Archivi del giorno: 12 giugno 2016

POEMETTI di Lidia Are Caverni, “Gli uomini con i cappelli di fiori” (poemetti 1991- 2012) Edizioni Orizzonti meridionali, 2016; “Prometeo”; “Il fiore”;”Gli uomini con i cappelli di fiori”; “Il gusto floreale, i personaggi del mito, i bestiari e gli erbari sono i temi ricorrenti di tutta la sua poesia, trattati con grazia, garbo e leggerezza”; “la metafora del «giardiniere» racchiuso nel suo «orto»”

foto volto giapponeseLidia Are Caverni, nata a Olbia  il 3 novembre 1941, ha trascorso infanzia e adolescenza a Livorno, da molti anni risiede a Mestre. È insegnante elementare in pensione.

Ha pubblicato tredici libri di poesia, tra cui “Un inverno e poi…” 1985; “Nautilus” 1990;  Il passo della dea 1999; Fabulae linguarum 2000; Le montagne di fuoco 2005 con la prefazione di Giorgio Linguaglossa; L’anno del lupo 2006 con la prefazione di Walter Nesti; Animali e linguaggi 2006 con la prefazione di Michele Boato; Il prezzo dell’abbandono 2009 con la prefazione di Pietro Civitareale; Fiore bianco notturno 2010 con la prefazione di Giuseppe Panella; Colori d’alba 2010 con la prefazione di Franco Manescalchi.

Di racconti: Il giorno di primavera1992; La fucina degli dei 2000; Il satiro e la bambina 2000; L’albero degli aironi 2004; I giorni del breve respiro 2007 racconti autobiografici. Romanzi per l’infanzia “Clotilde e la bicicletta” 2000; Il pesce verdino 2009. Romanzi:  I giorni dell’attesa col mio libro di Repubblica. Un breve saggio sul linguaggio nella scuola elementare: Discorso sul linguaggio.

Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

Scrive George Steiner in Linguaggio e silenzio, Milano 1972 p. 64: «Vi sono segni diffusi, anche se per ora solo vagamente definiti, di un certo esaurimento delle risorse verbali della civiltà moderna, di un abbrutimento e una svalutazione della parola nelle culture di massa e nelle politiche di massa della nostra epoca. Che altro resta da dire? Come può ciò che è nuovo e diverso quanto basta da meritare d’esser detto, trovare ascolto in mezzo al clamore dell’inflazione verbale? La parola, particolarmente nelle sue forme tipografiche successive, può essere stata un codice imperfetto, forse transitorio. Soltanto la musica può soddisfare ai due requisiti di un sistema comunicativo o semiologico veramente rigoroso: essere unica a se stessa (intraducibile) e tuttavia immediatamente comprensibile. Così… ragiona Lévi Strauss. Egli definisce il compositore, l’inventore della melodia, un être pareil aux dieux proprio come Omero fu definito da Montaigne, Lévi Strauss vede nella musica le supreme mystère des sciences de l’Homme, celui contre lequel elles butent, et qui garde la clé de leur progrés. Nella musica, la nostra vita assordata può riacquistare in qualche modo il senso della moderazione e del moto interiore dell’esistenza individuale, e la nostra società ritrovare qualcosa di una visione perduta di armonia umana. Tramite la musica, le arti e le scienze esatte possono raggiungere una sintassi comune».

Penso che ci sia questo pensiero recondito in tutta l’opera poetica di Lidia Are Caverni: la musica come essenza della poesia, fin dagli esordi degli anni Ottanta: il segreto pensiero di ragguagliare il suo linguaggio poetico alla musica, di dargli una orchestrazione sonora intima. È la sua rispettabile utopia. Ecco perché la poetessa veneta rinuncia ai fermi immagine, agli stop della punteggiatura, alla sicurezza della sintassi e dà alle sue poesie quei larghi e quegli andanti sinfonici spesso con un linguaggio basso, popolare, appena arricchito con qualche lemma di origine culta. Il gusto floreale, i personaggi del mito, i bestiari e gli erbari sono i temi ricorrenti di tutta la sua poesia, trattati con grazia, garbo e leggerezza; e la metafora del «giardiniere» racchiuso nel suo «orto» compendia bene il simbolo base della sua poesia: il poeta con la gentilezza del giardiniere. Abbiamo scelto, questa volta, per i lettori dell’Ombra, le poesie brevi rispetto ai poemetti che abbiamo pubblicato altre volte.

Lidia Are Caverni volto

Lidia Are Caverni

Lidia Are Caverni

da “Gli uomini con i cappelli di fiori” (2016)

GLI UOMINI CON I CAPPELLI DI FIORI

(agosto 2007)

Venivano lungo la strada con i cappelli
di fiori le svolazzanti vesti color di luna
le mani dipinte di azzurro suonavano
musiche che struggevano il cuore
strumenti di foglie cetre percorse da dita
lievi nessuno conosceva il loro cammino
non si fermavano che per bere alle fontane
detergendosi la bocca ti avrebbero condotto
con sé gruppo che si infittiva amica era
la notte il bisbiglio del vento che muoveva
capelli sconosciuti parlavano altre lingue
sorridenti non rispondevano proseguivano
il viaggio che non aveva mai fine.
Incatenavano il cuore lasciando intravedere
spazi donando bisbigli d’amore regalavano
fiori per adornare cappelli vasi di fragranti
mieli per addolcire labbra profferivano
canzoni senza tempo né fine ognuno si ritrovava
integro come fosse creato un fanciullo uscito
dalle origini dal grembo lieto senza ricordo
di terre forse avvertite nel sonno nell’ancestrale
abbraccio senza né luna né stelle che fornisce
la notte chi li ascoltava ritrovava sorrisi
l’incurvarsi lento con cui si distendono volti
avrebbero voluto seguirli dove fino al mare
forse all’oceano.
Lasciavano leggeri percorsi cos’è
l’impronta dove non si conserva
segno di un passo che cammina
danzando malinconie uno struggimento
che cercava se stesso seppellito
negli anfratti segreti che ognuno ignora
pronto a cogliere il certo il noto viso
che si guarda allo specchio chi osava
sfiorare la veste ignota il cappello adorno
di fiori le mani azzurre curvate nell’eterna
canzone avrebbero voluto lanciare
baci un soffio che il vento cancella.
Guardavano mute le case chiuse
nel loro segreto il contenuto oscuro
di fiamma di perdizioni di focolari
custoditi con cura perché non penetrasse
nessuno chi era che percorreva le strade
che non conoscevi i volti lieti che generavano
suoni a stringere il cuore gli ignoti calici
che si porgevano nell’offerta votiva
di corpi alteri che pure segnavano carni
di infinite ferite a devastare la mente
di sogni portati da lontano dove aveva
origine l’amore il passo si tratteneva voglioso
andavano perché venissi con me.
Si erano fermati al mare ma era
quello che volevano a raccogliere murici
dagli echi infiniti suoni di onde venute
dal profondo grembo dove nasce ogni
origine alghe si intrecciavano ai capelli
nastri di meduse immersi nell’acqua
ancora cantavano rinnovato battesimo
di salso a poco a poco scomparivano
dove non li potevi trovare restava un soffio
di vento un brivido che increspava il mare.

*

IL FIORE

(gennaio 2012)
Oltre la porta era cresciuto
un fiore un esile fiore illanguidito
dal sole separava il passo di chi usciva
divideva il cuore che restava trepido
d’attesa fino a quando scendeva
la sera allora il fiore chinava il capo
raggrinzendosi tutto nella casa
tornava l’amore.
Non era rimasta che una speranza
un volo di farfalla dalle ali bianche
splendida chimera che portava il sogno
un fiore di cardo schiuso alla goccia
di rugiada intorno volava lento
un insetto inneggiava al sole un trepido
apparire all’orizzonte nel mattino
lieto al limitare del bosco faceva
intravedere freschezze l’anima ne gioiva
raccogliendo fardelli pesavano ora
di piuma si poteva partire.
Sul cuore i solchi del tempo
i pugni chiusi che non donano
carezze i cieli senza certezze
ma attorno vi ronzano le api
a deporre mieli l’ha generato
un fiore coltivato con cura nel giardino
dell’anima era nato da un seme
di tenui colori il profumo si diffonde
penetra le stanze saldo tenace
cerca la luce lo sfiorare del sole
dell’aria del vento cerca parole
per dire con me cammina quando
morirà si arresterà il mio cuore.
Leggiadro il fiore governava
lieto sul sentiero degli innumerevoli
passi nessuno lo coglieva avvezzo
al vento alla cima si ergeva fiero
soffice di piuma ognuno si fermava
a vederlo spuntato tra l’erba il sasso
a volte lo sfiorava desiderandone
il possesso ma incuteva rispetto
restava con le sue punte erette
a sfidare il tempo che per lui si arrestava.
Guardingo il fiore guardava
la sera il rapido inclinarsi del sole
presto si sarebbe svelata la luna
nel chiuso suo cuore senza ritorno
lontano lo splendore del giorno
piccolo fiore di deserto che non voleva
la pioggia neppure un insetto lo cercava
ma aveva gioito di levarsi fiero
nei suoi colori nel breve tempo che
dava lietezza.
Il fiore si apriva nel suo gelo
spandeva profumo l’inverno
ne gioiva brandelli di neve
di ghiaccio a perdersi lontano
dove si spengeva il mare nel cielo
grigio-azzurro delle smarrite nuvole
potevo anch’io perdermi sommessa
come una musica che echeggia
nelle profondità dell’anima dove
si annida il tepore quieto di passerotto
che dona pace.
L’albero custodisce le sue gemme
involucri di sogni il fiore aspetta
perché non ci sia tradimento l’oscuro
avvicendarsi dei giorni ignoti ravvolti
di gelo a uccidergli il cuore nel cielo
pallido dove il pettirosso lancia
la sua canzone il merlo scantona gonfio
di tremore e tu non sai non vedi quando
finirà il bianco candore che costella
i prati le reti l’infinito incedere senza
ritorno.
Avviluppato come fosse fiato
tra muschi e rocce di montagna
minuscolo fiore che il vento
non muove guarda le cime arrosate
dal sole sogna di avere slanci che
lo stelo impedisce per raggiungere
l’esile campanella che dondola
fanciulla a chiamare l’amore in attesa
del dito premuroso che lo sfiori
per trovarlo bello come nessun altro
al mondo il fiore guarda il prato
la sua anima lieta l’occhio che
lo cerca quieto.
Fiore gramo cresciuto al limite
di strade lo percuote il passo
lo ignora la sera immerso
di solitudine quando al tramonto
il sole si inclina lasciandolo
privo di ogni colore boccio ritorna
avvolto nei petali perché non
lo uccida la rugiada o l’incedere
lento del gatto per schiudersi
al mattino nel gelo di fulgore.
Chiuso nelle pagine di un libro
un fiore languiva era stato pegno
d’amore in un maggio lieto
di tanto tempo fa fra pagine
ingiallite dal pallido contorno
aveva smarrito colori ma il suo cuore
batteva ogni volta che il libro
si apriva non era stato
dimenticato il suo profumo né
il gesto gentile che lo conservava
era come il bacio di chi lo aveva
donato e il fiore viveva.

Aperto splendeva fiore
di primavera adornava i prati
confondeva gli sguardi
di bellezza piccole mani
si tendevano a cogliere il suo cuore
i petali fulgenti per portarli
alla bocca nell’intimo pasto
il suo profumo si spandeva fiore
bianco di castità senza veleno
né asprezza aspettando il frutto
che sarebbe nato.
Allontanato l’insetto il piccolo
fiore chiudeva il suo grembo
in attesa di procreare custodiva
il seme adornandosi di foglie
l’albero ne gioiva muovendosi
piano al vento perché i petali
restassero eppure cadevano rosata
pioggia sul prato bambini facevano
giochi intrecciando le mani
circondavano il tronco si nascondevano
l’aria risuonava di risa il piccolo
fiore attendeva colmo d’amore.

Andare verso 2012

.

.

PROMETEO (1991)

Dopo la pioggia
dalla tua mano
si sprigionano stelle
fra le dita altalene
lasciano scivolare
lucori
come di lucciole
negli inebrianti canti
d’amore
non taci nella notte
tersa
a cospargerti di lacrime
Dello scomparso nome
esauste conchiglie
raccolgono gli spenti
suoni che corni rimandano
con voce di tuono
perché non taccia
l’ultima eco
ancora ridano prati
e i curvati fiori
del potere di quel
che fosti
esile fiore a confonderti
col vento tra le perdute
rocce
Legata alla perduta roccia
ascolti smarrirsi le tue grida
non era non fu che amore
la blasfema arroganza
di conquistare il cielo
a disseminare faville
che ti scaldassero il grembo
e indicare percorsi
di smarrite capanne
dove congiunti si intrecciassero
giunchi
racchiusi destini
di cervella d’agnello
spighe raccolte
nella tua mano

Gridando non volesti
che spezzare catene
beffardi irridevano gli dei
nelle remote dimore
del cielo
dimenticata fuggendo
tra gli ingrati ripari
di foglie
a sorsi bevevi sorgenti
perché ti accogliessero onde
che si ritraevano sdegnate
della tua presenza
come non ci fosse riparo
che il tuo cavo ventre
Hanno detto che non resterà
di te che fra le rocce
le lacerate membra
per gli impavidi uccelli
niente neppure un’eco
del canto tuo di sirena
fatta di schiuma
così vollero aspri decreti
che presiedono il cielo
e non ti vale impietrire
di lacrime
solo cenere bagna il tuo volto
dello spento fuoco
con cui beffarda volevi
illuminare la notte
Fra i seni vorresti
accogliere mieli
per assaporare dolcezze
tacitare le grida
del tuo ventre squarciato
supplice ai viandanti
chiedi un’ora d’amore
per placare gli dei
che aspettano solo
il rinnovato dolore
ma spenti dalle tue labbra
non escono suoni
che restano in te
Le tue braccia di fanciulla
cercavano promesse
a cingere corone d’amore
liete si scioglievano risa
di chiare fontane
dove ti specchiavi
languida aspettando di colmare
di baci le tenere labbra
illuminare la notte
di splendori
per ancora scoprirti bella
invereconda così passavi
ignara degli immani dolori
Avresti voluto la morte
per tacitare gli adunchi
rostri
in un’eternità che mai cessava
dai polsi non si sarebbe
spezzata la catena
vasi di lacrime si sarebbero
colmati ai tuoi piedi
solo nuda roccia il letto che
sognavi di rosa
come le tue guance
dal colore di pietra
Dopo che si è dissolta
la nebbia
brutali soli t’illuminano
carni
invano chiedi che piogge
bagnino le tue labbra
percosse da invincibile arsura
ma aridi seni
più non alimentano fontane
deserti intorno spargono
gli uccelli
che ti divoreranno

L’incantevole sentiero
indicava speranze
sul prato deposti
l’ulivo e l’alloro
intrecciavano corone
per quando si sarebbe levato
il tuo canto
nella mano la fiamma ardeva
nell’estrema favilla
irriverente tendendo
al cielo l’esile collo
nel nodo che ti stringe
Al fato non chiederesti
che di giungere mani
per supplice levare
il tuo pianto
implacabili ti distendono
catene
pasto di uccelli non sazi
inesauribili fami
che ti dilaniano
invano aspetti che scendano
tenebre
per ottenere pietà.

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