(Maggio 1977)

Milan Napravnik
MILAN NÁPRAVNÍK nasce in Cecoslovacchia nel 1931 e da circa quarant’anni vive in Germania. Conseguita a Praga la maturità scientifica, lavorò per un anno nelle miniere d’oro di Jílové, vicino Praga, dopo essere stato etichettato, essendo uno studente appassionato di jazz, come un “ammiratore dello stile di vita americano”. Dal 1952 al 1957 studiò drammaturgia alla Facoltà di Studi cinematografici dell’Accademia delle arti performative di Praga. Dopo tre anni di lavori provvisori, nel 1960 iniziò a lavorare alla Televisione cecoslovacca come direttore artistico della redazione per le Trasmissioni per bambini e ragazzi. Dalla seconda metà degli anni 1950 collaborò con il Gruppo surrealista di Praga, la cui attività non fu immune da intrichi perpetrati dalla polizia segreta e i cui tentativi di esporre o pubblicare le proprie opere furono ostacolati dai divieti delle Autorità. Fece il suo debutto letterario nel 1966 con la raccolta Básně, návěstí a pohyby (Poesie, avvisi e movenze), pubblicata privatamente e in numero limitato nell’edizione Speciálky dal pittore František Muzika. Emigrò dopo l’occupazione sovietica del 1968, dapprima a Berlino occidentale per alcuni mesi e successivamente a Parigi. Dal 1970 si è stabilito definitivamente a Colonia. Duranti gli anni dell’esilio, lavorò prima come redattore radiofonico e successivamente, dalla metà degli anni 1980, come pittore, scultore e fotografo artistico freelance.
L’inizio ideale per ogni scrittore che ha a cuore la scrittura nell’ormai avviato 21° secolo potrebbe essere questo, tratto da un Senza titolo in prosa, in un altro libro di Napravnik, “Il nido del buio”, anche questo di Mimesis e curato da Antonio Parente (pag. 41 del volume):
I primi nessi, quindi, già mancano, ma non ha abbastazna pazienza per iniziare daccapo. Non ha la forza di rispezzare le parole da tempo gemellate, ordinarle, integrarle, inserire copule tra le articolazioni di frasi private di vicende. (1) E’ possibile che gli manchino le forze e la pazienza per un tale lavoro, ma forse non saprebbe neanche come iniziare. (2) . Ogni poco gli tremano le mani in modo differente, in altri momenti gli si secca la gola, altre volte è la fame a farsi sentire (3). Forse dovrebbe fermarsi e guardarsi alle spalle, ma così facendo perderebbe la direzione; forse inizierebbe persino a ritornare. Come se non stesse già facendo ritorno …
Un testo così lascia senza parole (per l’appunto)
1. “private di vicende…” che frase: annidata lì, quasi invisibile..
2. Derrida…
3. lo sforzo “sovrumano” dello scrittore di fronte al nulla atroce. Come Ibsen, che ogni mattina si svegliava e dalla paura di non sapere dove iniziare o continuare a scrivere si accingeva a “mettere a posto” la scrivania: le carte qui, le penne lì, la gomma là, etc.
L’ultima frase ci dice qualcosa di meraviglioso: il testo si scrive da sé. All’autore-Sisifo, sembra di fare un lavoro enorme e quasi del tutto inutile, ma in realtà Sisifo è il sole che sorge e tramonta, è il vagare delle nuvole, e il moto dell’onda. Non ha mai compiuto alcuno sforzo, soltanto, lo pensava. E’ self-impelled, come dice Dante nella Vita Nuova: “Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa”
Desidero dire “Ben tornato, caro Steven”. E’ un piacere ri-trovare i tuoi colti e pertinenti commenti su L’Ombra… Ci arricchisci.
Gino R
Grazie mille! Il problema è che sull’isola greca dove abito temporaneamente non c’è l’Internet, e quindi niente commenti. Quando sarò a Atene vorrei contribuire all’Ombra delle parole. Torno lì domani, adesso mi trovo a Venezia.
Buon lavoro!
Per comprendere l’istanza rivoluzionaria, soteriologica e palingenetica del surrealismo, bisogna tener presenti i presupposti speculativi che hanno determinato l’esigenza di evadere dalla concezione del soggetto inteso come prevalentemente razionale, che dalla ipervalutazione della nous socratica al contrasto spirito materia cartesiano e all’idealismo hegeliano, domina la nostra cultura, fino alla ribellione esistenzialistica e antimetafisica, da Kierkegaard a Nietzsche.
Purtroppo l’ossessione antispiritualistica nicciana, come già in Leopardi, finisce per limitare ad un materialismo esaltato, felice e consapevole, ma inevitabilmente destinato al nichilismo, la felice intuizione dell’essenza umana fatta più di istinti e passioni, che di intelletto e volontà, come nell’idealismo hegeliano.
Ma l’attenzione per l’inconscio, soprattutto in senso Junghiano, nasce da questa rivolta, dall’esigenza di determinare uno spazio di verità ed etica meno illusorio del prospettivismo della volontà di potenza, capace di ricreare un’autentica integrità esistenziale, rivalutando capacità ed esigenze profonde e ineludibili di corpo e psiche, in cui emozioni, affetti e desideri, visioni e istanze oniriche riconducano sulle tracce degli “dei fuggiti” Holderlin.
INQUADRATURE DELLA FAMOSA ASSENZA
Il profumo dell’abisso ha fatto impazzire i muri e le luci del santuario.
L’antica promessa, spezzata in due da una risata, è ricoperta di donne scarlatte.
La notte ha venduto il suo sesso più profondo e si aggira scalza in cerca dei miei pensieri.
Il giorno, accecato dal vento di corallo, distrugge gli altari di nostalgia celeste.
La grande pausa di flauto nasconde il pianto delle vergini sonnambule.
L’amore è una fontana sepolta che si pettina in una prigione di palpiti d’angelo.
L’ombra del male dice il vero.
La fine non è…
Le persone possono vedere soltanto davanti a sé, e un poco di lato. Di fatto, nell’arco di una giornata poche sono le volte in cui si voltano per guardarsi dietro. Ne deduco che la loro esperienza sensoriale sia alquanto ridotta, per lo meno dimezzata.
Possiamo immaginare che l’inconscio tragga origine da dietro, dalla parte del non veduto. E che il non veduto venga notato grazie all’emozione, che è un senso interno, forse l’unico che abbiamo capace di diffondersi sensibilmente.
Inoltre, come testimoniato dagli episodi narrati da Milan Napravnik all’inizio di questo articolo, mi sembra lecito immaginare che il pensiero possa avere una sua certa fisicità. Fisicità destinata a restare nel luogo dove è stata prodotta – ad esempio nelle “cose”. Poniamo che un poeta si sia perduto un verso mentre era per strada: tornando sul percorso, ecco, lo potrebbe ritrovare. Esattamente come accade per le chiavi di casa o dell’auto…
E’ noto che nel buddismo tibetano, grazie alle ruote di preghiera, facendole girare si crede che i pensieri vengano trasmessi al mondo intero; proprio come accade quando si spargono al vento le ceneri di un defunto.
Personalmente mi senso più vicino al “Realismo magico” (visione lucidamente attonita del reale, così viene descritto su Wkp), che al surrealismo. In quanto che il S. a me sembra una ricreazione estetica dell’inconscio. E allora, penso, tanto varrebbe reinventarsi anche quello che sappiamo coscientemente.
Tutto è energia. Ma sappiamo davvero tutto dell’energia?
Il linguaggio, ci dice Giorgio Agamben, è ciò che deve necessariamente presupporre se stesso. Il che significa che, come tale, esso è ciò che in ultima istanza manca di presupposto, e questo mancare si dà come esperienza irriducibile, come condizione stessa affinché via sia linguaggio. Dire che non c’è metalinguaggio significa così affermare che ogni dire – e lo stesso ordine significante – si smarrisce una volta posto di fronte ai suoi presupposti.
È qui che ci viene in aiuto la nozione lacaniana di «fantasma», nozione singolare e alquanto oscura che Lacan introduce per descrivere la natura più profonda del desiderio umano, e cioè quel suo essere «desiderio di nulla» che presto si rovescia in un «nulla di desiderio», quel nulla in cui la parola scava la sua dimora e in cui il soggetto fa esperienza della sua propria mancanza a essere. Il soggetto della poesia scopre il proprio svanire come soggetto nel momento in cui vede per la prima volta il «reale», ma, per farlo deve necessariamente sogguardarlo da «dietro lo schermo», dal riparo di un nascondiglio.
Noi pensiamo e recepiamo il mondo attraverso il linguaggio, ma esso linguaggio è una cornice alquanto limitata. Il linguaggio della metafisica contiene le parole della metafisica occidentale, noi abitiamo il mondo solo attraverso il linguaggio, soltanto modificando il linguaggio possiamo pensare di abitare un altro mondo. il Surrealismo ci aiuta a pensare l’impensato, a pensare ad una diversa articolazione del mondo e a una diversa articolazione del linguaggio. Fare del linguaggio è una azione fantastica, è una macchinazione che abita il «fantasma». Non si dimentichi che per i pagani la poesia giungeva dal di fuori, da lontano, da un fantasma, da una deità che loro chiamavano Musa. Bisogna giungere al linguaggio da lontano, farsi risvegliare e sorprendere dal linguaggio, farci scuotere…
Una poesia che non ci scuote, che non proviene da lontano ma dalle immediate vicinanze, è una poesia di cui possiamo tranquillamente fare a meno…
Dobbiamo lavorare per una poesia che sposti il baricentro della poesia maggioritaria, quella che gode del consenso delle istituzioni e degli uffici stampa degli editori maggiori, e per fare questo dobbiamo lavorare per la costruzione della nuova piattaforma. La nuova ontologia estetica è questo. Se vogliamo disegnare un movimento in grado di superare le forze attualmente maggioritarie nella raccolta del consenso, dobbiamo con forza definire la piattaforma per la quale stiamo lavorando con maggiore precisione e maggiore appeal.
caro Steven,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/09/17/milan-napravnik-stralci-da-la-magia-del-surrealismo-mimesis-sisifo-2018-pp-90-e-9-traduzione-di-antonio-parente-le-fonti-della-poesia-il-problema-della-lingua-lamour-fou-di-a/comment-page-1/#comment-37930
L’atto di massima belligeranza lo compie il poietés quando fa sorgere la parola contro il vuoto e il silenzio del mondo pre-logico. La poesia dunque è un atto di belligeranza portato alle estreme conseguenze. Il vuoto e il nulla sono forme perfette dalle quali la parola rifugge, il vuoto e il nulla sono la sede del Dio assoluto e non belligerante… ma Dio non vuole questa pace tediosa, non ama il vuoto, ecco perché dà origine all’essere e alla parola. Dio non vuole sopportare la responsabilità del vuoto e del nulla.
Il più grande anti nichilista è Dio il quale dà origine all’essere e alla parola, ma il poietés è il più grande nichilista perché porta la parola nel grembo del nulla.
La pratica della poesia come percorso eidetico?
Parlavo qualche tempo fa con te intorno a quella nuova parola, a quel nuovo concetto: «disfania» della «nuova ontologia estetica»… Ci chiedevamo: Che cos’è una «disfania»? Ecco il punto: Come accade una parola «nuova»? Da dove cade? E verso dove cade? E perché cade? Una parola «nuova» indica una cosa «nuova», una cosa che prima non esisteva? E se non esisteva è perché nessuno aveva sentito il bisogno che esistesse, nessuno l’aveva cercata, e magari trovata? – In verità, una parola «nuova» viene incontro ad un «nuovo» bisogno, a una «nuova» necessità. Da Gadamer in poi noi utilizziamo, in modo inconsapevole e irriflesso, un concetto di linguaggio inteso fondamentalmente come dialogo, quale «orizzonte di un’ontologia ermeneutica»; ciò implica che il «nuovo», se è nuovo, non può non inserirsi nell’orizzonte di una «ontologia ermeneutica» che ricomprenda il «vecchio» in quanto presupposto del «nuovo».
Secondo questa concezione ermeneutica non c’è «nuovo» se non c’è il «vecchio», il «nuovo» e il «vecchio» sono le due facce di una stessa moneta. È la forza del «vecchio» che spinge verso il «nuovo», il «nuovo» è una forza oggettiva, che spinge e preme verso il futuro. È il treno ermeneutico che non si può arrestare.
Detto questo, possiamo sostenere che la poesia di [omissis] ha l’ambizione di voler indicare qualcosa di «nuovo»?, che qualcosa di «nuovo» è avvenuto, magari a nostra e sua insaputa, mentre eravamo distratti, non avevamo fatto caso a certi segnali, a certi accenni, a certi indizi? – Il mondo nel frattempo è mutato e la «nuova» poesia avverte che qualcosa è cambiata, che occorrono parole diverse, nuove, non usurate.
All’improvviso, ci accorgiamo che quelle poesie indicano un atto poeticamente attivo di dis-missione: una piegatura verso la dis-proprietà, una dis-appropriazione, una de-angolazione, il lasciar andare a fondo ciò che deve cadere, ciò che fino a un minuto fa ci sembrava importante. E, all’improvviso, ci accorgiamo che tutte quelle «cose» che credevamo importanti e determinanti per la nostra sicurezza stilistica, per i nostri valori di cui non potevamo fare a meno, adesso non sono più così importanti, perché è cambiato il metro dei valori, la scala gerarchica entro cui quelle cose trovavano il loro posto.
Semplicemente, quelle «cose» hanno traslocato, hanno cambiato domicilio, e noi non siamo più con loro, presso di loro; perché anche noi nel frattempo abbiamo cambiato domicilio, in quanto noi siamo sempre alla ricerca di un domicilio più accogliente, di un posto dove le parole possano attecchire e albergare, perché il vecchio domicilio è stato dismesso, quel domicilio dal quale siamo stati sfrattati e siamo stati costretti a sgomberare e a gettare nella discarica le vecchie masserizie, le vecchie inutili suppellettili, le parole usurate… La dis-appropriazione implica la rinuncia a qualcosa che non ci appartiene più, che non è più di nostra proprietà, che qualcosa ci è diventata estranea e non la riconosciamo più. Mediante l’atto mentale della dis-appropriazione possiamo percepire meglio gli «angoli interni» delle cose, diventiamo più leggeri, gettiamo a mare l’ingombrante zavorra delle «cose» per noi non più utili e le lasciamo andare a fondo… e torniamo a respirare, ci scopriamo più leggeri…
Gino Rago
Lettera mai spedita a E. L.
[la pipa di Jaroslav Seifert]
Cara M.me Hanska,
ho lasciato da poco anche Vienna.
L’Impero mi taglia in quattro parti il respiro.
Sto cercando i segni della protagonista del racconto
del mio amico*.
Ho toccato Amburgo e Amsterdam.
Ho sfiorato Budapest. Ho visitato Venezia.
Ho evitato Praga, le guglie di stare mesto, le colombe senza testa e senza ali
sui castelli costruiti con il fumo della pipa di Seifert
[…]
Nella borsetta il necessaire per il trucco,
nessun odore della cipria che usava per coprire le rughe del viso.
Ora sono alla periferia di Berlino.
Un poeta-indovino mi guida. Lo seguo in direzione della Berlin Alexanderplatz.
L’ italiano di Hans-Peter traballa ma il suo scritto sul biglietto è chiaro:
«Le pietre restano pietre. Le tastiere detestano i suoni.
I fogli non riescono a frusciare, vogliono assenza e silenzio».
«Lasci che le racconti una leggenda su Dio» disse Morgo. «In principio egli creò un uovo, un uovo enorme, con una creatura al suo interno. Dio cercò di aprire il guscio per fare uscire la creatura… la prima creatura vivente. Ma non ci riuscì. Tuttavia la creatura che egli aveva creato possedeva un becco acuminato, fatto appunto per quello scopo, e così si aprì una via di uscita dal guscio. E di conseguenza… ora tutte le creature viventi dispongono del libero arbitrio».
«Perché?»
«Perché siamo stati noi a rompere l’uovo, non Dio»
«E perché questo ci darebbe il libero arbitrio?»
«Perché, per la miseria, noi possiamo fare quello che Dio non può fare».
(Philip K. Dick)
Tienimi nelle postille, nelle quisquilie
nella determinazione di una nota
senza avverare mattino.
Nella debole menzione.
Possiedimi nelle tentazioni
dei cateti colorati consumati. Nel buio.
Tentoni rasentando muri.
Nelle pagine bianche fiacche
Nella corrosione delle parole
atrofizzate e lente.
Nelle chiazze d’ammoniaca
sfusa, diligentemente, con ritenzione, riposte.
Grazie OMBRA.
Grazie OMBRA.