SULLA POESIA “WAKA” GIAPPONESE – POESIE HAIKU di Bashō Matsuo (1644-1694) traduzione e nota di Giuseppe Rigacci

Toshinobu Yamazaki ( 1866 - 1903 ) La festa di fiori di ciliegio di Hideyoshi, a Daigo

Toshinobu Yamazaki ( 1866 – 1903 ) La festa di fiori di ciliegio di Hideyoshi, a Daigo

Il primo esempio di poesia giapponese è il Choka (poesia lunga). La metrica del Choka è un succedersi di 5-7, 5-7, 5-7, sillabe con finale 7-7.

Nel Man’yoshu, La più antica collezione poetica in giapponese giunta sino a noi , vi sono circa 260 choka; il più lungo consta di 149 versi. Successivamente troviamo il Waka il cui schema poetico è composto di 31 sillabe divise in 5-7-5-7-7. Tale schema si sostituì al Choka . Fu successivamente identificato con il termine Tanka (Poesia breve)
Struttura del Tanka è composto da due ku [strofe] rispettivamente di 5+7+5 sillabe (kami no ku) Emistichio superiore di un tanka (5-7-5 sillabe). Che nel renga è chiamato hokku e di 7+7 sillabe (shimo no ku). Emistichio inferiore di un tanka (7-7 sillabe)

Il Sedoka e’ un tipo di waka con metrica 5-7-7, 5-7-7. Si trova principalmente nel Man’yoshù, “Raccolta di diecimila foglie” oppure “Raccolta di diecimila generazioni”, la più antica collezione poetica in giapponese conosciuta, composta da 20 parti con 265 choka, 4.207 tanka, 62 Sedoka.

Il Renga è invece una composizione “a catena”. Il termine “Renga” in giapponese significa infatti “verso collegato”. E’ una forma poetica che si sviluppò in Giappone a partire dal XII secolo, in un primo tempo come passatempo e diventando successivamente arte seria: è generalmente una forma a più mani. Alcuni poeti (in genere tre, ma esistono casi di un unico autore) iniziavano il kami no ku (emistichio superiore, 5-7-5 sillabe), e lo shimo no ku (emistichio inferiore 7-7 sillabe), fino a formare un renga di cento ku. (si indica con ku la parte che ogni poeta compone in successione. Dato un primo verso come tema, aggiungevano versi da 14 o 21 sillabe; tali versi erano poi associati “a catena”, il primo verso con la composizione precedente e l’ultimo con quello successivo. Successivamente il renga si trasformò in “haikai renga“, ossia in composizioni a catena di poesie contenenti 17 sillabe. La catena poteva arrivare a comprendere anche decine di strofe. Non si trattava comunque di una concorrenza poetica ma di un dialogo fra autori.

Gyoshu Hayami ( 1894 – 1935)

Gyoshu Hayami ( 1894 – 1935)

Bashō Matsuo (松尾 芭蕉?(Ueno 1644 – Ōsaka, 28 novembre 1694) poeta giapponese del periodo Edo.

Nome originale Matsuo Munefusa, probabilmente il massimo maestro giapponese della poesia haiku. Nato nella classe militare ed in seguito ordinato monaco in un monastero zen, divenne poeta famoso con una propria scuola ed allievi, col passare del tempo, sempre più numerosi. Viaggiatore instancabile, descrive spesso nella sua opera l’esperienza del viaggio. La sua estetica fa coincidere i dettami dello zen con una sensibilità nuova che caratterizza la società in evoluzione: dalla ricerca del vuoto, la semplicità scarna, la rappresentazione della natura, fino ad essenziali ma vividi ritratti della vita quotidiana e popolare.

Shizuka sa ya
iwa ni shimi iru
semi no koe

*

Il silenzio
penetra nella roccia
un canto di cicale

Il nome di famiglia del poeta era “Matsuo” ma usualmente lo si chiamava semplicemente “Basho”, senza il cognome. Era conosciuto come Kinsaku da bambino e, crescendo,Munefusa. Durante la vita assunse diversi nomi d’arte. Uno dei primi, Tosei, significa pesca acerba (o pesca in blu) un omaggio al poeta cinese Li Bai (李白), il cui nome significa pruno in bianco. Assunse il nome bashō, che significa banano, da un albero ricevuto da un allievo. Si dice che il clima fosse stato troppo rigido perché questo albero potesse portare frutto, e intendeva che lo pseudonimo evocasse l’idea di un poeta inutile, o almeno affezione per le cose inutili.

Romanizzazioni alternative di “Basho” sono rare, ma possono includere Matuo Basyou, utilizzando il Nihon-shiki, o Matuwo Baseu utilizzando una romanizzazione più corrispondente all’ortografia utilizzata durante il periodo in cui egli viveva.

La prima neve!
appena da piegare
le foglie dell’asfodelo

Bairei Kouno  (1844 - 1895)

Bairei Kouno (1844 – 1895)

Nacque a Ueno , nella Provincia di Iga , vicino Kyoto . Era il figlio di un samurai  di basso livello e inizialmente lavorò al servizio del signore locale, Todo Yoshitada , che era solamente due anni più vecchio di lui. Entrambi si divertivano a scrivere haiku , e la prima opera conosciuta di Basho risale al 1662. A partire dal 1664  le sue prime poesie furono pubblicate a Kyoto, e fu all’incirca in questo periodo che adottò il nome samurai di Munefusa. Il suo padrone morì nel 1666  e Basho preferì andarsene di casa che servirne uno nuovo. Suo padre era morto nel 1656.

Tradizionalmente si crede che abbia vissuto a Kyoto per almeno parte dei sei anni seguenti; durante questo periodo pubblicò le proprie poesie in numerose antologie. Nel 1672  si spostò a Edo  (ora Tokyo). Continuò a scrivere, e dal 1676  era riconosciuto come un maestro dell’haikai, pubblicando un suo “libretto” e giudicando in gare di poesia. Acquisì un seguito di studenti, che costruirono per lui il primo rifugio “Basho” nell’inverno del 1680.

Basho non trovò soddisfazione nel suo successo, e si rivolse alla meditazione Zen. Nell’inverno del 1682  il rifugio venne distrutto da un incendio, e sua madre morì prematuramente nel 1683 . Nell’inverno 1683 i suoi discepoli lo omaggiarono di un secondo rifugio, ma rimase insoddisfatto. Nell’autunno del 1684 iniziò un viaggio che in seguito chiamò i ricordi di uno scheletro scosso dalle intemperie (Nozarashi Kiko) – il titolo di un giornale di viaggio con prose e poesie che compose al termine dello stesso. Il percorso lo condusse da Edo almonte Fuji, ad Ise, Ueno e Kyoto, prima di tornare a Edo  nell’estate del 1685.

Il suo rapido incedere faceva pensare alcuni che Basho potesse essere stato un ninja . I suoi lunghi viaggi gli permisero di osservare le condizioni nelle varie province e ascoltare le ultime notizie, informazioni di interesse al regnante shogunato Tokugawa , che impiegava dei ninja per queste attività. Il luogo di nascita di Basho nell’area di Ueno della provincia Iga  possedeva una ricca tradizione ninja e Basho poteva essere stato una guardia del corpo per Todo Yoshitada anni prima. Comunque, pochi letterati considerano seriamente la possibilita che potesse essere stato una spia per lo shogunato Tokugawa.

Il viaggio sembrò giovargli, nell’allontanare alcuni dei suoi fantasmi, e i suoi scritti dei pochi anni seguenti raccontano del suo piacevole … Compì un breve viaggio a Kashima  nell’autunno del 1687, per osservare di là la luna piena in prossimità dell’equinozio. Di nuovo compose un resoconto dell’escursione: Una visita al Tempio Kashima (Kashima Kiko).

Jakuchu Ito ( 1716-1800)

Jakuchu Ito ( 1716-1800)

Nell’inverno di quell’anno cominciò il suo seguente lungo viaggio, dopo essergli stato reso un arrivederci che “sembrava quello per un dignitario”. Attraversò Ueno, Osaka, Suma, Akashi, Kyoto, Nagoya , le alpi giapponesi  e Sarashina , dove vide il plenilunio equinoziale. Il viaggio da Edo a Akashi è raccontato nei Ricordi di un bagaglio consumato (Oi no Kobuni), nel quale espone il suo credo nell’haikai come una fondamentale forma artistica. Il viaggio di Sarashina è descritto in Una visita al villaggio di Sarashina (Sarashina Kiko).

Verso la fine della primavera, nel 1689 , cominciò delle escursioni più difficoltose verso le selve dell’Honshu del nord. Fermate in questo viaggio inclusero Nikko Toshogu, Matsushima, Kisagata  e Kanazawa , attraversando nell’ultima parte di questo percorso l’isola di Sado . Di nuovo compose un diario di viaggio, Lo stretto sentiero verso il profondo Nord (Oku noHosomichi ), che è dominato dal concetto di sabi : l’identificazione dell’uomo con la natura. Due ulteriori volumi svilupparono l’idea: Ricordi dei sette giorni (Kikihaki Nanukagusa) e Conversazioni a Yamanaka (Yamanaka Mondo).

Dall’autunno 1689 in poi, Basho trascorse due anni visitando amici e compiendo brevi viaggi attorno all’area di Kyoto e de lago Biwal . Durante questo periodo lavorò su una antologia che stava per essere compilata da alcuni dei suoi allievi, tra i quali Nozawa Boncho, – L’impermeabile della scimmia (Sarumino) – che espresse e seguì i principi estetici ai quali era arrivato durante il viaggio settentrionale.

Nell’inverno del 1691  tornò a Edo per abitare nel suo terzo rifugio Basho, di nuovo omaggiatogli dal suo seguito. Comunque non rimase solo, accolse un nipote e un’amica, Jutei, entrambi di salute cagionevole, ed ebbe una grande quantità di visitatori. Si lamentò in una lettera che questo lo aveva lasciato senza “pace della mente”. Nell’autunno del 1693  rifiutò di vedere chiunque per un mese, adottando quindi il principio di karumi  o leggerezza: una regola di non attaccamento che gli permetteva di vivere nel mondo ma di sollevarsi dalle frustrazioni.

Basho lasciò Tokyo per l’ultima volta nell’estate del 1694, e passò del tempo a Ueno e Kyoto prima di andare ad Osaka. Lì morì per una malattia allo stomaco, dopo aver scritto il suo ultimo haiku:

viaggiando  malato
la strada dei sogni miei
su una palude prosciugata

l'opera di migliore allievo Kiitsu Suzuki ( 1796 - 1858 )

l’opera di migliore allievo Kiitsu Suzuki ( 1796 – 1858 )

Fu Basho a sollevare l’haiku da un verso volgare, spesso scritto come semplice sollievo, ad una forma seria, imbevuta con lo spirito del buddismo Zen. Molti dei suoi haiku erano in effetti le prime tre linee di renga più lunghi (che alcuni critici considerano le sue migliori opere), piuttosto che opere isolate, ma erano stati collezionati e pubblicati da soli molte volte e il suo lavoro fu di grande ispirazione per scrittori successivi come Kobayashi Issa e Masaoka Shiki . Uno dei più famosi haiku attribuitogli (Matsushimaya Aa Matsushimaya Matsushimaya), che trae dalla bellezza indescrivibile della baia di Matsushima, fu in realtà scritto da un poeta successivo del periodo Edo, Tawarabo . Basho preferiva scrivere nel dodicesimo giorno del decimo mese del calendario lunare e utilizzare Shigure (時雨), una fredda pioggia autunnale, come kigo.

Il vecchio stagno!
La rana si tuffa –
Il suono dell’acqua

Basho viaggiò molto estensivamente durante la sua vita, e molti dei suoi scritti riflettono le esperienze dei suoi viaggi. Il suo libro Oku no Hosomichi  (奥の細道, Lo stretto sentiero per il profondo Nord), scritto nel 1694 e largamente ritenuto il migliore, ne è un esempio. In esso, descrizioni in prosa del paesaggio che attraversa sono intervallate con gli haiku per i quali è ora maggiormente conosciuto.

Ecco qui un buon numero di haiku di Matsuo Basho (1644-1694), considerato il più grande autore di haiku.
 

Yamanaka Hot Springs

Yamanaka Hot Springs

Basho, Poesie, Sansoni, Firenze 1992, trad. e note di Giuseppe Rigacci

 

Della frescura
faccio la mia casa,
e qui riposo.

*
Il canto delle cicale
non da’ segno
del loro vicino morire.

*
La separazione:
l’ape sguscia
dagli stami della peonia.

*
A un peperone
aggiungete le ali:
una libellula rossa.

*
Il cavallo ha brucato
l’ibisco della siepe
sul ciglio della via.

*
Quando guardo attentamente
vedo il nazuna che fiorisce
sull’orlo della siepe.

*
Verrà quest’anno la neve
che insieme a te
contemplai?

*
Anche i cinghiali travolge
l’uragano
d’autunno!

Japanese Priest

Japanese Priest

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

*
Mare burrascoso:
attraverso l’isola di Sado
si stende il Fiume del Cielo.

*
Raccogliendo tutte le piogge di maggio
corre rapido
il Mogami.

*
Su un ramo spoglio
si posa un corvo
nel crepuscolo d’autunno.

*
Nella brezza primaverile
colla pipa in bocca
il mastro barcaiolo.

*
Vieni a sentire
la voce dei tarli
nel romitaggio di paglia.

*
Un cuculo.
La grande notte di luna
penetra il bosco di bambù.

*
Gli occhi del falco
ora si irrigidiscono
mentre la quaglia garrisce.

*
Ammalato nel mio viaggio,
il sogno percorre
pianure aride.

giapponese 2

 

 

 

 

 

 

*
La prima neve
piega appena
le foglie dell’asfodelo.

*
Nobiltà di colui
che non deduce dai lampi
la vanità delle cose.

*
È il riso mescolato d’orzo,
o è l’amore che fa gemere
la femmina del gatto?

*
Il fiume Mogami ha tuffato
le fiamme del sole
nel mare.

*
Prima festosa,
poi subito triste,
la barca dei cormorani!

*
Affaticato
alla ricerca di un tetto…
I fiori di glicine!

*
Nel profumo dei fiori del pruno selvatico
improvviso sorge il sole
sul sentiero di montagna.

giapponese 5

 

 

 

 

 

 

*
Sono un uomo
intento a mangiare il suo riso
in mezzo ai convolvoli.

*
Il mio cavallo cammina
per la pianura d’estate.
Io: in una pittura.

*
Quieta dimora:
un picchio becca
sui pali.

*
Il verme del ravizzone
tremola al vento d’autunno
senza mutarsi in farfalla.

*

Passero amico
non beccare il tafano
che succhia i fiori.

*

La notte di primavera e’ finita.
Sui ciliegi
sorge l’alba.

*

Sapendo che mangia la serpe
orrenda la voce
del fagiano verde.

*

Sul valico montano
stanco riposo
al canto dell’allodola.

10 commenti

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10 risposte a “SULLA POESIA “WAKA” GIAPPONESE – POESIE HAIKU di Bashō Matsuo (1644-1694) traduzione e nota di Giuseppe Rigacci

  1. Chiara Moimas

    Lettura interessante ed istruttiva, ancora grazie a Giorgio. Scrivo haiku o meglio li penso (mi succede di creare rime e/o contare sillabe quando cammino, quando nuoto…cioè quando posso rilassarmi e devo dimenticare la fatica!) facendo attenzione al rispetto della formula 5 – 7 – 5. Ne leggo molti, di autori italiani contemporanei, che invece non osservano tale regola; è vero che la musicalità deve avere il sopravvento in poesia, ma un haiku pretende forse che musicalità e contenuto trovino completezza nell’angusta possibilità delle 5-7-5 sillabe. Mi piacerebbe conoscere il vostro parere

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  2. Signora Moimas, io penso che per poter scrivere un haiku si debba per forza essere giapponesi, sarò stravagante ma penso così. L’unica volta che ho tentato è stata questa:

    greto di fiume
    perduto in un’ansa
    a riflettere

    e non so nemmeno se sia un haiku 🙂

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    • caro Almerighi,

      per non saper scrivere haiku devo dire che quello postato è un bell’haiku. Io, personalmente, non ho mai scritto haiku, non ne sono capace e non mi perito in terreni che non conosco, però riconosco che la lettura attenta di haiku aumenta in noi considerevolmente la sensibilità linguistica e spaziale verso la scrittura, incrementa la nostra attenzione verso i dettagli, i minutissimi salti tra una immagine e l’altra. Insomma, è un’ottima scuola di scrittura.

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  3. Amo la levità degli Haiku e in particolare quella del poeta Basho.
    Ho composto qualche Haiku per mio diletto ma non mi sento adatta a questo pregevole genere di poesia giapponese. Ne è stato pubblicato uno solo perché inserito nel corpo di un racconto, intitolato appunto “Haiku”.
    Ho apprezzato molto la lettura di questi luminosi gioielli.

    Giorgina Busca Gernetti

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  4. Fosca Massucco

    Caro Giorgio,
    l’haiku è talmente radicato nel tessuto del Giappone che pare quasi impossibile scriverne fuori dai suoi confini.
    A volte, molto spesso in realtà, è già follia tradurli o così pare a detta di chi il giapponese lo parla – un po’ come trascrivere per banda di paese le suite di Bach: la musica viaggia e arriva molto più lontano, a tante più persone, ma quanto si perde? A quale costo?
    Limitarsi a parlare di “perdita” in traduzione è però inefficace (e non innesco il solito balletto sulla bontà generale delle traduzioni…): chissà, la lettura degli haiku di Basho in italiano potrebbe spingere qualcuno ad andare ad ascoltarli quando, raramente ma capita, vengono letti oltre che tradotti ed allora di certo si riacquisterebbe per lo meno il gusto del suono dell’haiku.
    Nessuno che sappia contare 5-7-5 può dire di scriverne alla moda di Basho (certo che tu proponi anche uno dei massimi esponenti di questa tipologia di componimento, però!); in ugual modo chi conosce la struttura del sonetto non diventa automaticamente Petrarca o Shakespeare – ma è sicuramente appassionante accostarsi al processo che sta dietro la creazione di un haiku. Grazie per questo articolo.

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  5. Non capisco il giapponese ma suppongo abbia sillabe diverse dalle nostre, pertanto scrivere in italiano nella formula 5 – 7 – 5 per me non ha alcun senso, o ne ha se si vuol fare esercizio di brevità. Non ho mai scritto un Haiku in questa forma perché mi fa sentire costretto, come chiedessi alla mia lingua, l’italiano, di passare nell’asola di un bottone. E non ne vedo la ragione. Ho scritto però dei versi solitari, privi di compagnia; e un mare di titoli, che secondo me sono anch’essi una forma di poesia.
    L’aspetto dell’Haiku è quello dell’istantanea, nella brevità degli accadimenti non c’è spazio per pensieri ingombranti. Il pensiero è sempre ingombrante perché si svolge tra un prima e un poi, ha bisogno di tempo e l’attimo non ne ha. Questa è anche l’arte dei Samuraj, che è arte dell’azione. La meditazione, alla quale si rivolse anche Basho, è superamento dell’attimo, o meglio il suo dilatarsi nell’assenza di tempo. Ed è assoluta presenza, che non è esattamente come perdersi in ciò che si sta facendo.
    Basho mi fa spesso ridere, non sapevo che significasse “banano”.

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  6. gabriele fratini

    Basho è stata una mia passione giovanile (oggi preferisco Issa, sempre naturalista ma più ironico e arguto), ma effettivamente gli haiku sradicati dal loro habitat naturali che sono i libricini di viaggio perdono molto, e a volte neanche si capiscono. In ogni caso l’italiano non mi sembra una lingua particolarmente adatta a scrivere un testo poetico di sole 17 sillabe, e lo penso da amante delle poesie brevi. Un saluto.

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  7. ubaldo de robertis

    Anche a me, caro Almerighi, piace e non poco la tua composizione. Con riferimento all’haiku faccio tesoro delle parole di un vero esperto della meditazione quale è Lucio Mayoor Tosi: “Non c’è spazio per pensieri ingombranti; la meditazione è superamento dell’attimo, o meglio il suo dilatarsi nell’assenza di tempo.” Tornando a Basho so che è considerato il più grande autore di haiku e la bellezza delle sue composizioni, le singolari relazioni tra le cose, frutto di un’intensa meditazione, non mi sfuggono. E’ una lettura che rigenera. Ringrazio Giuseppe Rigacci per la Traduzione e per la Nota, e L’Ombra delle Parole per averlo ospitato.
    In margine alla lettura è sorta in me l’idea, non pretendo che sia condivisibile, di riportare alcuni versi, apparsi di recente in questo Blog, che mi sono permesso di estrarre, arbitrariamente, dalle poesie di Francesca Diano. Non li ho scelti per il succedersi di sillabe secondo il noto 5-7-5, o per tutte le cose piccole e belle che si descrivono negli haiku, per l’apparente assenza di emozioni, bensì per la capacità di far immergere di colpo il lettore, almeno a me è capitato, nell’atmosfera descritta in alcuni brevi versi, colti a sé. Il campo di osservazione della Diano non è la natura ad altezza d’uomo bensì l’immenso stellare. Spero che l’autrice vorrà perdonarmi.
    Ubaldo de Robertis

    Francesca Diano da: Fisiologia delle comete
    /Le quiete costellazioni fisse in cielo.
    da pascoli distanti si lanciano
    a esplorare astri fulgenti dell’istante /

    /Tutto saetta attratto dal sovrano
    pianeta che si volve come le ruote
    di Ezechiele/

    /Fiamma vivente
    come cometa l’anima
    Si stacca dalla fonte dell’arsura/

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    • Caro Ubaldo, la sola idea del vedere accostati, almeno come evocazione e anche solo nella tua mente, i miei versi a quelli del genio sommo di Bashō mi lascia senza parole. Ti sono immensamente grata di questo che prendo come un dono da parte di una persona che non conosco ed è per me un grandissimo incoraggiamento.
      In effetti, i miei versi, estrapolati con grandissima sensibilità dal loro contesto, assumono un significato nuovo, molto più dirompente. Un po’ come lo yūgen, quel particolare stato d’animo fra i molti presenti negli haiku, il cui nome significa “mistero” o “profondità”, lo stordimento, il fascino, di fronte all’unità del tutto.
      Che dirti? GRAZIE!

      E poi vorrei dire qualcosa sugli haiku. Che sono componimenti di 17 more, non sillabe secondo la nostra accezione, cioè misure, unità sonore, non divise in tre versi, ma su un’unica linea. I tre versi li ha inventati l’occidente con le prime traduzioni ottocentesche. E lì sono rimasti.
      Pensare che un occidentale possa scrivere degli haiku è un’utopia. A meno che non si tratti di un occidentale talmente immerso nella cultura, nella mentalità e nella tradizione giapponese, da essere diventato un giapponese. La complessità della loro creazione, il pensiero Zen da cui spesso sono ispirati, i riferimenti precisi alla stagione secondo elementi per noi criptici, all’ora, allo stato d’animo di cui esistono ricchissime codificazioni, il rovesciamento dei piani logici – analogo alle pratiche zen per raggiungere il satori, il “vacuo”, quell’ esperienza fulminante che permette di comprendere la propria natura buddhica e la natura di ogni cosa – rende impossibile – o per lo meno assai difficile – a un occidentale la composizione di un haiku. Non sarebbe un occidentale, come bene dice Almerighi. La mente giapponese è lontanissima dalla nostra.
      Prendiamo uno degli haiku splendidamente resi da Rigacci (che morì nel 1947 e queste sue traduzioni sono del 1944) e tentiamo un’analisi anche grossolana

      Il mio cavallo cammina
      per la pianura d’estate.
      Io: in una pittura.

      La stagione è l’estate, lo stato d’animo quello del “sentimento delle cose”, cioè la caducità delle cose, il rimpianto per il tempo che passa (il cavallo che procede lento nella calura, il procedere del tempo umano). Quale immagine più placida? E poi: tac! il rovesciamento, il salto di piano logico, l’estraneamento. Il vedersi dall’esterno, l’uscita dal Sé, come in un dipinto bidimensionale. Il satori. Non esiste il tempo, non esiste l’io individuale. Tutto è impermanenza e illusione. Negli haiku non esiste metafora, come per la poesia occidentale. Le parole significano solo ed esclusivamente se stesse. Ma sono degli assoluti.

      I Maestri zen, come si sa, non insegnavano nulla di teorico. Li si doveva solo guardare vivere. A qualunque allievo che ponesse una qualunque domanda, il Maestro o rispondeva con un rutto, o con una bastonata o con una pernacchia. L’illuminazione è improvvisa, non la si insegna. Ed è come un cortocircuito.
      Fra i Maestri zen ci sono stati grandi pittori e si sa di uno di loro che per tutta la vita non dipinse nulla, se non un segno, assolutamente perfetto, prima di morire. Gli era stata necessaria tutta la vita per tracciarlo.

      Ancora, nel famosissimo haiku del vecchio stagno, mi diceva un amico che conosce il giapponese che il testo giapponese tradotto letteralmente sarebbe: “il vecchio stagno una rana ploff”
      Di Rigacci conoscevo una versione leggermente diversa, questa:

      “Il vecchio stagno
      La rana salta
      Tonfo dell’acqua”

      che non è quella qui presente
      —–
      Il vecchio stagno!
      La rana si tuffa –
      Il suono dell’acqua.

      Anche qui il cortocircuito è dato dal rumore assordante e puntuale del salto della rana nel silenzio dello stagno.
      Ma c’è così tanto da dire….. e forse invece nulla.

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  8. Giuseppina Di Leo

    Molto bella la storia di Basho qui raccontata, come belli sono i suoi haiku.
    Qualche anno fa mi sono cimentata anch’io in questi esercizi o scuola di scrittura, come dice Giorgio, proprio per ‘contenere’ in uno spazio minuscolo un pensiero ingombrante – Lucio, è verissimo.
    Bello l’adattamento dei versi di Francesca Diano operata da Ubaldo De Robertis!
    Ecco alcuni miei, ma neppure io so quanto di haiku ci sia in essi:

    *
    Ora che è sera
    dal tronco esce la coppia
    di amanti, unita.
    (08.04.2009)

    *
    Terre di sale
    asciugate dal vento
    tornano al mare.
    (02.04.2009)

    *
    Pioggia di luce
    in gocce di rugiada:
    stagni diamanti.
    (08.04.09)
    Giuseppina Di Leo

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