Marco Onofrio: La “lingua di plastica della middle class alfabetizzata” che cancella il mondo. Riflessioni in margine ad alcuni libri sull’italiano di oggi (Giorgio Linguaglossa, Stefano Bartezzaghi, Gianrico Carofiglio, Filippo La Porta)

italia tripartita 

Le celebrazioni del 2011 per il 150esimo dell’unità d’Italia hanno dato ampio e giusto spazio al ruolo della lingua come cemento della nazione; ma hanno anche toccato il nervo scoperto rappresentato dalla progressiva e apparentemente inarrestabile “plastificazione” che affligge da tempo il nostro bellissimo idioma (tra i più studiati al mondo). Diversi scrittori hanno analizzato il fenomeno, che non riguarda solo l’Italia: anche in Francia parlano di “langue de bois” (lingua di legno) per indicare il logorio delle parole, soffocate dalla stereotipia dei luoghi comuni e plagiate nei meccanismi mass-mediatici di un bla bla ipnotico, privo di senso. Dunque, un fenomeno transnazionale: determinato probabilmente dalle condizioni di usura e obsolescenza cui è sottoposta la lingua nella società contemporanea, strutturata come un villaggio global-mediatico che in realtà è un emporio mondiale e aggregante di merci (parole comprese). La letteratura stessa è stata di conseguenza sottoposta – con la definitiva perdita di “aura” umanistica – a un processo di de-significazione, di neutralizzazione semantica del significante, corollario del generale indebolimento della segnicità delle parole, che ormai girano a vuoto, consunte, sbiadite, banalizzate.

giorgio linguaglossa dalla lirica al discorso poetico

Si chiede opportunamente Giorgio Linguaglossa (nel suo volume Dalla lirica al discorso poetico, 2010): «È ancora possibile in questo fiume dalla corrente incessante (che è dato dalla fluidificazione di tutte le forme e dalla fluidificazione dei vasi comunicanti, delle segnaletiche, del mondo dei segni propria dell’universo internettiano) stabilire con oggettività la comunicazione dalla in-tensione significante?». La peste che colpisce la lingua, peraltro, diventa terreno di coltura per la proliferazione di certe storture tipiche – nell’accentuazione di alcuni “difetti” connaturali – della “civiltà” letteraria contemporanea, incline a degenerare in un «micidiale guazzabuglio di servilismo mimetico e conformismo, che si propaga alla velocità della luce» (Linguaglossa). Già nel 1994 il “Manifesto della Nuova Poesia Metafisica”, pubblicato sulla rivista «Poiesis», poneva all’attenzione dei lettori tre domande urgenti e ineludibili: «è ancora possibile nominare il mondo? è ancora possibile rendere abitabile la lingua? è ancora possibile l’autenticità nella posizione estetica?»

filippo la portaIn ragione degli scenari aperti dall’analisi oggettiva di queste problematiche, sono recentemente usciti dei volumi sulle dinamiche in corso nell’uso della lingua italiana. Proprio nel 2011 il raffinato enigmista Stefano Bartezzaghi ha pubblicato per i tipi di Mondadori Non se ne può. Il libro dei tormentoni, dove si studia appunto il “tormentone”, questa particolare escrescenza del luogo comune attraverso la banalizzazione fraseologica del potere linguistico di nominare il mondo: un fenomeno non soltanto spontaneo, endogeno alla lingua, ma strumentalizzato, coniato a tavolino come utilmente strategico alla diffusione sociale di un dato consenso che si vuole imporre (si pensi agli slogan politici e pubblicitari). La maggior parte del flusso comunicativo viene infatti sottomesso a meccanismi subdoli, mistificatori: l’omologazione linguistica è in realtà funzionale alle logiche di potere, poiché tende a veicolare l’affermazione del “pensiero unico”, schiacciando le pulsioni divergenti – malgrado la sconfinata, simultanea molteplicità dei messaggi in gioco. Sempre del 2011 è La manomissione delle parole (Rizzoli) di Gianrico Carofiglio, dove l’analisi viene approfondita all’origine del fenomeno degenerativo: secondo Carofiglio «le nostre parole hanno perso significato perché le abbiamo consumate con usi impropri, eccessivi o anche solo inconsapevoli», per cui oggi si rende necessario «smontarle e controllare cosa non funziona, cosa si è rotto, cosa ha trasformato meccanismi delicati e vitali in materiali inerti». Dopodiché, verificato il danno, toccherà «montarle di nuovo, per ripensarle, finalmente libere dalle convenzioni verbali e dai non-significati». Le parole, così, verranno rianimate, restituite cioè alla dignità costitutiva del loro senso, solo se riusciremo a de-automatizzare l’accettazione acritica e la ripetizione ipnotica delle loro formule plastificate.

filippo la porta

filippo la porta

Ma già in precedenza, nel 2009, Filippo La Porta aveva intavolato la discussione, con il suo agile e divertente È un problema tuo (Gaffi editore). Su questo libro intendo soffermarmi in modo particolare. Si tratta di un excursus ironico attraverso i territori dell’omologazione linguistica, del conformismo che risuona, come un ronzio corale, all’interno delle fraseologie standardizzate nella koinè semplificante della middle class. Naturalmente La Porta tiene conto del cambio di registro che generalmente avviene nel passaggio dalla langue alla parole, cioè dalla convenzione linguistica istituzionale alla prassi comunicativa, legata quest’ultima al contesto, al luogo, al tempo, agli attori implicati, a ciò che di volta in volta si dice, performando certe parole, veicolandole a certi tratti paralinguistici, etc. La lingua quotidiana, così, è da sempre intessuta di stereotipi, intercalari, espressioni gergali, modi convenzionali, zeppe, imperfezioni, opacità. Però – e qui sta il punto: mai come oggi.

gianrico carofiglio

gianrico carofiglio

Affrancato dai ceppi dell’ideologia e dalle sue precettistiche, talora ancorate alla  retorica di un vero e proprio dogmatismo espressivo, pieno di slogan e frasi fatte, il gergo verboso o afasico del Sessantotto si è trasmutato nell’amalgama informe di una lingua media banalmente rimasticata, che dà voce alla middle class alfabetizzata a livello mondiale. Una lingua ancor più infarcita di tic, luoghi comuni, metafore stantie, repertori pronti all’uso e al consumo (dall’eponimo “è un problema tuo” a “non c’è problema”, dal famigerato “un attimino” a “in qualche modo”, da “esatto” a “tipo che…”, etc.). Si rileva dunque una corruzione ulteriore dell’efficacia delle parole, dovuta a tutto ciò che, nell’età contemporanea, esenta l’individuo dal dover pensare in prima persona, offrendogli la possibilità di simulare, riciclare, ripetere, usare formule vuote. Una “lingua di plastica” che corrompe il pensiero, con uso spesso improprio dei termini, cannibalismo delle parole e loro progressiva insignificanza, che rinvia alla progressiva insignificanza delle nostre vite, al senso di irrealtà che ci sta intorno. Si parla di “italiano neostandard, o “italiano dell’uso medio” (middle italian), che rispecchia e insieme concorre a plasmare la grande bolla del ceto medio, di stampo piccolo-borghese. Così, insomma, parla e scrive la “gente comune”. L’italiano neostandard tende ad accogliere elementi del parlato generalmente rifiutati dall’italiano standard, più normativo. Ad esempio “lui” “lei” “loro” usati come soggetti; “gli” generalizzato con valore di “le” e “loro”; “ci” attualizzante («che c’hai?»); anacoluti non percepiti come errore; imperfetto al posto del congiuntivo e del condizionale, etc.

Studiare la società serve a capire meglio le dinamiche della lingua; ma vale anche in senso reciproco. È secondo questa valenza bipolare che il libro si trasforma, nel suo “sottotesto”, virando oltre la dimensione da repertorio divertito e divertente di tic linguistici, o esercizio di “pedante vigilanza” sulle parole che usiamo, verso quella più complessa e ampia di un’analisi critica della società attuale. La Porta sviscera le caratteristiche peculiari della middle class in questione, enumerandole come:

italia che tace

1)  pigrizia e inerzia creativa. Voglia di non impegnarsi più di tanto, di avere tutto e subito, di improvvisarsi esperti. Ostilità per la cultura in quanto tradizione, sforzo, lenta assimilazione individuale;

2) snobismo di massa, desiderio di distinguersi in senso esclusivo. Ad esempio, quel tipico compiacimento nel simulare ed esibire un gusto linguistico nobile e selettivo, tra cui il vezzo di criticare i tic verbali, lamentandosi per la catastrofe linguistica in corso («dove finiremo di questo passo?» ‒ e si fa bella figura);

3) spettacolarizzazione di tutto, anche delle tragedie private e collettive;

4) trasgressione controllata e ribellione conformistica. Provare il brivido senza rinunciare alle sicurezze acquisite, alla mentalità assistita: posto fisso e famiglia;

5) omologazione (società piatta e immobile, livellata e soporifera: consunzione degli ideali) ma anche differenziazione: eclettismo, anzi camaleontismo (bancari-sassofonisti, postini che aprono creperie, commessi librai che diventano romanzieri, etc.) e quindi bovarismo diffuso (attitudine al travestimento, impulso di apparire diversi da se stessi, per fuggire da una vita che non ci piace);

6) narcisismo, che nasce dall’insicurezza, dal continuo bisogno di conferme;

7) fuga dall’esperienza reale delle cose: si preferisce la realtà mediata, illimitata, reversibile, manipolabile, telecomandabile, digitalizzabile;

8) fascinazione tecnologica, corsa all’up to date, al possesso dell’ultimo ritrovato;

9) dominio del chiacchiericcio pseudo culturale, del “si dice”, del commento parassitario, del “cazzeggio” lieve da bar sport;

10) culto della leggerezza e della superficie, frivolezza esibita. Velocità compulsiva, pillole di senso, tempi televisivi. Guai alla pesantezza di chi vuole approfondire: rischia di passare per noioso moralista;

11) minimalismo etico e affettivo. Avere dei valori-guida ma essere pronti a modificarli nel più breve tempo possibile.

Italia tricolore

È questo lo Zeitgeist postmoderno da cui esce la società attuale, da cui a sua volta esce (o, se si vuole, a cui è stata sdoganata) la variante neostandard dell’italiano, con i suoi molteplici addentellati televisivi e internettiani. Il problema linguistico – essendo la lingua non solo specchio ma organo del pensiero, modo di guardare alle cose: le parole, a ben vedere, rappresentano i “mattoncini” del mondo – implica anche quello fenomenologico: “cosa è realtà?” si chiede, in ultima analisi, La Porta. La risposta sfugge come non mai, poiché la realtà, oggi, è quanto di più complesso da definirsi. È sempre più difficile distinguere tra realtà e fantasia, io e non-io. Per sentire “reale” un evento dobbiamo addirittura vederlo o rivederlo in televisione. Per vivere una scena come se fosse vera, sembra che occorra immaginarla finta. Osserva La Porta: «Mi sembra che proprio la “realtà” (sempre scandalosa, terribile, misteriosa) è ciò che la classe media, almeno nel nostro Paese, non intende vedere: le sovrappone scenari suggestivi, la nasconde dietro veli scintillanti, la occulta con maschere seduttive, la esorcizza attraverso un’ironia spesso volgare e protettiva».

La “lingua di plastica”, così, fungerebbe da anestetico: velo ulteriore mediante cui nascondere la verità ed eludere un contatto diretto, troppo fastidioso, con le cose. Stratagemma di economia semantica, utile a meglio assecondare il crepuscolo dei grandi sistemi di pensiero, nonché  l’ottundimento generale e collettivo delle coscienze. A forza di alleggerire, di rendersi agili e volatili, si finisce per smarrire la capacità di fare esperienza autentica del mondo. La coscienza del “reale” nasce anzitutto dalla percezione dell’alterità, dal riconoscimento dell’altro, dal dialogo. Il dialogo, anzi, è insito nella struttura stessa del linguaggio: per questo il monologo solipsistico e narcisistico gli nuoce. Gli occhi dell’uomo contemporaneo sono rivolti all’interno; infatti il cono della realtà circostante tende ad assottigliarsi, a soffocare, ogni giorno di più. A tal proposito La Porta propone una nuova “ecologia della lingua” come antidoto alle sue perniciose degenerazioni. Linguaggio e pensiero, data la loro stretta interdipendenza, sono strutturati in modo tale da condizionarsi vicendevolmente. Bonificare la lingua sarà dunque il primo passaggio indispensabile a riaccendere la luce del pensiero.

Marco Onofrio e, sullo sfondo, Aldo Onorati

Marco Onofrio e, sullo sfondo, Aldo Onorati

Marco Onofrio (Roma, 11 febbraio 1971), poeta e saggista, è nato a Roma l’11 febbraio 1971. Ha pubblicato 21 volumi. Per la poesia ha pubblicato: Squarci d’eliso (Sovera, 2002), Autologia (Sovera, 2005), D’istruzioni (Sovera, 2006), Antebe. Romanzo d’amore in versi (Perrone, 2007), È giorno (EdiLet, 2007), Emporium. Poemetto di civile indignazione (EdiLet, 2008), La presenza di Giano (in collaborazione con R. Utzeri, EdiLet 2010), Disfunzioni (Edizioni della Sera, 2011), Ora è altrove (Lepisma, 2013). La sua produzione letteraria è stata oggetto di decine di presentazioni pubbliche presso librerie, caffè letterari, associazioni culturali, teatri, fiere del libro, scuole, sale istituzionali. Alle composizioni poetiche di D’istruzioni Aldo Forbice ha dedicato una puntata di Zapping (Rai Radio1) il 9 aprile 2007. Ha conseguito riconoscimenti letterari, tra cui il Montale (1996) il Carver (2009) il Farina (2011) e il Viareggio Carnevale (2013). È intervenuto come relatore di presentazioni di libri e conferenze pubbliche. Nel 1995 si è laureato, con lode, in Lettere moderne all’Università “La Sapienza” di Roma, discutendo una tesi sugli aspetti orfici della poesia di Dino Campana. Ha insegnato materie letterarie presso Licei e Istituti di pubblica istruzione. Ha tenuto corsi di italiano per stranieri. Ha partecipato come ospite a trasmissioni radiofoniche di carattere culturale presso Radio Rai, emittenti private e web radio. Ha scritto prefazioni, pubblicato articoli e interventi critici presso varie testate, tra cui “Il Messaggero”, “Il Tempo”, “Lazio ieri e oggi”, “Studium”, “La Voce romana”, “Polimnia”, “Poeti e Poesia”, “Orlando” e “Le Città”.

54 commenti

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54 risposte a “Marco Onofrio: La “lingua di plastica della middle class alfabetizzata” che cancella il mondo. Riflessioni in margine ad alcuni libri sull’italiano di oggi (Giorgio Linguaglossa, Stefano Bartezzaghi, Gianrico Carofiglio, Filippo La Porta)

  1. caro Marco,
    farò l’avvocato del diavolo. Ti dirò che non mi convince del tutto questa generale geremiade sulla «lingua di plastica», dell’«italiano neostandard» adottato dalla «middle class» italiana, non mi convince perché mi sembra un buon alibi per il ceto intellettuale colto per prendere le distanze dal generale abbrutimento dei linguaggi e dei comportamenti della middle class. In primo luogo, voglio sgombrare il campo da questo comodo alibi, e chiedermi e chiedere ai lettori: ma davvero da questa sorta di abbrutimento sono esenti gli intellettuali?, mi perdonerai se rispondo io stesso alla questione da me posta e affermo che non lo sono affatto. È vero, gli intellettuali oggi sono dei salariati assunti con contratti a tempo e a risultato. Ebbene, mi chiedo: quali intellettuali hanno oggi in Italia la licenza di esternare tesi non in linea con gli interessi dei loro datori di lavoro? Credo nessuno. Mi chiedo: posso io (esempio fittizio) in qualità di critico che pubblica, che so, con Einaudi, stroncare un libro pubblicato da Einaudi? – E allora, facciamo un po’ di chiarezza e assumiamo un po’ di onestà intellettuale, in questa condizione di sudditanza e di dipendenza degli intellettuali dai loro datori di lavoro che senso hanno le scritture narrative (romanzi, saggi storici, saggi psicologici, filosofici, poetici etc.) se esse sono dipendenti da un “moderatore esterno” che ne permette la pubblicazione?. Qual è il ruolo delle grandi concentrazioni editoriali sulla libertà dei singoli giornalisti culturali e dei narratori e dei poeti? E viceversa: quale influenza ha il ruolo di giornalista culturale sull’editore di riferimento? – Faccio un esempio: Franco Marcoaldi che ha pubblicato finora 4 libri di poesia con Einaudi ha la libertà di criticare i libri di narrativa o di poesia di Einaudi? – La risposta mi sembra del tutto ovvia. E allora, senza ipocrisia o alibi, chiediamoci: da dove nasce questa «lingua di plastica» della middle class intellettuale? Mi dispiace caro Marco Onofrio dirtelo in maniera un po’ brutale e magari poco educata: nasce dalla intrinseca mancanza di libertà che oggi gli intellettuali italiani hanno che si riflette e condiziona la loro stessa attività intellettuale: di qui l’obesità della loro lingua di plastica che fa da pendant alla lingua di plastica della middle class non letterata.
    Sgombriamo quindi il campo dai luoghi comuni e dagli argomenti di comodo e andiamo al nocciolo della questione.

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  2. marconofrio1971

    Caro Giorgio, queste cose non devi dirle a me (“in maniera un po’ brutale e magari poco educata”): il mio articolo intende argomentare le opinioni degli autori citati (fra cui tu) a mo’ di sinossi, e non mi pare di avere espresso opinioni strettamente personali. La stessa definizione di “lingua di plastica” non è mia, l’ha coniata la linguista Ornella Castellani Pollidori. La mancanza di libertà a cui accenni non è cosa di oggi soltanto. Da sempre ogni intellettuale pubblicamente riconosciuto e organico ad un sistema di potere subisce condizionamenti di vario genere. Pensa ai poeti sotto Augusto. Oppure ai letterati di professione nell’ambito delle corti rinascimentali. Che poi questi “ceppi” vengano utilizzati e strumentalizzati in termini di “opportunità”, consegue all’impostazione stessa del problema. Al cane, in fondo, fa comodo la catena al collo, perché gli garantisce l’osso quotidiano. La responsabilità, secondo me, va ascritta soprattutto ai governanti, e a chi li ha eletti nel corso dei decenni. C’è una questione di scelte a monte del sistema. Si è deciso di bloccare l’evoluzione civile del popolo, di farlo regredire, disarmandolo degli strumenti critici fondamentali. Si è puntato a trasformare il “cittadino” in “consumatore” per controllarlo in toto e farne più agevolmente un “suddito” confuso, genuflesso e inoffensivo. Scrive Elsa Morante in un inserto de “La Storia” (1974): «Per l’allevamento sistematico di ‘masse di manovra’ al servizio dei poteri industriali, i mezzi di comunicazione popolari (giornali, riviste, radio, televisione) vengono usati per la diffusione e la propaganda di una “cultura” deteriore, servile e degradante, che corrompe il giudizio e la creatività umana, occlude ogni reale motivazione dell’esistenza, e scatena morbosi fenomeni collettivi (violenza, malattie mentali, droghe)». Basti pensare al rincoglionimento sistematico della gente perpetrato negli anni ’80/’90 con l’avvento delle TV private (propinando “intrattenimento” di vuoto pneumatico, a puntello dei martellanti spot pubblicitari). Lo scadimento linguistico non deve allarmare per motivi di purismo cruscante – benché l’italiano, come ogni altra lingua, meriti di essere difeso e conservato – ma proprio in quanto conseguenza e concausa, a sua volta, del generale scadimento civile del nostro Paese. Per gli intellettuali non c’è scampo: o si mantengono lupi isolati, e allora restano invisibili e non contano niente; o diventano cani con la catena al collo, ma devono abbaiare con la voce del padrone, nelle comode cucce dell’industria culturale. E’ un sistema che, evidentemente, si autotutela da ogni spinta eversiva di cambiamento. Pecunia omnia vincit!

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  3. caro Marco,

    tu scrivi: «Studiare la società serve a capire meglio le dinamiche della lingua». Giusto. Solo che il mio punto di vista in quanto autore di poesie e critico militante si situa all’opposto: studiare il linguaggio poetico e narrativo aiuta a capire meglio le dinamiche della lingua di relazione. Voglio dire che fare critica di un testo poetico significa squarciare i veli del conformismo letterario e svelare i riti e i cliché del linguaggio letterario medio; e questo lavoro, come tu ben sai, oggi in Italia non lo fa nessuno, ci si limita a fare una critica di accompagnamento, sostanzialmente celebrativa o nel migliore dei casi retorica, rituale.
    La mia replica al tuo articolo non vuole essere una critica elitaria ma vuole rovesciare gli assunti di partenza dai quali partono i sociologi della lingua e i giornalisti letterari; e mi sono limitato a indicare che ci sono dei conflitti di interessi abbastanza evidenti nella professione di critico letterario (sarebbe meglio dire di giornalista culturale), e allora sarebbe bene sgombrare il campo da comodi alibi: anche la lingua della critica è spesso, anzi, quasi sempre, una lingua di plastica, una lingua che si guarda bene dall’approfondimento critico ma che preferisce restare in superficie.
    C’è oggi in Occidente una poesia rituale che richiede e contempla una critica rituale, celebrativa. Di qui, caro Marco, come tu ben sai, non se ne esce, e non c’è bisogno di ricorrere alle tesi della Scuola di Francoforte per capire queste cose.
    E allora, io dico solo una cosa: andiamo al fondo della questione, quanta poesia, narrativa e critica di plastica ingombrano le librerie italiane? Di chi è la colpa? Siamo sicuri che gli intellettuali della letteratura (i giornalisti letterari) sono esenti da responsabilità?

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    • marconofrio1971

      E’ un “carrozzone” di connivenze, con processi di reciproco aggiustamento delle forze in gioco. Le librerie espongono quasi solo ciò che vende. Ciò che vende lo decide il pubblico, sulla base del mainstream editoriale, pubblicitario e giornalistico. Il mainstream si basa a sua volta sui gusti del pubblico generalista: i grandi editori pubblicano e pubblicizzano ciò che si prevede – in base ai precedenti e/o alle indagini di mercato – possa piacere o interessare alla gente. I recensori sono (sono costretti ad essere) a servizio di tutto ciò. La proprietà di un giornale, di una TV, di una radio HA eccome il suo peso specifico nel condizionamento delle viceversa sbandierate libertà di opinione. Il critico che scrive sul giornale X si guarderà bene dallo stroncare il libro dell’editore Y, pur avendo teoricamente diritto di farlo, se il proprietario del giornale e della casa editrice è lo stesso, o se, pur diversi, appartengono allo stesso gruppo finanziario. E la giustificazione che saprà darsi, tacitando il diritto di opinione, è che “non si sputa nel piatto dove si mangia”. Triste cosa, ne convengo, ma è così. Il meccanismo di feedback determina facilmente dinamiche di circolo “vizioso” e (meno facilmente) “virtuoso”. Più si abbassa il livello qualitativo della proposta culturale, più si abbassa il livello critico del pubblico; più si abbassa il livello critico del pubblico, più si abbassa il livello qualitativo della proposta culturale, e così via. Occorrerebbe spezzare il circolo vizioso, ma alle trombe critiche fuori dal coro viene imposta da sempre la sordina. Sta agli intellettuali liberi consociarsi e trovare amplificatori alternativi. Il blog è uno di questi.

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  4. Ambra Simeone

    Caro Marco,

    davvero interessante questo tuo articolo. Ci sono tutta una serie di libri che trattano il problema a livello linguistico e penso che tu ne abbia citati molti.
    Quando dici «Studiare la società serve a capire meglio le dinamiche della lingua» non è una cosa che va a senso unico, vale anche il contrario, o meglio, la lingua è prodotto della società ed è anche in perenne trasformazione con essa. Le due cose non si posso analizzare se prese divise, vanno di pari passo, seguono le modificazioni interne, non si può studiare una cosa per capire l’altra e il contrario. Inoltre non sono criticabili o giudicabili in termini estetici sono esattamente dei fatti storici di cui prendere atto, da cui trarne delle conclusioni (che poi non sono mai veramente concluse). Comunque la lingua o la letteratura non sono conseguenza di una società contemporanea, ne sono il prodotto nel bene e nel male, non si può dividere la lingua dalla società! Qui poi entra in campo anche la percezione della letteratura, che è un’altra storia!

    Per cui non tutti gli autori che utilizzano questo tipo di “lingua di plastica” (vedi Aldo Nove uno dei primi autori a farne il suo capo saldo) la usano perché ne sono vittime, anzi il contrario, ne vogliono fare una critica a tutto ciò che essa rappresenta, appunto la società contemporanea.

    Quando dici “La maggior parte del flusso comunicativo viene infatti sottomesso a meccanismi subdoli, mistificatori: l’omologazione linguistica è in realtà funzionale alle logiche di potere, poiché tende a veicolare l’affermazione del “pensiero unico” sono d’accordo con te, ma devo dire anche che ci sono molti autori che tramite il linguaggio pubblicitario tendono a demistificarlo dall’interno, insomma non si può ad ogni modo generalizzare!

    è un po’ come uno scienziato che analizza la nascita e crescita di un fiore deve osservare e comprendere ciò che la natura impone diciamo così…

    su questo punto penso che abbia ragione Giorgio, la figura di critico non è assimilabile a quella del linguista o sociologo dell’arte!

    comunque mi fa piacere leggere articoli che interroghino la sociolinguistica è proprio il mio campo, ma non lo avverto per nulla vicino a quello della critica.

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  5. La neolingua di Orwell, l’alfabetizzazione e la diffusione della lingua italiana grazie alla televisione, fino ad arrivare alla vecchia se pur secondo me ancora valida analisi di Debord sulla cosidetta società dello spettacolo:
    Nel mondo falsamente rovesciato, il vero è un momento del falso. Mi sembra più che ovvio, oltre alle immagini, ne facciano le spese la lingua parlata (politici che sbagliano verbi durante le interviste), giornalisti a corto di sintassi, autori che basano le loro fortune sugli strafalcioni. Insomma di carne al fuoco ce n’é tanta, ma la questione è una sola: tutto sta dov’é profitto, ai perdenti l’oblio, a meno che PRIMA non facciano la fine di un Morselli.

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  6. marconofrio1971

    Cara Ambra, tu scrivi «Quando dici “Studiare la società serve a capire meglio le dinamiche della lingua” non è una cosa che va a senso unico, vale anche il contrario, o meglio, la lingua è prodotto della società ed è anche in perenne trasformazione con essa. Le due cose non si posso analizzare se prese divise, vanno di pari passo». Sono d’accordo con te. Infatti nel mio articolo, se leggi bene, ho scritto «Studiare la società serve a capire meglio le dinamiche della lingua; ma vale anche in senso reciproco», cioè – come dici tu – studiare la lingua serve a capire la società di cui è prodotto e che, a sua volta, contribuisce a determinare. Non mi sembra di avere generalizzato nell’attribuire a TUTTI gli autori la “lingua di plastica”; io stesso, in narrativa, sono un plurilinguista postgaddiano che fa pelo e contropelo alle parole. Il problema nasce dai parametri in voga nell’editoria che conta, la quale – per venire incontro ai desiderata del vasto pubblico – espunge a priori (con editing sistematici) ogni eversione critica alla melassa plastificata dell’italiano medio. Quando ricevono un dattiloscritto fuori norma, se mai arrivano a leggerlo, sobbalzano dalla sedia, respingono, censurano, cestinano. E così tutto si appiattisce sempre più…

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    • Ambra Simeone

      Caro Marco,

      hai ragione ma permettimi di spiegarmi meglio…
      Il mondo dei ghostwriter e dei correttori di bozze creativi come la finanza 🙂 è però altra cosa dalla lingua vera e propria e dal fatto che esista davvero un lingua di plastica nei “parlanti reali” e negli “scriventi reali”.

      Tu sommi due cose: l’appiattimento commerciale stereotipato ed estetico scelto dalle grandi case editrici (le multinazionali del libro) e quello reale che va di pari passo con la società in quanto tale.
      Certo una cosa è il commercio (per il quale sono d’accordo con te) e un cosa è la realtà. Come una cosa è il mondo della tv e una cosa è quello reale!

      “Studiare la società quindi è capire la lingua” è fuorviante, se si pensa alla società solo come a una multinazionale editoriale!
      Studiare il mondo del commercio e imporre una lingua media, di un italiano medio, per una società di borghesi medi è più sensato (e direi anche giusto, niente di nuovo sotto il sole, direi), lo studiano invece molto bene le grosse case editrici che come dici tu stesso si basano su percentuali di gradimento per la vendita della merce libro.

      Ma allora che ne dici di alcuni casi letterari pompati fino all’inverosimile dal commercio editoriale che della lingua media non hanno nulla?

      Prendiamo il caso Camilleri o il caso Tondelli…

      per me si può (purtroppo) commercializzare tutto, anche ciò che non è medio affatto, basta che sia ben proposto e promosso!
      La pubblicità dopo tutto è pubblicità!
      Se gli alti vertici del mondo editoriale decidessero domani che la lingua di Giorgio Linguaglossa o quella di Sagredo è da promuovere, stai ben certo che lo farebbero, ma allora diventerebbe lingua standard, neo-standard, media o cosa? sarebbe solo una lingua entrata nel commercio, ma non l’unica né tanto meno quella rappresentativa di tutta una società!

      Ecco perché credo che legare la lingua e la società al mondo del commercio è operazione non facile, non riassumibile in semplici cause e conseguenze, e soprattutto non analizzabile in compartimenti stagna!

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      • Ambra e Prof. Onofrio, in italia c’è una quindicina di persone che per mestiere scrive da tempo immemorabile le leggi dello stato, cambiano (?) i governi ma loro ci sono sempre, faccio un esempio facile, facile tratto dal mio lavoro:

        Il comma 13 dell’unico articolo della Legge di Stabilità 2015…

        13. Ai fini della determinazione del reddito complessivo di cui all’articolo 13, comma 1-bis, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, come sostituito dal comma 12 del presente articolo, non si applicano le disposizioni di cui all’articolo 3, comma 1, della legge 30 dicembre 2010, n. 238, all’articolo 17, comma 1, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, e all’articolo 44, comma 1, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, come modificato dal comma 14 del presente articolo.

        (Il bonus di 80 euro per chi riesce nella traslazione ..)

        Giuro che è vero, pertanto se in questo paese non si riesce nemmeno a scrivere una legge dotata di un minimo di leggibilità, non dico di chiarezza, andiamo a criticare gli artisti? loro si adeguano.

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      • marconofrio1971

        Cara Ambra, permettimi di dissentire dalle tue osservazioni, poiché mi sembrano “scantonare” da quanto io ho effettivamente scritto nell’articolo, peraltro riassumendo (tengo a ribadirlo) le posizioni di alcuni studiosi. E’ Filippo La Porta, non io, a sostenere che “studiare la società è capire la lingua” etc. E così per le altre cose riportate. E’ semplicemente un articolo-sinossi che vuole argomentare la questione, senza alcuna pretesa definitoria o definitiva. Dov’è, sempre nell’articolo, che io sommo “due cose: l’appiattimento commerciale stereotipato ed estetico scelto dalle grandi case editrici (le multinazionali del libro) e quello reale che va di pari passo con la società in quanto tale”? Dalle tue parole evinco una tendenza a interpretare ciò che io scrivo come soggetto a un vizio di impostazione riduzionistica, come se a me piacesse semplificare o fossi un cultore del succitato “pensiero unico”. Ti posso assicurare (e chi mi conosce un minimo può confermarlo) che se c’è un cultore della complessità e uno alieno dai “compartimenti stagni” o dai riassunti di “semplici cause e conseguenze”, beh, quello sono io… 🙂

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        • Ambra Simeone

          Caro Marco,

          non volevo semplificare il tuo post ma semplicemente ragionarci su… se citi alcune affermazioni è perché suppongo le sostenga, se non è così allora di cosa parliamo? allora le mie considerazioni sono da rivolgere agli studiosi che citi non a te! 🙂

          comunque le mie erano riflessioni e il bello di leggere un post è di argomentare e commentare altrimenti perché pubblicarlo?

          tengo anche a sostenere con forza che a me piace enormemente riflettere su queste questioni, sopratutto sociolinguistiche il che di per sé già conferma che il tuo post non è stato affatto sottovalutato, almeno non da me!

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          • marconofrio1971

            Cara Ambra, non ho detto che hai sottovalutato il mio articolo! E certo, ovviamente il bello di un post è “argomentare e commentare”, ma il fatto stesso che tu lo ricordi implica un certo riflesso difensivo alle mie parole; però io non volevo attaccarti: ho solo detto che dissentivo dal tuo commento! Rivendicavo semplicemente la possibilità/necessità di “argomentare e commentare” restando nel solco delle cose effettivamente scritte nel post. Meno ovvio è supporre che se cito alcune affermazioni vuol dire che io le sostenga. Non c’era alcun tono emotivo o personalistico nel mio articolo: l’ho impostato su un piano oggettivo e referenziale. Comunque grazie per aver animato la discussione. Con simpatia 🙂

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            • Ambra Simeone

              Caro Marco,

              mi sembra di aver tirato fuori riflessioni importanti che dopo il tuo lavoro oggettivo non hanno portato ad una soggettiva, se cosi di può chiamarla!

              Ma va bene comunque… bella discussione! 🙂

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  7. Come al solito l’articolo di Marco Onofrio mette il dito sulla piaga. La sua ricognizione intorno alle tesi di autorevoli personalità sulla «lingua di plastica».
    Qual è la piaga? Qual è il punto?
    Mi limito a porre un interrogativo. Quali sono le ragioni che hanno determinato un critico come Alfonso Berardinelli il quale aveva stroncato il primo Magrelli quale autore di “compitini”, a ribaltare di 360 gradi il suo giudizio sull’ultimo Magrelli qualificandolo come autore di punta? Ci sono forse di mezzo questioni editoriali? Intendo dire che se vuoi pubblicare con Einaudi non ti puoi permettere di stroncare un autore che è un fiore all’occhiello dell’Einaudi? Ed ecco spiegata la retromarcia del critico romano.
    Credo che non ci sia altro da aggiungere.

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  8. Valerio Gaio Pedini

    veniamo ad un punto: la demenza della satira! Non è che prendendo per il culo un sistema, scimmiottandolo, tu lo superi! O lo distruggi! No, lo pubblicizzi e basta. Ed è anche un errore dei critici, però è giusto che avvenga. La pubblicità in sé è già una distruzione concettuale, in quanto quantitativa-la pop Art funziona allo stesso modo. Ma vi è una cosa ingombrante: il referente-che spesso non comprende la desacralizzazione di Warhol e quindi sacralizza i Beatles, così che i Beatles perdano quella poca qualità che hanno (ad nauseam). Ma è proprio così un po’ tutto, sociologicamente. Io giudico il sociologo spettatore, che fa il suntino di ciò che vede e non lo critica è un cretino: votato alla cretinaggine. Per me la sociologia della lingua non deve mai essere esente dalla critica e viceversa, come per secoli la filosofia non lo è mai stata. Tutto questo per dire che il vero sociologo deve odiare la società.

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  9. Ivan Pozzoni

    Gentili tutti, da sociologo dell’arte contemporanea, rispondo brevemente:
    1] la macro-editoria (o necroeditoria) non è cultura. Chiamiamola col suo nome reale: società di marketing [«Le librerie espongono quasi solo ciò che vende. Ciò che vende lo decide il pubblico, sulla base del mainstream editoriale, pubblicitario e giornalistico. Il mainstream si basa a sua volta sui gusti del pubblico generalista: i grandi editori pubblicano e pubblicizzano ciò che si prevede – in base ai precedenti e/o alle indagini di mercato – possa piacere o interessare alla gente. I recensori sono (sono costretti ad essere) a servizio di tutto ciò. La proprietà di un giornale, di una TV, di una radio HA eccome il suo peso specifico nel condizionamento delle viceversa sbandierate libertà di opinione. Il critico che scrive sul giornale X si guarderà bene dallo stroncare il libro dell’editore Y, pur avendo teoricamente diritto di farlo, se il proprietario del giornale e della casa editrice è lo stesso, o se, pur diversi, appartengono allo stesso gruppo finanziario. E la giustificazione che saprà darsi, tacitando il diritto di opinione, è che “non si sputa nel piatto dove si mangia”»]. Gli addetti, o adiacenti, alle società di marketing, i c.d. «mestieranti», macroeditori, autori, giornalisti, recensori, distributori e markettari vari, di ampio o minore spessore, non fanno cultura: fanno sacrosante markette e ricevono, in cambio, stipendi, onori, contratti, offerte di stampa gratuite. Quindi, norma n.1 della «militanza» artistica: diffidare di macro-editori, autori, giornalisti, recensori, distributori markettari. Fanno marke-tting.
    2] Come uscire da tale deleteria situazione feedback (cfr. Onofrio)? Eliminare, in senso teorico, i «mestieranti», cioè smettere di fare credere che facciano cultura esclusivamente coloro che sono retribuiti e venduti (in entrambi i sensi del termine). Chi è retribuito, difficilmente fa cultura. Essere «militanti», cioè rifiutare stipendi, onori, contratti, carriere, offerte di stampa gratuite, e cercare di orientare i «dilettanti» alla «militanza» (stornandoli dalla «mestieranza»: fu l’illusione, debitamente creata, della fama/mestiere dell’artista – inoculata da editori senza scrupoli- che uccise indirettamente l’amico Simone Cattaneo). Fare, cioè, «democrazia estetica»: a] l’organizzatore culturale deve essere rigorosamente socialista; b] i micro-editori devono essere salvati, tutelati, dalla voracità dei macro-editori, e devono essere rigorosamente consorziali, consorzi di artisti indipendenti (micro-editoria socialista); c] la critica deve essere «militante» e pragmatica (cioè, oltre alla forma di un testo, deve tenere conto dei suoi contenuti, della vita dell’artista, delle sue eventuali contaminazioni mestierantistiche, delle markette effettuate, del suo ruolo nell’editoria e nella società commerciale tardomoderna). Porto avanti questi discorsi da anni, coi fatti: «militante», mai mestierante; micro-editoria socialista (con consulenze a micro-editori in crisi, sempre a titolo gratuito); sostegno ad una seria «democrazia estetica».

    E se, improvvisamente, arrivasse il contratto Einaudi da xxx €, come forma di acquisto del rompicojoni (mi sono arrivate, da alcune case editrici “medie” offerte commerciali di «mestieranza» con la condizione io abbandonassi le mie idee di micro-editoria socialista, documentabili, dato che ho il vizio andreottiano di archiviare tutto)? Io li ho serenamente mandati affanculo, e ne sto subendo varie, interessanti, conseguenze (tra cui, una serie di articoletti su internet di freelance da trenta denari dove sono dipinto come un cialtrone, un truffatore, un difensore strenuo delle EAP contro l’interesse dell’autore che “deve essere assolutamente retribuito”). Ma voi?!

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    • Caro Pozzoni, io dico, e lo sappiamo tutti penso, che a volte hai prese di posizioni un filo stravaganti, concedimelo, ma il lavoro che fai per giunta aggratis ti rende ai miei occhi oltre che un vero galantuomo, un autentico garante di un’editoria valida, ahimè destinata all’underground che altrimenti non vedrebbe la luce.

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      • Ivan Pozzoni

        Caro Flavio, il fatto è che io resto un cretino in un mondo di squali. Però un cretino che picchia duro, e si difende. Davanti ad una situazione così compromessa, non vedo altre vie d’uscita che soluzioni stravaganti (cfr. èxtra-vagante, cioè che cammina fuori dalle strade consuete). Per lo meno, davanti a tanti troioni che battono la strada del successo (marke-tting), io mi contento di battere strade alternative, liminali. Insomma, sto sempre con ogni forma di trans. 🙂

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      • Ivan Pozzoni

        Però, cretino sì, scemo no. Perché le azioni politiche che porto avanti da anni (cultura è azione politica [diversa dalla politica istituzionale, che è marketting]), hanno saldissime radici teoretiche. Sono concretizzazioni di una teoresi complessa e spiegata minuziosamente in riviste, editoriali, antologie, monografie (e, fortunatamente (?!), da quasi nessuno letta). Non vorrei che da certuni di senno minus – a differenza tua- tale èxtra-vaganza (sempre in metonimia debordiana e metafora derridaiana) sia interpretata come esempio di pirlonaggine, di ignoranza, di pressapochismo. Perché il minus habens domina l’orizzonte sociologico italiano, essendo lui il vero bersaglio dell’apparato marketting, e, tendenzialmente, ha il vizio di indicare come inutile/ignorante l’intelle(a)ttuale, dando retta a e santificando ogni finto intellettuale italiano (i famosi markettari).

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    • Ambra Simeone

      Trovo l’unica proposta del blog quella di Ivan una svolta interessantissima che mette pace tra editore, autore, critico e lettore! Difficilissima da attuare… meno male che c’è chi combatte ancora (nonostante i detrattori da 30 denari anche questi si comprano e vengono comprati) per un’ideologia culturale!

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      • Ivan Pozzoni

        Progetto complesso e noioso, Ambra. Noto che sul blog, e ovunque altrove, dopo tre righe di mio intervento, la gente si anestetizza (temo abbia ragione Flavio, si tende a generalizzare il mio metaforizzare éxtravagante). Forse che, in realtà, resti in tutti, anche nei grandi moralizzatori, un briciolo di speranza di ritrovarsi anch’essi in Einaudi e Mondadori, di raggiungere il famigerato successo? Di lì il mio: «Ma voi?!», buttato lì, quasi innocuo, a chiudere. 🙂

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        • Caro Pozzoni,

          io non sono un moralizzatore né voglio fare la morale a nessuno, semmai mi piace ogni tanto pensare criticamente… E poi, dimmi perché se un giorno arrivasse una richiesta di Einaudi di pubblicare qualcosa di mio perché dovrei rifiutare?, in nome di quale moralizzazione dei pubblici costumi? Se Einaudi ha rifiutato una mia opera, questo fa parte del gioco, lo avevo messo nel conto. Credo che sia chiaro che io non faccio la morale a nessuno ma non ti permetto neanche a te di farmi la morale. Facciamo un esempio: se domani mi arrivasse una richiesta di tradurre e pubblicare mie poesie dalla Faber, dimmi tu, dovrei rifiutare in nome di quale alto valore moralizzatore? – Lascia che ti dica che la dirittura morale di un autore non si misura in base a preconcetti comportamenti di moralizzazione della vita pubblica… l’unica morale che ammetto è quella contenuta nei miei testi, al di fuori di essi non c’è nessuna morale, quella lasciamola ai preti.

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          • “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”
            Immanuel Kant

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          • Ivan Pozzoni

            Caro Linguaglossa, mica eri tu il moralizzatore. Ti sei sentito tirato in ballo? 🙂 No, comunque non mi riferivo a te: se ti arrivasse un’offerta Einaudi o Mondadori, esci con Einaudi e Mondadori, ed entra nel sistema marketing. Non è mica vietato! Se ti strapagassero, sarei contento: l’importante è che ti facciano scrivere ciò che desideri, in massima libertà, senza vincoli contrattuali; o, almeno, se ti mettessero, come è chiaro che fanno, vincoli contrattuali, fatti retribuire bene, fai il «mestierante», e in tutta correttezza, smetti di fare il «militante». Perché il milite retribuito è un mercenario. E io, a te, come mercenario, non ti ci vedo. Però se ne vedono tante… Lungi da me l’idea di moralizzarti; al massimo, ti a-moralizzerei, o dys-amoralizzerei. La moralità / immoralità / amoralità di un uomo si “riscontra” da ogni suo atto/fatto: i testi sono atti, o, in alcuni casi, fatti (ghost writers).

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          • Ivan Pozzoni

            Cosa c’entri tu con il moralizzatore?! Ti ho mai detto che sei un moralizzatore? TU scrivi: «Intendo dire che se vuoi pubblicare con Einaudi non ti puoi permettere di stroncare un autore che è un fiore all’occhiello dell’Einaudi? Ed ecco spiegata la retromarcia del critico romano.
            Credo che non ci sia altro da aggiungere». Quindi codesto star system, marketing system, deleterissimo, dobbiamo combatterlo con ogni energia o dobbiamo combatterlo con calma, in attesa di una sua chiamata?! La tua affermazione mi appariva chiarissima e incontrovertibile. “No: nel sistema non si entra, non si scende a compromessi col sistema commerciale”. Probabilmente desideravi affermare: “si, entriamo, e cambiamo il sistema dall’interno (?!), rendiamolo meno commerciale, meno star system, meno marketing system”. Capita: ti ho frainteso. Io resto dell’idea: con questo sistema che VOI mi descrivete ([«Le librerie espongono quasi solo ciò che vende. Ciò che vende lo decide il pubblico, sulla base del mainstream editoriale, pubblicitario e giornalistico. Il mainstream si basa a sua volta sui gusti del pubblico generalista: i grandi editori pubblicano e pubblicizzano ciò che si prevede – in base ai precedenti e/o alle indagini di mercato – possa piacere o interessare alla gente. I recensori sono (sono costretti ad essere) a servizio di tutto ciò. La proprietà di un giornale, di una TV, di una radio HA eccome il suo peso specifico nel condizionamento delle viceversa sbandierate libertà di opinione. Il critico che scrive sul giornale X si guarderà bene dallo stroncare il libro dell’editore Y, pur avendo teoricamente diritto di farlo, se il proprietario del giornale e della casa editrice è lo stesso, o se, pur diversi, appartengono allo stesso gruppo finanziario. E la giustificazione che saprà darsi, tacitando il diritto di opinione, è che “non si sputa nel piatto dove si mangia”»]), nessun compromesso, mai. Non è moralizzazione: è la MIA forma di morale che mi vieterebbe di scendere a compromessi. Gli altri, in fondo, fanno, hanno fatto, e faranno come sembra loro opportuno (forma di moralità diffusa, l’utilitarismo).

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    • antonella zagaroli

      Ivan hai espresso con estrema chiarezza le mie parole silenziose, il mio dire no a chi negli anni mi chiedeva compromessi e che, per fortuna, mi ha permesso di vivere appartata e libera.
      Grazie

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      • Ivan Pozzoni

        Antonella, adesso è momento di farne un’estetica, una teoria delle arti, della critica, dell’editoria. Lo scrivevo, nel lontano (…) 2011, nell’editoriale al n.1 della mia rivista L’arrivista [I. POZZONI, Il dialegesthai come fondamento di democrazia: valutazione, valore e decisione, in “L’arrivista”, Villasanta, Limina Mentis, n. I/1, 2011, 5/6], e non ho mai smesso di scriverne.

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  10. antonio sagredo

    “Sagredo è da promuovere” ? – Ambra, perché bestemmi? Sagredo è sempre stato bocciato, e si è tanto assuefatto alle bocciature, che una sola promozione lo annichilerebbe! Io non voglio essere promosso! Sono peggio di Pinocchio e di Arlecchino, messi insieme! Ricordo che spezzai una gamba a un professore di matematica – approfittai durante una partitelle di calcio nel cortile di una scuola, così da apparire un incidente! Non capiva la mia geometria!
    ———————————————————–
    “e chiedevo ai professori di ripetere, il più delle volte
    mi mandavano fuori: ce l’avevano sempre con me!”
    —————————————————————–
    “li volevo lasciar morir di fame! – e cucchiai dalle finestre o dalle terrazze di quel Palazzo Muschio, e forchette non scagliassi giù per colpire qualcuno…il mio maestro!…averlo fatto sarebbe stata la mia fortuna!…o sù, contro il cielo stupito da tanta precoce rivolta e, come spesso, sui vetri infantili della scuola elementare di via Veneto.

    …e accuso il cielo sordo coi miei vani gridi…”
    ———————————————————
    “Si disperava per questo, già credeva di essere affetto d’acalculìa, già pensava che non avrebbe mai risolto i com-pi-ti-ni di matematica, a casa!, a scuola! e mi davano un motivo per fuggire fuori con gli occhi confusi dalla poliopìa imminente, in strada! e giù per le scale a quattro a quattro, con in bocca, appena sulle labbra, le mie parole accorate: per me, soltanto per me, alla malora!
    Alla ricerca di una piazza qualunque, di una prospettiva, immensa! da conquistare… libero da quell’opprimente palazzo!
    ———————————————————
    Dunqua Ambra, capisco le ragioni di marco, di Giorgio e degli altri….
    ma sai : …dopo una infanzia spesa ad addestrarmi per la visione!”
    ho un mia lingua, un linguaggio, uno stile che è andato oltre la mia sopportazione. di essere davvero promosso!

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  11. gabriele fratini

    Con tutto il rispetto per gli autori, con la pagina di oggi siamo sull’orlo del più becero snobismo intellettuale che si conosca. Se il linguaggio medio è infarcito di luoghi comuni, altrettanto pregni di luoghi comuni “accademici” mi sembrano i saggi o frammenti di saggi che ho letto. Tutte “lamentazioni” che si sentono da 50 anni e più, sempre le stesse. Un po’ vi conosco ormai e so che potete fare molto meglio di così. Un saluto. 🙂

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  12. da una citazione inviatami da Flavio Almerighi:

    “E senza dubbio il nostro tempo… preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere… Ciò che per esso è sacro non è che l’illusione, ma ciò che è profano è la verità. O meglio, il sacro si ingrandisce ai suoi occhi nella misura in cui al decrescere della verità corrisponde il crescere dell’illusione, in modo tale che il colmo dell’illusione è anche il colmo del sacro.”

    L. Feuerbach, Prefazione alla seconda edizione de «L’essenza del Cristianesimo».
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  13. paolo giacosa

    Il sigmor Fratini che non conosco mi sembra davvero sbrigativo nel suo giudizio – che definirei demenziale se non fosse vero. ma il fatto è che tale giudizio è a sua volta snobistico e privo anche di forza, dopo di che lamentazioni, luoghi comuni e altro si son sempre stati da prima di Omero, perciò inutile, vanesio, lamentoso, comune luogo è ciò che esprime questo signore, il quale dovrebbe armarsi di armi critiche più elaborate ed efficaci… mi viene da dir altro, ma taccio per rispetto al blog a cui mi affaccio la prima volta, e per questo non vorrei sembrare scostumato.
    E mi scuso con tutti, ma vorrei lodare l’intervento del signor Onofrio Marco, grazie a tutti.
    paolo giacosa

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  14. paolo giacosa

    Signor Fratini, lei è soltanto un trombone, un bla bla bla… un filisteo…
    le ho suggerito di affrontare temi e autori con dovizia critica: è meglio che non intervenga, se non per dire seriamente… non è stato in grado di criticare analiticamente quanto ha scritto il signor Onofrio, figuriamoci se è in grado di spiegare minimamente dei versi… Lei offende ed è il solo mestioere in grado di fare, a lei auguro davvero una buona giornata, semplice come può essere il muggito di una mucca!

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    • gabriele fratini

      Vede Giacosa io non sono nessuno ma almeno mi firmo col mio nome, non soffro di sdoppiamento della personalità come Anthony Perkins in Psycho.
      Mi pare molto strano che non abbia prodotto alcun commento su un qualsiasi blog e come incipit si senta in dovere di commentare un commento altrui. Lei è solo una maschera che non avendo il coraggio di svelarsi ha scelto il nome di un librettista dell’800 per celare la sua identità. E faccia pace con la tastiera. Saluti.

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  15. antonio sagredo

    Mi appello a Giorgio Linguaglossa affinchè Almerighi la smetta: forse ci sguazza nel fraintindimento! Già ho chiarito moltissimi mesi questa situazione… ancora c’è qualcuno che mi imita e non ci posso fare nulla. Mi dispiace per Fratini e per Almerighi.
    a. s.

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    • gabriele fratini

      Sagredo non pensavo assolutamente a lei, che nei suoi passati commenti poco gentili verso il sottoscritto almeno ha sempre avuto il buon gusto di firmarsi. Tra l’altro quando si limita a scrivere solo di letteratura senza invettive la leggo sempre con piacere. Buona giornata.

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      • Gentile Gabriele Fratini,
        non ti eri ancora affacciato a questo pregevole blog quando un buontempone (eufemismo) continuava a insultare o criticare velenosamente con alias del tipo “Antonio Carracci”, “Sparapizza” e altri, scelti tra artisti defunti da secoli o nomi comunissimi o soprannomi da fumetti per bambini, che non sto a trascrivere perché preferisco non perdere tempo a cercarli nell’archivio.
        Ne ho alcuni anche nella mia posta elettronica.
        Non te la prendere! C’è da farsi sangue cattivo e non ne vale la pena.
        Un cordiale saluto
        Giorgina BG

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      • Valerio Gaio Pedini

        Non sono nemmeno io! Ci sono pochi cazzo.

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    • a Sagré eddai! Mica ho detto che sei tu… comunque la prima gallina che canta è quella che ha fatto l’uovo

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  16. antonio sagredo

    non dedicati questi versi a Andrea e Nove, ma che li leggono e imparino!
    Sono già dedicati a un somarello, che ha dignità da cendere!
    a. s.

    ——————————————————————————-
    a Platero, il nero

    Il gallo ha cantato per la terza volta, ma Ti dovrai fidare di me
    se il verso mio ha affilato la cresta col coltello del meriggio,
    e, se la notte è leuco volto, Platero il nero, ha ragliato
    il suo martirio, e s’è accasciato con le pietre sul giaietto ombrato.

    Sapevo, Ramón, che la tua parola è divinazione di ciò che è lontano,
    e imbelle io ancora rumino il madrigale del mio benestare come una
    fontana; la noria solleva altrove le grida occidentali per una alcova
    che muta in divano il futuro suo trascorso… agonizza la palma sulla piazza!

    E abbracciai le ossa dei miei antenati per intenerire la voce cava
    e le orbite del gelido midollo ciarlare i secoli… avvinazzati ciondolavano
    il capo e le braccia per una tregua o una siesta nel patio rovente
    che al velluto arancione mescolava pigro un verde di ramarro.

    E i giudizi e i trionfi tracimavano dialettici marosi sulle pareti, orientali
    di biacca per incidere, prima di una memoria, le leggi per nuovi ordini,
    e generare nei grecori le Furie, fuochi e luci nella barbarie, ma in corsa
    non reggevano i ritmi inauditi, e le fughe moresche, del loro stesso canto!

    Antonio Sagredo

    Roma, 22/23 ottobre 2014

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  17. antonio sagredo

    non dedicati questi versi a Andrea e Nove, ma che li leggono e imparino!
    Sono già dedicati a un somarello, che ha dignità da cendere!

    mi scuso ci sono due errori:
    leggano invece di leggono
    vendere invece di cendere

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    • Valerio Gaio Pedini

      Antonio a quell’ora dormiva! Dato che lo chiamavo io. E poi sarei stato il primo a saperlo. Altra cosa i commenti degli alias di Sagredo sono sempre seguiti da una battuta di Sagredo. Ricordiamo quelli di Sparapizza. Sagredo disse subito “oh, che nome strano!”. Quindi Flavio no, non è lui. Ho imparato a riconoscerlo, dopo la faccenda dell’Asino Crusca.

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  18. Caro Ivan Pozzoni,

    la mia posizione è questa: io non combatto contro nessuno a priori, il sistema degli intrecci editoriali, letterari, politici, clientelari e massonici è talmente grande e profondamente radicato nel nostro paese, che credo che un atto solitario di un esterno al sistema può essere paragonato al battito del volo di una farfalla sopra un mare agitato. Quindi, il problema del combattimento mi sembra chiuso. Io, molto modestamente, mi limito a mettere in evidenza quella che ritengo buona poesia e buona narrativa da quello che considero pessima poesia e pessima narrativa. Tutto qui. Sapendo che l’assetto delle cose non cambierà né a breve né a medio né a lungo termine. nonostante tutto, continuerò nel mio impegno.

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    • Ivan Pozzoni

      La frase «Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l’uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga, o la sua salvezza» (Alan Turing, 1950) influenzò l’intuizione «Può, il batter d’ali di una farfalla in Brasile, provocare un tornado in Texas?» che fu il titolo di una conferenza tenuta da Edward Lorenz nel 1972. L’intera teoria della complessità di Morin, al netto dell’influsso bio-molecolare di Varela e Maturana, si originò da questi due anomali fondamenti teoretici. Tu, come mi appare, metti ogni «militanza» nella condizione del famoso «poverin» del Tasso:

      E il poverin, che non se n’era accorto,
      ancora combatteva ed era morto.

      Sono d’accordo: non vedremo mai l’esito dei combattimenti, e della rivolta. Però, affermare «Sapendo che l’assetto delle cose non cambierà né a breve né a medio né a lungo termine» mi appare un minimo fatalistico, e assai azzardato sulla bocca di un critico «militante» come Giorgio Linguaglossa, benché in toto legittimo e indiscutibile (le mie frequentazioni pragmatistiche mi conducono ad accettare l’assunto che una «previsione» sia suscettibile di verificazione/falsificazione esclusivamente al momento dell’avverarsi/falsificarsi del suo contenuto fattuale).

      Per il mio, molto modestamente, sto lavorando ad una chorastical explanation che, come ti ho anticipato via net-epistola, darà conto diacronicamente dei miei tentativi e delle definizioni della mia estetica [dai Quaderni anti-«poetici» – Frammenti chorastici 2006 – 2013, in elaborazione]. Quando avrò ultimato il tutto, te lo manderò (al netto dei concreti vecchi frammenti di anti-«poesia», su cui abbiamo divergenti concezioni teoriche, tu bachtiniane, io derridaiane e debordiane).

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