
so, per sentito dire, che divenne l’amante di Lady Malipierno che lo introdusse nelle segrete stanze della sua alcova e delle sue adiacenze…
Giorgio Linguaglossa
6 settembre 2018 alle 12:35
caro Gino Rago,
leggo su fb la storia di Barry Friedman, un mio vecchio amico che viveva a New York, un bellimbusto… all’epoca faceva il giocoliere agli angoli della 33a Street… un illusionista di grande successo… ricordo che poi si dedicò al mestiere di dogsitter, ben più remunerativo, e infine fece il buttafuori o buttadentro all’Officina, quel locale notturno qui alla Piramide, frequentato da transgender e lesbiche… in seguito ne persi le tracce… so, per sentito dire, che divenne l’amante di Lady Malipierno che lo introdusse nelle segrete stanze della sua alcova e delle sue adiacenze…
Ma poi, un giorno, un incidente gli ha scombussolato la vita.
Leggi qui se vuoi saperne di più: link………………..
Giuseppe Talia
6 settembre 2018 alle 16:58
Ah, sì, conosco la storia di Barry Friedman. Lo conobbi all’epoca di quando faceva il dogsitter. Guadagnava molto. Sempre con qualche pelo attaccato ai vestiti e gli orli dei pantaloni maleodoranti. Ricordo una vota che tirò fuori dalla tasca una bustina di cacca di cane. S’era dimenticato di buttarla via: Barry raccoglieva sempre gli escrementi dei cani affidatigli. Aveva dovuto sottoscrivere un contratto con i proprietari per lo smaltimento: gente di medio-alta condizione, pariolini per lo più. Ricordo che mi diceva sempre che il marcio marcia su binari alti, mentre sullo sterrato arranca sempre la disperazione. E la disperazione alimenta i motori degli altiforni.
Perse le tracce. Non sapevo facesse il butta dentro-fuori all’Officina. Però non ne sono sorpreso. Mi confidò degli incontri al buio che faceva con le coppie di scambisti. Mi confidò che s’era fatto una mappa mentale di tutti i crocicchi. Mi diceva: questo vale per tutti, etero, gay, bisex: gli attivi sono versatili, i versatili sono passivi e i passivi sono generosi. E poi ricorda sempre, il cazzo, c’è a chi piace e a chi non dispiace.
Con una tale filosofia non mi sorprende frequentasse la Piramide.
Non sapevo dell’incidente. Chi ne sa di più, per favore ne racconti.
Lucio Mayoor Tosi
7 settembre 2018 alle 10:19
Caro Gino,
in attesa, per curiosità, della versione in distici se verrà, provo io a trasmetterti un rapido feedback. E sono due le cose che mi sono annotato:
“Il treno verso Udine profuma di cannella”.
Se non è una citazione, è un verso che forse più degli altri mi rivela il fatto che si tratta di una poesia finta, nel senso buono e alto della critica NOE, una poesia di marzapane.
Se così, allora al lettore non sembrerà strano che i fantasmi si dicano cose scritte, non parole che le persone, pure che si tratti di Majakovskij o della Achmadùlina, si direbbero normalmente (che poi l’autore arrangerà). Così come è chiaramente inverosimile che il poeta possa rispondere alla frase tanto semplice della traduttrice ” Quanto tempo è passato…” dicendo ” «Che tempo?… Quale tempo? / Lo sai che esiste soltanto il presente. Il presente senza memoria…». Nemmeno Montale con la sua amata Gina…
Mi chiedo soltanto come fare per rendere ancor più ingannevole l’artefatto, così che al lettore non debba servire una critica delucidante. Ma in effetti, tutta la situazione narrata è irreale, tanto che non servirebbe contestualizzare. Solo a volte, ma devo essere io quello, ci si aspetta un’insensatezza verbale, anche uno scioglilingua… qualcuno che davanti al libro chieda com’è il tempo fuori…
Con affetto, perché mi sei maestro.

Una stanza nel cuore della città.
Un colore verde antico alle pareti
Gino Rago
7 settembre 2018 alle 10:48
Obbedisco all’invito di natura estetica di giorgio linguaglossa e ripropongo la poesia
Iplatani su Tevere diventano betulle IN DISTICI
Grazie a Giorgio Linguagolossa per le fertili indicazioni, grazie a Lucio M. T. per l’attenta lettura.
Gino Rago
I platani sul Tevere diventano betulle
a Donata De Bartolomeo, a Kamila Gayazova, a Giorgio Linguaglossa
( I )
Una stanza nel cuore della città.
Un colore verde antico alle pareti
(l’argento costa troppo). Un divano.
Uno scrittoio.
Una credenza sormontata da uno specchio.
Il poeta è un oracolo sul divano.
La traduttrice entra nella stanza. Ha un carico
di nevi sullo scialle. Guarda il poeta.
Resiste al suo sguardo: «Quanto tempo è passato…»
Il poeta le fa gli occhi piccoli: «Che tempo?… Quale tempo?
Lo sai che esiste soltanto il presente. Il presente senza memoria…»
«Ricordavo la dacia. Il giro con te intorno alla dacia…
Noi due affondati nella neve. Il vento di ghiaccio».
Il poeta non si scompone. Guarda la donna
attonito come in una notte di stelle.
«Lo sai, voglio dare amore più che accettarlo.
Ma tengo te in me come un respiro…»
[…]
Il poeta lascia la stanza. Accende lo sguardo
sul travertino di Piramide Cestia.
Va verso San Paolo fuori le Mura. Le nevi,
la bufera, la dacia… Tutto sciolto nel nitrico del tempo.
La traduttrice ammira i mosaici bizantini.
Anche lei è a San Paolo. Si gira di scatto.
Si trova nelle braccia del poeta…
Roma per loro prepara il plenilunio.
I platani sul Tevere diventano betulle.
[…]
Bella Achmadùlina senza fruscii irrompe
come lama di luce sugli affreschi e le palme:
«Ho due vite in me. La tua e la mia…
E il sapore delle mele che rimane sulle labbra».
La traduttrice mira
da Ponte Sisto il Tevere. Un ronzio insensato.
Un attrito che rompe l’armonia delle sfere.
Silenzio. Un silenzio non umano.
[…]
Dal fiume si alza fra densi fumi un canto:
«…Er bar-caro-lo và contro-corente…» [1]
Il poeta è sull’altra sponda. Guarda
senza luce se stesso, gli alberi, la donna
sull’altro lungotevere: «So dove aspettarti.
Un po’ più in basso del Paradiso…».
Tutta la vita è un gioco d’azzardo.
Il poeta si sveglia. È solo nello scompartimento.
Il treno verso Udine profuma di cannella.
Ombre visionarie e immagini di mare.
Un tocco di zenzero, la donna, un fez.
Costellazioni in fuga verso Istanbul…
( II )
Lei scruta il poeta: «Il Bosforo è in te.
Il mare ti attira come attira un gabbiano.
Da quando?» Il poeta d’incanto invoca Majakovskij:
Da quando “sei entrata tu – tagliente come un ‘eccomi’…” [2]
[…]
La donna lo stringe nelle sue spire.
È troppo forte in lei il profumo della vita.
Un filo di voce. Un suono: « È la morte che ti turba…».
Mai tanta luce. Mai tanto fuoco
nello sguardo d’olio del poeta: «Non la morte
ma il viaggio è il mio turbamento. Il Viaggio su quel mare.
Mi turba il mare ignoto che verso lei conduce…».
[…]
Alle spalle la morchia d’un mondo triviale.
Innanzi al poeta paesaggi senza mostri,
scenari senza abissi.
Un lago. La pioggia sempre altrove. I fiori a un ramo.
Qualcuno brucia libri nel giardino dei ciliegi.
Nota [1]: parole tratte dalla canzone “Barcarolo Romano” (musica: Romolo Balzani, testo: Pio Pizzicaria – 1926)
Nota [2]: dalla poesia “La nuvola in calzoni” (del 1914) di Vladimir Majakovskij.
Gino Rago
7 settembre 2018 alle 11:23
Gino Rago
On the Tiber the plane trees become birches
a Donata De Bartolomeo, a Kamila Gayazova, a Giorgio Linguaglossa
( I )
One room in the heart of the city.
An antique green color on the walls
(silver is too expensive). A couch. A writing table.
A mirrored cupboard.
The poet is an oracle on the couch.
The lady translator enters the room. Alot
of snow on her shawl. She stares at the poet.
Resists his look: «Much time has passed …»
The poet narrows his eyes: «What time?… Which time?
You know that only the present exists. The present without memory…»
«I remembered the dacia. The walk with you around the dacia…
We two sunk in the snow. The icy wind».
The poet is not shaken. Looks at the lady
stunned as in a starry night.
«You know, I want to give love more than receive it.
But I hold you inside me like one breath…»
[…]
The poet leaves the room. Lights up his look
on the travertine of the Cestia Pyramid.
Goes toward Saint Paul outside the Walls. The snows
the blizzard, the dacia… All melted in the nitric of time.
The lady translator admires the byzantine mosaics.
She also is at Saint Paul. She suddenly turns.
Finds herself in the arms of the poet…
For them Rome prepares the full moon.
Plane trees on the Tiber become birches.
[…]
Bella Achmadùlina erupts with no sound
like a light blade on the frescoes and the palms:
«I have two lives in me. Yours and mine…
and the taste of apples remaining on the lips».
From Ponte Sisto the lady translator
Admires the river Tiber. A sensless buzz.
A grating destroys the balance of the spheres.
Silence. A non-human silence.
[…]
From the river a song arises among dense smoke:
«…Er bar-caro-lo và contro-corente …» [1]
The poet is on the riverside. He looks
at himself without light, the trees, the lady
on the opposite side of the Tiber: «I know where to wait for you.
A little bit lower than Paradise …»
All existence is a shot of the dice.
The poet wakes up. Alone in the train compartment.
The train towards Udine smells of cinnamon.
Visionary shades and images of the sea.
A tuch of ginger, a lady, a fez.
Constellations in flight toward Istambul…
(II)
She studies the poet: «The Bosphorus is in you.
The sea draws you like it draws a seagull.
Since when?» The poet enchanted recalls Majakovskij:
Since “you entered – cutting as a ‘here-I-am’…” [2]
[…]
The lady withdraws inside her own spires.
Too strong in her the pefume of life.
A thread of voice. A sound: «It is life that upsets you…»
Never so much light. Never so much fire
in the oily eye of the poet: «Not death
but the trip is my upsetting. The trip on that sea.
The unknown sea where she’s leading me upsets me…».
[…]
At my shoulders the sludge of a trivial world.
Before the poet landscapes without monsters,
scenes without voids.
A lake. The rain always elsewhere. Flowers on the branch.
Someone burns books in the cherry orchard.
NOTE [1] Literary translation of the song line: “The boatman rows against the current…” (song: “Barcarolo Romano”; musica: Romolo Balzani, testo: Pio Pizzicaria – 1926)
Nota [2]: from the Vladimir Majakovskij poem “The cloud in pants” (del 1915).
© 2017 American translation by A. P. Nicolai and C. Cremisini
of the poem “I platani sul Tevere diventano betulle” by Gino Rago.

la poesia in distici, è più ferma, è come se ci fossero dei tiranti, degli stralli che la tirano, la stendono, la fanno entrare in tensione e la tengono in tensione
Giorgio Linguaglossa
7 settembre 2018 alle 12:44
Grazie Gino,
devo dire che preferisco la poesia in distici, è più ferma, è come se ci fossero dei tiranti, degli stralli che la tirano, la stendono, la fanno entrare in tensione e la tengono in tensione. Uno dei segreti della poesia della nuova ontologia estetica è questo stato di tensione che il «materiale lessicale» è costretto a subire: non c’è mai una pianura, una discesa… tutto è sempre in salita. È questo il segreto della struttura in distici, che non è una struttura che viene dall’interno ma una gabbia che viene dall’esterno e questo, paradossalmente, invece di essere un difetto diventa un pregio. Inoltre, questa struttura ha il vantaggio non trascurabile che spezza il pendio elegiaco, elegia ben visibile per esempio nelle poesie di Brodskij che ho postato poco sopra. Quella elegia è da evitare, è la nobile elegia del novecento che la poesia di oggi, quella che stiamo facendo, deve evitare con tutte le proprie forze e a ogni costo. Mi piacerebbe conoscere anche il parere degli altri compagni di cordata: Mario Gabriele, Lucio Mayoor Tosi, Donatella Costantina Giancaspero, Giuseppe Talia, Letizia Leone… e di chi ci legge, ovviamente…
Lucio Mayoor Tosi
7 settembre 2018 alle 13:41
Una stanza nel cuore della città.
Colore verde antico alle pareti
(l’argento costa troppo). Divano.
Scrittoio.
Una credenza sormontata da specchio.
Il poeta, oracolo sul divano…
Mi permetto questo levare di articoli, proprio perché “nominare le cose” forse, oggi, può bastare. E attenuerebbe la procedura a scatti, che per me è un difetto collaterale della scrittura per frammenti.
Brodskij: “È palese che qui siamo ancora all’interno della tradizione della poesia elegiaca del novecento”. Ma questa tendenza al solenne, alla solennità della parola (del poeta), andrebbe rivista alla luce di un maggiore disperdersi; non tra la folla ma anche oltre. E’ probabile che il “tu” comporti l’imbarazzo di non sapere dove mettersi, o in quale posa…
Giuseppe Talia
7 settembre 2018 alle 13:48
Una stanza nel cuore della città.
Un colore verde antico alle pareti.
L’argento costa troppo. Un divano.
Uno scrittoio.
Una credenza sormontata da uno specchio.
Il poeta è un oracolo sul divano.
La traduttrice entra nella stanza.
Ha un carico di nevi sullo scialle. Guarda il poeta.
Resiste al suo sguardo: «Quanto tempo è passato…»
Il poeta le fa gli occhi piccoli: «Che tempo?… Quale tempo?
Lo sai che esiste soltanto il presente. Il presente senza memoria…»
Io apporterei queste modifiche, in modo che i distici siano più lineari, almeno questi primi cinque. Il resto va benissimo.
Giorgio Linguaglossa
7 settembre 2018 alle 16:31
Condivido
Gino Rago
7 settembre 2018 alle 18:18
Condivido
Gino Rago
7 settembre 2018 alle 18:23
Giuseppe, condivido… E ringrazio
Giuseppe Talia
7 settembre 2018 alle 20:13
Ricevo qualche sollecitazione da chi del blog si aspetta commenti circa il soggetto presentato, il poeta o i poeti. In questo caso Boris Sluckij, poeta che non conoscevo affatto e che grazie all’Ombra ho potuto leggere ed apprezzare.
le sollecitazioni di cui sopra riguardano anche una supposta ingerenza nei commenti di testi propri, ignorando quasi del tutto il poeta presentato.
Ho risposto che è proprio del laboratorio dell’Ombra lasciare lo spazio dei commenti libero e senza filtri. Essendo un laboratorio, anche psicologico, uno sportello aperto a chiunque, alla proposta della redazione del poeta presentato, ognuno può, nei limiti del buonsenso, decidere di commentare i testi proposti oppure aggiungercene di propri o di nuovi. Con molta umiltà, ci si mette in gioco.
Va da sé che all’affermazione ” il tal poeta prima del tal poeta faceva lo stesso”, io personalmente, con grande rispetto del tal poeta e del talaltro, rispondo che per come la vedo io non ci sono monoliti ma una pluralità semantica. Uno sportello, (anche psicologico), un laboratorio. Chi ha coraggio si faccia avanti.
Riguardo a Boris Sluckij come non apprezzare e riconoscerne la vicenda umana e poetica? Io, cresciuto nella sugna, come posso non rimanere incantato leggendo la poesie “Le ragioni di un amore”, quando l’unico questionario che io, e tutta la mia generazione occidentale, credo, abbiamo compilato in vita nostra , tratto da rotocalco, ci si chiedeva di trovare l’anima gemella, oppure quante calorie ingurgitiamo quotidianamente sulla base di una dieta ipocalorica: “Per la certezza che si può incasellare un uomo”
L’occidente mi pare, si assesti sul prefisso “ipo”: meno di questo e meno di quello.
E con i maestri come Boris Sluckij che si dovrebbe avere “la fronte battuta”.
Gino Rago
7 settembre 2018 alle 21:07
(Omaggio a tutti i poeti della NOE-Nuova Ontologia Estetica)

Piazza dei Martiri. Il sole pigro non vuole tramontare.
A destra il popolo in festa urla: «Dio salvi il Re…»
Gino Rago
Piazza dei Martiri
Piazza dei Martiri. Il sole pigro non vuole tramontare.
A destra il popolo in festa urla: «Dio salvi il Re…».
A sinistra si leva un grido di guerra:
«Dio salvi la Regina…».
Il centro della piazza oscilla.
Un urlo: «Dio salvi il Re e la Regina…»
Mentre il boia lucida i legni dell’impianto
Con la palla di grasso ottenuto dai cani morti.
La corda con il cappio pende luccicante,
Al sole del crepuscolo sembra più splendente.
Un urlo unisce la piazza da destra a sinistra
Passando per il centro: «Muoia il Re. E muoia la Regina».
Passano cesti con pane bianco.
La botte con il vino che zampilla.
Il cappio in lontananza risplende più di prima.
«Dio salvi il Re… Viva la Regina».
Il poeta lascia Piazza dei Martiri.
Non desidera il pane d’altri, rifiuta anche il vino.
Non vuole il Re. Non vuole la Regina.
Cento usignoli nel suo petto si destano. Si destano.
Giuseppe Talia
7 settembre 2018 alle 23:10
Questa tua, caro Gino, è una poesia di gran conto e di rilievo.
La Storia è una costellazione di frammenti. La poesia odierna e il concetto di «costellazione»
Scrive Roland Barthes:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/09/08/commenti-liberi-e-improvvisati-su-due-poesie-postate-da-gino-rago-il-7-settembre-2018-partecipano-al-dibattito-giuseppe-talia-lucio-mayoor-tosi-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-37745
«Che cos’è la Storia? Non è forse semplicemente quel tempo in cui non eravamo ancora nati? Io la leggevo la mia inesistenza negli abiti che mia madre aveva indossato prima che potessi ricordarmi di lei… Ecco qui (intorno al 1913) mia madre in gran toilette, con cappellino, piuma, guanti, biancheria fine che spunta fuori dai polsini e dalla scollatura… È l’unica volta che io la vedo così, colta nella Storia (dei gusti, delle mode, dei tessuti): la mia attenzione viene allora distolta e passa da lei all’accessorio che è perito; il vestito è infatti perituro, esso prepara all’essere amato una seconda tomba. Per “ritrovare” mia madre… bisogna che, molto più tardi, io ritrovi su qualche foto gli oggetti che ella aveva sul comò: per esempio un portacipria d’avorio (amavo il rumore del coperchio), una boccetta di cristallo intagliato… oppure quelle pezze di rafia che essa fissava sempre sul sofà, le grandi borse che prediligeva […] La Storia è isterica essa prende forma solo se la si guarda – e per guardarla bisogna esserne esclusi. Come essere vivente, io sono esattamente il contrario della Storia, io sono ciò che la smentisce, che la distrugge a tutto vantaggio della mia storia… Il tempo in cui mia madre ha vissuto prima di me: ecco cos’è, per me, la Storia.
E qui incominciava a profilarsi la questione essenziale: la riconoscevo io veramente? (…) Io la riconoscevo sempre e solo a pezzi, vale a dire che il suo essere mi sfuggiva e che, quindi, lei mi sfuggiva interamente. Non era lei, e tuttavia non era nessun altro. L’avrei riconosciuta fra migliaia di altre donne, e tuttavia non la “ritrovavo”… la fotografia mi costringeva a un lavoro doloroso; proteso verso l’essenza della sua identità, mi dibattevo fra immagini parzialmente vere, e perciò totalmente false… Il quasi: atroce regime dell’amore, ma anche condizione deludente del sogno… nel sogno essa ha talvolta qualcosa d’un po’ fuori posto, di eccessivo… E davanti alla foto, come nel sogno, è il medesimo sforzo, la stessa fatica di Sisifo: risalire proteso, verso l’essenza, ridiscendere senza averla contemplata, e ricominciare daccapo».1
Ecco descritto in modo mirabile la fenomenologia del «frammento» nella lettura di una fotografia. Il frammento lo abbiamo davanti agli occhi in ogni istante della nostra giornata. La fenomenologia del mondo si dà in forma di frammento, non dobbiamo scomodare i grandi filosofi per scoprire questo dato di fatto. Noi conosciamo il mondo attraverso «frammenti», e non potrebbe essere diversamente. Io dico solo una cosa: che la nostra attenzione di poeti deve essere sollecitata dalla comprensione dell’intima natura del «frammento», comprendere che in esso c’è non solo un «tempo interno», ma un «mondo interno» che noi non conosciamo, che non riconosciamo più, perché siamo diventati estranei a noi stessi… Io dico solo una cosa: è questo processo di progressiva estraneazione che è tipica del nostro tempo che noi troviamo nella poesia più evoluta di oggi.
Leggiamo, ad esempio, l’incipit di una poesia di Donatella Costantina Giancaspero:
Eppure è già domani
a quest’ora fonda
della notte,
quando nei condomini
i muri, che separano vita
da vita, hanno spessori
di silenzio
e dalle strade il buio
rimanda rare sirene,
eco sorda di macchine.
S’impiombano attoniti,
nel vuoto, i binari
della metro di superficie.
È domani,
e non vale la veglia
ostinata, non servono
i rituali del fare
a prolungare l’oggi.
Questo domani,
questo tempo muto, scattato
da una combinazione di lancette,
cielo acerbo, sospeso
sulla zona franca
del sonno, dove, ignoti,
già tanti destini si compiono,
questo è l’oggi.2
Ecco un esempio di rappresentazione del «tempo sospeso», del «tempo muto», «scattato da una combinazione di lancette», «zona franca» dove «questo è l’oggi», dove l’«oggi» «è già domani», dove il tempo interno delle cose si intreccia con il tempo interno dell’«io» poetante. Il tema è trattato con un verso libero e breve, direi con armamento leggero, capace di rapidi scarti e repentini movimenti interni.
Quello che io voglio dire è che la poesia contemporanea, quella non di scuola o letteraria, è ricca di annotazioni riflessive e rappresentative sulla questione del «tempo interno», del «tempo esterno», del «mondo interno», del «mondo esterno» etc. Il problema è di prenderne atto e di capire che non è solo una questione tematica ma va trattato mediante una soluzione stilistica, metrica, posizionale. In fin dei conti una nuova poesia nasce sempre sia da un nuovo sguardo sia da nuove tematiche.
1 R. Barthes in La camera chiara (Nota sulla fotografia), Einaudi, 1980 p. 66 e segg.
2 Donatella Costantina Giancaspero Da un presagio d’ali La vita felice, 2015, p. 32
https://lombradelleparole.wordpress.com/2018/09/08/commenti-liberi-e-improvvisati-su-due-poesie-postate-da-gino-rago-il-7-settembre-2018-partecipano-al-dibattito-giuseppe-talia-lucio-mayoor-tosi-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-37748
[…]
parlavo pochi minuti fa con Steven Grieco Rathgeb il quale si scusa per la sua assenza dal dibattito dovuta al fatto che nell’isoletta della Grecia dove si è stabilito, Koronisia, non c’è campo sufficiente per internet e quindi è impossibilitato a partecipare alla discussione collettiva che si svolge su queste colonne. Diceva appunto Steven che occorre andare oltre la struttura della forma-poesia, qualsiasi struttura, interna ed esterna, distici o altro per lasciare completamente libera la forma-poesia di librarsi sopra la tradizionale struttura della poesia (strofe, a-capo e quant’altro) per giungere a sconfinare dalla forma-poesia alla prosa, per giungere ad una prosa che non è più prosa, tanto meno prosa poetica o poesia prosastica… ma qualcosa d’altro, qualcosa di irriconoscibile.
Mi ha confidato Steven che ci sta lavorando. Perché ormai il mondo – afferma Steven – gira a velocità talmente forsennata che brucia le strutture che noi diamo alla forma-poesia in dieci minuti. Dopo dieci minuti quella struttura che noi abbiamo incontrato è già da buttare. Io ho obiettato che proprio quella struttura, quelle cose che sono da buttare, quelle forme vuote e bucate, proprio quelle sono idonee ad essere adottate in poesia, ma non come un ri-ciclo quanto proprio per una resurrezione degli «stracci», resurrezione che dura solo un attimo e dopo è tutto da buttare nella pattumiera della storia, la quale è molto ospitale e accogliente.
Ecco, credo che in quest’ultima poesia di Gino Rago ci sia qualcosa che è indirizzata in questa direzione: sia il Re che la Regina sono dei vivi-morti, le forme di Sua Altezza reale sono sottoposte al vaticinio della plebe, della accozzaglia che forma il «mondo»; vita e morte si equivalgono. Non c’è più da scherzare, il mondo è diventato una cosa seria. Non resta nulla che valga la pena di scherzarci sopra. Certo, si potrà pur fare poesie con della ironia, ma già appena la nominiamo l’ironia ecco che questa ci si disintegra fra le mani, diventa polvere… Beati i tempi in cui i poeti potevano fare dell’ironia! Beati quei poveri di spirito che credevano nelle virtù salvifiche dell’ironia e del gioco! Beati i tempi che se ne sono già andati a farsi benedire!
caro Gino,
sono stato indeciso se intervenire o meno sulla tua poesia. So di trovarmi in un caffè letterario, dove tra un drink e un progetto ontologico in divenire ci si può sempre esprimere senza trovare opposizioni di grande rilievo. Cito, in specifico il testo “I platani sul Tevere diventano betulle”. Ebbene, se me lo consenti, e ne accetti i rilievi, posso dirti che tutta la struttura si articola su continui elementi descrittivi che riguardano un soggetto di primo piano, (il poeta) seguito da altri attori visti con uno spettroscopio a luce intensa nella loro riproduzione e fissaggio. Questo tuo modo di centellinare i versi offre l’occasione di immagazzinare diversi dati creando una progressione enunciativa, mobile ed altrettanto variabile nella presentazione dei soggetti come in un’anteprima filmica.
Sui distici di cui Giorgio Linguaglossa è il promotore, mi piace riportare alcuni versi di Samuel Beckett, che sembrano dettagli in continua descrizione:
……………………..
Corpo minuto grigio come la terra il cielo le rovine
solo in piedi.
Silenzio non un alito stesso grigio
dappertutto terra cielo corpo rovine.
Spento aperto
quattro pareti all’indietro vero rifugio senza uscita.
……………………….
Qui la riproduzione esterna è identica alla tua, come elemento comune di fissaggio fotografico e di energia linguistica, che conferma una esposizione quasi museale del tratto esterno su uomini e cose.
>So di trovarmi in un caffè letterario, dove tra un drink e un progetto ontologico in divenire ci si può sempre esprimere senza trovare opposizioni di grande rilievo.
Salve, Seguo L’Ombra com discreta costanza da qualche mese, a seguito dell’ultimo volume teorico di Giorgio Linguaglossa che ha solidificato quanto scrive e sostiene da anni, e dei suoi casi di studio poetici. Siete in effetti il solo ritrovo telematico nazionale ancora in forte spinta, su queste faccende ormai neutralizzate in questa Italia deculturizzata o medianizzata, quindi molto interessante e spesso godibile per le rare, preziose ascendenze mitteleuropee e russe. Ripellino, Chlebnikov, la Cvetaeva erano anche miei modelli di formazione. Mi ritrovo ora nei toni di Mario M. Gabriele e scrivo per esprimervi apprezzamento, oltre che incoraggiamento. Buon lavoro, quindi, e buone cose.
Rispondo in particolare a Mario Gabriele ( lo ringrazio vivamente per l’accostamento dei miei distici a quelli di Samuel Beckett) con questo commento che anticipò la presentazione de ‘I platani sul Tevere diventano betulle’ al Laboratorio di Poesia Gratuito in Roma del 24 maggio del 2017.
Ringrazio Giorgio Linguaglossa per avere onorato le mie due poesie I platani sul Tevere… e Piazza dei Martiri ospitandole in una pagina de L’Ombra, ringrazio Giuseppe Talia per il suo efficacissimo suggerimento estetico volto al perfezionamento della prima parte della forma-poesia de I platani…, ringrazio Lucio Mayoor Tosi per la sua puntuale interpretazione e gli sollecito lo strillo già segnalato dal nostro Giorgio Linguaglossa:
“Piazza dei Martiri. Il sole pigro non vuole tramontare.
A destra il popolo in festa urla: «Dio salvi il Re…»
tratto dai miei versi di Piazza dei Martiri. Sento infine il desiderio di dare il nostro BENVENUTO a ‘Il fu GiusCo’
Commento di Gino Rago
I platani sul Tevere diventano betulle
(Scritto in occasione del “Laboratorio Poesia “ – Roma, 24 maggio 2017 –
Libreria ‘L’Altracittà’, Via Pavia, 106.)
1. ll passaggio dal paradigma dell’unità al paradigma della molteplicità con consapevolezza della pluralità e della polimorfia. Da qui, le pratiche culturali della rottura, della frammentazione, della dissociazione, della ibridazione da intendere come un mescolamento di tempi, di spazi, di storia, di geografia. Con l’adozione diffusa del parlato1.
In questo testo tutto ciò non viene praticato con un senso di nostalgia o rimpianto per il passato ma viene valutato come un fatto innovativo, come un segno della avvenuta maturazione dell’uomo-poeta. Qui sta una delle maggiori novità dello spazio espressivo integrale rispetto alle epoche precedenti.
2. Frammentazione. Il postmoderno sconnette, scollega, valorizza il frammento, la citazione, il rimando. Rifugge da qualsiasi forma di sintesi di tipo sociale, epistemica o culturale, da qualsiasi pensiero totalizzante e inglobante. Di qui la propensione per il bricolage, il collage, l’ibridazione, il paradosso, la paralogia1.
3. A trarci dal nulla o, se si vuole, dall’inumano a volte può essere il ricordo delle cose, uno Stillstand nel quale ci acquietiamo. Ma in questi miei versi provo a fare uso di immagini in fuga dal profondo del tempo e dello spazio, quasi fotogrammi di una stanza abitata in una fantasmagoria di mobili e di oggetti occupanti il posto d’abitudine, un posto a noi noto e che ci rassicura.
4. La riflessione sugli oggetti ha accompagnato la cultura del Novecento capaci come sono di veicolare idee, immagini, comportamenti, quasi nel tentativo di vedere in essi la sopravvivenza dell’ordine simbolico e tradizionale. Ma il pensiero postmoderno ci dà arresi alle copie di copie, ai simulacri senza originale.
5. Ma cosa accade agli ‘oggetti’ quando vengono percepiti come ‘cose’ e come tali sembrano possedere la capacità di stabilire relazioni? Qui nei miei versi mi sono rifatto a una meditazione ad hoc di Remo Bodei2 secondo cui «Se oggetto è la cosa fisica che viene ‘gettata’ (ob-jectum) davanti a noi, quasi a farsi ostacolo, il lemma italiano ‘cosa’ è contrazione di “causa”, nel senso di ciò che ci sta a cuore, che riteniamo tanto importante da coinvolgerci nella sua difesa….Perché noi investiamo intellettualmente e affettivamente gli oggetti. Diamo loro senso e qualità sentimentali. Li avvolgiamo in scrigni di desiderio o in involucri ripugnanti. Li inquadriamo in sistemi di relazioni. Li inseriamo in storie che possono ricostruire e che riguardano noi e gli altri, noi o gli altri.
E investiti così di affetti, concetti e simboli che individui, società e storia vi proiettano, “gli oggetti diventano cose”, “gli oggetti in noi e per noi si trasformano in cose”».
E le “cose” finalmente così intese diventano, per dirla con J.L.Borges3, le parole di quell’Idioma in cui giorno e ogni notte “Qualcuno” o “Qualcosa” scrive quell’infinito intreccio che è la storia del mondo.
1 Ivana Matteucci Il postmoderno
larica.uniurb.it/scss/files/2011/03/Il-postmoderno.pdf.
2 Remo Bodei La vita delle cose Editore: Laterza – Collana: Anticorpi – Edizione: 4 (2009) EAN: 9788842089988
3 Jorge Luis Borges
– Il libro di sabbia, trad. italiana di I. Carmignani, Milano, Adelphi, (2004).
– “Le cose” trad. di Francesco Tentori Montalto da “Elogio dell’ombra”, Einaudi, Torino, (1971).
– “…Il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli..” da: L’Aleph, trad. italiana di F. Tentori Montalto, Milano, Feltrinelli (1959).
Gino Rago
Sono stato anch’io molto colpito dal verso
“I platani sul Tevere diventano betulle”
che mi ha riportato alla mente quest’altro
“quella notte la Senna scorreva a Londra”
di cui non sono riuscito a rcuperare l’autore, di sicuro francese (Apollinaire, Reverdy?).
La poesia nasce da uno status di leggerezza e appartenenza al mondo che si vive.
Uso vandel reflex crema da sempre e questo agevola la mia poesia….
Grazie
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