Dialoghi e Poesie, La storicità debole dell’Epoca del presentismo mediatico, Le parole piene, Le parole comunicazionali della poesia di oggi, Octavio Paz, Marie Laure Colasson, Nunzia Binetti, Guido Galdini, Mauro Pierno, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppe Gallo, Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa, Maurizio Cucchi

 

Giorgio Linguaglossa
11 giugno 2019 alle 12:33

Leggiamo la poesia di Marie Laure Colasson

Vert de l’eucalyptus
Rose pale de la rose
Dans la transparence
D‘ un petit verre d‘eau de vie
Sous l‘éclairage d‘une lampe de chevet
Sérénité

Oiseaux noirs des campagnes
Leurs cris étranglés
Les corbeaux

La mélancolie sonore
D‘ Erik Satie
Te vide de toute pensée
………………écoute

Une bande de rats
Vêtus de jeans troués
Fumaient des havanes
………pas des prolétaires

Perdre la vue
Michel Onfray
Comment dormir
Comment……………
Comment…………………..

Prendo atto che è scomparso l’io e sono scomparsi i verbi. Finalmente i verbi sono scomparsi, e le parole nuotano nel bianco albume del nulla, fanno a meno dei legami sintattici, fanno a meno del legame unidirezionale e dittatoriale di quella «istanza» o «funzione» che Lacan chiama «io». E la poesia spicca proprio per questa essenzialità di dizione, per la solitudine delle parole. Le parole sono diventate entità rarefatte, diafane, appena poggiate sulla pellicola del linguaggio.

A suo modo Marie Laure Colasson scrive secondo i parametri della nuova ontologia estetica senza peraltro averla mai incontrata prima in quanto la poetessa francofona che abita a Roma frequenta la rivista soltanto da pochi giorni. Ciò vuol dire, come non mi stanco di ripetere, che le cose sono nell’aria, che un poeta che abbia sensibilità linguistica non può non accorgersi che l’atmosfera delle parole è cambiata, che è cambiata la sensibilità per le parole, e sono cambiate anche le parole.

Quelle parole di un tempo, che abitavano la sintassi di un Cesare Pavese o quella di un Sanguineti, adesso sono state messe in mora, sono state fatte sloggiare da quegli indirizzi, sono state evacuate dalla forza pubblica, il ministro della mala vita, Salvini, ha chiamato i bulldozer e ha fatto tabula rasa delle loro residenze, di quelle bidonville che erano l’accampamento delle parole di uno Zanzotto o degli apologisti epigonici di oggi. Quelle parole non esistono più, sono state bandite e rese obsolete. Ma non da noi dell’Ombra, ma dalla storia.

Non so se sia stato il «dolore» delle parole come pensa Nunzia Binetti, io sto ai fatti: le parole si sono raffreddate, non sopportano più i massaggi cardiaci degli innamorati della parola poetica e degli esquimesi posiziocentrici del vuoto a perdere, le parole della Musa fuggono da chi vuole accalappiarle con l’accalappiacani o con lo scolapasta. Il fatto è che le parole della poesia non sanno più dove rifugiarsi, fuggono, scantonano, preferiscono dimorare negli immondezzai di Roma (Grazie sindaca Virginia Raggi!), nelle risciacquature dei lavabo, nelle pozzanghere dove ci sono cinghiali e gabbiani ad abbeverarsi…

Il Signor Avenarius, un personaggio delle mie poesie, dice: «Le parole hanno dimenticato le parole», sono state attecchite dall’oblio delle parole, un virus pericolosissimo che ci sta decimando senza accorgercene. Siamo lentamente invasi dalle parole piene, le parole comunicazionali che troviamo in tutti i libri di poesia che si stampano oggi.

Giuseppe Gallo
11 giugno 2019 alle 13:52

Carissimo Giorgio, una veloce precisazione per segnalare che m’ero accorto di quanto avevi suggerito sulla ontologia negativa di Heidegger, infatti ti scrivevo in data: 25 maggio 2019 alle 9.19 :

Caro Giorgio, trovo molto interessante l’appunto che esplichi sulla ontologia negativa di Heidegger: «l’Essere è ciò che non si dice» che oggi si rovescerebbe nel suo opposto “l’Essere è ciò che si dice.” e la sua estensione alle poesie di Marina Petrillo e di Donatella Giancaspero. Noto però, che i due assiomi hanno come radice sempre la parola e il linguaggio. Anche il “non si dice” ha bisogno di essere espresso alla stessa stregua di ciò “che si dice”. È sempre il linguaggio che deve parlare…

Poi non abbiamo avuto modo di discuterne. Oggi hai ripreso l’argomento e hai anche richiamato il testo di Massimo Donà, Aporia del fondamento (2009). Penso che la questione sia di capitale importanza… ne è testimonianza la tua più che trentennale esperienza… dobbiamo finirla di indossare gli oscuri “pepli” di quelle poetiche che perpetuano pianti e lagni intorno a ciò che non si sa e non si può sapere… altrimenti l’unica soluzione è un silenzio immane. E non possiamo nemmeno ruotare a vuoto intorno all’indicibile perché rischieremmo di fare la fine della mosca imbottigliata di Wittgenstein per mancanza di collusione con l’esterno… dobbiamo tornare alla complessità della parola e del linguaggio: è solo in questa dimensione che bisogna sperimentare i sentieri e i percorsi… ho la vacua speranza che non siano stati tutti interrotti… In fondo già nel suo severo “Poema” Parmenide poneva a confronto la “via della notte” e la “via del giorno”…

Giorgio Linguaglossa
11 giugno 2019 alle 15:47

caro Giuseppe Gallo,

Ecco l’incipit di L’arco e la lira di Octavio Paz, poeta e saggista tra i più significativi del nostro tempo:

“Scrivere, forse, non ha altra giustificazione che tentare di rispondere alla domanda che ci siamo fatti un giorno e che, fino a quando non ci saremo dati una risposta, non ci darà tregua.“

Una volta, anni fa, uno scrittore di chiacchiere poetiche mi ha fatto questa domanda: “tu che la sai, perché non ci riveli qual è la domanda fondamentale che dobbiamo porci?” – Tu comprendi bene che dinanzi alla albagia e alla truculenza ignorante di una tale domanda io sia rimasto in silenzio, cosa potevo rispondergli?

Sempre Paz scrive:

«La storia dell’uomo si potrebbe ridurre a quella delle relazioni tra le parole e il pensiero. Ogni periodo di crisi inizia o coincide con una critica del linguaggio. Subito viene a mancare la fede nell’efficacia del vocabolo… Persino il silenzio dice qualcosa, poiché è saturo di segni. Non possiamo sfuggire dal linguaggio… Per catturare il linguaggio non abbiamo altro modo che usarlo. Le reti da pesca per le parole sono fatte di parole… Il linguaggio, nella sua realtà ultima, ci sfugge. Questa realtà consiste nell’essere qualcosa di indivisibile e inseparabile dall’uomo. Il linguaggio è una condizione dell’esistenza dell’uomo e non un oggetto, un organismo o un sistema convenzionale di segni che possiamo accettare o disfare».1

Ecco, caro Giuseppe, però adesso sappiamo che le famose «corrispondenze» tra le parole, ci hanno portato fuori strada, perché è proprio del linguaggio dei segni portarci fuori strada. Andare fuori strada è quella la strada. Nel linguaggio non dimora la verità, esso è la verità, la sola e unica verità di cui possiamo fare conoscenza, ma, appena preso possesso di queste verità, ecco che il linguaggio ci mostra l’altro lato della medaglia, ci indica qualcosa d’altro che la verità richiama. Senza fine. Un richiamo rimanda ad un altro richiamo. La verità è allora questo portarci fuori. La verità è ciò che si dice, non ciò che non si dice. È questa la tremenda verità della ontologia positiva. Con il che, per chi capisce la portata delle conseguenze che derivano da questo apoftegma, cambia il modo di considerare il discorso poetico e di abitare il linguaggio poetico.
[…]
Un’opera poetica pura non potrebbe esser fatta di parole e sarebbe, letteralmente, indicibile. Nello stesso tempo un’opera poetica che non lottasse contro la natura delle parole, obbligandole ad andare oltre se stesse e oltre i loro significati relativi, un’opera poetica che non cercasse di far loro dire l’indicibile, risulterebbe una semplice manipolazione verbale. Ciò che caratterizza un’opera poetica è la sua necessaria dipendenza dalla parola tanto quanto la sua battaglia per trascenderla».

1] O. Paz, L’arco e la lira, a cura di Ernesto Franco, il melangolo, 1991 p. 33

Francesco Paolo Intini
12 giugno 2019 alle 10:06

Non Dio

Resta un dubbio sul gatto nero
Se i palazzi ruotano intorno.

I fotoni eccitano le rivoluzioni
La materia oscura inghiotte i quartieri.

Le ombre illuminano
E dal loro centro emergono gli occhi.

I teologi rimasero sconvolti dalla natura della luce
così in dettaglio non s’era mai visto l’essere.

Se doveva pensarsi Dio
bisognava liberarlo dai fotoni e dunque

Le strade si riavvolsero, il traffico rimase inghiottito
Il corpo nero diventò l’imploso di gechi e malve

Il pazzo che scrisse “ Dio c’è” nel triangolo stradale
è il folle che disse “ Dio è morto”.

Lucio Mayoor Tosi
12 giugno 2019 alle 10:48

Nel «dialogo» non si fa differenza tra vivi e morti. Se non vi è differenza, allora siamo tutti vivi, o tutti morti. Se morti, a che vale buttarsi dal Pont Mirabeau? Forse a togliere tra di noi il disturbo…
“– è il dialogo che apre alla soluzione problematologica”. Non il monologo, quindi.
Un passo in avanti nel tempo e ci si ritrova morti. Finalmente immuni. Sarebbe una delizia? Ma se siamo morti e vivi, cosa cambia? Il nostro essere in natura; che da quando abbiamo smesso di migrare ci tocca di accendere il riscaldamento… Lo dicevo stamane agli aironi che vivono qui, nelle pozze d’acqua delle risaie. Agli aironi, perché no?

Giorgio Linguaglossa
12 giugno 2019 alle 11:16

cari amici,

siamo inesorabilmente invasi dalle parole «piene», le parole comunicazionali che troviamo in tutti i libri di poesia che si stampano oggi, e quelle che usiamo tutti i giorni nei nostri commerci quotidiani. Le parole «piene» sono quelle di Salvini & company, sono quelle che chiamano a raccolta, imperative, piene di significato, piene di steccati.

No, le parole della poesia sono un’altra cosa, esse sanno di essere deboli e fragili, sanno di non poter contare sul proprio statuto di verità ontologica, sanno di poggiare su una ontologia meta stabile, soggetta alla mutazione, soggetta al toglimento, alla de-coincisione.

A me francamente fanno ridere le certezze dei poeti della domenica, quelli che mi dicono: «ma come fai a togliere l’io da una poesia?».

Ecco, dinanzi a questa domanda io non ho nulla da dire. Cosa potrei dire? Tutto l’ultimo libro di Maurizio Cucchi è il discorso di un io plenipotenziario: io di qua, io di là, io così, io colà… Probabilmente, opino che se l’autore mette dappertutto l’io ne sarà convinto, sarà in buona fede, forse pensa che l’io sia un passepartout che apre tutte le porte. Io invece, molto modestamente, sono convinto che l’io chiuda tutte le porte, chiude i discorsi invece di aprirli, e li chiude perché è convinto di coincidere con l’esserci, perché crede ingenuamente nell’eternità e nella bontà epistemologica dell’io. L’io si basa su questa credenza popolare: l’io è vero, tutto il resto è falso. Opinione accettabilissima per il senso comune, ma priva di qualsiasi significato filosofico.

È chiaro che un io di questo genere userà soltanto parole «piene», parole «vere»; dividerà le parole: di qua le parole vere e piene, di là le parole non-vere e non-piene.

Guido Galdini
12 giugno 2019 alle 15:35

A dire “io” si finisce subito.
Per questo continuiamo a ripeterlo.

Giorgio Linguaglossa
12 giugno 2019 alle 16:14

Questa che segue è una poesia di un notissimo poeta italiano, la prendo come parametro ed esemplificazione di quello che dicevo sopra. La composizione inizia con la descrizione del pensiero dell’io, poi passa alla auto fustigazione di «noi animali», per poi proseguire con una ruminazione mentale oziosa e peregrina, del tutto vacua e irrisoria: «E laggiù dove andrò, remoto», cui segue tutta una infiorettatura di pensierini irrisori e gratuiti estrapolati dalla camera più segreta dell’io «nell’ultimo conato»…
Ecco, qui siamo in presenza di quello che volevo dire quando parlavo di «parole piene», di parole ad uso di tutti, di parole arroganti in quanto proiezione di un «io» nascosto, ascoso in chissà quale profondità mentale. Lo dice il testo stesso, all’io «piace… assaporare la più elementare forma di dominio». Sì, il dominio delle «parole piene», che si rivelano essere parole vacue, ingorde, irrisorie, fidejussorie… Le parole della storicità debole dell’epoca del presentismo mediatico.

Troppo spesso – pensavo – troppo,
troppo spesso noi animali ci affidiamo
alla bontà curiosa della nostra indole.

E laggiù dove andrò, remoto,
nella patetica smorfia verticale muore
l’impronta, e non lo sa, e replica
se stesso, ancora, nell’ultimo conato
costruttivo. Del resto
ci piace assaporare, puerili,
la più elementare forma di dominio,
espressione del nostro costume
e la natura ci ingombra, ci pesa ma consiglia
le terre più estreme, dove l’attrito procede
e si consuma ancora più violento
e fisico, più naturale.

Se si legge con attenzione questa composizione, ci accorgiamo che non è citato nemmeno un oggetto, tutte le espressioni appartengono al genere della decrescita felice del soliloquio plenipotenziario che è sito in un angolo remoto della mente; una ruminazione che non dice niente, che non parla al lettore, una composizione che si allontana dagli oggetti e si avvicina alla ruminazione interiore. Retropensieri di una retropia, o retropie di retropensieri, fate voi. Anzi, mi correggo, retrovie di retropie…

Nunzia Binetti
12 giugno 2019 alle 17:13

-Tu sei perfetta sintesi di un petto in cui suona una musica al mattino –
Elena tra sé dice al risveglio, pensando da fisarmonica.

Eccolo il ritmo, pezzi di terra morta
sottratti in Argentina. Malinconia di un tango, senza danza.

Che senso avrebbe un brindisi ? Non un bicchiere
fra petali di rose sulla mensa .

Elena sceglie una vestaglia nera ;
il bianco della pelle la contrasta.

Una mia prova in tema. Gaie, Giorgio. Grazie Ombra

Mauro Pierno
12 giugno 2019 alle 17:19

Forse la prestidigitazione.
Le mani sporche. Un lavaggio inutile e le

colombe verdi. Forse una centrifuga
fatta lavorare a forza. Forse un silenzio

senza multipli fratto
tutte quante le resistenze. Forse un vetro

alato, allora una manta. Forse
un oceano di propaganda.

Lucio Mayoor Tosi
12 giugno 2019 alle 17:53

Accade questo,
che molti arrivano dallo spazio, e altri dal tempo.

Chi dallo spazio, tende sempre ad estendersi, aggregare e convincere.
Chi arriva dal tempo vive di attimi in sequenza, senza fine.

Per lo spaziale, il quando è quantificabile. Un freddo calcolare.
Per l’uomo del tempo, il quando è adesso. Fine e inizio.

Non avremo mai pace sulla Terra.

(May : pensierino. Giu 2019)

Giuseppe Gallo
12 giugno 2019 alle 18:47

Caro Giorgio, prima di tutto, un grazie per la chiarezza e la lucidità degli approfondimenti… ormai hai fornito tutti gli elementi per poter procedere sul sentiero dell’ontologia positiva… il resto sarà un’avventura individuale… Mi piace sottolineare, però, un altro aspetto presente nei versi di Milaure Colasson. Tu hai scritto:

“Prendo atto che è scomparso l’io e sono scomparsi i verbi. Finalmente i verbi sono scomparsi, e le parole nuotano nel bianco albume del nulla, fanno a meno dei legami sintattici, fanno a meno del legame unidirezionale e dittatoriale di quella «istanza» o «funzione» che Lacan chiama «io». E la poesia spicca proprio per questa essenzialità di dizione, per la solitudine delle parole. Le parole sono diventate entità rarefatte, diafane, appena poggiate sulla pellicola del linguaggio.”

Ebbene, questo tipo di scrittura mi suggerisce l’idea che la poetessa abbia subito anche il fascino della sensibilità orientale per quella “neutralità dell’immagine” presente negli Haiku, come avrebbe detto Steven Grieco-Ratheb. Per far emergere solo parole, dando ad esse il loro giusto peso, senza legami sintattici e senza la “funzione dittatoriale dell’io”, è necessario liberarle dalle incrostazioni della logica materiale, della loro concretezza comunicazionale… è necessario evocare la loro fragilità per trasformandola in essenza; le parole, in questo caso, veramente, diventano cose che non solo “nuotano nel bianco albume del nulla” (tra l’altro questa immagine mi ha provocato dei brividi), ma slittano, inesorabilmente, verso la deriva “di ciò che si dice”…

Giorgio Linguaglossa
12 giugno 2019 alle 20:47

caro Giuseppe Gallo,

Milaure Colasson è una pittrice, ha sempre pensato e fatto pittura astratta o semiastratta, e questo le ha dato un grande vantaggio rispetto a tutti gli autori che scrivono poesia pensando alla poesia maggioritaria e uniformandosi ad essa. Colasson è abituata a pensare gli oggetti in quanto oggetti non in quanto funzioni dell’io o in quanto assoggettati all’io plenipotenziario. E scrive come pensa, scrive come vede gli oggetti. E questo è un grande vantaggio.

Mauro Pierno
12 giugno 2019 alle 22:05

Eppoi gli abbozzi,
quante sculture.

Hanno un giunto di perfezione.
La pausa sopraggiunta, il solco esatto

per la digitazione.
Forse la prestidigitazione.

Le mani sporche. Un lavaggio inutile e le
colombe verdi. Forse una centrifuga

fatta lavorare a forza. Forse un silenzio
senza multipli fratto

tutte quante le resistenze. Forse un vetro
alato, allora una manta.

Allora
un oceano di propaganda.

24 commenti

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24 risposte a “Dialoghi e Poesie, La storicità debole dell’Epoca del presentismo mediatico, Le parole piene, Le parole comunicazionali della poesia di oggi, Octavio Paz, Marie Laure Colasson, Nunzia Binetti, Guido Galdini, Mauro Pierno, Lucio Mayoor Tosi, Giuseppe Gallo, Francesco Paolo Intini, Giorgio Linguaglossa, Maurizio Cucchi

  1. La poesia di Colasson è significativa: non amo i puntini, ma qui hanno un senso.

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  2. INTERFERENDO di GECO (a proposito di Milaure Colasson)

    Rumori. La cantina sul bordo del nido
    una pompa, il motore e l’acqua in salita

    Millenni accanto alle capinere
    una bottiglia di birra-di che suono? Un ticchettio

    I balconi, bucato lavanda, uno ad uno i saluti, l’abolizione dell’ Apartheid
    Novità di baci e becchi, angoli acuti in un cerchio

    E malva
    fallimento dei mercati. La furia contro lo spirito del tempo

    Lilla nelle banche, nelle casseforti divelte
    E liane sulle autostrade, attorno agli advertisements.

    Faccia sioux, biancospino
    Nessun corrotto ai sottopassaggi

    ortiche e fichi in fuga, un neon di foglie
    un banchiere con premura di Salvatore

    Investimento in rondini, kamikaze su petroliera
    Sacra competizione e spari dalla Trump

    le cassette di sospiri e ragni nei bankomat
    incendio di spiriti, l’ apollineo, l’aplomb di servizio

    l’ab initio dei valori
    schiavitù, la casa patrizia l’accensione del fuoco

    Riflesso su una bottiglia. Lattina in bilico sul muro.
    in calce la firma di geco. Silenzio di ramo.

    (Francesco Paolo Intini)

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  3. annaventura36@hotmai.com

    Mi piace questa espressione;”silenzio di ramo”;che rimanda alla “lattina in bilico sul muro”,sempre nel tema della precarietà silente,nella serena attesa della catastrofe,; ma. alla fine,vuoi vedere che non succede niente?

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  4. L’ha ribloggato su RIDONDANZEe ha commentato:
    Guido Galdini
    12 giugno 2019 alle 15:35

    A dire “io” si finisce subito.
    Per questo continuiamo a ripeterlo.

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  5. Trascrivo qui un Questionario di 4 domande che nel 1995 inviai ad alcuni autori; le risposte poi apparvero quel medesimo anno su un numero del quadrimestrale di letteratura Poiesis che a quell’epoca facevo con alcuni amici.

    1) Vorrei porre la seguente domanda: se è vero che oggi la poesia è «libera», nel senso che non deve nulla a nessuno e che non deve rispondere a nessuno in quanto non v’è interrogazione o, detto in altri termini, mandato, se comunque è vero che la poesia sia soltanto l’impronta digitale di chi la scrive, e quindi un fatto «privato», ritiene che questa situazione storica sia favorevole o sfavorevole alla sopravvivenza della poesia?

    2) Un tempo la poiesis (da poiéo= faccio) fu azione che, unita al canto divenne incantesimo, e unita alla mimica divenne dramma (drama da drao=faccio) rituale, cioè operazione magica, rappresentazione destinata a realizzare una presenza sacrale.
    Oggi, nel laico mondo tecnologico, cosa è divenuta la poesia che ha ormai compiuto il divorzio dall’incantesimo, dal dramma rituale e dalla rappresentazione?

    3) Il problema dell’interrogazione appare strettamente unito al quesito sull’ispirazione; se noi diamo a questa parola il significato etimologico, essa ci indica che la poesia sia qualcosa che nasce non dentro lo «spirito individuale» (formula infelice, lo ammetto) dell’uomo ma come qualcosa . un soffio, uno spirito? – che viene dal di fuori e si impadronisce dell’uomo; se noi riconosciamo al termine entousiasmos, entousiastes un significato affine a quello dell’ispirazione, cioè un qualificativo riferito alla Pizia vaticinante, «plena deo», non possiamo non riconoscere che l’essenza della poesia risieda fuori della poesia stessa, cioè nel mondo.

    4) Ora, vorrei porre un problema, e precisamente: il legame che unisce il dentro con il fuori, cioè il mondo e la poesia, ovvero, il tempo e la temporalità della poesia, è un legame che vorrei chiamare istanza radicale o istanza temporale, che altro non è che quella problematica che il proprio tempo pone all’artista, come anche allo scienziato (anche se in modi differenti).
    Quale è il Suo pensiero?

    Un cordiale saluto.
    Giorgio Linguaglossa

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    • domande interessantissime soprattutto l’ultima, caro Giorgio. La temporalità dello scienziato e dell’ artista che si confronta con il tempo secondo lo scienziato e l’artista. Da quello che posso arguire il tempo per il primo è qualcosa di misurabile, una delle sette grandezze fondamentali, una coordinata come quelle dello spazio. Per l’artista invece cos’è? Possiamo averne un’idea confrontando le loro opere?
      Lo scienziato ha fiducia nella ripetizione dell’esperimento. Se le condizioni sono le stesse, il risultato finale sarà lo stesso.
      Il tempo come successione di istanti uguali è garanzia di una successione di eventi uguali ad altri passati o futuri.
      Si può dire lo stesso di un artista?
      Come dire che se la Gioconda venisse dipinta oggi avrebbe i baffi.
      Perchè questa disparità?
      E’solo perchè la ripetibilità non è un concetto che appartiene all’arte o c’è qualcosa che riguarda la diversa concezione del tempo?
      A parer mio è il concetto di successione di istanti tutti uguali a non avere a che fare con l’opera d’arte dove a c’entrare invece è il concetto di temporalità, ossia della problematica dell’epoca, ciò che emana dallo spirito del tempo.
      Cosa c’è allora nella mente dell’artista se il tempo così concepito non gli lavora dentro? Probabilmente nulla, nient’altro che far zero il tempo a cui corrisponde un pensare per idee assolute come quelle della simmetria, valide nel definire i canoni di bellezza, per l’attrazione sessuale ma altrettanto valide in cristallografia e nella formazione dei legami chimici e in svariati altri campi. Il poeta non si discosta da questa linea di ricerca di entropia alla rovescia.
      Se il tempo non esiste ogni epoca è uguale alle altre ed è legittimo, ultra attuale pensare in termini di polittico o di Commedia e di versi senza un verbo. Pensa tu allora cosa debba girare per la testa di uno che abbia abitudine per poesia ed esperimenti!
      ciao

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    • Alfonso Cataldi

      Con lo studio del mondo subatomico, il concetto di tempo ha costretto a rimettere tutto in discussione, fino ad arrivare a descrivere fenomeni con equazioni in cui non esiste più la variabile tempo. Il tempo così come noi abbiamo imparato a conoscerlo e a misurarlo forse è un’illusione? Nei miei testi scrivo ormai quasi esclusivamente al tempo presente, anche azioni che la mia memoria o la memoria collettiva pone in tempi passati, superando così la convenizione che ci fa usare il tempo come classicamente ce lo hanno insegnato per meglio organizzare la nostra vita pratica. tutto esiste contemporaneamente? Ieri leggevo un’intervista dell’artista Mimmo Paladino, che fa “apparire frammenti di figure, mani, teste, elementi di una poetica che fonde spazi e epoche diverse, definendo un alfabeto di segni molto riconoscibili, che però non hanno un significato di senso univoco. Per Paladino l’artista dà vita a una materia informe che preesiste a lui. E’ un demiurgo, un essere dotato di capacità creatrice e generatrice, senza la quale “è impossibile che ogni cosa abbia nascimento”. Il demiurgo per eccellenza per Paladino è Don Chisciotte: “colui che vede cose che altri non vedono”.

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  6. Benché avverta il peso ( in grado persino di schiacciarmi) delle 4 domande che Giorgio Linguaglossa srotola sul panno verde del piano inclinato del nostro tempo, tempo umano e tempo poetico, non posso sottrarmi all’invito
    impegnativo, sì, ma ineludibile e anche attraente dell’amico Linguaglossa se non altro per le questioni etico-estetiche ma anche tematico-stilistico-formali che le 4 domande linguaglossiane in sé contengono.

    Gino Rago
    VecchioTestamento
    [contro il «no» che dentro mugghia]

    La bella pittura postcubista?
    Il nobile medium dell’olio?

    Rimarrebbero forse le frasi piu turpi
    Contro il «no» che dentro mugghia.
    […]
    Nuove immagini da materiali nuovi.
    Materiali eterocliti. Materiali poveri.

    Il poeta del nuovo paradigma
    Lascia in eredita lamiere malamente saldate.

    Legni combusti. Cenci.
    I segni d’amore o d’affinita per epoche remote.

    I materiali effimeri. I materiali rozzi.
    Le altre parole.
    […]
    Le parole che negano
    Sensazioni e idee della durata eterna.

    I cenci. Gli stracci. Le velature.
    Gli impasti. Le ombreggiature.

    I sacchi vuoti
    Ma pieni più di uomini vuoti.
    […]
    Il ritorno an den Sachen selbst del poeta nuovo
    Lascia in eredità l’arte del «no» libero

    Contro il «sì» obbligato di Ferramonti e Belsen.
    Viaggio incompiuto. Sorriso amareggiato.

    E Milton che urla dal Paradiso Perduto: «E’ inferno.
    Ovunque vada è inferno. Io stesso sono inferno.

    Nessun uomo è un’isola».
    […]
    Nuovo Testamento
    [Vi lascio parole senza suono]

    Vi lascio le schegge. Vi lascio il sole.
    Vi lascio la grandine, la pioggia, il vento.

    Vi lascio i cascami delle fonderie,
    Le scorie radioattive,

    La ricchezza del mondo in poche mani,
    Le macromolecole di veleni.

    Vi lascio le vernici, la plastica, i trucioli.
    E il grafene.

    Vi lascio parole senza suono,
    I sentieri del dolore,

    Le vie della mano sinistra,
    Il catrame, le maschere, le colle,

    L’alluminio in lamine per le scodelle dei cani,
    Le limature, la calce viva, le polveri sottili.

    Vi lascio il sorriso del prigioniero.
    L’ansia d’azzurro di madri nel nero.

    Vi lascio.
    Vi lascio le stelle che brilleranno

    E le schegge di quest’uomo nel fango.
    Vi lascio il fango.

    Vi lascio il canto d’un nuovo Big Bang.
    E il Nulla che è tutto lo Spazio.

    Vi lascio l’energia centripeta del Grande Scoppio,
    L’estensione, l’esplosione, l’espansione dell’uomo

    Nella Parola “altra” di Poesia.

    (gino rago)

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  7. Una sintetica meditazione sulla parte finale della nota critica di Giorgio Linguaglossa sui versi che seguono:
    […]
    Troppo spesso – pensavo – troppo,
    troppo spesso noi animali ci affidiamo
    alla bontà curiosa della nostra indole.

    E laggiù dove andrò, remoto,
    nella patetica smorfia verticale muore
    l’impronta, e non lo sa, e replica
    se stesso, ancora, nell’ultimo conato
    costruttivo. Del resto
    ci piace assaporare, puerili,
    la più elementare forma di dominio,
    espressione del nostro costume
    e la natura ci ingombra, ci pesa ma consiglia
    le terre più estreme, dove l’attrito procede
    e si consuma ancora più violento
    e fisico, più naturale.

    Scrive il nostro Linguaglossa:

    “Se si legge con attenzione questa composizione, ci accorgiamo che non è citato nemmeno un oggetto, tutte le espressioni appartengono al genere della decrescita felice del soliloquio plenipotenziario che è sito in un angolo remoto della mente; una ruminazione che non dice niente, che non parla al lettore, una composizione che si allontana dagli oggetti e si avvicina alla ruminazione interiore. Retropensieri di una retropia, o retropie di retropensieri, fate voi. Anzi, mi correggo, retrovie di retropie…”

    E’ per me la certificazione della irreversibilià del coma etilico di un tipo di poesia che per anni abbiamo letto e visto scorrazzare da libro a libro, di antologia in antologia, di rivista in rivista…
    Nelle vesti di medico legale Giorgio Linguaglossa ha poi fatto l’autopsia sul cadavere di questa poesia decretando la morte del cadavere freddissimo all’obitorio delle case editrici potenti dell’impero di creta della nostrana poesia.

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  8. Lo storico della romanità, Mazzarino, ci ricorda che nella polemica Contro gli Gnostici, Plotino (203/205-270 d.c.) prospetterebbe il contrasto tra spirito pagano e spirito cristiano come «un contrasto tra chi ama il mondo ritenendolo eterno pur con tutte le sue disuguaglianze, e chi invece non l’ama, predicandone la fine». Premesso che amare il mondo non significa accettarne le diseguaglianze e le ingiustizie ma amarlo nonostante le disuguaglianze e le ingiustizie, qui è in questione un prius, una cosa che sta prima della divisione dell’etica dall’estetica e dello stesso politico, si intende la disposizione all’apertura verso il mondo.

    Il disprezzo del mondo proprio dello spirito giudaico-cristiano nutre in sé l’idea della rottura della temporalità. Il mondo esisterebbe non in sé ma in un per noi, in quanto soggetto a passiva subordinazione alla potenza del dominio sulla physis. La temporalità del dominio è la temporalità del dominio e del disprezzo.
    Di contro alla concezione greca della «pienezza del Tempo», l’escatologia giudaico-cristiana piega il Tempo al «compimento del Kairos», fin alla palingenesi in un altro tempo, il tempo della redenzione e della resurrezione. La macchina calcolante della tecnica prende posto nella temporalità giudaico-cristiana come temporalità del dominio e annichilamento della physis.

    Il pensiero di Heidegger intende questo quando scrive che occorre attraversare «la storia del nichilismo e della metafisica» per potere arrestarsi dinanzi alla ineffabilità dell’essere. Il perché dell’essere sarebbe intraducibile con i mezzi del logos.

    Il concetto moderno di rappresentazione presuppone l’esperienza del cogito che dà forma e sostanza agli enti. Il principio pratico-produttivo del concetto di rappresentazione riduce il mondo a «immagine» (Bild) della cosa e a oggetto che sta di fronte (Gegenstand).

    Il concetto classico di Teorein significa corteo, processualità che si dispiega. La nozione moderna di rappresentazione pone in termini invalicabili la distanza del punto di vista in quanto esterno all’ente, insomma, come cogito. E il concetto di arte che ne consegue sarebbe l’immagine esterna dell’oggetto che si forma sulla superficie retinica dell’occhio.

    L’arte del Moderno sarebbe quindi un’arte dell’impressione o, al massimo concedibile, dell’espressione ma mai di penetrazione del mondo, si arresterebbe alla prenotazione di una immagine. L’arte del Moderno è sostanzialmente cartesiana da almeno tre secoli, e la psicologizzazione del cogito che ne fa il freudismo si configura come una variabile dipendente, un adattamento alle nuove circostanze storiche con le quali si presenta il cogito. L’epoca della psicologizzazione del cogito verrebbe a coincidere con l’epoca dell’attraversamento della metafisica.

    Le recenti tendenze dell’arte del Dopo il Moderno sembrerebbero accentuare il processo di psicologizzazione dell’arte moderna, con il che si ha il trionfo dell’estetica da oreficeria e della diffusione dell’estetica fuori dal concetto dell’estetico. Così che se tutto è estetico, nulla è estetico. E l’arte non può che defungere.

    «Le ispirazioni che non fanno anticamera vanno in fumo impotenti».
    «Le opere parlano come le fate nelle favole: tu vuoi l’incondizionato, ti sia concesso l’irriconoscibile».
    «L’estetica non può capire le opere d’arte se le tratta da oggetti ermeneutici. Mundus vult decipi».
    (T.W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, 1970 p, 231 e segg.)

    Lo sguardo che cade dalla poesia sul lettore deve essere come lo sguardo cifrato d’un marziano.
    La poesia per essere vera, deve essere irriconoscibile.
    L’arte che si sottrae al principio del montaggio è kitsch. L’arte è montaggio elevato all’ennesima potenza

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  9. Talìa

    Lo storico della romanità, Mazzarino, ci ricorda che nella polemica Contro gli Gnostici, Plotino (203/205-270 d.c.) prospetterebbe il contrasto tra spirito pagano e spirito cristiano come «un contrasto tra chi ama il mondo ritenendolo eterno pur con tutte le sue disuguaglianze, e chi invece non l’ama, predicandone la fine».

    Il vero cambio di paradigma sarebbe, non tanto “tutti dobbiamo morire”, quanto, invece, “tutti dobbiamo vivere.”

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  10. Celso, Il discorso vero, Adelphi

    RISVOLTO
    Questo libro è una testimonianza decisiva dello scontro dottrinale fra Pagani e Cristiani. Celso, filosofo medioplatonico del II secolo, sferrò con Il discorso vero un attacco radicale contro lo scandalo della nuova religione che veniva dalla Palestina e pretendeva di sostituirsi a culti immemorabili. Col gesto di un aristocratico cosmopolita, lo osserviamo reagire all’invadenza della pìstis, della fede, là dove dovrebbe regnare soltanto la conoscenza. E insieme rivoltarsi contro la boria antropocentrica dei Cristiani, che gli appaiono simili «a un grappolo di pipistrelli, o a formiche uscite dalla tana, o a rane raccolte in sinedrio attorno a un acquitrino, o a vermi riuniti in assemblea in un angolo fangoso che litigano per stabilire chi di loro è più colpevole». Dalla parte cristiana, Celso incontrò, dopo qualche decennio, l’avversario più temibile: Origene. E, per un’ironia della storia, mentre Il discorso vero, nella sua interezza, andò perduto, ciò che sopravvisse furono i frammenti che Origene ne citava nella poderosa opera di confutazione che gli dedicò. In essi, qui presentati per la prima volta in edizione italiana, possiamo riconoscere, in tutto il suo vigore, la voce di una grande civiltà su cui incombe il declino, ma che non vuole rinunciare a se stessa.

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  11. Ricevo da Giuseppe Talia e pubblico questa poesia:

    Cari Germanico e Mario M. Gabriele,

    Ho ritrovato una traccia che credevo perduta nella prosodia.
    Una traccia audio di sovrapposizioni e interruzioni dialogiche.

    Una speculazione arbitraria. Una disfluenza. Una violazione.
    Qualcosa o qualcuno si è introdotto. Ho chiamato il 118.

    Gli esiti contradditori e la loro durata temporale preoccupano.
    Non sto bene. Non sta bene. Non si sta bene. La violazione

    Degli spazi interlocutori, anomalie tecniche, interruzioni,
    Rare presenze regolamentari, conversazioni polifunzionali.

    Pre-occupano le hit estive problematiche/non problematiche
    Tra intoppi e perturbazioni, lapsus linguae e calami stratiformi.

    Una meteora pre-termine. Audioregistrazioni sub-corpus.
    La pragmatica descrittiva di Geoffrey Leech che attribuisce enunciati.

    Le parole sono polisemiche. Le espressioni allocutive. “Ci sei?”
    Il parlante Zimmermann si sovrappone con violenza intenzionale.

    Durata breve e violenta: i muscoli involontari, all’unisono,
    Supportano il parlare corrente e le variazioni di tono e di volume.

    Ascoltate (mi)

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  12. Una considerazione a parte, certo minimale, in merito all’uso dell’articolo, dopo il punto, nelle ripartenze.
    – Se, dopo il punto, tanto spesso si ricorre all’articolo, ecco che questo va a imparentarsi con l’anafora. Agisce sottilmente, ma concorre a stabilire il passo.
    – Ho idea che almeno dimezzando gli articoli, in molte poesie, anzi che intenderlo come ridotto, o raffreddato, lo spazio d’azione ne guadagnerebbe perché maggiori sarebbero le opportunità di variazione.
    Ma forse si era già detto.

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    • Talìa

      Le parole sono polisemiche. Le espressioni allocutive. “Ci sei?”
      Il parlante Zimmermann si sovrappone con violenza in-ten-zio-na-le.

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      • Non capisco, Giuseppe. Se è risposta a questa mia considerazione sull’articolo, allora è bene che io dica che è dovuta alla lettura, e rilettura, dell’altissima poesia polittico di Gino Rago, nella parte “Nuovo testamento” pubblicata sopra. Posso anche approfondire… ma si tratta di appunto strettamente formale; in sostanza, ho considerato il cambio di passo, che in questa parte del polittico è resa evidente dal “Vi lascio”; quindi mi sono accorto degli articoli, della loro funzione a sostegno del timbro… Mi sono detto che, la stessa poesia, tolti alcuni articoli, cambierebbe; ma non so se in meglio (Gino Rago sa perfettamente il fatto suo), solo, ho pensato, si aprirebbero varchi…

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  13. Copio e incollo un messaggio di Alfonso Cataldi giunto alla mia email:
    Cari amici dell’Ombra,

    Ho problemi temporanei di vista, ho dovuto fare un laser d’urgenza per problemi alla retina di un occhio. Posso leggere poco.

    Volevo riallacciarmi alla riflessione di Gino Rago sulla “bontà curiosa della nostra indole animale” e sulla necessità di dominio che siamo chiamati ad esercitare nei confronti della natura, dal grado di civiltà raggiunto, che non mettiamo in discussione, con un mio testo

    “Quel monile sciamanico…”
    direbbe chi osserva il polso della maestra Milena.

    «I suoi alunni e tutto il corpo insegnanti erano gli unici assenti»
    comunica il collaboratore scolastico.

    Tra i piatti da sparecchiare
    Francesca termina l’ultima stesura sulle origini della 3a C.

    A Pripyat gatti selvatici di ogni forma e dimensione
    hanno occupato le abitazioni abbandonate.

    Un gruppo di alieni in tuta e maschera antigas
    prende appunti il sabato sera:

    •l’equilibrio del disastro nucleare.
    •Le bugie allungano il naso

    Dopo mille peripezie
    Pinocchio scopre che il segreto della vita è nell’amore. Umano?

    Troppo umano confidarsi con il legno
    sradicare silenziosi di fronte alla luna.

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  14. L’articolo n. 1) del Manifesto della Nuova Poesia Metafisica, pubblicato sul n. 7 del quadrimestrale di letteratura “Poiesis” nel 1995 si apre con il precetto, in consonanza con la massima di Plotino, di amare l’esistenza del mondo:

    1) Dobbiamo amare l’esistenza del mondo più del mondo stesso e l’esistenza dell’uomo più dell’uomo stesso. L’arte vera raffigura l’uomo intero al centro delle tre dimensioni. Il Senso abita l’intero, la totalità. La nostra casa è il mondo e la lingua che lo delimita. Ampliare la lingua ai limiti dell’indicibile significa ampliare il mondo e la nostra integrale umanità.

    L’articolo ricalcava testualmente il primo articolo del terzo manifesto dell’acmeismo vergato da Osip Mandel’stam, il quale invitava ed ammoniva ad amare il mondo.

    Ecco, dall’acmeismo mandelstamiano del terzo manifesto del 1919 ad oggi, siamo arrivati alla «poesia polittico» e alla «nuova ontologia estetica». C’è un filo rosso che comunica attraverso i secoli ed i millenni, e questo filo rosso è l’amore per il «mondo» inteso come esistenza delle cose che sono in esso.
    Il mio pensiero è che con la «nuova ontologia estetica» e la «poesia polittico» siamo usciti fuori dalla poesia della tradizione giudaico-cristiana, che in questi ultimi secoli qui in Occidente si è sviluppata sulla matrice petrarchesca, per aderire ad una visione più antica, e quindi più attuale: la visione della poesia come Commedia, ovvero, in termini moderni, come «polittico» in grado di abbracciare tempi e spazi plurimi e diversissimi.

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  15. Auguro di cuore, e dal cuore, ad Alfonso Cataldi che l’occhio suo sia sempre nella pienezza della luce ed esprimo la mia ammirazione per la il lievito continuo che riesce a mettere e a farci sentire in ogni suo nuovo componimento.
    Faccio mio totalmente questo pensiero di Giorgio Linguaglossa:

    “Il mio pensiero è che con la «nuova ontologia estetica» e la «poesia polittico» siamo usciti fuori dalla poesia della tradizione giudaico-cristiana, che in questi ultimi secoli qui in Occidente si è sviluppata sulla matrice petrarchesca, per aderire ad una visione più antica, e quindi più attuale: la visione della poesia come Commedia, ovvero, in termini moderni, come «polittico» in grado di abbracciare tempi e spazi plurimi e diversissimi”.
    (gino rago)

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  16. Riprendo una poesia di Mariella Colonna postata da Donatella Giancaspero su Facebook… già pubblicata sull’Ombra nel 2016. Risulta chiaro che Mariella si stava muovendo già allora verso una poesia polittico. Il mio unico intervento è stato la suddivisione in distici.

    Mariella Colonna
    Le case di Praga

    C’è vento. La Moldava si stupisce sotto Ponte Carlo
    per i verdi gli azzurri i grigi e il rosa-fuoco dei lampioni

    che si specchiano e danzano sulle onde.
    Tenui colori mi vengono incontro.

    Mi lascio rapire dal tramonto che si getta nel fiume
    e avvolge la città d’oro cangiante, la stringe con passione,

    la fa più bella. Lei diventa rossa.
    Rosso e oro. È molto bella così, vestita da sera!

    I mostri della notte generati dal sonno della ragione
    saltano sull’Orient-Express, adesso sono in Russia

    nei sogni dei bambini buoni… poi
    vanno in aereo dagli altri bambini del mondo.

    Les fleurs du mal uccidono Baudelaire,
    (già morto a Parigi nel 1867).

    Ed io sono triste per la disperazione di Van Gogh.
    Fioriscono i ciliegi di Arles che lui non può vedere.

    A Barcellona c’è ancora nell’aria il ricordo di me
    e di mia madre, dei sogni irrealizzati. Avevo sei anni.

    Un giovane sulla nave per le Americhe mi presta l’orologio
    e dice “Dentro c’è il tempo, lo puoi fermare oppure farlo correre”.

    Il tempo, inizia a correre all’indietro.
    Il mio volto nello specchio del quadro di Goya.

    (un assolo, la “Primavera” di Vivaldi…
    dipinto da Emily Dickinson.)

    La mia giovinezza. Un nulla vestito di rosa.

    *
    foto di Donatella Giancaspero, Praga 2018: La Moldava da Ponte Carlo

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  17. Giorgio Linguaglossa

    Scrive Alfonso Berardinelli nel libro Poesia non poesia, Einaudi, 2008:

    «La poesia in una certa misura cambia storicamente (ammettiamo per un momento che la storia esista), cioè non è sempre uguale a se stessa e va quindi descritta di nuovo quasi a ogni generazione (o epoca o periodo). Compito specifico dell’attività critica è appunto descrivere, registrare e valutare questi cambiamenti.
    Ma d’altra parte la poesia conserva una sua identità di principio, se non di fatto. È interessante notare che almeno da un quarto di secolo la continuità fra oggi e ieri sembri stare a cuore agli autori più di quanto avvenisse (per esempio) negli anni sessanta, decennio apocalittico e presuntivamente rivoluzionario, quando la lozione, l’identità, la tradizione della poesia venivano contestate e sottoposte a un giudizio radicale in termini di critica marxista (e avanguardista) della società borghese».

    Il ragionamento salomonico di Berardinelli è qui vistosamente ironico verso questi anni di stagnazione e recessione del pensiero critico sulla poesia, il critico romano dice cose ovvie, tanto ovvie da non poter essere confutate: che oggi nessuno o quasi si occupa di critica, anzi, la stessa parola è caduta in disuso e in dispregio. Io di solito se qualcuno mi chiama critico, interloquisco subito dicendo che non sono un critico, ma un calzolaio della poesia e che i miei strumenti sono i chiodi e il martello, oltre, naturalmente, l’incudine. Anzi, lo strumento più importante è l’incudine, lo strumento immobile contro il quale il martello può battere.

    Sembra incredibile lo stupore e la meraviglia di quanti dinanzi alla nuova ontologia estetica gridano metempsicosi e apocatastasi, questo fattore dovrebbe farci venire l’orticaria per la stupida ottusità che rivela una mentalità che manifesta orrore verso un pensiero critico dell’esistente. Come spiegare a questi signori che la nuova ontologia estetica non è nulla di definito ma è un percorso, un cammino in una certa direzione…

    Ho saputo che è corsa voce a Milano e in certi ambienti romani, di non dare troppo credito alla ricerca intrapresa dall’Ombra, di non farne parola o menzione per nessun motivo, di erigere una barriera di silenzio. Buffo vero? Soprattutto meschino oltre che auto liquidatorio, ma che rivela bene con che tipo di personaggi abbiamo a che fare oggi, con quelle persone che hanno le mani in pasta… come tanti Lotti che maneggiano e maneggiano al CSM per le prebende e le nomine politiche…

    Per fortuna questa sembra essere la tegola definitiva per Renzi e i renziani i quali adesso possono andarsi a fondare un partitino personale…

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    • Mario Gabriele

      Non è alzando una barriera di silenzio che si possa mettere all’Indice la Nuova Ontologia Estetica.

      E’ come instaurare un pensiero debole,espressione del caduco, e dell”effimero, per imporre lo Status quo di una commercializzazione poetica ormai allo sbando e in crisi.

      Non si può essere ostativi fino a questo punto, ignorando che la Cultura e il Progresso linguistico sono due eventi necessari alla nostra Società. Per caso, la nuova Ontologia estetica influenza l’Antropologia Culturale tanto da minare gli altrui programmi editoriali e critici?

      Siamo convinti che alzare un nuovo muro dopo, un secolo di disgregazione linguistica, non abbia più il cemento per fissare i pilastri nella nuova poesia!

      Marcuse ha riflettuto molto su quei soggetti capaci di condizionare le menti ostacolando la libera soddisfazione delle pulsioni dell’individuo che è l’unico soggetto a dover scegliere tra il vero e falso verde.Siamo tornati di nuovo in questa situazione?

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