Archivi del giorno: 18 marzo 2015

Marco Onofrio: La “lingua di plastica della middle class alfabetizzata” che cancella il mondo. Riflessioni in margine ad alcuni libri sull’italiano di oggi (Giorgio Linguaglossa, Stefano Bartezzaghi, Gianrico Carofiglio, Filippo La Porta)

italia tripartita 

Le celebrazioni del 2011 per il 150esimo dell’unità d’Italia hanno dato ampio e giusto spazio al ruolo della lingua come cemento della nazione; ma hanno anche toccato il nervo scoperto rappresentato dalla progressiva e apparentemente inarrestabile “plastificazione” che affligge da tempo il nostro bellissimo idioma (tra i più studiati al mondo). Diversi scrittori hanno analizzato il fenomeno, che non riguarda solo l’Italia: anche in Francia parlano di “langue de bois” (lingua di legno) per indicare il logorio delle parole, soffocate dalla stereotipia dei luoghi comuni e plagiate nei meccanismi mass-mediatici di un bla bla ipnotico, privo di senso. Dunque, un fenomeno transnazionale: determinato probabilmente dalle condizioni di usura e obsolescenza cui è sottoposta la lingua nella società contemporanea, strutturata come un villaggio global-mediatico che in realtà è un emporio mondiale e aggregante di merci (parole comprese). La letteratura stessa è stata di conseguenza sottoposta – con la definitiva perdita di “aura” umanistica – a un processo di de-significazione, di neutralizzazione semantica del significante, corollario del generale indebolimento della segnicità delle parole, che ormai girano a vuoto, consunte, sbiadite, banalizzate.

giorgio linguaglossa dalla lirica al discorso poetico

Si chiede opportunamente Giorgio Linguaglossa (nel suo volume Dalla lirica al discorso poetico, 2010): «È ancora possibile in questo fiume dalla corrente incessante (che è dato dalla fluidificazione di tutte le forme e dalla fluidificazione dei vasi comunicanti, delle segnaletiche, del mondo dei segni propria dell’universo internettiano) stabilire con oggettività la comunicazione dalla in-tensione significante?». La peste che colpisce la lingua, peraltro, diventa terreno di coltura per la proliferazione di certe storture tipiche – nell’accentuazione di alcuni “difetti” connaturali – della “civiltà” letteraria contemporanea, incline a degenerare in un «micidiale guazzabuglio di servilismo mimetico e conformismo, che si propaga alla velocità della luce» (Linguaglossa). Già nel 1994 il “Manifesto della Nuova Poesia Metafisica”, pubblicato sulla rivista «Poiesis», poneva all’attenzione dei lettori tre domande urgenti e ineludibili: «è ancora possibile nominare il mondo? è ancora possibile rendere abitabile la lingua? è ancora possibile l’autenticità nella posizione estetica?»

filippo la portaIn ragione degli scenari aperti dall’analisi oggettiva di queste problematiche, sono recentemente usciti dei volumi sulle dinamiche in corso nell’uso della lingua italiana. Proprio nel 2011 il raffinato enigmista Stefano Bartezzaghi ha pubblicato per i tipi di Mondadori Non se ne può. Il libro dei tormentoni, dove si studia appunto il “tormentone”, questa particolare escrescenza del luogo comune attraverso la banalizzazione fraseologica del potere linguistico di nominare il mondo: un fenomeno non soltanto spontaneo, endogeno alla lingua, ma strumentalizzato, coniato a tavolino come utilmente strategico alla diffusione sociale di un dato consenso che si vuole imporre (si pensi agli slogan politici e pubblicitari). La maggior parte del flusso comunicativo viene infatti sottomesso a meccanismi subdoli, mistificatori: l’omologazione linguistica è in realtà funzionale alle logiche di potere, poiché tende a veicolare l’affermazione del “pensiero unico”, schiacciando le pulsioni divergenti – malgrado la sconfinata, simultanea molteplicità dei messaggi in gioco. Sempre del 2011 è La manomissione delle parole (Rizzoli) di Gianrico Carofiglio, dove l’analisi viene approfondita all’origine del fenomeno degenerativo: secondo Carofiglio «le nostre parole hanno perso significato perché le abbiamo consumate con usi impropri, eccessivi o anche solo inconsapevoli», per cui oggi si rende necessario «smontarle e controllare cosa non funziona, cosa si è rotto, cosa ha trasformato meccanismi delicati e vitali in materiali inerti». Dopodiché, verificato il danno, toccherà «montarle di nuovo, per ripensarle, finalmente libere dalle convenzioni verbali e dai non-significati». Le parole, così, verranno rianimate, restituite cioè alla dignità costitutiva del loro senso, solo se riusciremo a de-automatizzare l’accettazione acritica e la ripetizione ipnotica delle loro formule plastificate.

filippo la porta

filippo la porta

Ma già in precedenza, nel 2009, Filippo La Porta aveva intavolato la discussione, con il suo agile e divertente È un problema tuo (Gaffi editore). Su questo libro intendo soffermarmi in modo particolare. Si tratta di un excursus ironico attraverso i territori dell’omologazione linguistica, del conformismo che risuona, come un ronzio corale, all’interno delle fraseologie standardizzate nella koinè semplificante della middle class. Naturalmente La Porta tiene conto del cambio di registro che generalmente avviene nel passaggio dalla langue alla parole, cioè dalla convenzione linguistica istituzionale alla prassi comunicativa, legata quest’ultima al contesto, al luogo, al tempo, agli attori implicati, a ciò che di volta in volta si dice, performando certe parole, veicolandole a certi tratti paralinguistici, etc. La lingua quotidiana, così, è da sempre intessuta di stereotipi, intercalari, espressioni gergali, modi convenzionali, zeppe, imperfezioni, opacità. Però – e qui sta il punto: mai come oggi.

gianrico carofiglio

gianrico carofiglio

Affrancato dai ceppi dell’ideologia e dalle sue precettistiche, talora ancorate alla  retorica di un vero e proprio dogmatismo espressivo, pieno di slogan e frasi fatte, il gergo verboso o afasico del Sessantotto si è trasmutato nell’amalgama informe di una lingua media banalmente rimasticata, che dà voce alla middle class alfabetizzata a livello mondiale. Una lingua ancor più infarcita di tic, luoghi comuni, metafore stantie, repertori pronti all’uso e al consumo (dall’eponimo “è un problema tuo” a “non c’è problema”, dal famigerato “un attimino” a “in qualche modo”, da “esatto” a “tipo che…”, etc.). Si rileva dunque una corruzione ulteriore dell’efficacia delle parole, dovuta a tutto ciò che, nell’età contemporanea, esenta l’individuo dal dover pensare in prima persona, offrendogli la possibilità di simulare, riciclare, ripetere, usare formule vuote. Una “lingua di plastica” che corrompe il pensiero, con uso spesso improprio dei termini, cannibalismo delle parole e loro progressiva insignificanza, che rinvia alla progressiva insignificanza delle nostre vite, al senso di irrealtà che ci sta intorno. Si parla di “italiano neostandard, o “italiano dell’uso medio” (middle italian), che rispecchia e insieme concorre a plasmare la grande bolla del ceto medio, di stampo piccolo-borghese. Così, insomma, parla e scrive la “gente comune”. L’italiano neostandard tende ad accogliere elementi del parlato generalmente rifiutati dall’italiano standard, più normativo. Ad esempio “lui” “lei” “loro” usati come soggetti; “gli” generalizzato con valore di “le” e “loro”; “ci” attualizzante («che c’hai?»); anacoluti non percepiti come errore; imperfetto al posto del congiuntivo e del condizionale, etc.

Studiare la società serve a capire meglio le dinamiche della lingua; ma vale anche in senso reciproco. È secondo questa valenza bipolare che il libro si trasforma, nel suo “sottotesto”, virando oltre la dimensione da repertorio divertito e divertente di tic linguistici, o esercizio di “pedante vigilanza” sulle parole che usiamo, verso quella più complessa e ampia di un’analisi critica della società attuale. La Porta sviscera le caratteristiche peculiari della middle class in questione, enumerandole come:

italia che tace

1)  pigrizia e inerzia creativa. Voglia di non impegnarsi più di tanto, di avere tutto e subito, di improvvisarsi esperti. Ostilità per la cultura in quanto tradizione, sforzo, lenta assimilazione individuale;

2) snobismo di massa, desiderio di distinguersi in senso esclusivo. Ad esempio, quel tipico compiacimento nel simulare ed esibire un gusto linguistico nobile e selettivo, tra cui il vezzo di criticare i tic verbali, lamentandosi per la catastrofe linguistica in corso («dove finiremo di questo passo?» ‒ e si fa bella figura);

3) spettacolarizzazione di tutto, anche delle tragedie private e collettive;

4) trasgressione controllata e ribellione conformistica. Provare il brivido senza rinunciare alle sicurezze acquisite, alla mentalità assistita: posto fisso e famiglia;

5) omologazione (società piatta e immobile, livellata e soporifera: consunzione degli ideali) ma anche differenziazione: eclettismo, anzi camaleontismo (bancari-sassofonisti, postini che aprono creperie, commessi librai che diventano romanzieri, etc.) e quindi bovarismo diffuso (attitudine al travestimento, impulso di apparire diversi da se stessi, per fuggire da una vita che non ci piace);

6) narcisismo, che nasce dall’insicurezza, dal continuo bisogno di conferme;

7) fuga dall’esperienza reale delle cose: si preferisce la realtà mediata, illimitata, reversibile, manipolabile, telecomandabile, digitalizzabile;

8) fascinazione tecnologica, corsa all’up to date, al possesso dell’ultimo ritrovato;

9) dominio del chiacchiericcio pseudo culturale, del “si dice”, del commento parassitario, del “cazzeggio” lieve da bar sport;

10) culto della leggerezza e della superficie, frivolezza esibita. Velocità compulsiva, pillole di senso, tempi televisivi. Guai alla pesantezza di chi vuole approfondire: rischia di passare per noioso moralista;

11) minimalismo etico e affettivo. Avere dei valori-guida ma essere pronti a modificarli nel più breve tempo possibile.

Italia tricolore

È questo lo Zeitgeist postmoderno da cui esce la società attuale, da cui a sua volta esce (o, se si vuole, a cui è stata sdoganata) la variante neostandard dell’italiano, con i suoi molteplici addentellati televisivi e internettiani. Il problema linguistico – essendo la lingua non solo specchio ma organo del pensiero, modo di guardare alle cose: le parole, a ben vedere, rappresentano i “mattoncini” del mondo – implica anche quello fenomenologico: “cosa è realtà?” si chiede, in ultima analisi, La Porta. La risposta sfugge come non mai, poiché la realtà, oggi, è quanto di più complesso da definirsi. È sempre più difficile distinguere tra realtà e fantasia, io e non-io. Per sentire “reale” un evento dobbiamo addirittura vederlo o rivederlo in televisione. Per vivere una scena come se fosse vera, sembra che occorra immaginarla finta. Osserva La Porta: «Mi sembra che proprio la “realtà” (sempre scandalosa, terribile, misteriosa) è ciò che la classe media, almeno nel nostro Paese, non intende vedere: le sovrappone scenari suggestivi, la nasconde dietro veli scintillanti, la occulta con maschere seduttive, la esorcizza attraverso un’ironia spesso volgare e protettiva».

La “lingua di plastica”, così, fungerebbe da anestetico: velo ulteriore mediante cui nascondere la verità ed eludere un contatto diretto, troppo fastidioso, con le cose. Stratagemma di economia semantica, utile a meglio assecondare il crepuscolo dei grandi sistemi di pensiero, nonché  l’ottundimento generale e collettivo delle coscienze. A forza di alleggerire, di rendersi agili e volatili, si finisce per smarrire la capacità di fare esperienza autentica del mondo. La coscienza del “reale” nasce anzitutto dalla percezione dell’alterità, dal riconoscimento dell’altro, dal dialogo. Il dialogo, anzi, è insito nella struttura stessa del linguaggio: per questo il monologo solipsistico e narcisistico gli nuoce. Gli occhi dell’uomo contemporaneo sono rivolti all’interno; infatti il cono della realtà circostante tende ad assottigliarsi, a soffocare, ogni giorno di più. A tal proposito La Porta propone una nuova “ecologia della lingua” come antidoto alle sue perniciose degenerazioni. Linguaggio e pensiero, data la loro stretta interdipendenza, sono strutturati in modo tale da condizionarsi vicendevolmente. Bonificare la lingua sarà dunque il primo passaggio indispensabile a riaccendere la luce del pensiero. Continua a leggere

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