
Lucio Mayoor Tosi, Falce e martello all’epoca del Covid19, 2020
Questa immagine di Lucio Mayoor Tosi, con la falce e il martello che se ne vanno per i fatti loro, e il rosso bolscevico che fa da innocuo sfondo, è un esempio di picture kitchen; la falce e il martello sono diventati degli emblemi come il coltello e la forchetta, come la macchinetta da caffè Moka, sono diventati oggetti del design alla moda, desueti e dimenticati, de-storicizzati, de-realizzati. E la picture kitchen ne prende atto, Lucio ne fa un manifesto del fuori-senso, un simulacro senza più originale, un dispositivo imaginale senza più un linguaggio storico. Sono oggetti dis-ancorati dal quotidiano, come tutti gli altri oggetti del quotidiano, del resto, che appaiono fuori-contesto, fuori-senso, fuori-significato.
(g.l.)
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Oasi. Poesie per Petr Král
di Lucio Mayoor Tosi
N. 1
Noi siamo abbandonati. Il mondo va nei bar mentre si discute
di Covid 19, maiuscolo. Ma io ci faccio una pippa.
Mascherina in fronte, suggerisce l’ascoltatore, un rapper
d’alluminio anni 2030. Per chi ama le farfalle.
Senti, ti chiamo. Abbiamo stenografiche del paleolitico
ancora funzionanti. Codici a barre, cose così.
La prima luna deroga d’affitto, un insieme di lampi
al cherosene di marca comunista, Cose che mettono nostalgia.
Ma naturalmente, sai, per via dei distici, guarda:
mancano denti a sinistra, sotto. Alcuni scrivono
come piovesse. Oddio, sempre come piovesse. Ripeto.
Stile mio di carrozza a sonagli, d’altronde siamo,
sono come sul vacillare del forno le cornucopie,
direbbero certi scrittori del realismo. Fantastico,
puoi toccare parole chiudendo gli occhi, Uh uh uh,
queste sono vere farfalle. Quasi un digiuno.
Cappotti che hanno perduto la fodera. Critici
che andrebbero da Michelangelo a correggere baffi.
Perché chissà quale odore, profumo di passato
si nasconde nella terrapieno delle azalee. Comunque,
difendersi dal senso di colpa, se viene Natale
e non hai niente da regalare ai nipoti.
Zio d’America scrive poesie ma è sfortunato.
O ha qualcosa che non va nella testa. Karma negativo,
quando le cose vanno bene, ecco che si rompe
un bicchiere dei due che sono rimasti.
L’effetto è immediato. Significa che siano a un passo
dal tesoro, Antartide. Ora o mai più!
N. 2
Così se ne vanno in volo, il coro figli angeli
in una faccia di vecchio inchiostro. Le spalle curve,
gli anni a chiedersi come mai, e risponde Minosse
ti sbrano in un hamburger. Più o meno
un trapassare di scaltre fanciulle sopra il divano
(oh! Sempre piove), ma come derelitti sperare
nel flusso di corrente, che arrivi Broadway
come Singapore chissà perché, tabacco a ciocche.
Quindi sterminare mosche, sole amiche.
O prendersi l’intervallo su cornicioni in centro città.
Un po’ più in basso, ecco, dove scorre vecchia poesia
e l’autore frigge uova – come piovesse. D’altronde
piove sempre. I gatti pensano. Sono stoviglie, uccelli.
E noi, chi noi, io, ecco. Allora infilo perline.
N. 3
L’archivio portaricordi in fretta seppellisce
voli che altrimenti, morisse il gatto, le lune sarebbero
filo d’aria in ascensori per paradise, non ricordo.
Quindi scrivo Mio caro… Mia cara. Punto.
Oggi molte teste in controluce sembrano ostriche
che nel corpo riflettono sentimenti. Provare
per smentire se altrimenti – e sempre piove –
forse e volendo, anche l’angolo in cui saremmo morti.
«Sono un pericolo pubblico, ecco perché
vivo solo. Conto i giorni col loro nome».
«Prima era diverso, fingevo luce alle finestre,
Ma non vale. Finisce per strada un convoglio
di idiozie».
N. 4
La durata di un film, e non andiamo oltre.
Miss prevosto, prima che diventasse l’ultimo dei bastardi
disse tra i quartieri il nome di ogni colpevole,
più o meno all’ora dell’aperitivo.
A destra fecero commenti di destra, a sinistra
si stracciarono le vesti. I colpevoli sono parole
marionette. Dimmi prima chi sei. Poi traduci
per la folla. Sanno già tutto ma preferiscono
sentirselo dire, che sono stronzi. Sì, come è vero
lo sbattere d’ali di piccione sul sagrato. Niente più
che somarelli addomesticati a rabbia latente,
per via di congiure spropositate a danno di tutti.
Ma che fa? L’azienda auto pensieri ha per nome
meraviglia in dodici lingue, non una che vada bene.
Al complotto finanziario aggiungiamo chiavi
di violino, la caca-forte dei rimandi accesa.

Lucio Mayoor Tosi, Polittico, acrilico, 2017
Giorgio Linguaglossa
Buongiorno, oggi, nel menu c’è la poetry kitchen
Sembra quasi che una zona di auto sospensione del e dal linguaggio si sia verificata, che sia accaduta quella cosa magica per cui il linguaggio si stacca da se stesso e va per i fatti suoi, indipendente dall’io e dal noi, questi maledetti pronomi personali che hanno infestato la poesia del novecento e hanno dilapidato le esistenze degli uomini del XXI secolo… C’era da aspettarselo che un giorno sarebbe arrivato un poeta auto sospeso dall’io che fa una poesia come l’avrebbero desiderata i dadaisti e gli eslegi di tutte le avanguardie. È che Lucio Mayoor Tosi ha compreso fino in fondo che cosa significhi fare oggi una poetry kitchen, fare una poesia con gli utensili che stanno in cucina, accettare di impiegare le parole con contratto a tempo determinato, senza alcuna presunzione di durata, di voler durare per l’eternità! Ah, che brutta parola l’eternità, Lucio Tosi la scapperebbe, lui che fa una poesia dell’effimero, che dura appena un battito d’ali, friabile e leggera che appena l’afferri e ti accorgi che ti è rimasto sulle dita il polline malinconico delle sue ali… E anche il gozzaniano «archivio portaricordi» ormai è in disuso, seppellito dai suoi stessi ricordi… E anche «l’azienda auto pensieri» è finita in rigatteria, con tutti i rigurgiti versali delle poetiche normative e oggettuali del post-moderno… E poi quelle frasette messe lì come per sbaglio: «I gatti pensano. Sono stoviglie, uccelli.»; «quando le cose vanno bene, ecco che si rompe/ un bicchiere dei due che sono rimasti», che sono davvero eccellenti per il loro non voler dire nulla di serio o di faceto o di accettabile, per il loro essere assolutamente transeunti, per elencare il fuori-senso delle parole che usiamo ogni giorno come carta moneta. Questa è, per l’appunto, poetry kitchen, il cui aedo, Mario Gabriele, le ha dato i natali con L’erba di Stonehenge del 2016. Lucio Tosi si è inoltrato molto in avanti in quella zona di confine, di indistinzione, di indiscernibilità, di enigmaticità propri del linguaggio della transvalutazione del banale, quella zona in cui avviene che tra le parole cessano i collegamenti di senso e di significato per via di una auto sospensione del linguaggio, come se quelle parole avessero raggiunto il momento temporale che precede di un attimo la loro rispettiva differenziazione, non per via di una dis-somiglianza quanto per via di uno slittamento di senso, per via di una vicinanza prossima che si è poi rivelata una lontananza estrema, quasi che quella contiguità tra le parole, quella colla che le teneva insieme si fosse all’improvviso dissolta e quella antica alleanza, quella antica filiazione si fosse convertita in dis-alleanza, in fibrillazione. Tutto ciò apparirebbe contro natura, sembrerebbe contro la natura della parole, che sono fatte per stare insieme accanto ad una stufa, la stufa del significato, e che invece si sono ritrovate all’aperto, esposte alle intemperie e alle basse temperature, al gelo del nostro modo di vita e dei nostri valori de-valorizzati e tra svalutati… ma è che le parole non sono fatte per comunicare, Lucio Tosi lo sa bene, sono ordigni fatti per ingannare e irretire gli uomini, non sono portatori di buone intenzioni o di alate metempisicosi dello spirito, sono degli strumenti acuminati e affilati con cui puoi far male se davvero le pensi in relazione ai loro significati consolidati.