Che cosa salvare del ‘900? Ho pensato di mettermi a camminare, per un breve tratto con Tzvetan Todorov per una storia delle idee su e di un secolo alla ricerca della
MEMORIA DEL MALE nella TENTAZIONE DEL BENE
“Mi ricordo del primo gennaio 1950: avevo undici anni, e poiché la data rappresentava già una cifra abbastanza tonda, mi domandavo con qualche inquietudine, seduto ai piedi di un albero di Natale che allora si chiamava albero di Capodanno, se avrei raggiunto quella data altrimenti più tonda che è il primo gennaio 2000. Era talmente lontano, mezzo secolo ancora da attendere! Sarei sicuramente morto prima. Ora ecco che un batter d’occhio più tardi quest’altra data è arrivata, e mi incita, come tutti, a pormi la domanda: che cosa bisogna conservare di questo secolo? Dico proprio secolo, anche se si cambia contemporaneamente di millennio: quest’ultimo non si lascia afferrare, l’altro sì.
Il «Times Literary Supplement», periodico letterario londinese, ci sollecita ogni anno a scegliere il «libro dell’anno»; alla fine del 1999 chiedevano anche il «libro del millennio». Ho giudicato la questione così futile che non ho mandato alcuna risposta. Il secolo, invece, produce senso: è la nostra vita più quella dei nostri genitori, tutt’al più dei nostri nonni. Un secolo è il tempo accessibile alla memoria degli individui.
Non sono uno «specialista» del ventesimo secolo, come può esserlo uno storico, un sociologo, un politologo, né voglio diventarlo adesso. I fatti, almeno nelle loro grandi linee, sono noti; oggi, come si dice, li si trova in tutti i buoni manuali. Ma i fatti in sé non rivelano il loro senso, che è ciò che m’interessa. Non vorrei sostituirmi agli storici, che già fanno bene il loro lavoro, ma riflettere sulla storia che essi stanno scrivendo. Il mio sguardo sul secolo è quello non di uno «specialista», ma del testimone interessato, dello scrittore che cerca di capire il proprio tempo. Il mio destino personale determina in parte il punto d’approccio che scelgo, e ciò in duplice modo: per le peripezie della mia esistenza e per la mia professione. In due parole: sono nato in Bulgaria e ho vissuto in questo paese fino al 1963, mentre era sottomesso al regime comunista; da allora abito in Francia. Per un altro lato, il mio lavoro professionale concerne i fatti della cultura, della morale, della politica, e pratico, più particolarmente, la storia delle idee. La scelta di ciò che vi è stato di più importante nel secolo, di ciò che quindi permette di costruirne il senso, dipende dalla vostra identità. Per un africano, per esempio, l’avvenimento politico decisivo è sicuramente il colonialismo, e poi la decolonizzazione. Anche per un europeo – e qui mi occuperò essenzialmente del ventesimo secolo europeo, facendo solo brevi incursioni negli altri continenti – la scelta è ampiamente aperta. Alcuni direbbero che l’avvenimento maggiore, sulla lunga durata, è ciò che è chiamato la «liberazione delle donne»: la loro entrata nella vita pubblica, la loro presa di controllo della fecondità (la pillola) e, al tempo stesso, l’estensione dei valori tradizionalmente «femminili», quelli del mondo privato, sulla vita dei due sessi. Altri privilegeranno la diminuzione drastica della mortalità infantile, l’allungamento della vita nei paesi occidentali, gli sconvolgimenti demografici. Altri ancora potrebbero pensare che il senso del secolo è deciso dalle grandi conquiste della tecnica: dominio dell’energia atomica, decifrazione del codice genetico, circolazione elettronica dell’informazione, televisione.
Sono d’accordo con gli uni e con gli altri, ma la mia esperienza personale non mi dà nessun chiarimento supplementare su questi temi; essa mi orienta piuttosto verso una scelta diversa. L’avvenimento centrale, per me, è la comparsa di un nuovo male, di un regime politico inedito, il totalitarismo, che, al suo apogeo, ha dominato buona parte del mondo; che oggi è scomparso in Europa, ma per nulla in altri continenti; e i cui strascichi restano presenti fra noi. Vorrei quindi interrogare qui, innanzitutto, le lezioni dello scontro fra il totalitarismo e il suo nemico, la democrazia.
Presentare il secolo come dominato dalla lotta fra queste due forze implica già una distinzione di valori che non tutti condividono. Il problema deriva dal fatto che l’Europa non ha conosciuto un totalitarismo ma due, il comunismo e il fascismo; che questi due movimenti si sono violentemente opposti, sul terreno dell’ideologia e poi sui campi di battaglia; che ora l’uno ora l’altro si sono visti avvicinare agli stati democratici. I tre raggruppamenti possibili fra questi regimi sono stati tutti praticati una volta o l’altra. In un primo tempo, i comunisti considerano insieme i loro nemici (tutti dei capitalisti!), le democrazie liberali e il fascismo distinguendosi come forma moderata e forma estrema del medesimo male. A metà degli anni Trenta, e più ancora durante la seconda guerra mondiale, la distinzione cambia: democratici e comunisti formano allora un’alleanza antifascista. Infine, qualche anno prima dello scoppio della guerra, e soprattutto dopo la sua fine, è stato proposto di considerare fascismo e comunismo come due sottospecie del medesimo genere, il totalitarismo, parola rivendicata all’inizio dai fascisti italiani. Tornerò più avanti sulle definizioni e sulle delimitazioni; ma è già chiaro, dall’articolazione globale che scelgo, che questa terza distinzione ai miei occhi è la più illuminante.
La scelta dell’avvenimento maggiore restringe sensibilmente il mio tema. Non solo mi limiterà per l’essenziale a un unico continente, il mio, ma il secolo stesso si abbrevia un po’: il suo periodo centrale va dal 1917 al 1991, anche se bisognerà risalire indietro e, per altro verso, interrogarsi sul suo ultimissimo decennio. Fatto più importante, mi limito a un solo avvenimento della vita pubblica, lasciando nell’ombra tutti gli altri, come vita privata, arti, scienze o tecniche. Ma la ricerca del senso ha sempre un prezzo: essa procede per scelta e messa in relazione – che avrebbero potuto essere altre. Il senso che credo di intravedere non esclude quello degli altri – vi si aggiunge, nel migliore dei casi. Il mio punto di partenza, la duplice affermazione secondo cui il totalitarismo è la grande innovazione politica del secolo e che esso è anche un male estremo, comporta già una prima conseguenza: bisogna rinunciare all’idea di un progresso continuo, al quale credevano alcuni grandi spiriti dei secoli passati. Il totalitarismo è una novità, ed è peggio di ciò che lo precedeva.
Ciò non prova affatto che l’umanità segua inesorabilmente una china discendente, ma solo che la direzione della storia non è sottomessa ad alcuna legge semplice né, forse, ad alcuna legge tout court. Lo scontro fra totalitarismo e democrazia, come quello fra le due varianti totalitarie, comunismo e nazismo, costituisce il primo tema della mia inchiesta. Il secondo ne deriva per il fatto stesso che questi avvenimenti appartengono per l’essenziale al passato e sopravvivono fra noi solo grazie alla memoria. Ora, quest’ultima non è affatto assimilabile a una registrazione meccanica di ciò che accade; essa ha forme e funzioni fra cui è obbligatorio scegliere, la sua istituzione conosce fasi che possono subire perturbazioni specifiche, essa può essere assunta da attori differenti e condurre ad atteggiamenti morali opposti.
La memoria è sempre e necessariamente una buona cosa, e l’oblio una maledizione assoluta? Il passato permette di capire meglio il presente o serve il più delle volte a nasconderlo? Le memorie del secolo saranno dunque, a loro volta, sottoposte a esame.
Infine, anche se si tratta innanzitutto di riflettere sul senso di questo avvenimento centrale, mi vedo obbligato a prendere conoscenza anche del passato più immediato, quello posteriore alla caduta del Muro di Berlino, per interrogarlo alla luce degli insegnamenti scaturiti dall’analisi precedente. Una volta vinto il totalitarismo, sarebbe sopravvenuto il regno del bene? O nuovi pericoli incombono sulle nostre democrazie liberali? L’esempio che scelgo qui è tratto dall’attualità recente, poiché si tratta della guerra in Iugoslavia e, più specificamente, degli avvenimenti nel Kosovo. Il passato totalitario, il modo in cui si perpetua nella memoria, infine le luci che getta sul presente formeranno dunque i tre tempi dell’inchiesta che segue.
Ho scelto di mescolare a questa riflessione sul bene e sul male politici del secolo un richiamo di alcuni destini individuali fortemente segnati dal totalitarismo, che tuttavia hanno saputo resistergli. Gli uomini e le donne di cui parlerò non sono del tutto diversi dagli altri. Non sono né eroi né santi, e neppure dei «giusti»; sono individui fallibili, come voi e me. Tuttavia hanno seguito tutti un itinerario drammatico; hanno tutti sofferto nella loro carne, e al tempo stesso hanno cercato di far passare il frutto della loro esperienza nei loro scritti. Costretti a vedere da vicino il male totalitario, si sono mostrati più lucidi della media e, grazie al loro talento come alla loro eloquenza, hanno saputo trasmetterci ciò che avevano imparato, senza tuttavia mai diventare dei perentori distributori di lezioni. Queste persone provengono da paesi diversi, Russia, Germania, Francia, Italia, e tuttavia qualcosa li accomuna. Da un autore all’altro (anche se ci sono sfumature) si ritrova lo stesso sentimento, quello di uno spavento che non conduce alla paralisi; e anche uno stesso pensiero, per il quale trovo una sola etichetta appropriata, quella di “umanesimo critico”. I ritratti di Vasilij Grossman e di Margarete Buber-Neumann, di David Rousset e di Primo Levi, di Romain Gary e di Germaine Tillion sono lì per aiutarci a non disperare.
Come ci si ricorderà un giorno di questo secolo? Sarà chiamato il secolo di Stalin e di Hitler? Sarebbe accordare ai tiranni un onore che non meritano: è inutile glorificare i malfattori. Gli si darà il nome degli scrittori e dei pensatori che erano da vivi i più influenti, che suscitavano più entusiasmo e controversia, quando a cose fatte ci si accorge che si sono quasi sempre ingannati nelle loro scelte e che hanno indotto in errore i milioni di lettori che li ammiravano? Sarebbe un peccato riprodurre nel presente gli errori del passato.
Per parte mia preferirei che si ricordassero, di questo cupo secolo, le figure luminose di alcuni individui dal destino drammatico, dalla lucidità impietosa, che hanno continuato malgrado tutto a credere che l’uomo merita di rimanere lo scopo dell’uomo.”
Alla fine della passeggiata saluto Todorov all’ombra di un pioppo tremulo e su sua richiesta lo lascio con sé stesso, anche per il suo desiderio di riprendere fiato. In me, un senso di leggerezza inconsueta al termine del monologo di Todorov per tutta la camminata: i dubbi sovrastano qualche sparuta anguilla di certezza. E mi sento più vivo. Nel dubbio mi ricarico. Fatte le debite proporzioni e stabilite le necessarie differenze, il dubbio è in me ed è nell’economia generale della mia vita ciò che Sciascia è stato per Camilleri, su ammissioni reiterate dello stesso Camilleri:
“Quando sento le mie batterie scariche leggo o ri-leggo Leonardo Sciascia…”
Giorgio Linguaglossa
cari Francesco Paolo Intini e amici e interlocutori,
non vi nascondo che all’epoca le risposte dei letterati a queste Quattro Domande [ndr leggi precedente post] furono, dal mio punto di vista fortemente insoddisfacenti e riduttive. A quel tempo, siamo nel 1996, cominciai a prendere coscienza che era pleonastico e anzi controproducente sollevare questioni o istanze che avrebbero potuto insospettire ed irritare le istituzioni stilistiche. Infatti, di lì a poco ricevetti una cartolina postale di Andrea Zanzotto il quale mi comunicava che «non sono interessato alla direzione presa dalla rivista» [ndr, il quadrimestrale di letteratura “Poiesis”, che a quell’epoca coordinavo]. Quello fu il suggello, l’imprimatur della sentenza: alle istituzioni stilistiche vigenti non interessava e (non interessa) che si mettano sul tappeto questioni «allotrie», e comunque, non formulate secondo le convenzioni chiesastiche della ortodossia culturale. Ne presi atto.
Sono passati 23 anni e la situazione di cultural lag non è cambiata, anzi, sembra peggiorata. il conformismo nazional-elitario delle istituzioni stilistiche ha raggiunto l’apice. E la riprova ne è che sull’articolo sulla poesia e la storia culturale di Mario Lunetta, nessuno dei suoi amici o estimatori ha sentito la necessità di scrivere un commento anche di due righe per ricordare le battaglie del poeta romano degli ultimi cinquanta anni, battaglie che si possono anche non condividere (e infatti il sottoscritto non condivideva affatto molte sue posizioni culturali e di poetica), ma il rispetto e la riconoscenza per un poeta intellettuale come Mario Lunetta dovrebbe essere fuori discussione anche da chi non la pensava come lui.
Penso che le 4 Domande del 1996 andavano al cuore delle questioni del fare poesia, ieri come oggi. L’Interrogazione fondamentale, di che cosa si tratta? Ma, esiste veramente?, o è una fandonia inventata da un poetucolo? Ecco, qui, proprio su questo punto ci si gioca il testimone del passaggio dalla generazione dei Fortini, dei Pasolini, dei Bigongiari, dei Sanguineti a quelle che hanno occupato le posizioni delle cosiddette istituzioni stilistiche. La caduta del tasso di intelligenza delle questioni teoriche e filosofiche presso le generazioni che sono seguite è stata perpendicolare e catastrofica. Gli autori educati ed edulcorati di oggi non sono in grado di dire niente di significativo sulla questione della Interrogazione fondamentale, non hanno né la competenza (non essendo poeti), né la cultura filosofica necessaria per affrontare un tale argomento.
Lucio Mayoor Tosi
L’accusa di «metempsicosi» si spiega solo in riferimento al fantasma, e ho idea che accada per il modo in cui talvolta viene esplicitato. Nelle poesie NOE vi sono esempi innumerevoli. Per questa e altre questioni d’accusa, il fatto è che sembra mancare il lettore creativo-attivo a cui queste poesie sono rivolte; un lettore capace di non prendere tutto alla lettera, al quale anche la categoria della metafora sia venuta a noia. Non ci si accorge dell’apertura che si crea grazie all’uso del frammento; che probabilmente viene inteso come ennesimo escamotage strutturalistico, mentre invece è l’esatto contrario, in quanto la “nuova” struttura serve esattamente a de-strutturare, creare varchi, consentire dissonanze altrimenti impossibili. Si dirà che ne va del “senso”, evidentemente. Già, come se il senso fosse un uccellino da tenere in gabbia… In effetti, caro Giorgio, sembra un paradosso, quello di de-strutturare ricorrendo a una nuova, seppur labile e soggettiva, strutturazione. Ma questi sarebbero tecnicismi; e arrivo a dire che sembra un parlare da pittori (quello che tu dici del ciabattino), come faceva De Chirico quando recensiva una qualche mostra d’altri: l’impasto, la scelta del colore (tutto quel «bitume» in Caravaggio); epperò è necessario: più fisica che metafisica.
Mauro Pierno
L’agorà ha una fuga, un cortocircuito riconoscibile. Un
gusto memorabile. Una cialda. Un passo double che arricchisce
la sintassi, la pagina labile di un pensiero, questo profumo di nocciola.
L’uomo abita l’ombra delle parole, la giostra dell’ombra delle parole. Un “animale metafisico” lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l’ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l’uomo legge l’universo.
«Quegli sguardi dall'abisso... noi guardiamo dentro quelle pupille enormi, nere, lucenti come sfere d'ossidiana, e vediamo l'abisso. Ma loro verso cosa guardano? Verso di noi guardano. E vedono in noi l'abisso»
Il Mangiaparole – Come abbonarsi alla rivista, Quota ordinaria € 25, Quota sostenitore € 50 + copia di un Libro in omaggio a scelta della collana Il Dado e la Clessidra
Trimestrale di Poesia Critica e Contemporaneistica Il Mangiaparole n. 1
La Nuova Ontologia Estetica, Poetry kitchen – La parola kitchen è da pensarsi come evento linguistico: quindi evento dell’altro proprio perché si annuncia in quanto irruzione di ciò che è per venire, ciò che è assolutamente non riappropriabile; in quanto unico e singolare l’evento linguistico sfida l’anticipazione, la riappropriazione, il calcolo ed ogni predeterminazione. L’avvenire, ciò che sta per av-venire può essere pensato solo a partire da una radicale alterità, che va accolta e rispettata nella sua inappropriabilità e infungibilità. La contaminazione, l’impurità, l’intreccio, la complicazione, la coinplicazione, l’interferenza, i rumori di fondo, la duplicazione, la peritropé, il salto, la perifrasi costituiscono il nocciolo stesso della fusione a freddo dei materiali linguistici, gli algoritmi che descrivono la non originarietà del linguaggio, il suo esser sempre stato, il suo essere sempre presente; una ontologia della coimplicazione occupa il posto della tradizionale ontologia che divideva essere e linguaggio, la ontologia della coimplicazione ci dice che il linguaggio è l’essere, l’unico essere al quale possiamo accedere. Non si dà mai una purezza espressiva nel logos ma sempre una impurità dell’espressione, un voler dire, un ammiccare, un parlare per indizi e per rinvii.
La storia letteraria è un libro di ricette. Gli editori sono i cuochi. I filosofi quelli che scrivono il menu. Gli scrittori e i preti sono i camerieri. I critici letterari sono i buttafuori. Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina.
Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura
Al posto del problema gnoseologico kantiano, come sia possibile la metafisica, compare quella di filosofia della storia, se sia possibile comunque un’esperienza metafisica
Ogni felicità è frammento di tutta la felicità che si nega agli uomini e che essi si negano
Gli uomini vivono sotto il totem di un sortilegio: che la vita abbia un senso o che non ne abbia alcuno
Pura immediatezza e feticismo sono ugualmente non veri
Così anche la disperazione è l’ultima ideologia, utilissima per l’autoconservazione
Un angelo zoppo ci venne incontro e disse, senza guardarci: “malediciamo il nome di Dio.”
Nessuno capace di amare e così ciascuno crede di essere amato troppo poco
Le epoche della felicità sono i suoi fogli vuoti (Hegel)
Sortilegio e ideologia sono la stessa cosa (T.W. Adorno) Si può dire… che l’uomo è l’essere che progetta di essere Dio. Dio, valore e termine ultimo della trascendenza, rappresenta il limite permanente in base al quale l’uomo si fa annunciare ciò che è. Essere uomo significa tendere ad essere Dio, o, se si preferisce, l’uomo è fondamentalmente desiderio di essere Dio (J.P. Sartre)
Alfredo de Palchi monografia – Adesso diciamo una cosa tremendamente reale, che siamo entrati tutti in un Grande Gelo, in una nuova epoca, nell’epoca della piccola glaciazione dove le parole le trovi sì, ma raffreddate se non ibernate
Donatella Costantina Giancaspero
Vincenzo Petronelli La tecnica pone fine alla metafisica dell’occidente assegnandole un compito diverso in concomitanza con la dissoluzione della struttura denotativa che ha caratterizzato le lingue umane
la tecnica pone fine alla metafisica dell’occidente assegnandole un compito diverso in concomitanza con la dissoluzione della struttura denotativa che ha caratterizzato le lingue umane
La poesia è scrittura della nostra preistoria
Il soggetto non è mai del tutto soggetto, l’oggetto oggetto
Le cose si irrigidiscono in frammenti di ciò che è stato soggiogato
Il piacere sensoriale, a volte punito da un misto di ascetismo e di autoritarismo, è divenuto storicamente nemico immediato dell’arte: l’eufonia del suono, l’armonia dei colori, la soavità sono divenute pacchianeria e marchio dell’industria culturale (Adorno)
L’io penetra l’oggetto pensandolo e immaginandolo
Helle Busacca La disintegrazione della «struttura tragica» della poesia di Maria Rosaria Madonna segna la pre-condizione di possibilità per la nascita della poetry kitchen.
Edith Dzieduszycka. Avevano corso,/ di giorno e di notte,/ poi di nuovo di giorno,/ e ancora di notte./ Avevano corso/ come bestie assetate,/ in cerca del ruscello al quale abbeverarsi
Letizia Leone: Il diavolo indossa un camice bianco/ E stacca pezzi di carne dalla carne/ Del mondo/ Con aghi, occhi a punta, lame, rasoi // Non affonda la mano/ ma ferro disinfettato./ Non si sporca
Su di un cerchio ogni punto d’inizio può anche essere un punto di fine (Eraclito) – Roma, 1997, Giorgio Linguaglossa e Antonella Zagaroli
Cara Signora Schubert, mi capita di vedere nello specchio Greta Garbo. È sempre più simile A Socrate. Forse la causa è una cicatrice sul vetro (Ewa Lipska)
La casa pare ormeggiata nel cassetto di una vecchia scrivania./ “Mi chiedevo dove avessi lasciato le scarpe”./ La donna guarda attraverso le fessure della tapparella./ Ha sentito sbattere la portiera (Lucio Mayoor Tosi)
Anna Ventura conserva le parole tra le righe della sua scrittura come si mette un cibo in frigorifero
Domando al piombo perché ti sei lasciato fondere in pallottola? Ti sei forse scordato degli alchimisti? (Ch. Simic)
La precarietà del pensiero non identificante che indugia sulle cose. La tranquilla consapevolezza che ciò che possono dare le parole poetiche forse non è granché ma è pur sempre qualcosa di importante
Il mio amico [di Roma]*, quello che si occupa del Signor Nulla, litiga di nascosto con lo specchio (Gino Rago)
Le parole sono i raggi ultravioletti dell’anima
Maria Rosaria Madonna, cover 1992
Iosif Brodskij Le immagini rappresentano il contro movimento delle parole. C’è un rapporto debitorio tra le immagini e le parole, o un rapporto creditorio, uno squilibrio della contabilità, della partita doppia
Giorgio Linguaglossa Critica della Ragione Sufficiente
Trattare tutte le cose come un terzo pensiero che ci osserva
Edith Dzieduszycka
Alfredo de Palchi, a 12 anni/ meschino nella tuta lurida di grassi/ per motori a nafta/ consegno 5 lire/ (la settimana—domenica compresa)/ nella busta troppo larga al nonno anarchico/ mangiato dal cancro
Mauro Pierno, Compostaggi – Così anche la disperazione è l’ultima ideologia, condizionata storicamente e socialmente. Il contenuto di verità dell’assente è indifferente (T.W. Adorno)
La poesia di Giuseppe Talia proviene da una grande deflagrazione delle parole e della stessa tradizione del ‘900
Perdita dell’Origine (Ursprung) e spaesatezza (Heimatlosigkeit) si danno la mano amichevolmente. Se manca l’Origine, c’è la spaesatezza. E siamo tutti deiettati nel mondo senza più una patria (Heimat). Ed ecco l’Estraneo che si avvicina. E all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich) le nottole del tramonto singhiozzano [Maria Rosaria Madonna]
in cover Maria Rosaria Madonna
La poesia di Mario Gabriele è un film, una successione di fotogrammi in un orologio senza lancette. «Una vita che avesse senso non si porrebbe il problema del senso: esso sfugge alla questione» (T.W. Adorno)
Un gendarme della RDT, lungo la Friedrichstraße,/ separava la pula dal grano,/ chiese a Franz se mai avesse letto Il crepuscolo degli dei./ Fermo sul binario n. 1 stava il rapido 777./ Pochi libri sul sedile. Il viso di Marilyn sul Time. (Mario Gabriele)
Gezim Hajdari, Il poietès è il più grande positivo perché porta le cose all’essere dal nulla
Ci sono dei pensieri che hanno una carica elettrica, uno di questi sono le cose della vita, gli eventi che ci accadono, gli eventi omnibus»diceva Ortega y Gasset
Perché le parole sono sagge, loro lo sanno di essere melliflue e superflue
Un Enigma ci parla, ma noi non comprendiamo quella lingua. L’Enigma non può essere sciolto, può solo essere vissuto
Quante parole dobbiamo usare per avvertire il silenzio tra le parole?
Quando una categoria si modifica muta la costellazione di tutte le altre (Adorno)
Letizia Leone
Giorgio Agamben Da quella lontananza rovesciata raggiungiamo la lontananza nostalgica. Non essere a casa propria ovunque
Critica della Ragione sufficiente
Il postino della verità non passa né due volte né una volta, non passa mai. Non c’è alcuna verità nella soggettività, non c’è alcuna verità nel canto degli uccelli nel bosco che tanto piaceva all’estetica kantiana
Mario Gabriele, Una fila di caravan al centro della/ piazza con gente venuta da Trescore e da Milano ad ascoltare Licinio:/-Questa è Yasmina da Madhia che nella vita ha tradito e amato,/ per questo la lasceremo ai lupi e ai cani
Predrag Bjelosevic
Gino Rago, Alla domanda di Herbert: «Dove passerai l’eternità?»,/ risponde il filosofo Erèsia: «cara Signora Circe, caro Signor Nessuno,/ il poeta da finisterre parla con l’oceano e scrive le sue parole sull’acqua
Le parole che scriviamo ci parlano di altre parole che non conosciamo
Le parole sono finestre che aggettano sul labirinto che noi siamo
Anna Ventura, Finalmente so/ che cosa mi avete insegnato./ Siete nella tazza di caffè/ vuota sul tavolo,/ nelle carte sparse, nel cerchio di luce della lampada.
Era piccola la casa, accanto a un cimitero romano. I suoi vetri tremavano per via di carri armati e caccia (Charles Simic)
Roberto Bertoldo
Donatella Giancaspero, Giorgio Linguaglossa, 2016
Alle 18 torna Milena. Prepara la cena. Il tavolo ha quarant’anni. Sale il fumo fino alla lampada. Andrea rinnova aria fresca (Mario Gabriele)
Poiché solo all’apparire del “perturbante” si dileguano gli idoli. Exeunt simulacra (Giacomo Marramao)
Lucio Mayoor Tosi, – Prenderò del Cornac; con spremuta di pomodori e un Lìsson. – Ci vuole della cannella sul Lìsson? – Sì, perché no./ Lo sai che sono innamorata di te
Gezim Hajdari
Carlo Livia, La prigione celeste
Ewa Tagher
Wystan Hugh Auden
Petr Kral
Michal Ajvaz
Mario Lunetta
Ubaldo de Robertis
Jorge Luis Borges
Giuseppe Talia
Kjell Espmark
Tomas Tranströmer
Salman Rushdie
Osip Mandel’stam
Iosif Brodskij
Boris Pasternak
Cesare Pavese
Georg Trakl
Sabino Caronia
Vladimir Majakovskij
Il Mangiaparole n. 10
Pier Paolo Pasolini
Czeslaw Milosz
Salman Rushdie
Alejandra Alfaro Alfieri
Duska Vrhovac
Fernanda Romagnoli
Antologia della Poetry kitchen – Il discorso poetico abita quel paragrafo dell’ inconscio dove siede il deus absconditus, dove fa ingresso l’Estraneo, l’Innominabile. Giacché, se è inconscio, e quindi segreto, quella è la sua abitazione prediletta. Noi lo sappiamo, l’Estraneo non ama soggiornare nei luoghi illuminati, preferisce l’ombra, in particolare l’ombra delle parole e delle cose, gli angoli bui, i recessi umidi e poco rischiarati.
Marie Laure Colasson
Lorenzo Calogero
Predrag Bjelosevic
Petr Kral Il Mangiaparole
Zbigniew Herbert
Bertolt Brecht
Werner Aspenström
Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa
Fernando Pessoa
Giuseppe Ungaretti
Eugenio Montale
Paul Celan
Ezra Pound
Edgar Allan Poe
T.S. Eliot
Samuel Beckett
Franco Fortini
Allen Ginsberg
Charles Bukowski
Agota Kristof
Derek Walcott
Giorgio Linguaglossa e Gino Rago
Marina Petrillo
Charles Simic, Il mostro ama il suo labirinto e abita presso l’Hotel Insonnia
Fernando Pessoa
Jacopo Ricciardi
Jacopo Ricciardi
Samuel Beckett
Anna Ventura, «Tra le parole e le cose occorre una grande distanza»
Guido Galdini, Le parole sono schegge di appunti precolombiani – è uno specchio per le allodole/ o sono allodole per lo specchio/ o le allodole sono lo specchio?
Guido Galdini
Mauro Pierno, Lo statuto recondito delle parole dimenticate
L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.
L'uomo abita l'ombra delle parole, la giostra dell'ombra delle parole. Un "animale metafisico" lo ha definito Albert Caraco: un ente che dà luce al mondo attraverso le parole. Tra la parola e la luce cade l'ombra che le permette di splendere. Il Logos, infatti, è la struttura fondamentale, la lente di ingrandimento con la quale l'uomo legge l'universo.
La presenza di Èrato vuole essere la palestra della poesia e della critica della poesia operata sul campo, un libero e democratico agone delle idee, il luogo del confronto dei gusti e delle posizioni senza alcuna preclusione verso nessuna petizione di poetica e di poesia.
16 – 18 giugno 2019, Dialoghi e Commenti di Vari Autori sulle 4 Domande del 1996, Poesie di Giuseppe Talìa, Marina Petrillo, Mauro Pierno, C’è una Domanda Fondamentale che muove la poiesis?, Che cosa salvare del ‘900? di Tzvetan Todorov
Gino Rago
Che cosa salvare del ‘900? Ho pensato di mettermi a camminare, per un breve tratto con Tzvetan Todorov per una storia delle idee su e di un secolo alla ricerca della
MEMORIA DEL MALE nella TENTAZIONE DEL BENE
“Mi ricordo del primo gennaio 1950: avevo undici anni, e poiché la data rappresentava già una cifra abbastanza tonda, mi domandavo con qualche inquietudine, seduto ai piedi di un albero di Natale che allora si chiamava albero di Capodanno, se avrei raggiunto quella data altrimenti più tonda che è il primo gennaio 2000. Era talmente lontano, mezzo secolo ancora da attendere! Sarei sicuramente morto prima. Ora ecco che un batter d’occhio più tardi quest’altra data è arrivata, e mi incita, come tutti, a pormi la domanda: che cosa bisogna conservare di questo secolo? Dico proprio secolo, anche se si cambia contemporaneamente di millennio: quest’ultimo non si lascia afferrare, l’altro sì.
Il «Times Literary Supplement», periodico letterario londinese, ci sollecita ogni anno a scegliere il «libro dell’anno»; alla fine del 1999 chiedevano anche il «libro del millennio». Ho giudicato la questione così futile che non ho mandato alcuna risposta. Il secolo, invece, produce senso: è la nostra vita più quella dei nostri genitori, tutt’al più dei nostri nonni. Un secolo è il tempo accessibile alla memoria degli individui.
Non sono uno «specialista» del ventesimo secolo, come può esserlo uno storico, un sociologo, un politologo, né voglio diventarlo adesso. I fatti, almeno nelle loro grandi linee, sono noti; oggi, come si dice, li si trova in tutti i buoni manuali. Ma i fatti in sé non rivelano il loro senso, che è ciò che m’interessa. Non vorrei sostituirmi agli storici, che già fanno bene il loro lavoro, ma riflettere sulla storia che essi stanno scrivendo. Il mio sguardo sul secolo è quello non di uno «specialista», ma del testimone interessato, dello scrittore che cerca di capire il proprio tempo. Il mio destino personale determina in parte il punto d’approccio che scelgo, e ciò in duplice modo: per le peripezie della mia esistenza e per la mia professione. In due parole: sono nato in Bulgaria e ho vissuto in questo paese fino al 1963, mentre era sottomesso al regime comunista; da allora abito in Francia. Per un altro lato, il mio lavoro professionale concerne i fatti della cultura, della morale, della politica, e pratico, più particolarmente, la storia delle idee. La scelta di ciò che vi è stato di più importante nel secolo, di ciò che quindi permette di costruirne il senso, dipende dalla vostra identità. Per un africano, per esempio, l’avvenimento politico decisivo è sicuramente il colonialismo, e poi la decolonizzazione. Anche per un europeo – e qui mi occuperò essenzialmente del ventesimo secolo europeo, facendo solo brevi incursioni negli altri continenti – la scelta è ampiamente aperta. Alcuni direbbero che l’avvenimento maggiore, sulla lunga durata, è ciò che è chiamato la «liberazione delle donne»: la loro entrata nella vita pubblica, la loro presa di controllo della fecondità (la pillola) e, al tempo stesso, l’estensione dei valori tradizionalmente «femminili», quelli del mondo privato, sulla vita dei due sessi. Altri privilegeranno la diminuzione drastica della mortalità infantile, l’allungamento della vita nei paesi occidentali, gli sconvolgimenti demografici. Altri ancora potrebbero pensare che il senso del secolo è deciso dalle grandi conquiste della tecnica: dominio dell’energia atomica, decifrazione del codice genetico, circolazione elettronica dell’informazione, televisione.
Sono d’accordo con gli uni e con gli altri, ma la mia esperienza personale non mi dà nessun chiarimento supplementare su questi temi; essa mi orienta piuttosto verso una scelta diversa. L’avvenimento centrale, per me, è la comparsa di un nuovo male, di un regime politico inedito, il totalitarismo, che, al suo apogeo, ha dominato buona parte del mondo; che oggi è scomparso in Europa, ma per nulla in altri continenti; e i cui strascichi restano presenti fra noi. Vorrei quindi interrogare qui, innanzitutto, le lezioni dello scontro fra il totalitarismo e il suo nemico, la democrazia.
Presentare il secolo come dominato dalla lotta fra queste due forze implica già una distinzione di valori che non tutti condividono. Il problema deriva dal fatto che l’Europa non ha conosciuto un totalitarismo ma due, il comunismo e il fascismo; che questi due movimenti si sono violentemente opposti, sul terreno dell’ideologia e poi sui campi di battaglia; che ora l’uno ora l’altro si sono visti avvicinare agli stati democratici. I tre raggruppamenti possibili fra questi regimi sono stati tutti praticati una volta o l’altra. In un primo tempo, i comunisti considerano insieme i loro nemici (tutti dei capitalisti!), le democrazie liberali e il fascismo distinguendosi come forma moderata e forma estrema del medesimo male. A metà degli anni Trenta, e più ancora durante la seconda guerra mondiale, la distinzione cambia: democratici e comunisti formano allora un’alleanza antifascista. Infine, qualche anno prima dello scoppio della guerra, e soprattutto dopo la sua fine, è stato proposto di considerare fascismo e comunismo come due sottospecie del medesimo genere, il totalitarismo, parola rivendicata all’inizio dai fascisti italiani. Tornerò più avanti sulle definizioni e sulle delimitazioni; ma è già chiaro, dall’articolazione globale che scelgo, che questa terza distinzione ai miei occhi è la più illuminante.
La scelta dell’avvenimento maggiore restringe sensibilmente il mio tema. Non solo mi limiterà per l’essenziale a un unico continente, il mio, ma il secolo stesso si abbrevia un po’: il suo periodo centrale va dal 1917 al 1991, anche se bisognerà risalire indietro e, per altro verso, interrogarsi sul suo ultimissimo decennio. Fatto più importante, mi limito a un solo avvenimento della vita pubblica, lasciando nell’ombra tutti gli altri, come vita privata, arti, scienze o tecniche. Ma la ricerca del senso ha sempre un prezzo: essa procede per scelta e messa in relazione – che avrebbero potuto essere altre. Il senso che credo di intravedere non esclude quello degli altri – vi si aggiunge, nel migliore dei casi. Il mio punto di partenza, la duplice affermazione secondo cui il totalitarismo è la grande innovazione politica del secolo e che esso è anche un male estremo, comporta già una prima conseguenza: bisogna rinunciare all’idea di un progresso continuo, al quale credevano alcuni grandi spiriti dei secoli passati. Il totalitarismo è una novità, ed è peggio di ciò che lo precedeva.
Ciò non prova affatto che l’umanità segua inesorabilmente una china discendente, ma solo che la direzione della storia non è sottomessa ad alcuna legge semplice né, forse, ad alcuna legge tout court. Lo scontro fra totalitarismo e democrazia, come quello fra le due varianti totalitarie, comunismo e nazismo, costituisce il primo tema della mia inchiesta. Il secondo ne deriva per il fatto stesso che questi avvenimenti appartengono per l’essenziale al passato e sopravvivono fra noi solo grazie alla memoria. Ora, quest’ultima non è affatto assimilabile a una registrazione meccanica di ciò che accade; essa ha forme e funzioni fra cui è obbligatorio scegliere, la sua istituzione conosce fasi che possono subire perturbazioni specifiche, essa può essere assunta da attori differenti e condurre ad atteggiamenti morali opposti.
La memoria è sempre e necessariamente una buona cosa, e l’oblio una maledizione assoluta? Il passato permette di capire meglio il presente o serve il più delle volte a nasconderlo? Le memorie del secolo saranno dunque, a loro volta, sottoposte a esame.
Infine, anche se si tratta innanzitutto di riflettere sul senso di questo avvenimento centrale, mi vedo obbligato a prendere conoscenza anche del passato più immediato, quello posteriore alla caduta del Muro di Berlino, per interrogarlo alla luce degli insegnamenti scaturiti dall’analisi precedente. Una volta vinto il totalitarismo, sarebbe sopravvenuto il regno del bene? O nuovi pericoli incombono sulle nostre democrazie liberali? L’esempio che scelgo qui è tratto dall’attualità recente, poiché si tratta della guerra in Iugoslavia e, più specificamente, degli avvenimenti nel Kosovo. Il passato totalitario, il modo in cui si perpetua nella memoria, infine le luci che getta sul presente formeranno dunque i tre tempi dell’inchiesta che segue.
Ho scelto di mescolare a questa riflessione sul bene e sul male politici del secolo un richiamo di alcuni destini individuali fortemente segnati dal totalitarismo, che tuttavia hanno saputo resistergli. Gli uomini e le donne di cui parlerò non sono del tutto diversi dagli altri. Non sono né eroi né santi, e neppure dei «giusti»; sono individui fallibili, come voi e me. Tuttavia hanno seguito tutti un itinerario drammatico; hanno tutti sofferto nella loro carne, e al tempo stesso hanno cercato di far passare il frutto della loro esperienza nei loro scritti. Costretti a vedere da vicino il male totalitario, si sono mostrati più lucidi della media e, grazie al loro talento come alla loro eloquenza, hanno saputo trasmetterci ciò che avevano imparato, senza tuttavia mai diventare dei perentori distributori di lezioni. Queste persone provengono da paesi diversi, Russia, Germania, Francia, Italia, e tuttavia qualcosa li accomuna. Da un autore all’altro (anche se ci sono sfumature) si ritrova lo stesso sentimento, quello di uno spavento che non conduce alla paralisi; e anche uno stesso pensiero, per il quale trovo una sola etichetta appropriata, quella di “umanesimo critico”. I ritratti di Vasilij Grossman e di Margarete Buber-Neumann, di David Rousset e di Primo Levi, di Romain Gary e di Germaine Tillion sono lì per aiutarci a non disperare.
Come ci si ricorderà un giorno di questo secolo? Sarà chiamato il secolo di Stalin e di Hitler? Sarebbe accordare ai tiranni un onore che non meritano: è inutile glorificare i malfattori. Gli si darà il nome degli scrittori e dei pensatori che erano da vivi i più influenti, che suscitavano più entusiasmo e controversia, quando a cose fatte ci si accorge che si sono quasi sempre ingannati nelle loro scelte e che hanno indotto in errore i milioni di lettori che li ammiravano? Sarebbe un peccato riprodurre nel presente gli errori del passato.
Per parte mia preferirei che si ricordassero, di questo cupo secolo, le figure luminose di alcuni individui dal destino drammatico, dalla lucidità impietosa, che hanno continuato malgrado tutto a credere che l’uomo merita di rimanere lo scopo dell’uomo.”
Alla fine della passeggiata saluto Todorov all’ombra di un pioppo tremulo e su sua richiesta lo lascio con sé stesso, anche per il suo desiderio di riprendere fiato. In me, un senso di leggerezza inconsueta al termine del monologo di Todorov per tutta la camminata: i dubbi sovrastano qualche sparuta anguilla di certezza. E mi sento più vivo. Nel dubbio mi ricarico. Fatte le debite proporzioni e stabilite le necessarie differenze, il dubbio è in me ed è nell’economia generale della mia vita ciò che Sciascia è stato per Camilleri, su ammissioni reiterate dello stesso Camilleri:
“Quando sento le mie batterie scariche leggo o ri-leggo Leonardo Sciascia…”
Giorgio Linguaglossa
cari Francesco Paolo Intini e amici e interlocutori,
non vi nascondo che all’epoca le risposte dei letterati a queste Quattro Domande [ndr leggi precedente post] furono, dal mio punto di vista fortemente insoddisfacenti e riduttive. A quel tempo, siamo nel 1996, cominciai a prendere coscienza che era pleonastico e anzi controproducente sollevare questioni o istanze che avrebbero potuto insospettire ed irritare le istituzioni stilistiche. Infatti, di lì a poco ricevetti una cartolina postale di Andrea Zanzotto il quale mi comunicava che «non sono interessato alla direzione presa dalla rivista» [ndr, il quadrimestrale di letteratura “Poiesis”, che a quell’epoca coordinavo]. Quello fu il suggello, l’imprimatur della sentenza: alle istituzioni stilistiche vigenti non interessava e (non interessa) che si mettano sul tappeto questioni «allotrie», e comunque, non formulate secondo le convenzioni chiesastiche della ortodossia culturale. Ne presi atto.
Sono passati 23 anni e la situazione di cultural lag non è cambiata, anzi, sembra peggiorata. il conformismo nazional-elitario delle istituzioni stilistiche ha raggiunto l’apice. E la riprova ne è che sull’articolo sulla poesia e la storia culturale di Mario Lunetta, nessuno dei suoi amici o estimatori ha sentito la necessità di scrivere un commento anche di due righe per ricordare le battaglie del poeta romano degli ultimi cinquanta anni, battaglie che si possono anche non condividere (e infatti il sottoscritto non condivideva affatto molte sue posizioni culturali e di poetica), ma il rispetto e la riconoscenza per un poeta intellettuale come Mario Lunetta dovrebbe essere fuori discussione anche da chi non la pensava come lui.
Penso che le 4 Domande del 1996 andavano al cuore delle questioni del fare poesia, ieri come oggi. L’Interrogazione fondamentale, di che cosa si tratta? Ma, esiste veramente?, o è una fandonia inventata da un poetucolo? Ecco, qui, proprio su questo punto ci si gioca il testimone del passaggio dalla generazione dei Fortini, dei Pasolini, dei Bigongiari, dei Sanguineti a quelle che hanno occupato le posizioni delle cosiddette istituzioni stilistiche. La caduta del tasso di intelligenza delle questioni teoriche e filosofiche presso le generazioni che sono seguite è stata perpendicolare e catastrofica. Gli autori educati ed edulcorati di oggi non sono in grado di dire niente di significativo sulla questione della Interrogazione fondamentale, non hanno né la competenza (non essendo poeti), né la cultura filosofica necessaria per affrontare un tale argomento.
Lucio Mayoor Tosi
L’accusa di «metempsicosi» si spiega solo in riferimento al fantasma, e ho idea che accada per il modo in cui talvolta viene esplicitato. Nelle poesie NOE vi sono esempi innumerevoli. Per questa e altre questioni d’accusa, il fatto è che sembra mancare il lettore creativo-attivo a cui queste poesie sono rivolte; un lettore capace di non prendere tutto alla lettera, al quale anche la categoria della metafora sia venuta a noia. Non ci si accorge dell’apertura che si crea grazie all’uso del frammento; che probabilmente viene inteso come ennesimo escamotage strutturalistico, mentre invece è l’esatto contrario, in quanto la “nuova” struttura serve esattamente a de-strutturare, creare varchi, consentire dissonanze altrimenti impossibili. Si dirà che ne va del “senso”, evidentemente. Già, come se il senso fosse un uccellino da tenere in gabbia…
In effetti, caro Giorgio, sembra un paradosso, quello di de-strutturare ricorrendo a una nuova, seppur labile e soggettiva, strutturazione. Ma questi sarebbero tecnicismi; e arrivo a dire che sembra un parlare da pittori (quello che tu dici del ciabattino), come faceva De Chirico quando recensiva una qualche mostra d’altri: l’impasto, la scelta del colore (tutto quel «bitume» in Caravaggio); epperò è necessario: più fisica che metafisica.
Mauro Pierno
L’agorà ha una fuga, un
cortocircuito riconoscibile. Un
gusto memorabile. Una cialda.
Un passo double che arricchisce
la sintassi, la pagina labile di un pensiero,
questo profumo di nocciola.
La gelateria noe
in fondo la trovi sempre all’ombra. Continua a leggere →
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