La top-pop-poesia erede della destrutturazione della «visione tragica» della poesia di Maria Rosaria Madonna, Storia di una pallottola n. 6 e 7 di Gino Rago, da Wittgenstein a Žižek di Giorgio Linguaglossa, Uomo in canottiera di Giorgio Ortona

Uomoincanottiera,2012,oliosutelaincollatasutavola,32,2x16,2cm

Giorgio Ortona, Uomo in canottiera, 2012, olio su tela incollata su tavola, 32,2 x 16,2 cm.

La figura in canottiera colorata ritratta da Giorgio Ortona può essere considerata una segnatura. Che cos’è la segnatura? Possiamo dire che è qualcosa che rende possibile la significazione, la forma primordiale che conferisce significato e senso alla immagine ritratta, la quale «non coincide con il segno, ma è ciò che rende il segno intellegibile»,1 scrive Giorgio Agamben. Il segno, infatti, in sé sarebbe muto e necessita, per produrre significato e senso, di essere animato in una segnatura. La segnatura non è soltanto il significato a cui il segno rimanderebbe, ma è ciò che, insistendo sulla relazione fra signans e signatum, la sposta e la disloca in un altro ambito, «inserendola in una nuova rete di relazioni prammatiche ed ermeneutiche».2 Come i segni dello zodiaco sono delle segnature che rimandano ad una relazione di somiglianza fra la costellazione e i nati sotto il segno, implicando una relazione fra il macrocosmo e il microcosmo, così la segnatura originaria, ovvero, la lingua, si definisce a partire da una somiglianza fra i nomi e le cose, ma proprio questo obbliga a intendere la somiglianza non come qualcosa di fisico, bensì come qualcosa di immateriale. Ecco perché, per Agamben la lingua, in quanto «scrigno delle segnature», è l’«archivio delle somiglianze immateriali»,3 così come la figura ritratta nel dipinto di Ortona costituisce un archetipo umano nel quale tutti possono riconoscersi per qualche somiglianza immateriale.
(g.l.)
1 G. Agamben, Signatura rerum. Sul metodo, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, p. 38.
2  Ivi, p. 35.
3  Ivi, p. 44.

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La top-pop-poesia erede della destrutturazione della «visione tragica» della poesia di Maria Rosaria Madonna

scrive il filosofo Slavoj Žižek:

«Non è che falliamo perché non riusciamo a incontrare l’oggetto, piuttosto l’oggetto stesso è la traccia di un certo fallimento.
Per questo Freud ha avanzato l’ipotesi della pulsione di morte – il nome giusto per questo eccesso di negatività. E il mio intero lavoro è ossessionato da questo: da una lettura reciproca della nozione freudiana di Todestrieb e di quella negatività auto negativa tematizzata dagli idealisti tedeschi. Insomma, questa nozione di auto-negatività relativa, così come è stata regolata da Kant fino a Hegel, filosoficamente ha lo stesso significato della nozione freudiana di Todestrieb, pulsione di morte – questa è la mia prospettiva fondamentale. Ovvero, la nozione freudiana di pulsione di morte non è una categoria biologica ma ha una dignità filosofica.
Cercando di spiegare il funzionamento della psiche umana in termini di principio di piacere, di principio di realtà e così via, Freud si rese conto via via sempre più della presenza di un elemento disfunzionale radicale, di una distruttività radicale e di un eccesso di negatività, che non possono essere spiegate.»1

La «struttura tragica» di Madonna ha bisogno dell’oggetto. È sull’oggetto che può costruire la struttura simbolica della sua poiesis. Per far questo Madonna è costretta a tenere in piedi, in qualche modo, la struttura trascendentale soggetto-oggetto. L’Imperatrice Teodora sa bene che sta parlando ai posteri e vuole auto assolversi dinanzi ai posteri visti come gli oggetti del futuro; analogamente i «barbari» che stanno arrivando sono un «oggetto» identificabile, bene identificato, sono un simbolo trascendentale ma ancora storico. E così il «peccato», la «lussuria», i «diavoli» etc. sono tutti oggetti ben determinati. È la civiltà dell’umanesimo che si nutre della dualità soggetto-oggetto, anzi, è fondata sulla dualità soggetto-oggetto. Con il crollo dell’umanesimo la poesia di Madonna si staglia con auto evidenza assoluta come l’ultimo monolite di quella civiltà. La pulsione di morte che attraversa la struttura simbolica della poesia di Madonna è una categoria dell’umanesimo. Non sono d’accordo con la tesi di Slavoj Žižek per il quale la nozione freudiana di pulsione di morte può essere utilizzata egualmente anche per una civiltà del post-umanesimo del capitalismo globale, anzi, sono propenso ad ipotizzare che la pulsione di morte svanisce nella «merce», cioè nel «valore di scambio». La nuova civiltà dell’epoca della tecnica o cibernetica sembra aver fagocitato la pulsione di morte, annullandola nella «merce». Il feticismo della merce conterrebbe al suo interno la pulsione di morte rimossa, se non addirittura cancellata. Questo è l’aspetto inquietante delle società post-democratiche, che il capitalismo è esso stesso il prodotto della tecnica e causa esso stesso della tecnica. La risposta data da Duchamp di riabilitare l’oggetto, il ready made, rende evidente ciò che fino ad allora era rimasto occultato sotto le pastoie ideologiche e apologetiche del «bello». Siamo ancora oggi inchiodati al ready made di Duchamp. Tutta l’arte di questi ultimi decenni è appena un codicillo al ready made di duchampiana memoria, ma esserne consapevoli è già un piccolo passo per oltrepassare il ready made, per andare oltre la parola come segno.

Io penso invece che lo scacco matto del capitalismo globale è proprio l’aver rimosso la pulsione di morte, averla addomesticata e averla cancellata e rigenerata sub specie della «merce»; la merce sarebbe la resurrezione della pulsione di morte con segno invertito. La pulsione di morte è il motore segreto di cui si alimenta il capitalismo che lo convoglia sulle merci come un mana, un sortilegio che accalappia tutti gli umani post-umani. Qui ci viene in soccorso un pensatore certo non marxista come Heidegger il quale scrive: «l’essere svanisce nel valore di scambio». E, con l’essere, anche la pulsione di morte svanisce nel valore di scambio.

Già Marcuse nei tardi anni cinquanta affermava che oggi le categorie psicologiche sono diventate categorie politiche. Che io chioserei così: oggi le categorie del politico sono diventate categorie della nuova psicanalisi e dei versanti cognitivisti della psicologia contemporanea.

La top-pop-poesia che stiamo facendo ha questa chiarissima consapevolezza, questa auto evidenza, che «l’essere svanisce nel valore di scambio» (Heidegger) e che tutte le categorie della retorica della vecchia poiesis sono diventate categorie della nomenclatura psicologica; psicologismo ed estetismo si equivalgono e sono equipollenti nella inanità complessiva del pensiero filosofico sotteso.

Così, il «soggetto» della nuova pop-poesia diventa una «pallottola» sparata non si sa da chi e contro di chi. E qui il commissario Ingravallo fa cilecca perché le sue categorie indagatorie fanno cilecca, si rivelano carta straccia. E non potrebbe non essere altrimenti.
La disintegrazione della «struttura tragica» della poesia di Madonna segna la pre-condizione di possibilità per la nascita della pop-poesia o top-poesia che dir si voglia.
Penso che la pop-poesia abbia scoperto la valenza gestuale del linguaggio, a prescindere dal significato e dal senso. Cioè il linguaggio ha un valore «gestuale» evidentissimo che l’ontologia della poiesis tradizionale non vedeva, che anzi occultava e faceva di tutto per occultarlo, eppure un pensatore come Wittgenstein lo aveva chiarito da molto tempo. Per Wittgenstein il linguaggio è parte di un agire, e può essere inteso solo se lo si coglie nella sua valenza strumentale. Grazie al linguaggio facciamo molte diverse cose, e questa diversità caratterizza anche le forme linguistiche. E una forma linguistica per eccellenza che può fare uso del linguaggio gestuale è senz’altro la poesia. La pop-poesia è linguaggio gestuale e figurato allo stato puro. Ma ciò non significa che sia senza significato o senza senso come pensava l’ontologia del linguaggio poetico del novecento, al contrario, nella pop-poesia la valenza e la potenza del linguaggio figurato e gestuale ne viene accentuata all’ennesima potenza. Il modo con il quale le parole si legano alla prassi è il segreto che può liberare la prassi delle parole. E questo lo può fare soltanto il linguaggio poetico che contempla una prassi senza alcuna finalità precostituita, una prassi che è essa stessa la sua finalità.

Scrive Wittgenstein:

«Pensa agli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili: c’è un martello una tenaglia, una sega, un cacciavite, un metro, un pentolino per la colla, chiodi e viti. — Quanto differenti sono le funzioni di questi oggetti, tanto diverse sono le funzioni delle parole. (E ci sono somiglianze qui e là). Naturalmente quello che ci confonde è l’uniformità nel modo di presentarsi delle parole che ci vengono dette, o che troviamo scritte o stampate. Infatti, il loro impiego non ci sta davanti in modo altrettanto evidente. Specialmente non quando facciamo filosofia».2

(Giorgio Linguaglossa)

1 Slavoj Žižek e Glyn Daly, Psicoanalisi e mondo contemporaneo. Intervista a Žižek, Dedalo, 2004 p. 92
2 L. Wittgenstein, Osservazioni filosofiche § 11

Gino Rago, nato a Montegiordano (Cs) nel febbraio del 1950 e vive tra Trebisacce (Cs) e Roma. Laureato in Chimica Industriale presso l’Università La Sapienza di Roma è stato docente di Chimica. Ha pubblicato in poesia: L’idea pura (1989), Il segno di Ulisse (1996), Fili di ragno (1999), L’arte del commiato (2005),  I platani sul Tevere diventano betulle (2020). Sue poesie sono presenti nelle antologie Poeti del Sud (2015), Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2016). È presente nel saggio di Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente (Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2018). È presente nell’Antologia italo-americana curata da Giorgio Linguaglossa How the Trojan War Ended I Dont’t Remember (Chelsea Editions, New York, 2019) e nella Antologia Poesia all’epoca del covid-19 La nuova ontologia estetica (Edizioni Progetto Cultura, 2020) a cura di Giorgio Linguaglossa.. È nel comitato di redazione della Rivista di poesia, critica e contemporaneistica “Il Mangiaparole”. È redattore della Rivista on line “L’Ombra delle Parole”.

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Gino Rago
Storia di una pallottola n. 6

Marie Laure Colasson accende la sigaretta elettronica
nel salone congressi dell’Hotel Excelsior.

Ha i nervi a pezzi, non riesce a completare una “dissipazione”.
Con la mano destra sfiora il manico di madreperla del revolver,
con la sinistra tira fuori rossetto e specchietto dalla Birkin.

La Colasson: «Non credete nella Memoria…
è un deposito di bagagli, di oggetti smarriti».
Entra Tristan Todorov: «Madame Colasson, Lei ha torto:
Il problema della memoria è che il passato
è una scatola vuota…
Affinché possa servirci occorre che venga riempita».

Il Covid19 interroga i topologisti di Mediolanum
i quali si alterano, litigano e strappano i manifesti dei formalisti russi.
Mimmo Rotella di soppiatto stacca le locandine
delle Opere in programma alla Scala.

Pietro Citati parla dell’armonia del mondo,
e dell’opera d’arte.
«Ippocrate dice che il sangue ha sede nel cuore, il flegma risiede nella testa,
la bile gialla nel fegato, la bile nera invece nella milza.
La melanconia dipende dalla bile nera…».

Il dottor Ingravallo irrompe nella sala congressi dell’Hotel Excelsior,
strappa il revolver dalla mano di Marie Laure Colasson.
«Madame, la dichiaro in arresto».

Parte un colpo.
La pallottola colpisce un carrello della spesa
del supermarket di via Galvani, corre verso il cesto della biancheria,
coglie lo spigolo del frigorifero della cucina dell’Hotel di fronte,
attraversa il cassetto del comodino, sfiora l’anta di un armadio
dove c’è Carlo Emilio Gadda davanti al lavandino che si rade la barba.

Marie Laure Colasson ripone il revolver nella borsetta.
Chiama qualcuno con il cellulare.
«Dottor Ingravallo è un sogno!, non sono io l’assassina, mi creda
ma il poeta Gino Rago.
È lui l’autore di tutto questo trambusto!»

Marc Fumaroli ama l’arte della conversazione,
conversa amabilmente con il Signor Shakespeare e il Signor Brodskij.

«Il mio gatto Proust, solo lui capisce i miei sogni!»,
si lamenta Madame Colasson, la quale è ancora impegnata nella destrutturazione
delle sue “Strutture dissipative”.

Storia di una pallottola n. 7

Nebbia sulla laguna. Venedig. Un sotoportego.
Il filosofo marxista e il Signor L. bevono un’ombra.

Sono melanconici, la bile nera li divora.
«Il capitalismo è alle corde» dice Žižek.
«Però, c’è ancora molto da fare», dice il Signor L.
«Convocherò il prof. Satanasso il quale ha un altro asso nella manica,
potrebbe sempre tirar fuori dal cilindro un secondo Covid, no?».

Fumi e Nebbie sulla laguna. Venezia.
Sotoportego brumoso. Carnevale-Bolshoi.

Marie Laure Colasson con la mascherina nera danza sulle punte.
Il foulard di seta rossa di Isadora Duncan sventola dalla decapotabile.
Albergo di San Pietroburgo. Il poeta russo Sergej Esenin si taglia le vene dei polsi.
Scrive la sua ultima composizione.
Una lettera d’addio per il poeta Anatolij Marienhof, suo amante.

Dalla Birkin Madame Colasson tira fuori il lapis d’avorio
Scrive a Isadora Duncan: «Guardati dalle idi di aprile».

“Madame Colasson, Lei è sotto la nostra protezione,
l’Ambasciatrice di Francia in Italia, Madame Starobinskij,
riceve a Piazza Farnese il ministro degli Interni e il Prefetto di Roma
per l’affaire della pallottola.
«Questo commissario Ingravallo è un irresponsabile» è la protasi del discorso.

– Per intanto, Ingravallo viene trasferito a Campobasso.
«O gnommero si ingarbuglia, la matassa si aggroviglia» –

«L’agente Popov fa il doppio gioco.
Al Shabbab non c’entra. Riceverà a breve altre notizie,
usi mascherina e guanti in lattice piuttosto».

Un agente del Servizio Informazioni Riservate di via Pietro Giordani entra
nell’appartamento di fronte, al numero civico 20.

Jannik apre la cassetta degli attrezzi:
viti, chiodini, pentolini, metri, fettucce, spaghi,
tenaglie, martelli, trapani, seghetti,
punteruoli, pialle, guarnizioni di gomma, pappagalli
e un revolver con il manico di madreperla.

Parte un colpo.
La pallottola sfiora l’agente, infrange i vetri del bar
“fulmini e saette” di via Pietro Giordani,
buca un cornetto alla crema, colpisce in pieno il tampone
per il Covid-19 del dott. Civitillo, esce dalla porta d’ingresso
ed entra nello studio di Carlo Emilio Gadda
il quale sta rilasciando un’intervista ad Arbasino…

Madame Colasson tira fuori dalla Birkin il profumo “Roma” di Laura Biagiotti,
scrive poche righe su un biglietto:

«Madame Starobinskij, il commissario Ingravallo si è innamorato di me,
quel citrullo non smette di perseguitarmi…»

Problema n. 1
Terminavo la mia riflessione sulla poesia di Maria Rosaria Madonna con queste parole:
«Il nocciolo di verità che il capitalismo globale reclamizza è lo svuotamento del significato. Al posto del significato c’è una scatola vuota con dentro il nulla. Giunta a questa conclusione, Madonna chiude il quadrato della sua «visione tragica» perché non è possibile andare oltre questa consapevolezza. Del resto, anche la poiesis risulta un facere privo di significato, accecata com’è dalla luce abbagliante di questa raggiunta consapevolezza.»

Problema n. 2
Il tragitto che ci divide dalla «visione tragica» di Maria Rosaria Madonna dei tardi anni novanta alla «visione non-tragica» della pop-poesia di oggi (all’incirca trenta anni), ci consente di misurare la quantità di strada percorsa in questo trentennio e la impossibilità di conservare una «visione tragica» nella attuale fase del capitalismo globale. Il nuovo capitalismo planetario ha tappato la bocca a qualsiasi ipotesi di pensiero «tragico» o di «poiesis tragica», e la poiesis, se vuole sopravvivere, deve mettere in scena un diverso copione: una poiesis che rappresenti la impossibilità di attingere una «dimensione pubblica» ma che non si limiti a presentare «questioni private» come quelle decisive e significative. Il trionfo del «privato» e della «privacy» legittima tacitamente questo spostamento della problematica dalla «dimensione pubblica» alla «dimensione privata- egoica». Molti romanzi e opere poietiche di oggi sono infatti niente altro che vicissitudini del privato, pettegolezzi, piccole narrazioni dell’io, cioè Kitsch.

Problema n. 3
La poesia di Gino Rago, mia, di Mario Gabriele, di Marie Laure Colasson, di Lucio Mayoor Tosi, di Ewa Tagher e degli altri compagni di strada è una poiesis che è diventata consapevole della impossibilità della «visione tragica» e della impresentabilità della «dimensione privata». Se chiamarla pop-poesia o top-poesia (come suggerisce la Colasson), soap poesia, poetry kitchen è in fin dei conti una questione nominale. 

Conclusione.
La poiesis della «dimensione privata» che si fa oggi in quantità industriale è semplicemente Kitsch, discarica di rifiuti quale è diventata la vita privata nella «dimensione privata» delle società post-democratiche dell’Occidente.

(Giorgio Linguaglossa)

15 commenti

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15 risposte a “La top-pop-poesia erede della destrutturazione della «visione tragica» della poesia di Maria Rosaria Madonna, Storia di una pallottola n. 6 e 7 di Gino Rago, da Wittgenstein a Žižek di Giorgio Linguaglossa, Uomo in canottiera di Giorgio Ortona

  1. In memoria di un grande italiano: Ennio Morricone.

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  2. cpistillo@libero.it

    Grazie Giorgio,

    per tutto quello che fai per la poesia. L’Ombra delle parole, mi sembra molto attivo, puntuale e rigoroso. Avevo programmato degli appuntamenti a Roma ma, purtroppo, con questo maledetto virrus è tutto saltato. Spero di rimediare più avanti, preavvisandoti, così da stare qualche minuto insieme.

    Hai poi ricevuto il mio Rimbaud? Ha in mente di scriìvere qualcosa?

    Grazie.

    Carmelo

    >

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  3. L’operazione di Gino Rago, pur nella sua geniale inventiva, a mio avviso ha caratteristiche che poco hanno a che vedere con la “gestualità del linguaggio”. Quello di Gino Rago è infatti un linguaggio pop giornalistico, dove si fa cronaca, e fa perno sulla scomposizione semantica. E’ pop figurativo ( di linguaggio condiviso), ed è giustamente accostabile alla immagine del dipinto di Giorgio Ortona. Nell’uno e nell’altro sono presenti richiami al pop di Mimmo Rotella (i manifesti strappati). Pop in versione squisitamente semantica. Va in questa direzione anche la raffinatissima poesia di Mario M. Gabriele, il quale però agisce con “flash” (visivamente alla Roy Lichtenstein), che sono frammenti, di cui è maestro indiscusso. Resto del parere che Distico e Frammento non abbiano affatto terminato la loro azione positiva a favore del disincanto poetico che ci vede qui impegnati. Gli effetti sul linguaggio, sulla gestualità del linguaggio, non tarderanno a manifestarsi. Già in Intini qualcosa si nota, da quando ha preso ad unire particelle linguistiche portandole in versi che fanno discorso. Rifondare alle radici il discorso poetico, pop o non pop, a me sembra questione a più ampio raggio.

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  4. Anche le storie di una pallottola n. 6 e n. 7, che Giorgio Linguaglossa magnificamente propone oggi su L’Ombra delle parole, sono sostenute da riflessioni problematiche sia sulla “Estetica delle cose”, sia sulla “Poetica degli oggetti”, in uno sguardo affine a quello di Robbe-Grillet.

    Parlando di Robbe-Grillet è obbligatorio parlare di Roland Barthes ( non c’è Robbe-Grillet senza Barthes).

    Roland Barthes sulla scrittura di Alain Robbe-Grillet osserva e scrive:
    «Bisogna ricordare il fondo tradizionale sul quale si leva il tentativo di Robbe-Grillet: un romanzo fondato da secoli come esperienza di una profondità. […]

    La scrittura di Robbe-Grillet è senza alibi, senza spessore e senza profondità: rimane alla superficie dell’oggetto e la percorre in maniera eguale, senza privilegiare l’una o l’altra delle sue qualità».

    A proposito del suo rapporto con gli oggetti, un rapporto ontologicamente ed esteticamente diverso da quello di Perec, Robbe-Grillet scrive:
    «[…]Descrivere gli oggetti significa piazzarsi deliberatamente all’esterno[…]

    Così, una caffettiera, in Visions réfléchies, Le mannequin, occupa nel testo una posizione primaria, all’inizio e alla fine del testo.

    E’ fisicamente al centro di un tavolo rotondo in una grande stanza, e da oggetto comune che è diventa protagonista debordante, sostituendosi ai personaggi umani.

    Ed è dall’esterno, infatti, che il lettore vede».

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  5. Ecco un tipico esempio di poesia con oggetto, o poesia sull’oggetto, cmq poesia oggettiva, che altro non è che una poesia pensata come uno stampo mimetico-realistico dell’oggetto, che gira intorno all’oggetto…

    Giovanni Giudici,
    Descrizione della mia morte

    Poiché era ormai una questione di ore
    Ed era nuova legge che la morte non desse ingombro,
    Era arrivato l’avviso di presentarmi
    Al luogo direttamente dove mi avrebbero interrato.
    L’avvenimento era importante ma non grave.
    Così che fu mia moglie a dirmi lei stessa: prepàrati.

    Ero il bambino che si accompagna dal dentista
    E che si esorta: sii uomo, non è niente.
    Perciò conforme al modello mi apparecchiai virilmente,
    Con un vestito decente, lo sguardo atteggiato a sereno,
    Appena un po’ deglutendo nel domandare: c’è altro?
    Ero io come sono ma un po’ più grigio un po’ più alto.

    Andammo a piedi sul posto che non era
    Quello che normalmente penso che dovrà essere,
    Ma nel paese vicino al mio paese
    Su due terrazze di costa guardanti a ponente.
    C’era un bel sole non caldo, poca gente,
    L’ufficio di una signora che sembrava già aspettarmi.

    Ci fece accomodare, sorrise un po’ burocratica,
    Disse: prego di là – dove la cassa era pronta,
    Deposta a terra su un fianco, di sontuosissimo legno,
    E nel suo vano in penombra io misurai la mia altezza.
    Pensai per un legno così chi mai l’avrebbe pagato,
    Forse in segno di stima la mia Città o lo Stato.

    Di quel legno rossiccio era anche l’apparecchio
    Da incorporarsi alla cassa che avrebbe dovuto finirmi.
    Sarà meno d’un attimo – mi assicurò la signora.
    Mia moglie stava attenta come chi fa un acquisto.
    Era una specie di garrota o altro patibolo.
    Mi avrebbe rotto il collo sul crac della chiusura.

    Sapevo che ero obbligato a non avere paura.
    E allora dopo il prezzo trovai la scusa dei capelli
    Domandando se mi avrebbero rasato
    Come uno che vidi operato inutilmente.
    La donna scosse la testa: non sarà niente,
    Non è un problema, non faccia il bambino.

    Forse perché piangevo. Ma a quel punto dissi: basta,
    Paghi chi deve, io chiedo scusa del disturbo.
    Uscii dal luogo e ridiscesi nella strada,
    Che importa anche se era questione solo di ore.
    C’era un bel sole, volevo vivere la mia morte.
    Morire la mia vita non era naturale.

    (da O Beatrice, 1972)

    Mi permetto di fare un altro esperimento, diciamo pop o pop corn. Ho riscritto in distici questa bellissima poesia di M.R. Madonna. Che ve ne pare?

    Maria Rosaria Madonna

    da Stige. Tutte le poesie (1990-2002), Progetto Cultura, Roma, 2018 pp. 150 € 12

    Sai, nel Dottor Zivago c’è il protagonista
    chiuso nella casa gelida immersa nella neve…

    fuori dalle finestre l’ululato dei lupi.
    E’ un poeta. – che cosa fa? –

    fa quello che fanno tutti i poeti: scrive poesie.
    Scrive poesie, poesie, poesie.

    Si deve sbrigare perché tra poco le guardie rosse
    lo verranno a prendere. Davvero,

    c’è così poco tempo per scrivere poesie.

    [Madonna ha scritto in tutta la sua vita relativamente poche poesie. Per essere un poeta non c’è bisogno di scrivere tanto…]

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  6. qualche giorno fa Letizia Leone mi parlava di Carlo Rovelli e della fisica quantistica…
    Ecco un esempio di Fine della linearità sintattica e della linearità temporale in poesia.

    Scrive Carlo Rovelli:

    La storicità debole nella quale oggi ci troviamo – Poesie e Commenti di Maria Rosaria Madonna, Giuseppe Talia, Mauro Pierno, Guido Galdini, Gino Rago, Giorgio Linguaglossa, Fritz Hetrz, Francesca Dono, Antonio Sagredo, Alfonso Cataldi, La distruzione della ontologia è già stata compiuta nel novecento, ciò che resta spetta ai poeti fondarlo. Ciò che resta della metafisica come destino si è già compiuto

    «I campi si manifestano in forma granulare: particelle elementari, fotoni e quanti di gravità, ovvero, “quanti di spazio”. Questi grani elementari non vivono immersi nello spazio: formano essi stessi lo spazio. Meglio: la spazialità del mondo è la rete delle loro interazioni.La spazialità del mondo è la rete delle loro interazioni. Non vivono nel tempo: interagiscono incessantemente gli uni con gli altri, anzi esistono solo in quanto termini di incessanti interazioni; e questo interagire è l’accadere del mondo: è la forma minima elementare del tempo, che non è né orientata, né organizzata in una linea, né in una geometria curva e liscia come quelle studiate da Einstein. È un interagire reciproco dove i quanti si attualizzano nell’atto stesso di interagire rispetto a ciò con cui interagiscono.
    La dinamica di queste interazioni è probabilistica. le probabilità che qualcosa accada – dato l’accadere di qualcos’altro – sono in linea di principio calcolabili con le equazioni della teoria».1]

    Uno degli assunti su cui si basa la nuova ontologia estetica è appunto la questione dello spazio e del tempo. La fisica contemporanea ha prodotto un nuovo concetto di spazio e di tempo. Si è chiusa l’idea di uno spazio contenitore e di un tempo contenitore dei puntini dell’esistenza, spazio e tempo sono creati dalla loro interazione reciproca, non esistevano prima della loro interazione e non esisteranno neanche dopo la loro interazione, è soltanto l’interazione reciproca che crea lo spazio e il tempo…

    Certe categorie retoriche come quella della linearità sintattica che segue il modello della linearità temporale, è saltata. Nella NOE non si dà più una linearità nell’esposizione dello spazio e del tempo. Se leggiamo una poesia di un autore NOE ci accorgiamo che passato e presente, personaggi e locuzioni di cose del presente e del passato remoto sono mixati senza alcun riguardo della verosimiglianza mimetica rispetto al «reale», qui il «reale», ovvero lo spazio e il tempo, è prodotto dalla interazione tra passato e presente, tra locuzioni del presente e del passato. Leggiamo l’inizio della poesia postata sopra di Giuseppe Talia:

    Caro Germanico, bisogna sistemare Caproni
    Spargere le ceneri di Gramsci nell’aria Satura

    Sotto il pitosforo nano del belletto minimal-chic
    Dove non cresce oramai che il trifoglio di Malvoglio.

    Tu sai, Germanico, quanto i Fortini della politica
    Discendenti di Ascanio, dalla Suburra abbiano

    Tratto giovamento fin dal regno di Numa Pompilio.
    Quanto il “finger food” e lo “street food” siano degni

    Del castrato in salsa di cipolla e tortelli di piccione.
    Bisogna sistemare Caproni, rileggere il sessanta

    E il settanta, capire perché sia fallita l’osteria familistica
    I buoni contorni una volta saltati in padella di ghisa

    Per l’odierna smania nervosa verso l’antiaderente.

    «Germanico» sta qui per il sottoscritto in quanto in una mia precedente poesia mi ero dato questo appellativo ed ero entrato in contatto con un tal «Tallia» (nome che avevo dato all’amico poeta Giuseppe Talia nel nostro scambio di poesie in forma di lettera). Ecco, se continuiamo la lettura ci accorgiamo che «Germanico» è messo assieme a «Caproni» (il noto poeta di secondo novecento) ed insieme interagiscono come se fossero due personaggi reali ed entrano in contatto-conflitto con «le ceneri di Gramsci» (titolo arcinoto di una raccolta di Pasolini) e quest’ultimo entra in rotta di incontro collisione semantica con un’altra opera capitale della poesia del novecento: «Satura», e viene nominato anche un certo «Malvoglio», distorsione di «Malvolio», personaggio shakesperiano ripreso da Montale per stigmatizzare in senso offensivo e derisorio la persona di Pasolini con il quale era caduto in alterco a seguito di una recensione negativa delo stesso Pasolini a Satura di Montale. E poi di seguito «Germanico» viene associato ad un altro poeta del secondo novecento, «Fortini»… Talia tratta i personaggi in questione come tessere vuote di un mosaico anch’esso vuoto, vuoto di significato, gioco inoffensivo in quanto anche l’ironia e il paradosso giocano a favore del «reale» contundente della «realtà», e la poesia viene ridotta a gioco inoffensivo e gratuito, prodotto di allegria di un nubifragio che, in verità, non avviene, che è sempre posticipato, prorogato non si sa da quale governo Lega-5Stelle in azione morigerata. Cosicché, il dramma finisce in commedia, la commedia dell’impotenza della forma-poesia a reggere l’urto del «reale».

    Sempre Carlo Rovelli scrive:

    «il mondo è come un insieme di punti di vista in relazione gli uni con gli altri, “il mondo visto dal di fuori” è un non senso, perché non c’è un “fuori” dal mondo […]
    Questo è il mondo con cui cerco quotidianamente di fare i conti, nei due sensi dell’espressione. È un mondo inusuale, ma non un mondo senza senso […]
    In una teoria di questo genere, spazio e tempo non sono più i contenitori o forme generali del mondo. Sono approssimazioni di una dinamica quantistica che di per sé non conosce né spazio né tempo. Solo eventi e relazioni- È il mondo senza tempo della fisica elementare».

    Per il mondo della psiche, nel mondo dell’inconscio non si dà uno spazio e un tempo come li conosciamo nella organizzazione della nostra vita quotidiana, durante la nostra vita di relazione, cosciente. Alla realtà dell’inconscio noi possiamo accedervi soltanto tramite la mediazione di un linguaggio non più strutturato secondo la linearità sintattica temporalmente unidirezionale, adottare quella linearità sintattica sarebbe già tradire in partenza il mondo dell’inconscio.

    La poesia è lo strumento, insieme all’arte figurativa e alla musica, con il quale noi possiamo accedervi più agevolmente, a patto però che mettiamo da parte tutte le nozioni della retorica così come le abbiamo apprese a scuola. Semplicemente, dobbiamo ripensarle all’interno di un pensiero poetico non più lineare e temporalmente direzionato. Dobbiamo pensarle all’interno di un pensiero poetico che di per sé non riconosce alcuna priorità dello spazio e del tempo. O meglio, dove non vige la linearità temporalmente direzionata, dove lo spazio e il tempo sono gli eventi che si determinano, sono la forma psichica che assumono gli eventi.

    1] C. Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, 2017, p. 108

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  7. Ascoltiamo le parole di un maestro della musica contemporanea, Salvatore Sciarrino, sulla «composizione»:

    «…è come se io partissi a rovescio, immaginassi il punto di arrivo e poi studiassi come arrivarci, e questo secondo me rovescia un po’ il modo di procedere della composizione così come la conosco io attraverso la scuola… per me l’immaginazione sonora è la prima cosa, il che non vuol dire soltanto immaginare un suono ma immaginare il modo verso il quale tu vai e dentro il quale tu vuoi visitare e che contiene delle cose che ti attirano e ti danno la voglia di prenderle con te e mostrarle agli altri… se non avviene dentro di noi uno sforzo molto forte di superare, non gli ostacoli, ma proprio di bucare i muri… aprire porte dove non ci sono porte, noi non otteniamo nessun risultato. Un pezzo di musica in più o in meno non ci serve, noi abbiamo bisogno di cose che ci sorprendono, che ci rapiscano e ci trasformino. Quindi, la prima fase ideativa, è decidere in quale parte dell’universo noi ci stiamo recando… dentro quale parte ci vogliamo avventurare, questa è la prima cosa, il resto è già scontato, perché se c’è la immaginazione di una nuova opera, il resto riguarda più i dettagli o come realizzarla».

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  8. antonio sagredo

    a maria rosaia madonna, che non copnoscevo

    Ascolto nello specchio la frantumazione dell’0ggetto,
    se ne va il pensiero che mi informa: sono a pezzi!
    E dunque sotto il viale dei castani che le radici hanno un verso
    ed è quello del corvo che si inscrive nel suo grido.

    roma, novembre 2013

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  9. Tentativo di un nuovo ciclo poetico
    Gino Rago
    Storie di Passages n. 1

    Paese di Bengodi. Silvie e Jèrôme a Georges Perec:
    «Che significa il segno tipografico “[…]”?
    Georges Perec:
    «Il non detto, il rimosso, ciò che non può essere afferrato, una giunzione, il tentativo di ricerca che parte da questo spazio bianco.
    E’ una riserva di senso che il testo nasconde,
    permette aperture alle trasformazioni.

    E’ un invito alla interpretazione
    che il non-detto-spazio-bianco suggerisce…

    Siamo nel paese di Bangodi.

    Questa è la caffettiera di Vincent Van Gogh,
    Per tutta la notte ha litigato con il manichino di de Chirico».

    Jèrôme e Sylvie:
    «Monsieur Perec, quel signore ci segue».

    George Perec:
    «E’ il crittografo Cinoc, di mestiere ammazzaparole.
    Abita nel condominio al numero 11 di Rue Simon-Crubellier…
    Tappeti Bukhara, dobermann, libri in pelle»
    *
    Gino Rago

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  10. caro Gino Rago

    Penso che Salvatore Sciarrino esprima un pensiero giusto:

    «la prima fase ideativa, è decidere in quale parte dell’universo noi ci stiamo recando… dentro quale parte ci vogliamo avventurare, questa è la prima cosa, il resto è già scontato».

    che io tradurrei così:

    Proviamo a fare la storia di una sedia, o di una penna, o di una automobile, o di un portaflglio, e così via… proviamo a far parlare gli oggetti dal di dentro, in modo che siano gli oggetti a parlare e non noi che stiamo di fronte agli oggetti, come accade alla poesia di Giovanni Giudici, “Descrizione della mia morte” del 1972 dove l’autore è sempre al di fuori dell’oggetto «morte» e si limita a «descrivere» l’oggetto «morte» da bravo e diligente poeta neoverista qual è.
    La poesia di Madonna che segue la poesia di Giudici invece vuole rappresentare l’accorciarsi del tempo, c’è poco tempo perché tra breve le guardie rosse verranno ad arrestare il protagonista il dottor Zivago il quale si deve affrettare a scrivere poesie, poesie, poesie… viene rappresentato in modo indiretto e molto molto efficace l’imbuto del tempo, il collo di bottiglia del tempo… La «morte» non viene evocata né rappresentata, ma è la «morte» ciò di cui la poesia tratta.

    Dalla posizione dell’oggetto ne deriva un modo di rappresentare le cose.
    Se prendiamo una poesia di Francesco Paolo Intini, lì è davvero difficile individuare e isolare un «oggetto» della sua poesia… gli «oggetti» nella sua poesia sono rigorosamente tutti interrotti e sono interrotte anche le vie di accesso agli oggetti. In questo Intini è drastico e rigoroso.

    Nel tuo tentativo di poesia vedo una incertezza sul dove posizionare l’«oggetto». Tutto qui.
    Penso che devi lavorare negli spazi bianchi, introdurre degli espedienti che complichino le cose, penso. Come primo tentativo di una nuova poesia va bene, ci sono degli spunti interessanti. Del resto, siamo ormai impossibilitati ad accedere alla «visione tragica» di Madonna. Penso che dobbiamo leggere con attenzione la sua poesia piuttosto che quella di Giudici se vogliamo capire che cosa scrivere oggi.

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  11. Giorgio Linguaglossa

    13 agosto 2018

    caro Tallia,

    ti scrivo questa missiva tra gli ozi di Capua
    e i negozi di Ercolano in compagnia del passito di Pantelleria.

    Germanico consuma fast food con Orestilla
    la figlia di quel coccodrillo di Fasullo

    che si è dato al commercio di schiavi
    mentre la sua amante, Gaia Priscilla, si gode

    un muscoloso negro d’Egitto, nipote dei Tolomei,
    dice il manigoldo, rampollo della nobile stirpe

    di Osiride e di Anubi. Che vuoi, l’impero è tanto grande
    che un frammento di esso occuperebbe

    il Circo Massimo e il Foro di Traiano dell’Urbe.
    A proposito, hai notizie del poeta Gino Rago?, sai

    sono un po’ preoccupato, ultimamente ha cambiato lo stile
    della sua poesia, adesso scrive in distici,

    ma la sua Musa risulta alquanto attempata e impettita
    come una mercenaria di infimo rango

    che impiega il belletto e il soffritto di alghe
    per i suoi capelli untuosi…

    Per Agamben la poesia è ciò che resta della lingua, dopo che di essa sono state disattivate le normali funzioni comunicative e informative. Pertanto, la lingua della poesia, la lingua che resta, «ci è cara e preziosa, perché chiama ciò che si perde».1
    Nella poesia, intesa come sopravvivenza di una lingua morta, Agamben sottolinea il fatto che in essa si condensano immagini mobili, ma senza vita, anche se è possibile, quasi per incanto, che il poeta le rianimi e che le renda di nuovo canto, musica e voce. Se è vero che parlare e poetare significa fare esperienza della lettera come morte della lingua e della voce, tuttavia il mitologema originale della poesia prevede proprio la memoriale conservazione della voce nella lettera.
    Se la poesia è ciò che resta della voce e della lingua nelle morte lettere, le quali però per incantesimo si rianimano, allora la stessa può essere definita come qualcosa di «indistruttibile, che resta e resiste a ogni manipolazione e a ogni corruzione». La poesia è costituita da quella lingua che resta «anche dopo l’uso che ne facciamo negli SMS e nei tweet»; questa particolare lingua, infatti, «può essere infinitamente distrutta e tuttavia rimane». Sempre secondo Agamben, memore di una lunga tradizione di riflessione filosofica platonica, la lingua della poesia ha uno stretto rapporto con il nome, definendosi a partire da ciò che chiama, cioè da quell’«elemento della lingua che non discorre e non informa,che non dice qualcosa di qualcosa, ma nomina e chiama».3

    1 G. Agamben, «Che cosa resta?», in http://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-che-cosa-resta [dicembre 2018].
    2 G. Agamben, Categorie italiane. Studi di poetica e di letteratura, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 71-72
    3 Id., Che cosa resta?, cit

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  12. Caro Giorgio,
    condivido, come sempre, i tuoi suggerimenti ma ti confido che
    il tentativo del nuovo ciclo poetico in forma di “Storie di Passages” l’ho già strangolato sul nascere.
    Non proporrò più nuovi versi perché devo sostenere come sono e sarò in grado di fare
    – il mio libro poetico, I platani sul Tevere…,
    – la prossima silloge sulle “Storie di una pallottola”.

    Conto di fare le due cose all’interno di quella idea di letteratura che definirei

    – «letteratura della coscienza»,

    la quale, in buona sostanza, consiste nella non passiva accettazione della situazione data come permanente

    – «sfida al labirinto»

    in un continuo cambio di rotta nel tentativo di cercare di dire quello che con l’impostazione precedente non mi sarebbe riuscito invece di dire,
    in un atteggiamento di prova continua e di sospensione di ogni certezza, privilegiando quella sorta di

    – «ménage à trois»

    tra letteratura, filosofia e scienza che, secondo me, consente all’uomo di vivere nella storia ma anche di progettare il futuro, sempre continuando a rifiutare l’idea di pormi

    – «au dessu de la melée»

    perché letterato e letteratura devono caricarsi di senso di responsabilità per poter dare a ogni poesia quello che Italo Calvino indicò come

    – «il midollo del leone»,

    ovvero, il nutrimento per una morale rigorosa verso la padronanza piena e consapevole della storia.
    *
    Lucio Mayoor Tosi, nel suo brillante commento scrive:

    «L’operazione di Gino Rago, pur nella sua geniale inventiva, a mio avviso ha caratteristiche che poco hanno a che vedere con la “gestualità del linguaggio”. Quello di Gino Rago è infatti un linguaggio pop giornalistico, dove si fa cronaca, e fa perno sulla scomposizione semantica. E’ pop figurativo ( di linguaggio condiviso), ed è giustamente accostabile alla immagine del dipinto di Giorgio Ortona. Nell’uno e nell’altro sono presenti richiami al pop di Mimmo Rotella (i manifesti strappati). Pop in versione squisitamente semantica…»

    Coglie di certo taluni aspetti non marginali delle pallottole, le cui storie (ben 16), e mi piacerebbe che non passassero inosservate in ogni commento, di Lucio come d’altre/d’altri, si muovono tutte rigorosamente all’interno delle parole-chiave della mia ricerca poetica:

    – «letteratura della coscienza»
    – «sfida al labirinto»
    – «ménage à trois (letteratura-scienza-filosofia)»
    – «au dessu de la melée»
    – «il midollo del leone».

    Italo Calvino in Il midollo del leone , fatto poi confluire nel saggio Una pietra sopra, scrive:

    «Le cose che la letteratura può ricercare e insegnare sono poche ma insostituibili: il modo di guardare il prossimo e se stessi, di porre in relazione fatti personali e fatti generali, di attribuire valore a piccole cose o a grandi, di considerare i propri limiti e vizi e gli altrui, di trovare le proporzioni della vita, e il posto dell’amore in essa, e la sua forza e il suo ritmo, e il posto della morte, e il modo di pensarci o non pensarci; la letteratura può insegnare la durezza, la pietà, la tristezza, l’ironia, l’umorismo, e tante di queste cose necessarie e difficili. Il resto lo si vada a imparare altrove, dalla scienza, dalla storia, dalla vita, come noi tutti dobbiamo continuamente andare ad impararlo».
    *
    Seconda versione

    Tentativo di un nuovo ciclo poetico
    Gino Rago
    Storie di Passages n. 1

    Gino Rago
    Storie di Passages n. 1

    La caffettiera di van Gogh
    per tutta la notte ha litigato con il manichino di de Chirico.
    Diceva che lei almeno sa fare il caffè, invece un manichino
    è solo un manichino.

    Allora, è successo che De Chirico
    si è spazientito e ha disegnato un sole con i raggi
    che si mette in cammino, attraversa a piedi le montagne e le nuvole
    entra nell’atelier di Marie Laure Colasson,
    si ferma allarmato davanti ad una “Struttura dissipativa” della pittrice
    posta sul cavalletto.
    e chiede: «E questo cos’è?»,
    domanda che ha molto seccato la pittrice francese la quale per ripicca
    lo ha punzecchiato con una forcina per i capelli
    dicendogli che era uno spazzacamino, un presuntuoso, un leghista, un feticista
    e un fascista…

    Squilla il telefono al 6° piano di via Domodossola n. 25.
    Sylvie Vartan parla con George Perec.
    «Monsieur Perec, c’è un figuro che ci segue,
    dice che abita nel futuro e che è capitato per sbaglio
    nel presente».

    «È Jèrôme Lapalisse, di professione crittografo, di mestiere ammazza parole
    e aggiustalampadari.
    Abita nel condominio al numero 11 di Rue Simon-Crubellier…
    Tappeti Bukhara, due dobermann, libri rilegati in pelle,
    porcellane cinesi, uccelli esotici, un pappagallo gialloverde del Madagascar,
    tavolini africani in mogano».

    Jèrôme Lapalisse a Sylvie Vartan:
    «Madame, quella signora elegante ci osserva».

    George Perec:
    «È Madame Colasson, pittrice, vive a Roma,
    ogni tanto torna ai passages, nei boulevard, passeggia con dei foulard colorati,
    si ferma sempre davanti alle pasticcerie,
    pensa che il segreto delle sue “Strutture dissipative”
    sia racchiuso nelle torte con la panna…».

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  13. milaure colasson

    caro Gino,

    questa volta ti meriti i miei complimenti, hai raggiunto la légéreté tipicamente francese che consente di rendere più leggera una realtà in sé asfissiante e l’hai trasposta nella poesia italiana come meglio non si poteva,
    Ha ragione Lucio Mayoor Tosi che dice che la tua poesia è di stampo giornalistico, è vero, e ben venga finalmente una poesia che impiega il linguaggio dei rotocalchi e lo converte in opere letterarie. La poesia di Giudici postata sopra era un tentativo di scrivere una poesia giornalistica, purtroppo non riuscito, al contrario il tuo tentativo è, a mio avviso, riuscito.

    Un bravo anche al pittore Giorgio Ortona, è difficilissimo per un pittore fare oggi un ritratto di figura umana, perché per tantissimi motivi che non sto qui a ripetere. Ma lui c’è riuscito in modo brillante. Io ci vedo anche un lontano ricordo di Bacon.

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  14. guido galdini

    Limericks (o pressappoco)

    Non sono rigorosi, né in termine di numero di versi né di metrica. Oltretutto i protagonisti non sono i soliti (young lady e old man), l’unico vezzo è di rimare talvolta il protagonista con la località.
    Spero che rimanga comunque qualche briciola di nonsense.

    c’era un interstizio di Busto Arsizio
    che non sapeva come colmare il suo poco spazio
    ha provato coi materiali più disparati
    sacchi di cenere piume conglomerati
    ma tutti nessuno escluso appena versati
    sfuggivano come se fossero indemoniati
    così è rimasto vuoto ed in grande strazio
    quell’interstizio afflitto di Busto Arsizio.

    *

    c’era un cervo di Capriolo
    che fu colto da un problema di ruolo
    quando vide un capriolo di Cervo
    sobbalzò fino all’ultimo nervo
    quel confuso capricervo di Cerviolo.

    Nota: Capriolo è un comune in provincia di Brescia, Cervo un comune in provincia di Imperia

    *

    c’era un matematico di Piancamuno
    che non sapeva la tabellina dell’uno
    e si sussurra con un’aria di mistero
    forse nemmeno quella dello zero
    mentre l’altra di meno infinito
    era invece il suo argomento preferito.

    *

    c’era un anniversario di Vicenza
    che di sé aveva piena coscienza
    e con santa pazienza
    aspettava la propria ricorrenza
    quell’anniversario preciso di Vicenza.

    *

    c’era un mollusco minuscolo di Erbusco
    il cui modo di fare era così brusco
    che dopo averlo cucinato con il pesto
    è rimasto per ripicca tanto indigesto
    che a digerirlo c’è voluto un intero lustro
    quel mollusco insopportabile di Erbusco.

    *

    c’era una famiglia di Ventimiglia
    che era fatta soltanto da una figlia
    sola sola passeggiava fino a sera
    per incontrare un’altra figlia di Bordighera
    ma poi insieme non combinavano mai niente
    quelle due figlie della riviera di ponente.

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  15. Google park.
    di Lucio Mayoor Tosi

    Studenti all’uscita di scuola. Indossano grembiuli azzurri,
    colletto bianco e sono di diverse altezze.

    Tutti a vedere le acrobazie dell’aeroplanino rosso
    dentro l’antebus del rifacimento televisivo.

    “TV color 2020”. Buffi gelati, che si sbucciano all’aria.
    Xi Jinping fa sparire monetine di simil oro in bocca.

    Ride. Google park s’infetta di granellini e musica gialla,
    che cambia colore quando finisce.

    Quando meno te l’aspetti, se li metti in tasca
    alcuni riprendono a suonare.

    Il viceministro della scuola spiega come fosse possibile,
    nel 1990, creare montaggi dove qualcuno appare a parla.

    Con quelle giacche buffe di traverso.

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