Giorgio Linguaglossa: Riflessioni sul concetto di “Paradigma”, Ilya Prigogine, Alfredo De Palchi “Sessioni con l’analista” (1967), Tomas Tranströmer, Jorge Luis Borges, Salman Rushdie,  il Post-moderno e il Modernismo europeo – Con una riflessione di Massimo Forti Robert Frost : “Scrivere in verso libero è come giocare a tennis con la rete abbassata”

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Scrive Massimo Forti su “Il Messaggero” del  29 maggio 2003:

“Ha cavalcato la tigre della scienza moderna, così lontana dal quadro di rassicuranti “certezze” della fisica classica, persino con allegria. Talvolta contagiosa. Caos, instabilità, disordine, probabilità, casualità, complessità catastrofi… L’universo di Ilya Prigogine era come il Paese delle Meraviglie di Alice dove tutto cambia, tutto è possibile, tutto è rimesso continuamente in gioco. Premio Nobel per la chimica per le sue ricerche sull’entropia e sulle strutture dissipative non si stancava di sottolineare che anche Einstein aveva avuto paura della rivoluzione scatenata dalla fisica quantistica, che sostituiva alle sicurezze del mondo di Newton i concetti di aleatorietà e di probabilità. Non era stato, forse, proprio il padre della relatività a dire la celeberrima frase: «Non posso credere che Dio giochi a dadi»?
Prigogine, no. Come tutti i grandi scienziati consapevoli della sconvolgente e irreversibile svolta generata dalla teoria dei quanti, si trovava perfettamente a suo agio nel pirotecnico universo descritto profeticamente (nell’Ottocento!) da Lewis Carroll nei suoi capolavori. Nel mondo reale – ha detto, con implacabile lucidità, il grande chimico russo – non esiste un sistema che non sia instabile e che non possa prendere svariate direzioni. La fisica einsteiniana e post-einsteiniana non esprime certezze ma possibilità. Questa è stata la lezione, per qualcuno esaltante e per altri inquietante, di Prigogine. Ma, sempre fondata su solidissime basi scientifiche.
«L’universo», mi disse in occasione di un incontro a Firenze, «è come un romanzo. In principio c’è la storia del cosmo, seguita da quella della materia. Poi, c’è quella della vita e infine quella dell’umanità, la nostra. Queste storie sono concatenate l’una con l’altra proprio come le mille notti arabe di Sheherazade. Ma nuove storie ci attendono e possono essere scritte. Il romanzo dell’universo non è ancora finito e forse non finirà mai...»”.

 

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Eclissi

Il Cambiamento di paradigma

Cambiamento di paradigma (dizione con cui si indica un cambiamento rivoluzionario di visione nell’ambito della scienza), è l’espressione coniata da Thomas S. Kuhn nella sua importante opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) per descrivere un cambiamento nelle assunzioni basilari all’interno di una teoria scientifica dominante. Il concetto di scienza rivoluzionaria è messo in contrasto con la sua idea di scienza normale.
Anche nella storia della letteratura, i nuovi paradigmi non piovono semplicemente dal cielo. Il nuovo che voglia imporsi deve distaccarsi necessariamente dal vecchio per legittimarsi di fronte alla tradizione, così ché, mediante un nuovo modo di vedere l’oggetto, noi accediamo anche ad una nuova visione del mondo. I più importanti mutamenti di paradigma nella storia della poesia italiana avvengono a cavallo tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta, e in questa accezione un libro come Sessioni con l’analista (1967) di Alfredo De Palchi è un libro fondamentale e in anticipo sui tempi, tanto che l’opera non venne recepita dai contemporanei in Italia (come ho spiegato in più occasioni).
Il titolo di Paradigma (2001), legato al nome e all’opera poetica di Alfredo De Palchi voleva alludere proprio a quel cambiamento della visione della poesia italiana degli anni Sessanta che la sua opera sottintendeva, in particolare il carattere pre-sperimentale della sua poesia che anticipava lo sperimentalismo. L’espressione cambiamento di paradigma, intesa come un cambiamento nella modellizzazione fondamentale degli eventi, è stata da allora applicata a molti altri campi dell’esperienza umana, per quanto lo stesso Kuhn abbia ristretto il suo uso alle scienze esatte. Secondo Kuhn “un paradigma è ciò che i membri della comunità scientifica, e soltanto loro, condividono” (La tensione essenziale, 1977). A differenza degli scienziati normali, sostiene Kuhn, “lo studioso umanista ha sempre davanti una quantità di soluzioni incommensurabili e in competizione fra di loro, soluzioni che in ultima istanza deve esaminare da sé” (La struttura delle rivoluzioni scientifiche). Quando il cambio di paradigma è completo, uno scienziato non può, ad esempio, postulare che il miasma causi le malattie o che l’etere porti la luce. Invece, un critico letterario deve scegliere fra un vasto assortimento di posizioni (es. critica marxista, decostruzionismo, critica in stile ottocentesco) più o meno di moda in un dato periodo, ma sempre riconosciute come legittime. Sessioni con l’analista, invece invitava a cambiare il modo con cui si considerava il modo di impiego della poesia, ma i tempi non erano maturi, De Palchi era arrivato fuori tempo, in anticipo o in ritardo, ma comunque fuori tempo, e fu rimosso dalla poesia italiana. Fu ignorato in quanto fu equivocato.

Dagli anni ’60 l’espressione è stata ritenuta utile dai pensatori di numerosi contesti non scientifici nei paragoni con le forme strutturate di Zeitgeist.
Dice Kuhn citando Max Planck: “Una nuova verità scientifica non trionfa quando convince e illumina i suoi avversari, ma piuttosto quando essi muoiono e arriva una nuova generazione, familiare con essa.”

Quando una disciplina completa il suo mutamento di paradigma, si definisce l’evento, nella terminologia di Kuhn, rivoluzione scientifica o cambiamento di paradigma. Nell’uso colloquiale, l’espressione cambiamento di paradigma intende la conclusione di un lungo processo che porta a un cambiamento (spesso radicale) nella visione del mondo, senza fare riferimento alle specificità dell’argomento storico di Kuhn.

Secondo Kuhn, quando un numero sufficiente di anomalie si è accumulato contro un paradigma corrente, la disciplina scientifica si trova in uno stato di crisi. Durante queste crisi nuove idee, a volte scartate in precedenza, sono messe alla prova. Infine si forma un nuovo paradigma, che conquista un suo seguito, e una battaglia intellettuale ha luogo tra i seguaci del nuovo paradigma e quelli del vecchio. Ancora a proposito della fisica del primo ‘900, la transizione tra la visione di James Clerk Maxwell dell’elettromagnetismo e le teorie relativistiche di Albert Einstein non fu istantanea e serena, ma comportò una lunga serie di attacchi da entrambi i lati. Gli attacchi erano basati su dati empirici e argomenti retorici o filosofici, e la teoria einsteiniana vinse solo nel lungo termine. Il peso delle prove e l’importanza dei nuovi dati dovette infatti passare dal setaccio della mente umana: alcuni scienziati trovarono molto convincente la semplicità delle equazioni di Einstein, mentre altri le ritennero più complicate della nozione di etere di Maxwell. Alcuni ritennero convincenti le fotografie della piegature della luce attorno al sole realizzate da Arthur Eddington, altri ne contestarono accuratezza e significato.

salman rushdie con la moglie

salman rushdie con la moglie

Possiamo dire che quell’epoca che va da L’opera aperta di Umberto Eco (1962) a Midnight’s children (1981) e Versetti satanici di Salman Rushdie (1988) si è concluso il Post-moderno e siamo entrati in una nuova dimensione. Nel romanzo di Rushdie il favoloso, il fantastico, il mitico, il reale diventano un tutt’uno, diventano lo spazio della narrazione dove non ci sono separazioni ma fluidità. Il nuovo romanzo prende tutto da tutto. Oserei dire che con la poesia di Tomas Tranströmer finisce l’epoca di una poesia lineare (lessematica e fonetica) ed  inizia una poesia topologica che integra il fattore Tempo (da intendere nel senso delle moderne teorie matematiche topologiche secondo le quali il quadrato e il cerchio sono perfettamente compatibili e scambiabili) ed il fattore Spazio. Chi non si è accorto di questo fatto, continuerà a scrivere romanzi tradizionali (del tutto rispettabili) o poesie tradizionali (basate ancora su un concetto di reale e di finzione separati), ovviamente anch’esse rispettabili; ma si tratta di opere di letteratura che non hanno l’acuta percezione, la consapevolezza che siamo entrati in un nuovo “dominio” (per dirla con un termine nuovo).

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Nei nuovi romanzi e nelle nuove poesie, finzione e realtà non costituiscono più un’opposizione ontologica, il reale stesso si mostra come il fittizio o fantastico potenziale; il presunto originale si presenta come un mero poscritto ad un testo passato, una sorta di palinsesto nel quale appaiono le tracce di ciò che il Novecento aveva già pensato e ci aveva consegnato. La poesia di Eliot e Brecht rappresenta i due corni della distanza che separa due tipi di poesia rendendole inconciliabili. Ancora una volta il grande precursore di questo modo di intendere la letteratura è stato Borges con Finzioni (1941) e con Pierre Menard autore del Chisciotte (scritto già nel 1939); l’ambizione di Menard sarebbe stata quella di riscrivere il Chisciotte adeguato al proprio tempo. Ebbene, l’opera di Borges ci pone il problema seguente: che non è possibile scrivere un’opera di letteratura se non consideriamo il fattore Tempo che interviene a modificarla dall’interno. Ecco il punto: nel mondo tecnologico odierno è il fattore Tempo ad essere sovversivo. A mio modesto parere, della nostra epoca presente sopravvivranno soltanto le opere che si approprieranno del fattore Tempo, ovvero, che hanno riflettuto sulla funzione deformante del tempo nella scrittura lineare progressiva che va dall’inizio alla fine seguendo una segmento direzionale.

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Eclissi

Il fattore Tempo all’interno della forma-poesia

Quando parlo dell’ingresso del fattore Tempo all’interno delle poesie vorrei dire qualcosa di diverso di quanto ci dice il concetto del fattore Tempo esterno all’opera d’arte. La teoria della ricezione è basata sul fattore Tempo in quanto elemento esterno all’opera d’arte, io invece intendo qualcosa di assai diverso: il fattore Tempo (da cui l’essere heideggeriano) è qualcosa che ci inerisce nel profondo e fonde in un unico dominio il reale e il fittizio, l’immaginario e il simbolico, l’io e l’Altro, il chi parla con chi ascolta. E la poesia di un Tranströmer indica mirabilmente questa nuova condizione ontologica. Chi non comprende questo nesso, a mio avviso, è destinato a rimanere indietro, a concepire la poesia, il romanzo, la musica e la pittura in quanto caratterizzate da quel flusso continuo (ma esterno) che chiamiamo convenzionalmente Tempo.

Risposta a Gino Rago

caro Gino Rago,
come tu hai compreso perfettamente, la mia posizione di poeta che riflette sulla poesia (e che tenta di farla), si basa sulla comprensione dei mutamenti fondamentali che dal 1922 anno di pubblicazione di The waste land di Eliot, arriva ai giorni nostri. Il Novecento è stato un secolo ricco e convulso, che ha visto un susseguirsi rapidissimo di mutamenti di paradigma. Dopo Eliot la poesia europea e occidentale è cambiata. Ma prima di Eliot una rivoluzione analoga era stata introdotta da Mandel’stam con la sua idea di una poesia basata sulla metafora tridimensionale.
In Italia, la poesia del neorealismo e del post-ermetismo è ancora attestata su un concetto arretrato e non evoluto di forma-poesia. Questa arretratezza impedì la lettura e la ricezione di un libro come Sessioni con l’analista di De Palchi (1967) e tuttora è presente una fortissima resistenza, come sappiamo, alla rivisitazione del paradigma poetico dominante. Con Satura di Montale (1971) le cose cambiano, ma a mio avviso in peggio, perché si continua a pensare ad una poesia lineare progressiva in linea di continuità con la tradizione italiana che si faceva iniziare da Myricae di Pascoli. È restata estranea alla cultura poetica italiana l’idea di una poesia come modellizzazione secondaria del fattore Tempo, cioè una poesia che non seguisse più il modello lineare progressivo. Sfuggiva, e sfugge ancora oggi che la poesia più evoluta in Europa è stata la poesia che va sotto la denominazione di poesia modernista, non si arriva a comprendere che la poesia italiana ha oggi bisogno urgentissimo di un nuovo tipo di DISPOSITIVO ESTETICO che contempli la adozione di un concetto di poesia tridimensionale, ovvero, fondata sulle proprietà del peso specifico e sulla forza gravitazionale che ha ogni costrutto linguistico. E qui mi fermo.

Wallace Stevens. Photo of Robert Frost and Stevens at the Casa Marina Hotel in Key West, ca. 1940

Wallace Stevens. Photo of Robert Frost and Stevens at the Casa Marina Hotel in Key West, ca. 1940

Io ho sempre pensato quello che la celebre battuta di Robert Frost ha riassunto in modo mirabile: “Scrivere in verso libero è come giocare a tennis con la rete abbassata”.

Il pensiero di Salman Rushdie è chiarissimo: non si può fare poesia senza presupporre delle regole condivise, altrimenti ognuno si fa le regole a propria immagine e somiglianza, con il che la “competizione” non è più una competizione ma un dialogo tra autisti, tra sordo-muti. Quello che si è verificato nella poesia italiana post-Montale è un po’ questo, e anche per responsabilità che investono alcuni poeti di rango: cioè aver accettato l’assunto equivoco che si potesse scrivere poesia in blank verse (metro libero) senza avere in mente alcuna idea di ciò che comporta il metro libero. Innanzitutto, il problema dell’a-capo, e subito dopo, quello della «durata» del verso: quando e dove un verso deve finire, deve (può) cominciarne un altro? Chi lo stabilisce? E perché? E che cosa significa (e comporta) l’utilizzo del “verso libero”? – Interrogativi pressanti come si vede anche a occhio nudo e di primo acchito.

Porto un esempio personale (così non faccio torto a nessuno):

Nella mia modesta falegnameria del verso libero (perché anch’io dopo Blumenbilder (Passigli, 2013) la cui stesura risale a 28 anni prima, ormai scrivo in verso libero), mi sono accorto che se cambio o sopprimo una parola (o più parole) di una poesia X del terzo verso, mi si pongono dei problemi di sbilanciamento per cui sono costretto ad intervenire sul verso n. 4 e magari anche sul n. 5, e financo sull’ultimo verso. Quello che voglio dire lo dico in modo molto semplice: che un disequilibrio del verso n. 3 si riproduce e rimbalza in un disequilibrio nei versi seguenti… fino spesso all’ultimo verso, per cui sono indotto ad inserire altri versi (o spezzoni di versi) (o tagliare dei versi) tra i versi proprio per tentare di riequilibrare la composizione di spinte e di contro spinte, di forze e di contro forze che agiscono all’interno di quello che io chiamo il “poligono di tiro” della composizione poetica.

Il verso libero (quello che crediamo ingenuamente che sia libero) in realtà non è libero affatto. Soltanto un poeta ingenuo e illetterato o superficiale può credere che il verso libero sia libero da tutte le regole, per il semplice fatto che una volta cancellate le regole (ammesso e non concesso che questo sia possibile), ecco che ci troviamo costretti ad introdurre noi stessi nel poligono della composizione delle regole ferree. E tanto più queste regole sono ferree quanto più la composizione ne beneficerà. Ma le regole che introduco nella mia composizione non possono essere arbitrarie (come quello di abbassare il cestello nel gioco del basket o allargare la porta nel gioco del calcio) ma debbono essere condivise (anche in maniera silenziosa) ma la dove non c’è condivisione di regole non c’è neanche libertà, si ha soltanto confusione.

19 commenti

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19 risposte a “Giorgio Linguaglossa: Riflessioni sul concetto di “Paradigma”, Ilya Prigogine, Alfredo De Palchi “Sessioni con l’analista” (1967), Tomas Tranströmer, Jorge Luis Borges, Salman Rushdie,  il Post-moderno e il Modernismo europeo – Con una riflessione di Massimo Forti Robert Frost : “Scrivere in verso libero è come giocare a tennis con la rete abbassata”

  1. scrivere col verso libero è attraversare una fune sospesa tra le torri gemelle senza rete di sicurezza, a questo punto solo la capacità dell’autore è in grado di far dimenticare al lettore una prosa che va troppo spesso a capo: “l’arnese parola” e l’uso che ne viene fatto diventano fondamentali

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  2. ubaldo de robertis

    Ora, quando mi approssimo al personal computer per connettermi con L’Ombra delle parole, mi vien fatto di pensare: “vado in palestra!” Palestra della e/o per la mente”, dove in un post come quello odierno G. Linguaglossa riflette sul concetto di Paradigma, accenna alla raccolta di Alfredo de Palchi: Sessioni con l’analista”, fa riferimento a Transtromer, Borges, Rushdie, al postmoderno e al modernismo europeo, con un rimando a Frost a Kuhn ed anche a Prigogine, e un richiamo ad Einstein e a Maxwell. Il cenno a quest’ultimo ha riportato alla mia frastornata mente quel James Clerk Maxwell, grande matematico e fisico scozzese, che amava anche la poesia, (molte opere le riteneva a memoria). Maxwell compose qualche poesia dove non potevano mancare le sue conoscenze di scienziato, le sue interrogazioni sul cosmo, sul ruolo dell’uomo sulla terra, sulla vita e sulla morte.
    Si può ben dire che fu Maxwell a dare inizio all’epoca della fisica moderna! Concepì ciò che per tutti appariva sconcertante: elettricità e magnetismo sono intimamente implicati nella natura della luce. Tutti pensavano che nel vuoto non ci fossero campi elettrici e campi magnetici, Maxwell spiegò che non è così, intuendo che la velocità con la quale il campo elettrico e il campo magnetico si propagano nel vuoto è la stessa della luce. Spiegò che la luce si comporta come un’onda e che deriva dai campi elettrico e magnetico. Illustrò il concetto di onda elettromagnetica..L’idea della luce e della materia in moto attraverso lo spazio vuoto ha aperto la strada ad Einstein. Richard Feynman scrisse: “Oggi facendo un gran numero di esperimenti abbiamo confermato le equazioni di Maxwell. Il suo bell’edificio sta in piedi da solo.”
    Ubaldo de Robertis

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  3. Salvatore Martino

    Faccio troppa fatica a leggere al computer i saggi di Linguaglossa, sicuramente illuminanti tra scienza e filosofia. Trovo geniale e comprensibile il trattatello sul verso libero che tutti i giovani e non giovani dovrebbero rimasticare mattina e sera. Salvatore Martino

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  4. Lucia Gaddo Zanovello

    Splendido articolo. In libertà ‘vigilata’ dovrebbe sempre restare il verso. Conosco quel gioco complesso, sofferto degli sbilanciamenti, se si tolgono o si aggiungono una parola, uno spazio, un segno di punteggiatura, una maiuscola, ma è così, credo, che si ‘connota’ la scrittura, attraverso scelte di significato e ‘combinazioni’ uniche, assemblaggi che portino una ‘novità’, a una resa linguistica diversa da quella abituale.
    In questo senso credo anch’io che il verso libero sia più difficile da attuare, relativamente agli schemi di un metro preciso.

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  5. Giuseppe Panetta

    Carissimo Giorgio, proprio oggi pomeriggio al telefono con Salvatore Martino, abbiamo discusso di questo tuo articolo riguardo al verso libero. Non lo avevo ancora letto e adesso, invece, che ho letto questo tuo appunto chiaro, rivelatore, posso dire che condivido pienamente il tuo assunto.
    Come dicevamo, Salvatore ed io , il verso libero non esiste, come in pittura non esiste l’astrattismo se non si possiedono le tecniche basilari del disegno.

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  6. Linguaglossa si sta evidentemente preparando per una rilettura del suo “Dopo il Novecento” in chiave ancor più avveniristica. Titolo suggerito: Poesia tridimensionale.
    “Mediante un nuovo modo di vedere l’oggetto, noi accediamo anche ad una nuova visione del mondo”
    I fulminati, come me, da Transtromer, ne avranno giovamento.
    Linguaglossa è poeta il più distante dall’elegia che abbia mai letto; e non è riuscito, secondo me, ad essere compiutamente lirico nemmeno in Blumenbilder, per quanto ci abbia provato per pagine e pagine. Perfetto, non vedo chi altri potrebbe compiere questa impresa.
    Sul verso libero: se in origine era verso liberato da (…), oggi è sofisticata architettura che, forse ingenuamente, confida sul fatto che il lettore sappia apprezzare le gioie e le stravaganze degli accapo ( cose che di solito vengono colte in seconda lettura, vale a dire in ancor meno lettori). Personalmente non ci spenderei troppe parole; piuttosto, ricollegandomi al tema dell’azzeramento, qualche riflessione la farei sulla punteggiatura – che è quel che resta operativamente al fondo– ad esempio io sarei per un rilancio del punto e virgola, annessi e connessi, senza trascurare il rarissimo (in poesia) punto di domanda. Limiterei gli articoli indeterminativi, questo sì, perché i poeti-scienziati tenderanno alla nominazione indifferenziata.

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  7. Caro Lucio,
    in effetti sto raccogliendo una serie di «Appunti e Contrappunti letterari» (questo forse il titolo) apparsi qui e là nella rivista, oltre ai singoli mini saggi sui poeti che più mi interessano, italiani e stranieri, per farne un libro. Il libro è già fatto si può dire, scritto in un linguaggio antiletterario e in anti critichese – Mi hanno sempre annoiato i critici azzimati e i poeti manierati.
    Riguardo all’elegia, la considero una malattia infantile dell’età senile propria di quei poeti che vogliono apparire in posa, come quando si scatta una foto e ci mettiamo in posa per apparire più belli. L’elegia è una cosa orribile, bisogna tentare con tutti i mezzi di starne alla larga, è peggio della alopecia, ti si attacca ai capelli e non si stacca più. Ma è ancor più corriva l’anti elegia degli sperimentalisti, anche quella mi annoia.
    Non c’è di peggio per un poeta che mettersi in posa: è finzione letteraria, ci senti un olezzo che sa di marciume. La finzione è altra cosa, quella di Antonio Sagredo è finzione rutilante e scintillante, anche se io gli consiglierei meno scintille e più sostanza.

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  8. antonio sagredo

    …è ovvio, quasi naturale (non per me) che Lingualossa faccia il mio nome, che è di per se una finzione; è un qualcosa che m’aspettavo da tempo. Intanto ho sempre scritto in funzione (non in finzione) antielegiaca i miei
    versi, sperando che “scintille e sostanza” coincidessero. P.e. le “Parole Beate”, ultimi miei versi hanno e possiedono una funzione antielegiaca, Quel che Linguaglossa afferma circa i miei versi, e cioè che contengono (?) poca sostanza è fuorviante, credo invece che sia l’opposto: di sostanza ne hanno tanta che ci si può abbeverare quanto si vuole, sempre che esista un poeta che sappia succhiare alle poppe di Tiresia: non esiste!
    Ma il quesito è altrove, e non certo nelle scintille che indubbiamente affascinano più di qualche poeta: vi sono tante scintille prescindendo dal fatto che la sostanza sia poca o molta (troppa non direi affatto, anche se è proprio questa che disturba più di qualche poeta/lettore)… la Poesia non può fare a meno della cultura che la sostiene, e questa deve essere evidente in ogni verso: questo significa sposare il classicismo con la modernità, anche se attualmente per molti poeti entrambi non hanno più senso alcuno; come una volta invece entrambi devono essere in qualche maniera restaurate (maniera, modo del fare, il fare stesso ecc.) non dico manierismo che è altra cosa da cui anche io aborro più di qualunque altro; e se mi si dice che sono un manierista, di poesia ne sa poco davvero.
    Dunque se il quesito è altrove, non sono certo dove il quesito si trovi, poi che sono dislocato per natura, come alla stessa stregua: io sono laddove non c’è Poesia, e questa è la dove io non ci sono. Tratto la Poesia come se fosse in mia mercede, e talvolta lo è, ma non sempre è cosi poi che la situazione spesso si ribalta. Giostrare con la Poesia significa anche creare “scintille”: è un evento circense, una acrobazia inverosimile… dico di cose drammatiche o tragiche o risevoli allo stesso modo con cui tratto la parola, e la parola me stesso: è un gioco al massacro: o Lei o me: le combinazioni sono binarie, sempre: due vittime, una vittima e una non-vittima, ecc.
    “Mettermi in posa”, io?” dico questo perché è sottinteso il riferimento a me… dovrei riferire che per 50 anni la mia posa è stata il nascondimento della mia persona e dei miei versi: entrambi diritti verso l’unico traguardo, questo che più volte ho raggiunto e acclamato dentro di me… poi l’avvento del computer e dei tornei di “poesia” spesso spicciola, raramente di qualità. E da qui i miei fuochi d’artificio, direi notevoli, perché notevole era lo spessore della sostanza! Più scintille non vuol dire sempre più sostanza, ma è che scintille e sostanza se ne andavano a passeggio allegramente ed io con loro assaporando la bellezza del mio verso che travalica con gli strati dei secoli il Tempo stesso!
    Bene, se non finisco faccio un saggio, e allora basta così, dico soltanto che sono così soddisfatto del mio saper fare i versi, in tutte le salse, che non temo confronto: più umiltà per me significa più penetrazione nelle coscienze. Lo strapotere della presenza delle mie figure, la maniera con cui le presento e rappresento non lasciano dubbio che il sapore delle scintille equivale al sapore della sostanza, e spesso sono le scintille che generano la sostanza!
    Adieu, mie cari
    A. S.

    ….e allora provate a commentare questi stupendi versi, che sono come stendardi di carni – al vento!

    Il libro… oggi

    Il libro aprì le mie mani per segnarmi come un monatto irriverente,
    nella mia mente avvilita i misteri della metonimia antica,
    e quella malattia che traverso il nome si chiama, se volete, Poesia.
    Sorrise il lucido dorsale per mostrarmi la sua identità cartacea.

    E mi sfogliò le epoche come uno stregone distilla il suo veleno cortigiano.
    Mi accecò come un bardo la parola per cantare la mia corteccia irrazionale.
    Il furore dell’infanzia esondò come la bellezza di Rosalia!
    Come la beatitudine di Smeralda inquisì lo spasimo della materia!

    Per coprire d’oscurità i triviali segreti celebrò le distinzioni delle pagine
    con le affilate misture di Salafia, e gli spettri delle sue formule
    per vincere d’immortalità i suoi sembianti. Per il trionfo della maschera
    il trucco di una pelle si ritirò sdegnoso dietro la propria inconsistenza.

    Il libro… oggi, è un cavaliere insopportabile e vincente.
    La macchina non ha piedi, né cammini tracciati dai sentieri,
    e passi tardi e lenti per stampare i tempi e gli ignobili pensieri.
    Come un geniale attore che alle scene assegna gli atti, i gesti, e i fallimenti.

    Antonio Sagredo

    Roma, 5/12 novembre 2011

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  9. Steven Grieco-Rathgeb

    Ho letto questo post di Giorgio Linguaglossa, e condivido quasi tutto. Sono d’altronde riflessioni che facciamo insieme da ormai più di due anni, in particolare sul concetto di poesia “tridimensionale”, la cui causa ho perorato nel corso di molte presentazioni e incontri fra poeti.
    In questo post tali contenuti vengono notevolmente arricchiti come sa fare soltanto Giorgio, e cioè avvalendosi delle sue molte letture in campo scientifico e filosofico e delle sue grandi capacità di sintesi. Ne viene fuori un pensiero composito, ricco, capace di aprire le porte ai poeti di tutte le età.
    Bene ha fatto Giorgio a portare l’attenzione del lettore ad altri settori della ricerca filosofica, e cioè a quella che più si apparenta al pensiero scientifico, quella che più recepisce la odierna velocità di quel pensiero scientifico, lasciandosi quindi alle spalle (quasi) tutti i filosofi tedeschi del secolo scorso, i quali non hanno (quasi) più niente da dirci.
    Non capisco perché, in questo specifico contesto, non venga ancora letto e commentato un testo semplice, veloce, e illuminante come “Introduction a la Complexité” di Edgar Morin.
    Io lo raccomando a tutti, anche per la sua capacità di trattare il pensiero di oggi – appunto a cavallo tra scienza, speculazione filosofica e poesia – con una semplicità estrema… relativamente all’argomento, che non è semplice per niente. E’ un testo di grande ispirazione per il poeta.
    Dice Giorgio, molto bene: “della nostra epoca presente sopravvivranno soltanto le opere che si approprieranno del fattore Tempo, ovvero, che hanno riflettuto sulla funzione deformante del tempo nella scrittura lineare progressiva che va dall’inizio alla fine seguendo un segmento direzionale.”
    Questa è una frase davvero lapidaria.
    La linearità in arte è infatti cosa molto subdola. E’ una sirena che si re-intrufola nelle opere letterarie (e musicali!) anche dopo essere stata individuata e soffiata via come vecchie ragnatele. Ecco perché, per esempio, poeti come Milosz ci paiono vecchi oggi (per quanto piacevoli da leggere), mentre altri come Herbert e Rozewicz mantengono intatta la loro freschezza e capacità di ispirare.
    Aggiungo una cosa, proprio in vista del carattere subdolo della linearità in letteratura, che sembra anzi imprescindibile perché “favorisce la leggibilità e fruibilità di un’opera letteraria”. Occorre dire che il Tempo interno all’opera venga anche sospeso. Proprio questo costituisce forse uno dei raggiungimenti più alti operati dai musicisti moderni, dalla Dodecafonia alla Nuova Musica Contemporanea del Dopoguerra.
    Questo il segreto che la poesia aveva appreso anch’essa agli inizi del secolo scorso, ma ha poi presto scordato sotto l’ondata di confessionalismo e intimismo dal 1945 in poi. Basti pensare a Eliot’s “Four Quartets”.
    Il Tempo non è cosa che soltanto scorre, vuoi all’esterno dell’opera o al suo interno. Questo sì, c’è, ed è importantissimo capirlo anche a livello tecnico, proprio perché il Tempo è illusione, una delle più potenti.
    Con la sua “sospensione” intendo: aprire una fessura sul suo essere uno degli aspetti più onirici e impalpabili della mente umana.
    Non parlo di fate morgane: parlo di cose concretissime: di ciò che un Giacinto Scelsi è decisamente riuscito a fare nella sua opera musicale, e che non può mancare di dare ispirazione oggi al poeta.
    La poesia ha scordato questo aspetto, eppure non pochi hanno continuato a scrivere in quel modo geniale e profondo: non soltanto i due poeti polacchi che ho menzionato sopra, ma anche un Gennady Aygi. E che dire di “Finnegan’s Wake”? Transtroemer non ha fatto questo, a mio avviso, ma qualcosa di molto simile, Ha operato (come già Rolf Jakobsen aveva iniziato a fare prima di lui) una manomissione del Tempo, una violenza sul suo apparente scorrere per costringerlo a mostrare il rovescio delle cose – a mostrare come sono le cose del mondo quando il Tempo non se ne può appropriare per distorcerle. Con i risultati genialissimi che sappiamo.
    Bergson dice, in fondo, che arte è proprio questo aiutarci a raggiungere istantaneamente la realtà: se questa istantaneità (atemporale) fosse la condizione naturale dell’uomo, non esisterebbe l’arte.
    E’ quello di cui parlano Anadavardhana e il suo commentatore Abhinavagupta nel “Dhvanyalok”, un trattato estetico-filosofico kashmiri di mille anni fa, sulla poesia: parlano della suggestione che sorvola, si libra sopra il significato letterale delle parole (soprattutto poetiche), aprendo dimensioni mentali inusitate.
    Torno velocemente a Aygi. Per capire e ben recepire la sua poesia in un’altra lingua, è necessaria una traduzione attentissima. Altrimenti quell’aspetto – il rallentamento del tempo, il più interessante della poesia di Aygi – scompare. In Aygi tutto sta nel rallentamento dell’arrivo dell’immagine al lettore, ciò che impedisce al lettore di consumarla, appropriarsene, banalizzarla. E proprio questa lentezza (contenuta nell’haiku, “nel vecchio stagno / la rana saltò / e il suono di acqua”) questa stessa lentezza raggiunge una velocità supersonica che nessuna immagine visiva potrà mai raggiungere in ugual modo.
    Perché l’uomo ha la mente immaginifica ancor prima dell’immagine. Ecco perché la poesia esisterà sempre.

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  10. Condivido il commento di Steven Grieco Rathgeb e oso dire che il verso libero è il sistema metrico più adatto, oggi, per intrappolare il Tempo. Tendere una trappola al Tempo. Voglio dire che mentre che leggiamo il tempo scorre e l’occhio è portato ad andare avanti automaticamente nella lettura (poesia o romanzo). Quando Steven Grieco parla di “rallentamento del tempo” indica un fenomeno nuovo, nuovissimo della poesia di oggi, almeno dei poeti più dotati, dei modernisti europei, infatti Grieco ha fatto i nomi di Herbert e Rozewicz, del finlandese Rolf Jacobsen, e giustamente dice che ai nostri orecchi oggi Milosz appare un po’ invecchiato, un po’ indietro. Verissimo. Quando si parla di metafora tridimensionale o di immagine che scorre nel tempo, per esempio all’indietro invece che in avanti, ecco che affermiamo qualcosa che in Italia nessuno si è mai sognato di fare e neanche di pensare: una immagine che si muova all’indietro nel tempo, anziché in avanti è qualcosa che fa tremare i polsi, è meglio scrivere i raccontini alla Lamarque e alla Magrelli, ma, ovviamente qui stiamo parlando di un’altra cosa.

    In un mio commento alla poesia di Roberto Bertoldo io ho parlato di «metafora retrogrediente» (chi ha voglia può andarselo a leggere in questa rivista), si tratta di un movimento a serpente, a zig zag che dà, effettivamente l’illusione che il tempo non proceda più in avanti ma all’indietro. È un procedimento retorico difficilissimo che si trova soltanto in Tranströmer e in pochissimi altri. Fatto sta che oggi fare poesia di livello alto significa fare i conti con la questione del tempo e della sua velocizzazione o rallentamento. Ciascuno può attingere al proprio bagaglio stilistico e esistenziale. Ciascuno lo può fare in proprio.
    Tynjanov negli anni Venti ha scritto che il verso libero è un «sistema metrico variabile», e che lo è «anche dal punto di vista semantico»1); nello sviluppo di questo concetto ci è compreso anche quello che andiamo dicendo io e Steven, cioè che se il sistema è «variabile», lo sarà anche il Tempo in esso catturato.

    1) J. Tynjanov Il problema del linguaggio poetico, Il Saggiatore, 1968 p. 99

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  11. Copio e incollo una lettera giunta alla mia email da Claudio Borghi:

    Gentile Giorgio,

    le scrivo dopo aver letto il suo articolo Riflessioni sul concetto di Paradigma ne L’ombra delle parole. Sono d’accordo con lei sul significato di paradigma nell’ottica delle rivoluzioni scientifiche, con particolare attenzione alla teoria di Thomas Kuhn. Nuovo paradigma non significa in effetti scoperta di una verità superiore, ma lettura e interpretazione dei fenomeni alla luce di una diversa forma rappresentativa degli stessi, fondata su basi logico-operative diverse. L’errore che molti commettono è ritenere che la teoria di Einstein (relatività ristretta e generale) o la teoria quantistica siano più vere di quella di Newton, laddove semplicemente si fondano su basi concettuali e teoriche diverse: è degno di nota il fatto che la relatività generale e la meccanica quantistica sono in buona parte inconciliabili fra loro, e il recente nuovo paradigma introdotto dalla gravità quantistica, che ne propone una sintesi, porta a dover accettare conseguenze traumatiche, tra cui la quantizzazione dello spazio e l’inesistenza del tempo (vedi La realtà non è come ci appare, Raffaello Cortina, 2014, di Carlo Rovelli). Mi permetto di segnalarle la prossima uscita di un mio articolo su una importante rivista internazionale di fisica, Foundations of Physics (il cui editor in chief è attualmente proprio Carlo Rovelli, uno dei fisici teorici più importanti al mondo), in cui metto in discussione le fondamenta del concetto di tempo relativistico. La prospettiva è davvero rivoluzionaria, apre la possibilità di un nuovo paradigma, e devo ammettere che, per quanto non l’abbia citato in bibliografia, le teorie di Prygogine mi hanno molto ispirato, in particolare la sua attenzione alla complessità dei fenomeni naturali, la sua sensibilità umanistica, la sua intelligenza problematica, il suo rifiuto del dogmatismo che, ahimè, ispira tuttora molti fisici teorici come molti letterati. L’articolo si intitola Physical time and thermal clocks, è stato accettato il mese scorso e fra qualche giorno, dopo la correzione delle bozze (in corso), uscirà sulla rivista. Glielo comunico non per esibire un mio lavoro, ma perché sono rimasto molto colpito dalle sue riflessioni sul tempo. In particolare condivido profondamente quanto segue:

    … non è possibile scrivere un’opera di letteratura se non consideriamo il fattore Tempo che interviene a modificarla dall’interno. Ecco il punto: nel mondo tecnologico odierno è il fattore Tempo ad essere sovversivo. A mio modesto parere, della nostra epoca presente sopravvivranno soltanto le opere che si approprieranno del fattore Tempo, ovvero, che hanno riflettuto sulla funzione deformante del tempo nella scrittura lineare progressiva che va dall’inizio alla fine seguendo una segmento direzionale.

    L’idea centrale del mio articolo è proprio quella di tempo interno, cioè di tempo che viene generato all’interno degli orologi o, traslando l’intuizione in ambito filosofico-letterario, delle opere d’arte e degli esseri viventi. L’errore di fondo, che troppa scienza e troppa letteratura hanno commesso, è concepire, come lei ben dice, il tempo in quanto elemento esterno all’opera d’arte, laddove ne deve costituire il motore interno, il centro dinamico di generazione, spesso imprevedibile e inafferrabile dalla ragione astratta, di forme e strutture.

    I miei articoli scientifici sono tutti incentrati sul problema del tempo in fisica (classica, relativistica, quantistica) e dallo stesso nucleo problematico sono nati i miei due libri di versi e prose, Dentro la sfera (Effigie, 2014) e La trama vivente (Effigie, 2016), che le ho spedito qualche settimana fa e spero abbia ricevuto. Lei mi ha fatto capire di essere dentro la ricerca di un nuovo paradigma letterario, di cui i miei lavori credo siano una evidente testimonianza. La strada è difficile e altrettanto difficile è trovare attenzione presso un pubblico di lettori che certo non è abituato a libri di poesia che spaziano nella filosofia e nella scienza, alimentandone e ravvivandone dall’interno le problematiche, ben lungi da intenzioni didascaliche o celebrative (in questo senso, mi trovo in sintonia con Pier Luigi Bacchini, meno con Galluccio). Quanto al verso libero, concordo con lei che non si tratta banalmente di togliere le regole, ma di inventarne di nuove. Il rischio è misurare il valore della poesia sulla capacità di tenuta metrica, esibendo abilità tecnica tenendo alta la rete del tennis, come fa la Valduga, che si diverte a sedurre i suoi ammiratori, che hanno raramente assaporato la profondità in poesia o si sono limitati a navigarla in superficie: non è trascurabile il fatto che ridimensioni Leopardi. Un testo poetico non deve alimentarsi solo di invenzione metaforica e immaginativa, ma creare un pensiero vivo, facendolo nascere e crescere con energia visionaria all’interno dei versi o delle prose:

    Non restano versi o prose, solo vibrazioni senza materia, non esistono oggetti o corpi, solo spazio e campi e onde, in quieto stormire. (da La trama vivente, pag. 5)

    Mi perdoni questa incursione, ma l’impulso a scriverle è stato troppo forte.

    Un caro saluto,
    Claudio Borghi

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  12. Mi permetto di segnalare un’incongruenza, dove Borghi scrive: “… non è possibile scrivere un’opera di letteratura se non consideriamo il fattore Tempo che interviene a modificarla dall’interno. Ecco il punto: nel mondo tecnologico odierno è il fattore Tempo ad essere sovversivo. A mio modesto parere, della nostra epoca presente sopravvivranno soltanto le opere che si approprieranno del fattore Tempo”. Questa affermazione contraddice quanto afferma poco sopra: “…è degno di nota il fatto che la relatività generale e la meccanica quantistica sono in buona parte inconciliabili fra loro, e il recente nuovo paradigma introdotto dalla gravità quantistica, che ne propone una sintesi, porta a dover accettare conseguenze traumatiche, tra cui la quantizzazione dello spazio e l’inesistenza del tempo”. Ma proseguendo leggo che ” Non restano versi o prose, solo vibrazioni senza materia, non esistono oggetti o corpi, solo spazio e campi e onde, in quieto stormire”. Quindi è spazio, non tempo. E se è spazio è immagine. Sbaglio?

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    • Claudio Borghi

      Preciso che la citazione “… non è possibile scrivere un’opera di letteratura se non consideriamo il fattore Tempo, ecc…” è ripresa dall’articolo di Giorgio Linguaglossa, non è mia. Il problema è quale concetto di tempo si voglia considerare. Il tempo relativistico è contenuto nello spaziotempo. A ben vedere, non esprime una durata reale, in quanto è in certa misura cristallizzato in una struttura quadridimensionale (vedi l’intervista di Popper a Einstein, pochi mesi prima della morte di quest’ultimo: si trova nell’autobiografia di Popper “Unended Quest; An Intellectual Autobiography”). Il tempo interno (termodinamico), se vogliamo riconducibile a Prygogine, è di natura diversa rispetto a quello relativistico, nel senso (questo io sostengo) che non è riconducibile al concetto di tempo proprio introdotto da Einstein. La gravità quantistica va oltre: sostiene che a livello fondamentale (particelle e campi) il tempo non esiste. Quale concezione è vera? Dipende dal paradigma che si assume…La citazione finale è invece tratta dal mio “La trama vivente” (Effigie, 2016). Non ne farei una questione di incongruenza con quanto detto sopra: si tratta di una visione di un oltre dell’esperienza sensibile. Il tempo è esperienza individuale, arricchimento della memoria che si genera nella dimensione della vita materiale. Quel che resta è oltre l’individuo: vibrazioni senza materia, spazio e campi e onde, in quieto stormire. In definitiva, nulla di noi, corpi e coscienze che dicono io ora e nel segmento di tempo tra vita e morte, resta. “La materia del tempo”, scrivevo in tempi più recenti, “evapora nell’indicibile”. Forse in questo “diventare altro” sta il senso più profondo della poesia, di cui siamo semplici testimoni, anche quando ci illudiamo di esserne autori.

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  13. Caro Lucio,
    veramente, la prima frase che tu citi, è mia, poi citata anche da Claudio Borghi. A mio modesto avviso non dobbiamo considerare il fattore tempo separatamente dal fattore spazio. Forse il tempo non esiste come metron dell’universo, e forse anche lo spazio è la risultante di altre forze più possenti che lo hanno prodotto. Ma il discorso sarebbe lungo e ci porterebbe a sondare il concetto di essere, e ci perderemmo in una nebbia così fitta come quella in cui si sono perduti Heidegger e Severino (qui da noi). Per il momento, io mi limito ad osservare una cosa: esiste il fattore Tempo all’interno di un’opera d’arte, all’interno di una poesia?. ecco, se esiste, qualcuno ce lo ha messo, viene da qualcosa; se non esiste (io qui parlo di Tempo interno), allora il problema non esiste. Nella poesia italiana del Novecento e di questi ultimi lustri nessuno mai ha posto il problema, credendo fideisticamente che il verso unidirezionale fosse eterno. Credendo ciecamente in un dogma. Ma, appunto, questa credenza si rivela per quello che è: un residuo di pensiero quotidianistico accettato in modo acritico e aproblematico. E allora bisogna prenderne atto, credo.
    E torniamo al punto iniziale: la poesia dei migliori poeti in giro per il mondo INTEGRA IL FATTORE TEMPO ed INTEGRA IL FATTORE SPAZIO. Detto così, agli orecchi di letterati superficiali può apparire una banalità, ma si tratta di un concetto che rinnova dalle fondamenta il nostro modo di raffigurare un’opera d’arte. E del resto non è neanche un pensiero nuovo, anzi, già ne trattava Osip Mandel’stam nei suoi saggi e nelle sue poesie del periodo «tridimensionale». Siamo negli anni Venti del Novecento, si tratta quindi di un secolo fa. Chi non ha occhi e orecchi per leggere e ascoltare la più alta poesia del Novecento, ovviamente non se ne è accorto.
    Quando Tranströmer scrive: «… dentro di me il tempo è fermo, un tempo infinito, il tempo che scorre per dimenticare ogni lingua e scoprire il moto perpetuo»; quel moto perpetuo che abita l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, e che è sconosciuto al nostro io che si muove nella piccola cella del suo mondo quotidiano.
    Ecco, volevo dire, non soltanto “la cancellazione del tempo” di cui ho discusso in altre sedi, e neanche del “rallentamento del tempo” di cui ha scritto qualche commento fa Steven Grieco Rathgeb, qui Tranströmer ci parla della fermata del tempo [la fermata nel deserto (degli anni Ottanta) di Brodskij]. Il tempo può essere fermato e poi fatto ripartire; può essere accelerato e decelerato. Anche lo spazio è una unità elastica. In natura non esistono, probabilmente, metri fissi, inalterabili.
    Con Tranströmer abbiamo imparato che il Tempo è una specie di cammino che l’uomo può percorrere in più direzioni e nel quale la sovrapposizione di momenti del passato, del presente e del futuro sono episodi che accadono continuamente nella nostra psiche, e di cui forse non ce ne rendiamo conto.
    La nostra poesia parte da qui. Da questa presa di consapevolezza.

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    • Grazie. Mi scuso per aver confuso le tue dichiarazioni con quelle di Borghi. Ovviamente, mentre scrivevo, anch’io pensavo a Tranströmer quando dicevo dello spazio come immagine. Ma il tempo-dentro è un’altra, magnifica possibilità. Lo scrivevo in questi giorni: “Immagini parcheggiate alla finestra. Veicoli per viaggi nel tempo”.

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  14. Grazie anche a Claudio Borghi per la precisazione. Oh, per me il tempo è sguardo che si muove tra immagini che lo contengono; quindi che gli sono più grandi. Ma non fa grande differenza.

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  15. Tranströmer:

    Qualcosa di oscuro
    stava presso la soglia dei nostri cinque
    sensi, senza oltrepassarla…

    *

    Entrammo. Un’unica enorme sala,
    silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
    come una pista da pattinaggio abbandonata.
    Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

    L’atto di entrare. E una condizione esistenziale di immobilità del tempo e dello spazio. La poesia ci conduce subito dentro un enigma. Un evento che è un enigma. Ecco, la nuova poesia italiana deve avere questa profondità, ci deve introdurre da subito in un enigma. Che altro non è che un evento.

    Poi, ciascun poeta, se è poeta, troverà il modo di coniugare l’Enigma alla propria biografia o alla propria esistenza, ma questo è già un altro problema.

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  16. UN poeta non è un ingegnere,ma un pazzo profeta,in cerca della libertà assoluta. La brama di libertà lo divora. Oggettivamente parlando:La poesia ,non è ingegneria (può diventarlo se gli ossicini cadono secondo alcune forme…)
    Saluti

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