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Gino Rago, Stralci del libro: Glossa a Critica della ragione sufficiente. Verso una nuova ontologia estetica, Intervista a Giorgio Linguaglossa, Progetto Cultura, 2018, pp 512, E 21,00 – Dalla «Traccia» alla «Metafora Silenziosa». Colloquio a distanza Derrida-Heidegger-Linguaglossa (pp. 65/72) con le risposte a Pasquale Balestriere e a Lucio Mayoor Tosi – Uno stralcio sulla Cosa (Das Ding) da uno scritto di Roberto Terzi, Poesie di Fritz Hertz (Francesca Dono) e Carlo Livia 

Critica della ragione sufficiente Cover Def

Gino Rago: La poesia è un Enigma?

Gino Rago: La poesia è un Enigma?
(…)
Per J. Derrida «Una poesia corre sempre il rischio di non avere senso e non avrebbe alcun valore senza questo rischio».

Chiosa Linguaglossa:

In ultima analisi, la poesia è un Enigma. Quando qualcuno parla, parla l’Enigma […] Sicchè nella sua chiosa Linguaglossa traccia un solco fra «poesia-Enigma» e «linguaggio-comunicazione», ovvero l’uso del linguaggio per scopi contingenti o per fini socialmente necessari, utili soltanto alla comunicazione reciproca fra gli uomini di una stessa comunità.

Inoltre, sempre per Derrida «Scrivere, significa ritrarsi… dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola… lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto».1

Gino Rago: Da queste premesse alla «metafora silenziosa» (come quel qualcosa che sta prima del linguaggio) il passo è breve. Ci puoi chiarire questo aspetto?

 Risposta: La metafora silenziosa forse è la più alta forma di metafora, la più pura. È quella che non si fa vedere, che preferisce l’inappariscenza, che si mostra simile a ciò che metafora non è. La metafora per Bataille è un «istante privilegiato», l’istante in cui appare il «sacro», che serve a dare «un senso al resto degli istanti senza privilegio» della scrittura. L’apparizione della metafora spezza la normalizzazione del linguaggio. «Questa craquelure spazio-temporale circonda la pointe dell’istante privilegiato, e dimostra in crisi l’ubi consistam, insomma la sostanza, quel qualcosa che sta sotto, a cotesto istante».2

Foto Man Ray 1922

L’indicibile del Linguaggio ha fondato e s-fondato il silenzio di «prima» del Linguaggio

Gino Rago: Cosa intendi per «vuoto di significante e di significato»?

Risposta: E ciò che sta sotto codesto «istante» si rivela essere un vuoto di significante e di significato che non può essere nominato se non entro una catena infinita di significanti e di significati. La metafora è questa rottura degli anelli della catena, rottura che dura appena un istante, l’istante privilegiato, dopo il quale essa riannoda i fili che la legano al sistema infinito della catena significante, al differimento dei significanti e dei significati.
Pretendere di dire che cos’è la «metafora silenziosa» è qualcosa cui non può arrivare una modesta intelligenza. Per afferrare questo concetto dobbiamo fare riferimento a ciò che c’era «prima» del Linguaggio, a quel muro di silenzio linguistico che il linguaggio ha squarciato con un atto indicibile. L’indicibile del Linguaggio ha fondato e s-fondato il silenzio di «prima» del Linguaggio, lo ha reso, in un certo qual modo, dicibile, udibile, sensibile. Il linguaggio come sistema di segni, proviene da qualche cosa d’altro. Questo penso sia chiaro. Quel qualcosa d’altro che è il «prima» del linguaggio e che è destinato a rimanere «silenzioso». È quindi il «silenzio» che fonda il «linguaggio». Questo è un pensiero che penso possa essere afferrabile, un po’ come nella fisica odierna è il «vuoto» che fonda gli universi di materia e di anti materia. Dobbiamo quindi postulare il «silenzio» di «prima» del linguaggio per poter afferrare il silenzio «dentro» il linguaggio.

Il compito più alto della poesia è appunto questo: indicare, alludere, richiamare il silenzio di prima del linguaggio, quel silenzio che è l’essere stesso, che è il linguaggio dell’essere. Comprendo adesso la difficoltà di Heidegger di scrivere l’opera che avrebbe dovuto seguire Essere e tempo (1935), bisognava inoltrarsi in una indagine perigliosa sul «prima del linguaggio» con gli strumenti del linguaggio e sarebbe occorso un «altro» linguaggio che lui non aveva.
L’evento ontico fondamentale è il «silenzio dell’essere», quel silenzio che è il suo linguaggio proprio. E questo è l’obiettivo della grande poesia europea, dei più grandi poeti europei dell’Ottocento e del Novecento. In questo progredire della loro ricerca si avverte l’eco del tinnire di quel silenzio, come scriveva Leopardi «sovrumani silenzi»,, «interminati spazi» e «profondissima quiete» (da notare le puntigliose e precise espressioni di Leopardi il quale è un poeta che non getta certo le parole a caso).

Ma quella frase che abbiamo usato: «prima del linguaggio», ci introduce in un altro problema filosofico di non poco conto che Heidegger aveva ben presente: quel «prima» ci introduce alla categoria del «tempo». Ma Heidegger si è ben guardato dall’inoltrarsi in quel ginepraio di oscurità. E così, siamo ancora all’inizio del problema, dobbiamo noi (dico noi per dire la «poesia»), inoltrarci in quel ginepraio fatto di «silenzio interno ed esterno» al linguaggio. Siamo dentro la problematica della metafora silenziosa. Quella cosa misteriosa che traduce il silenzio in linguaggio, l’assenza in parole. È questo che fa de «L’infinito» di Leopardi una poesia quasi sovrumana.

Gino Rago: Vuoi dire che noi stiamo dentro il linguaggio e che il linguaggio è dentro di noi? Come in un gioco di scatole cinesi? Continua a leggere

16 commenti

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Gino Rago, Steven Grieco Rathgeb, Giorgio Linguaglossa, Lucio Mayoor Tosi, Salvatore Martino, Ghiannis Ritsos, Vincenzo Petronelli, Andrea Emo, Martin Heidegger, Massimo Donà – Sul nichilismo, l’ontologia del novecento e la nuova ontologia estetica – il Signor Estraneo alla porta? – Riflessioni intorno alla Cosa – Il problema Leopardi Hölderlin

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Onto Gino Rago_2Gino Rago
Per una Nuova Estetica

(Versi per Luciano Nota, Giorgio Linguaglossa, Mariella Colonna, Lucio Mayoor Tosi)

Duchamp giocava meravigliosamente a scacchi.
Bussò senza preavvisi quel giorno d’incanti alla sua fervida mente.
In quel giorno speciale compì il gesto decisivo per l’estetica e la filosofia:
a New York espose uno scolabottiglie.
Disse al mondo che: « L’arte non è l’oggetto reale.
Ma è l’oggetto immaginario che tu cogli
quando ne hai distrutto le sue relazioni oggettive reali.
Perché soltanto distruggendo le condizioni oggettive reali
balzerà fuori l’oggetto immaginario.
L’oggetto della sensibilità.
L’oggetto emotivo pronto a farsi “Cosa”».
(…)
Malevitch comprende questo gesto.
Più tardi espone un quadrato nero in campo tutto bianco.
Poi fa di più. Mostra un quadrato bianco in campo tutto bianco.
L’arte tocca il suo annientamento. Noi siamo al silenzio.
(…)
Di morte in morte, di negazione in negazione.
L’ ”arte-araba fenice” risorge dal suo stesso fuoco e si rinnova.
Sulle ceneri di parole secche date alle fiamme da Giorgio Linguaglossa
si levano parole nuove. Ecco la morte dell’arte di Hegel
(che Benedetto Croce non comprese).

 Onto Linguaglossa tristeGiorgio Linguaglossa

25 luglio 2017 alle 12:03

Verso una «nuova ontologia estetica». Riflessione intorno alla «Cosa».

È noto il topos del vaso e del vasaio che Lacan riprende da Heidegger. Il vaso è quella cosa (Sache), quell’oggetto creato di uso quotidiano, prodotto di un fare che crea un utensile, una suppellettile, uno strumento. In esso è pienamente visibile l’idea del vuoto della Cosa (Ding). Da questa accezione derivano, per Heidegger, il romanzo la cosa, il francese la chose, e il tedesco das Ding, quell’alterità che «brilla» per la sua assenza. Esso ha la proprietà di presentificare il vuoto e il pieno, di esser pensato nel paradosso del vuoto e del pieno. Il suo essere utensile lo pone nella posizione di funzionare da significante, ma, allo stesso tempo, questo suo essere significante non significa nulla, ovvero, significa il vuoto intorno a cui esso vuoto prende forma, il vuoto che il vaso racchiude.

Per Heidegger la brocca è quella cosa che nella sua forma di recipiente assicura il contenere e l’offerta, connette mortali e divini, cielo e terra. Questo perché ciò di cui la brocca consiste non è il materiale di cui è fatta, non è nemmeno determinante la forma che il vasaio forgia, quanto il fatto che la brocca racchiuda il vuoto che essa crea.

La brocca è al contempo Sache e Ding, nel senso in cui sintetizza il rapporto tra il significante e das Ding, tra l’ordine della Vorstellung intorno a cui si articola la pulsione e il vuoto lasciato dalla Cosa a cui la stessa pulsione tende. Soffermiamoci per un momento al vaso, al suo uso come utensile e la sua funzione di significante. Ecco che il vaso è significante in quanto plasmato dalle mani dell’uomo, non è significante in sé. Il significante del vaso diventa significativo tramite il vuoto che esso crea, inaugurando l’aspettativa di riempirlo. Il vuoto e il pieno vengono creati dal vaso. È a partire da questo significante plasmato che è il vaso, che il vuoto e il pieno entrano come tali nel sistema articolatorio qual è la lingua. Il vaso dunque è quel significante che di per sé esprime l’ingresso nel sistema della lingua di un vuoto.

È questo vuoto che si presenta come nihil, come il nulla al centro della significazione, o come quel nulla del reale da cui proviene l’ordine della Vorstellung, il luogo in cui Lacan colloca il godimento, ovvero l’al di là del principio di piacere. È il vuoto del linguaggio. L’istanza discorsiva del soggetto viene articolata dalla catena significante, così come l’articolazione piacere-realtà introduce il rapporto del linguaggio con il mondo. La Cosa cioè, in quanto sita fuori del sistema articolatorio del significante e, allo stesso tempo, condizione di esso, resta la Cosa del linguaggio, quel punto di gravitazione che apre l’universo del nominabile, apertura che gli dà un limite, lo circoscrive come universo della significazione di fronte a cui, o meglio, al cui centro essa Cosa resta esterna, muta, innominabile.

Non si dà un significante che possa significare la Cosa, impossibilità che configura la condizione stessa della Parola, ovvero l’essere luogo di una lacerazione che pone il rapporto soggetto-Altro come inaugurale. Certo, il significante ambirà l’occupazione del posto della Cosa, ma sarà un tentativo condannato ad andare a vuoto, appunto perché non dotato di quell’assolutezza in sé che sarebbe necessaria per ricoprire il vuoto.

Cfr. veda M. Heidegger, La cosa, in Vorträge und Aufsatze, Verlag Günther Neske, Pfullingen 1954; trad. it. a cura di Vattimo G., Saggi e discorsi, Mursia, Torino 1976, 1990 (2007)., pp. 109-24. 197 J. Lacan, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 78.

londadeltempo

26 luglio 2017 alle 0:36

Perciò questa “Cosa”, muta, innominabile, al centro dell’universo dei significati dove gravitano le parole è MISTERO: ed è quel mistero a cui la parola poetica attinge la sua inspiegabile linfa vitale. Nessuno può possedere o nominare la verità, ma ai poeti è concesso evocarla nei mille modi che significante e significato rivelano grazie al loro sfinimento nell’impossibile tentativo di nominare o possederla. Grazie, Magister, per queste parole pronunciatesullondadeltempogravitanti… intorno alla “cosa”. Caro Giorgio Linguaglossa…mi accorgo che incominciamo a parlare lo stesso linguaggio…anche se io lo balbetto soltanto!
(Mariella)

Onto Grieco

Steven Grieco Rathgeb, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Giorgio Linguaglossa

26 luglio 2017 alle 8:22

UNA POESIA DI STEVEN GRIECO RATHGEB.

È erraneo e ultroneo mettere il Signor Estraneo alla porta,

gentile Mariella,
forse la parola «mistero» è quella più adatta ad indicare quel qualcosa che non riusciamo a nominare, ma forse è per il fatto che «quella» Cosa che non riusciamo a nominare è qualcosa che non possiamo indicare con «una» parola ma deve essere «evocata» dalle parole. Forse quella Cosa è qualcosa che sta «prima» del linguaggio, e cmq «fuori» del linguaggio. È di questo ciò di cui si deve occupare la poesia. Tutte le chiacchiere descrittive e paesaggistiche (anche ben scritte!) della poesia italiana degli ultimi cinquanta anni devono essere poste nel dimenticatoio, liberiamoci finalmente di tutta la poesia che non ha mai tentato (perché non ne era capace) di nominare l’innominabile. Eppure, questo è il compito della poesia, altrimenti è «chiacchiera».
Leggiamo una poesia di un autore , è Steven Grieco Rathgeb. Si tratta di poche parole:

Una brezza
la porta si è spalancata. Fitto fogliame,
nessuno,
la soglia non varcata.
In questo addio, sono tornato a casa.

(Steven Grieco -Rathgeb da Entrò in una perla, Mimesis Hebenon, 2016)

Non mi cimenterò in una analisi dettagliata delle parole, l’ho già fatto in altra sede e non mi ripeterò. Ecco, qui siamo messi davanti ad un «mistero», come lo chiama Mariella, o ad una «Cosa», come la chiamo io (il che è lo stesso).
La poesia disegna la «cornice» del «vuoto», non può fare altro che disegnare questa «cornice» per mettere a fuoco un «evento»: una «porta» che «si è spalancata». E qui la poesia è già finita.

Il fatto è che noi nella nostra vita quotidiana abbiamo visto miliardi di volte una porta «spalancata», e allora che cos’è che ci sembra abbia del miracoloso, del mirabolante in questa apparizione? Perché, che cosa fa di «quella» porta un evento singolare e irripetibile? È irripetibile perché nel verso seguente è detto «nessuno», non c’è anima viva là intorno. E allora ci chiediamo: che cosa fa di questa risposta della poesia una risposta significativa? Che cosa significa «per noi» che quella «porta» «si è spalancata» (da notare il riflessivo, quasi che l’azione dello spalancarsi sia stata compiuta da una terza persona o da «nessuno», che so, da un colpo di vento…), poi viene detta una semplice frase lasciata cadere lì per caso:

la soglia non varcata

Dunque, finalmente siamo arrivati alla parola chiave: «la soglia»; si badi al determinativo «la», quindi si tratta di una «soglia» davvero particolare, unica, che non si ripeterà, che non può più ripetersi perché è lì che si consuma un destino. Si badi, tutto intorno c’è silenzio, non c’è un rumore, non c’è una allitterazione, non c’è alcun concerto di significanti o di assonanze: tutto è muto, ciò che avviene avviene nell’ammutinamento della voce; non ci sono parole, «nessuno» parla e nessuno ascolta. Il silenzio irrigidisce la composizione che si esaurisce in pochissime parole. L’evento sta per consumarsi, anzi, si è già consumato. Il protagonista che parla, colui che sta a lato o dietro la «cornice» della composizione, ha preso la decisione, ha vissuto l’evento e l’evento gli ha parlato. L’Estraneo, colui che è invisibile, ha parlato, ha parlato, ovviamente, nella sua lingua non fatta di parole.

Non v’è chi non veda come questa poesia sia estranea al descrittivismo impressionistico della poesia italiana di questi ultimi decenni, quella alla moda, intendo; qui non ci sono battute di spirito o giochi verbali, qui si va all’essenza delle cose, si va verso l’essenza.

Ho scritto in altra occasione questi Appunti che voglio richiamare:

È stato possibile parlare di «nuova ontologia estetica»,
solo una volta che la strada della vecchia ontologia estetica si è compiuta,
solo una volta estrodotto il soggetto linguistico
che ha il tratto puntiforme di un Ego in cui convergono,
cartesianamente, Essere e Pensiero,
quello che Descartes inaugura e che chiama «cogito». Solo una volta che le vecchie parole sono rientrate nella patria della vecchia metafisica, allora le nuove possono sorgere, hanno la via libera da ostruzioni e impedimenti perché con loro e grazie a loro sorge una nuova metafisica. 

Sull’Estraneo

Il discorso poetico è quel capitolo della mia storia che è marcato da una barratura, da un bianco, abitato da un certo tipo di menzogna che si chiama «verità» della poesia nelle sue svariate versioni: poesia onesta, poesia orfica, poesia sperimentale, poesia degli oggetti, poesia della contraddizione, poesia del minimalismo, poesia del quotidiano etc.; è il capitolo censurato di quella Interrogazione che non deve apparire per nessuna ragione. Il discorso poetico abita quel paragrafo dell’ inconscio dove siede il deus absconditus, dove fa ingresso l’Estraneo, l’Innominabile. Giacché, se è inconscio, e quindi segreto, quella è la sua abitazione prediletta. Noi lo sappiamo, l’Estraneo non ama soggiornare nei luoghi illuminati, preferisce l’ombra, in particolare l’ombra delle parole e delle cose, gli angoli bui, i recessi umidi e poco rischiarati.

È erraneo e ultroneo mettere il Signor Estraneo alla porta.

Un atto di suprema ingenuità oltre che di scortesia, perché egli è qui, dappertutto, e chi non se ne avvede è perché non ha occhi per avvedersene.
Tutto quello che possiamo fare è intrattenerci con Lui facendo finta di nulla, cincischiando e motteggiando, ma sapendo tuttavia che con Lui è in corso una micidiale partita a scacchi.

Onto Pound

Steven Grieco-Rathgeb

25 luglio 2017 alle 12:25

Complimenti per il post molto interessante! E da questa ennesima variazione sulla figura di Odisseo, vedo che essa gode di buonissima salute, anche se somiglia molto più all’Idra ormai, che non al barbuto guerriero nonché eminenza grigia degli Achei: ma un’Idra alla quale tutti gli Ercoli postumi non riescono a venire a capo!
Bello questo, e interessante. Gli avataar di Ulisse dunque continuano.
Tanto per aggiungere qualcosa ancora, riprendo (e un po’ aggiusto) questo mio commento fatto l’anno scorso su L’Ombra delle parole, in qualche modo anche echeggiando il commento di Guglielmo Peralta:

“…E a proposito di quel passo nell’Odissea (i.e., il canto delle sirene): come facciamo a sapere che Ulisse non avesse proprio in quel momento rifiutato un sapere più profondo, messo in guardia contro questo sapere dai conservatori della sua cultura, dai suoi riduttori? …Così anche per il passo che narra la vicenda di Calypso, falsamente (forse) rappresentata come seduttrice di uomini che soltanto promette una melensa immortalità… In realtà, sono gli stessi dei che infine decidono che ad Ulisse venga negato un sapere realmente cosmico (così mandano Ermes a “liberarlo”); che per lui ci sarà soltanto la saggezza (non da poco!) di un uomo che ha vissuto le mille esperienze della vita. Solo in questo modo Odisseo può, nel corso delle sue peregrinazioni, entrare come Uomo nel Tempo, diventando Primo della stirpe “occidentale”: deve tagliare il cordone ombelicale con l’Asia, smarrire la conoscenza di un cosmo più vasto, conoscenza che in Occidente aspetterà lunghissimi secoli, fino alla fisica e astrofisica degli ultimi 150 anni, per ritrovare il filo. ”
Rimane da dire che quasi tutta la tradizione occidentale vieta letture più profonde dell’Odissea e dell’Iliade, Eppure ci sono pochi grandi studiosi che sono andati cercando in questa direzione.

Onto Giuseppe Ungaretti

Giuseppe Ungaretti

giorgio linguaglossa

25 luglio 2017 alle 17:16

Odisseo inaugura il viaggio. A Noi, dopo 3000 anni ci resta il viaggio turistico.

Il problema che Odisseo apre è quello della libertà. La sua astuzia, propriamente umana, è il tentativo di ritagliarsi uno spazio di manovra tra l’Ananke decretata dagli dèi. Ma se c’è Ananke non c’è libertà. Odisseo pone questo problema, la sua è una figura intensamente drammatica, il suo nostos è la ricerca di uno spazio di manovra tutto umano tra gli editti contrapposti degli dèi.

Sorge il problema del logos e della libertà, dei loro rapporti e del loro carattere ontologicamente antinomico, paradossale, controvertibile…

Ecco come risponde il filosofo Massimo Donà in una intervista che lo invitata a pronunciarsi in proposito:

«la libertà non ha a che fare con ciò che si dimostra, è un’istanza che sfida ogni logos, infatti, se essa fosse oggetto di dimostrazione, sarebbe un oggetto di necessità.
La libertà è quel buco nero che il logos non riesce a dominare, perché ne è il cuore inassimilabile, quel nucleo profondo che contiene l’errore stesso dal quale vuole difendersi; ma è proprio in quell’errore che sta la sua radice. Qui la verità non può essere consapevole. Per come dice Severino, la verità continuerà sempre a percepire l’errore come fuori da sé, come altro da sé, ma in realtà agisce nel profondo della sua struttura, è il logos, è la verità stessa. La verità dunque, si delinea come questo fondo inassimilabile, ingiustificabile, indimostrabile, che mette in crisi il logos che vuole sempre dimostrazioni, che vuole λόγον διδόναι (logon didonai) cioè rendere ragione di tutto. Quindi è il fondamento stesso della verità ad essere ciò di cui non si può rendere ragione; d’altro canto, se il fondamento fosse fondabile non sarebbe fondamento. Il fondamento è palesemente infondato, e noi che vogliamo fondare tutto non ci rendiamo conto che il fondamento è il massimamente infondato.»*

http://www.ritirifilosofici.it/?p=4059

Onto Fernando Pessoa

Fernando Pessoa

Il responso di Andrea Emo:

«Il regno dell’Essere è alla fine. L’Essere non è più considerato una salvezza; l’essere è stato una funesta sopraffazione contro l’innocenza del nulla. … L’eternità dell’essere è stanca; l’essere vuole ritornare ad essere l’eternità del nulla, unico salvatore. Il nulla è il salvatore crocifisso dalla soperchieria dell’Essere
[…]
«nel paradosso è sempre e finalmente l’unica verità; ma nel paradosso, e perciò nella Verità, possiamo soltanto credere. Il linguaggio, il Verbo del Paradosso, è il mito; soltanto il mito sa esprimere il paradosso» […] «l’assoluto non ammette relazione altro che con il nulla. Dalla relazione iniziale (nozze abissali, infernali) tra il tutto e il nulla sono nati l’universo, gli esseri e le cose»*

* citato da Adalberto Coltelluccio in
https://mondodomani.org/dialegesthai/acol03.htm
Cfr. A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, a cura di Massimo Donà e Romano Gasparotti, Marsilio Editori, Venezia 1989.

onto Lucio Mayoor Tosi

Lucio Mayoor Tosi

Lucio Mayoor Tosi

26 luglio 2017 alle 7:08

Sulla poesia del nichilismo e l’ontologia tradizionale

Il termine “inconoscibile” è indicativo di un approccio solo mentale. Quando la “cosa” cade fuori dal mentale è inconoscibile. Il termine “cosa”, così come la parola “vuoto” sono indicativi di un limite nel sistema di apprendimento. Credere che ci sia un oltre o dell’altro presuppone, necessariamente, che si compia un atto di fede. E’ a questo punto che la filosofia, nello sforzo di superare se stessa, pur tenendo conto dei limiti del linguaggio, finisce col cedere qualcosa alla teologia. Oppure, questa sarebbe la mia opinione, avvicinandosi ai temi della spiritualità ne avverte il riverbero. Si tratta evidentemente di un tentativo di riappropriazione, un ratto di conoscenza operato nei confronti della spiritualità. Ma la conoscenza, così come l’intendiamo da sempre qui in occidente, verte solo su due fronti tra loro contrapposti: ragione e spiritualità. Il fatto che ci si trovi a dover fare i conti con il nulla e l’indicibile non mi meraviglia affatto. In oriente questo non sempre accade. Nello Zen ad esempio – Zen non è una religione e nemmeno una filosofia – si procede da secoli, scientificamente, utilizzando altri sistemi percettivi della conoscenza, dove si dà maggiore importanza alla fattività piuttosto che alla teorizzazione o al pensiero cartesiano. Va detto che per lo Zen, Dio non è mai esistito e questo semplifica notevolmente le cose.
Sono invece d’accordo con di Carlo Livia, quando scrive:
“Se è vero che la dissoluzione nichilista è ormai così avanzata da non poter essere superata o rimossa da una semplice ricostruzione dell’ontologia tradizionale, l’unica speranza risiede in un processo creativo che sappia indagarne l’essenza genetica, lasciandosi risucchiare dal vortice del nulla fino a scorgere il fondamento del suo accadere, facendo tesoro d’ogni luce che possa rischiare l’oscurità in cui ci muoviamo”.

giacomo-leopardi-volto

giorgio linguaglossa

26 luglio 2017 alle 12:17

Scrive Heidegger:

«L’atto del poetare è quindi ciò che istituisce la cultura. La Grundstimmung ovvero la tonalità emotiva fondante di un popolo, quindi la verità del suo esserci, è istituita dai poeti che, unitamente ai pensatori e agli statisti, creano opere di grande potenza generando nuove condizioni dell’esserci. E, riferendosi a Höderlin, il “poeta del poetare”, rivela:

« Es kann sein, dass wir dann eines Tages aus unserer Alltäglichkeit herausrücken und in die Macht der Dichtung einrücken müssen, dass wir nie mehr so in die Alltäglichkeit zurückkehren, wie wir sie verlassen haben. »
(IT)
« Può darsi che noi un giorno usciamo (herausrücken) dal nostro quotidiano, dovendo entrare nella potenza della poesia (Macht der Dichtung), e che non possiamo più tornare alla quotidianità così come l’abbiamo lasciata. »
(In GA 39 p.22)

La scelta di Hölderlin è da Heidegger ben meditata in quanto il poeta tedesco è «der Dichter des Dichters und der Dichtung» (“il poeta dei poeti e della poesia”), non solo, Hölderlin è anche il «der Dichter der Deutschen» (“il poeta dei tedeschi”), e siccome lui è tutto questo ma il suo poetare è “difficile” (Schwer) e “arcano” (Verborgene), la sua “potenza” non è divenuta “potenza” del popolo tedesco e “siccome non lo è, lo deve diventare” (Weil er das noch nicht ist, muß er es werden)[73].

Leopardi, al contrario di Hölderlin, non è mai diventato il poeta degli italiani moderni, non è mai diventato il poeta del popolo italiano, è stato miscompreso. Chiediamoci perché è avvenuto questo?, al punto che una poetessa in fama di visibilità e di allori lo ha inserito tra i minori.

Salvatore Martino in pensiero

Salvatore Martino

Salvatore Martino

26 luglio 2017 alle 12:57

Dimenticando tutto questo discettare sulle varie interpretazioni del nichiismo( mi sembra che ognuno abbia una sua ricetta universale) tornerei volentieri al mito di Odisseo e alla poesia..
Vi propongo qui un testo scritto nel settembre del 1968 da Ghiannis Ritsos. Fa parte di una raccolta intitolata Ripetizioni.
Credo che chiunque possa valutare cosa significhi la rivisitazione di un mito facendo grande poesia.

La disperazione di Penelope

“Non è che non lo riconobbe alla luce del focolare: non erano
gli stracci del mendicante, il travestimento, – segni evidenti
la cictarice sul ginocchio, il vigore, l’astuzia nello sguardo.
Spaventata,
la schiena appoggiata alla parete, cercava una giustificazione,
un rinvio, ancora un po’ di tempo, per non rispondere,
per non tradirsi. Per lui, dunque, aveva speso vent’anni,
vent’anni d’attesa e di sogni, per questo miserabile
lordo di sangue e dalla barba bianca? Si gettò senza voce su una sedia,
guardò lentamente i pretendenti uccisi al suolo , come guardasse
morti i suoi stessi desideri. E “Benvenuto” disse,
sentendo estranea, lontana la sua voce. Nell’angolo il suo telaio
proiettava ombre di sbarre sul soffitto, e tutti gli uccelli che aveva tessuto
con fili rossi brillanti tra il fogliame verde, a un tratto
in quella n notte del ritorno, diventarono grigi e neri
e volarono bassi nel cielo piatto della sua ultima pazienza.

Ecco a mio giudizio un modo di raccontare in poesia, in questo caso grande poesia, un evento mitico rivisitato rispetto alla sua origine.
Sintesi drammatica e drammaturgica, immagini che raccontano per folgorazione, visionarietà, descrizione perfetta dei personaggi, in pochissime parole, la cadenza musicale che resta persino nella traduzione (Nicola Crocetti) la feroce meditazione sul tempo e sulla inutilità dell’attesa, l’inutilità del grande gesto, l’essiccamento di ogni desiderio, la morte dei sogni, l’indifferenza totale verso un uomo amato e che ritorna e non è più lo stesso.E tante altre cose che ciascun lettore può incontrare.
Certo in una versificazione come questa pregna di pathos e di kommos forse gli esponenti della NOE troveranno tanto da ridire e da non condividere. Non siamo nell’arido svolgimento intellettualistico-razionale dell’azione, dove lo spirito è cancellato, nella proposizione matematica della parole, senza alcuna allusione, forse l’unico elemento che apprezzeranno la mancanza di un Io personale.
Concordo con molti degli appunti di Livia, di Borghi e stavolta persino di Tosi, anche se non ne posso più di Nichilismo( l’ho frequentato per anni e ancora lo frequento nella mia poesia, per cui noni mi va di parlarne tanto, filosoficamente, preferisco far parlare i miei versi). Anche le ossessive notazioni sulla NOE ormai quotidiane credo di averle digerite e quasi non le guardo più.
Mi piacerebbe vedere commentata su queste pagine la poesia di Ritsos, ci terrei in maniera particolare per chiarire anche a me stesso alcuni misteri.

onto duska

Duska Vrhovac

giorgio linguaglossa

26 luglio 2017 alle 16:21

caro Salvatore Martino,

la poesia da te postata di Ritsos è una grande poesia, interpreta un mito ma non fa mitologia, fa pensiero, pensiero sul destino umano, parla per tutti gli uomini, fa parlare il mito per tutti gli uomini a venire, ci parla del nostro destino, del destino di estraneità che colpisce noi tutti quando torniamo al nostro focolare dopo venti anni…

Ritsos fa parte di una civiltà letteraria che c’è stata nel passato, la NOE fa parte di una nuova in-civiltà letteraria, sono due approcci diversissimi alla poesia, non si possono comparare gli approcci… gli esiti sì, ma potranno farlo (forse) coloro che verranno fra cento anni (se bastano), oggi tutti i «poeti» sono in competizione tra di loro per poter emergere a danno di tutti gli altri, c’è una competizione asperrima senza esclusione di colpi. Uno spettacolo desolante. Mi chiedo: come fanno costoro a leggere una poesia di un altro autore? La verità è che Nessuno legge Nessuno, anzi, se tu hai delle qualità, fanno di tutto per oscurarti…

Il problema oggi in Italia è che manca un linguaggio critico. E manca da circa cinquanta anni. Quel linguaggio curiale che tutti usano per parlare di «poesia», quel linguaggio di derivazione semi accademica e conviviale, è esautorato di qualsiasi credibilità, non vorrai spero mettere in dubbio che le “recensioni” che si fanno dei libri di poesia sono delle schedine anodine anonime che puoi cambiarle e adattarle a tutti i libri senza che l’ordine degli addendi ne nuoccia.

Il problema è che manca un linguaggio critico perché mancano i poeti. Un «poeta» che mi legge sa benissimo cosa voglio dire e a cosa voglio alludere, non c’è bisogno di altre parole. In proposito, ripropongo quello che avevo scritto in un altro mio commento recente:

7 maggio 2017 alle 9:56

Ha cessato di esistere il linguaggio critico militante della poesia

Il problema della critica militante di poesia è un problema serio. Sono ormai 50 anni che non abbiamo più un linguaggio critico, l’ultimo rappresentante in poesia in possesso di un linguaggio critico è stato Franco Fortini scomparso nel 1995, dopo di lui c’è stato il vuoto. S’intende che continua a sopravvivere il linguaggio critico della critica accademica, ma quello è un’altra cosa, rispettabilissima cosa ma diversa; continua ad esistere il linguaggio delle pagine culturali e informative del Sole 24 ore e del Corriere, ma quello è un’altra cosa, è un linguaggio informativo che svolge un’altra funzione, una funzione appunto informativa.

È per questo che io ho dovuto forgiarmi, «quasi» da solo, un linguaggio critico “nuovo” prendendolo a prestito da altre discipline: la filosofia, la psicologia, la psicanalisi, la narrativa, il linguaggio giornalistico, la psicofilosofia… ho fatto un mix di tutti questi linguaggi, e ne è derivato il mio (personalissimo) linguaggio critico che qualcuno (molto ignorante) ha definito «inventato»; e in effetti è «inventato», perché un linguaggio lo si «inventa», proprio come si inventano tante altre cose, è il prodotto di una continua invenzione, non lo si trova già bell’è fatto.

In effetti, il linguaggio critico con cui commento le poesie su questa pagine è un linguaggio «inventato», non avrei potuto fare altrimenti.
E poi, un’ultima considerazione: quando una forma d’arte rimane senza pubblico (come è avvenuto alla poesia italiana degli ultimi 50 anni), è inevitabile che si perda anche la memoria storica di ciò che è stato il linguaggio critico: non si ha più un linguaggio critico; voglio dire che quel linguaggio critico che non ha più un riscontro di comprensibilità con un pubblico di persone colte e libere, quel linguaggio, dicevo, cessa semplicemente di esistere.

Vincenzo Petronelli voltoVincenzo Petronelli

27 luglio 2017 alle 19:51

Caro Giorgio, il tuo è probabilmente un linguaggio “inventato”, secondo i canoni della critica letteraria accademica (e da ex ricercatore mi sento di poter affermare, senza ombra di smentita, che il mondo accademico italiano ormai rappresenti solo sé stesso e probabilmente nel mondo letterario ancor più che nel limitrofo ambito storico-antropologico da cui provengo), ma si può decisamente sostenere che sia un’invenzione provvidenziale per chiunque – come credo la maggior parte dei convenuti nella NOE – cerchi una “nuova strada” alla poesia in Italia.Personalmente devo ribadire il concetto già altre vole espresso, che l’incontro con la NOE ha avuto per me la stessa forza ipnotica e rivelatrice che si prova quando si decide di varcare, dopo averli lambiti per anni, dei sentieri rurali prospicienti il centro abitato e che pertanto non suscitano apparentemente grande curiosità, ma che una volta imboccati svelano dei tesori nascosti e di inestimable malia paesaggistica.Il nocciolo della questione secondo me, si annida nel tuo passaggio all’interno di questa riflessione, in cui evidenzi come l’arte e principalmente la poesia, si qualifichi nel momento in cui sia capace di offrire un contributo decisivo al superamento del dato “sensibile” o non ha più ragion d’essere (o diciamo che perde buona parte della sua ragion d’essere); deve cioè mirare partendo dal nucleo iniziale “noumenico” base evidentemente del percorso cognitivo umano, al “ding an sich” per dirla Kantianamente. Tale percorso, probabilmente a causa del materialismo ed al suo addentellato scientista che hanno caratterizzato, in modo pervasivo, il pensiero occidentale del novecento, si è incagliato, facendo smarrire alla poesia tale significato a partire dagli anni settanta, quanto meno per quanto riguarda le sue espressioni prevalenti in quello che comunemente soliamo definire “mondo occidentale”: in particolare in una realtà come quella italiana, nella quale a tale deviazione antropologica, si affianca la pochezza provincialistica dei salotti e delle varie consorterie di potere annidatesi attorno alla letteratura.L’apertura della poesia ad un contesto olistico, riconducendola ad un dibattito culturale più ampio intersecantesi con le altre arti (in particolare le arti visive, come ben dimostra il nostro amico Lucio Mayoor Tosi), la filosofia e le altre scienze umane, certamente permette di chiarire e definire meglio la parabola che dovrebbe caratterizzare l’esperienza poetica stessa, in quanto la sveste dell’albagia di cui molti presunti poeti l’hanno ammantata, restituendola ad una dimensione universalistica aperta ai grandi interrogativi dell’umanità. In questo senso la mitologia è senz’altro uno dei terreni di confluenza più fertili verso cui poter indirizzare una poesia rinnovata, grazie alla sua immediatezza immaginifica capace di sintetizzare quasi istintivamente la condizione universale dell’uomo, ponendosi oltre il dato visibile, oltre la parola,l’orizzonte, l’effimero del dicibile, oltre il materico, approcciando direttamente il “mistero” (come l’hai più su definito), la trascendenza, il rapporto con l’eterno, cui l’uomo tende per sua natura e nel tentativo di raggiungere i quali l’esistenza individuale si coniuga in “epos”; ma oggi il pensiero occidentale fatica sempre più a confrontarsi con tali dimensioni, come dimostra (tanto per citare un tema che mi è particolarmente caro) ila sempre maggior conflittualità che contrassegna alle nostre latitudini il rapporto con la morte. Eppure la memoria della storia recente, come giustamente evidenziavi Giorgio, dovrebbe essere di monito in questo senso, perché tutto il complesso delle sovrastrutture, storicamente comprensibili forse, ma esistenzialmente spesso superflue, di cui l’uomo occidentale si è contornato con il materialismo novecentesco, hanno mostrato in realtà non solo la loro caducità ed evanescenza (con la frantumazione del relativo equilibrio posticcio che le nostre società hanno tentato di ricucire loro addosso) ma sono state esse stesse in molti casi alla base del male e della tendenza autodistruttiva che la nostra società ha spesso mostrato e che è ancora in agguato dietro l’angolo, come rapaci in volo sulla preda, come ben dimostra l’andazzo poco rassicurante dei nostri giorni. In questa cornice è difficile pensare alla realtà come una struttura ontologicamente data e mi fa particolarmente piacere che tu abbia citato un poeta a me particolarmente caro ed esemplare in tal senso come Celan. Grazie ancora a te Giorgio ed a tutti gli amici i cui interventi rendono sempre estremamente stimolante (nei momenti in cui il lavoro me lo consente) la lettura dell’ “Ombra”.

 

43 commenti

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Poesie di Kjell Espmark da La Creazione nella traduzione di Enrico Tiozzo – Verso una nuova ontologia estetica. Una poesia di Steven Grieco Rathgeb – Riflessione intorno alla Cosa – Heidegger e Lacan, La brocca e il vuoto nella brocca – Commenti di Lucio Mayoor Tosi, Mariella, Giorgio Linguaglossa – Pensieri di Andrea Emo e Heidegger con uno scritto di Donatella Costantina Giancaspero

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foto di gunnar-smoliansky-1976

Verso una «nuova ontologia estetica». Riflessione intorno alla «Cosa».

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/25/il-ritorno-di-odisseo-loblio-della-memoria-odisseo-e-un-cialtrone-un-disertore-della-guerra-di-troia-una-poesia-inedita-di-giorgio-linguaglossa-la-rilettura-del-mito-dal-punto-di-vista-della/comment-page-1/#comment-21978

È noto il topos del vaso e del vasaio che Lacan riprende da Heidegger. Il vaso è quella cosa (Sache), quell’oggetto creato di uso quotidiano, prodotto di un fare che crea un utensile, una suppellettile, uno strumento. In esso è pienamente visibile l’idea del vuoto della Cosa (Ding). Da questa accezione derivano, per Heidegger, il romanzo la cosa, il francese la chose, e il tedesco das Ding, quell’alterità che «brilla» per la sua assenza. Esso ha la proprietà di presentificare il vuoto e il pieno, di esser pensato nel paradosso del vuoto e del pieno. Il suo essere utensile lo pone nella posizione di funzionare da significante, ma, allo stesso tempo, questo suo essere significante non significa nulla, ovvero, significa il vuoto intorno a cui esso vuoto prende forma, il vuoto che il vaso racchiude.

Per Heidegger la brocca è quella cosa che nella sua forma di recipiente assicura il contenere e l’offerta, connette mortali e divini, cielo e terra. Questo perché ciò di cui la brocca consiste non è il materiale di cui è fatta, non è nemmeno determinante la forma che il vasaio forgia, quanto il fatto che la brocca racchiuda il vuoto che essa crea.

La brocca è al contempo Sache e Ding, nel senso in cui sintetizza il rapporto tra il significante e das Ding, tra l’ordine della Vorstellung intorno a cui si articola la pulsione e il vuoto lasciato dalla Cosa a cui la stessa pulsione tende. Soffermiamoci per un momento al vaso, al suo uso come utensile e la sua funzione di significante. Ecco che il vaso è significante in quanto plasmato dalle mani dell’uomo, non è significante in sé. Il significante del vaso diventa significativo tramite il vuoto che esso crea, inaugurando l’aspettativa di riempirlo. Il vuoto e il pieno vengono creati dal vaso. È a partire da questo significante plasmato che è il vaso, che il vuoto e il pieno entrano come tali nel sistema articolatorio qual è la lingua. Il vaso dunque è quel significante che di per sé esprime l’ingresso nel sistema della lingua di un vuoto.

È questo vuoto che si presenta come nihil, come il nulla al centro della significazione, o come quel nulla del reale da cui proviene l’ordine della Vorstellung, il luogo in cui Lacan colloca il godimento, ovvero l’al di là del principio di piacere. È il vuoto del linguaggio. L’istanza discorsiva del soggetto viene articolata dalla catena significante, così come l’articolazione piacere-realtà introduce il rapporto del linguaggio con il mondo. La Cosa cioè, in quanto sita fuori del sistema articolatorio del significante e, allo stesso tempo, condizione di esso, resta la Cosa del linguaggio, quel punto di gravitazione che apre l’universo del nominabile, apertura che gli dà un limite, lo circoscrive come universo della significazione di fronte a cui, o meglio, al cui centro essa Cosa resta esterna, muta, innominabile.

Non si dà un significante che possa significare la Cosa, impossibilità che configura la condizione stessa della Parola, ovvero l’essere luogo di una lacerazione che pone il rapporto soggetto-Altro come inaugurale. Certo, il significante ambirà l’occupazione del posto della Cosa, ma sarà un tentativo condannato ad andare a vuoto, appunto perché non dotato di quell’assolutezza in sé che sarebbe necessaria per ricoprire il vuoto.

Cfr. veda M. Heidegger, La cosa, in Vorträge und Aufsatze, Verlag Günther Neske, Pfullingen 1954; trad. it. a cura di Vattimo G., Saggi e discorsi, Mursia, Torino 1976, 1990 (2007)., pp. 109-24. 197 J. Lacan, L’etica della psicoanalisi, cit., p. 78.

foto-gunnar-smoliansky-stockholm-1958

foto di gunnar-smoliansky, 1958

londadeltempo

26 luglio 2017 alle 0:36

Perciò questa “Cosa”, muta, innominabile, al centro dell’universo dei significati dove gravitano le parole è MISTERO: ed è quel mistero a cui la parola poetica attinge la sua inspiegabile linfa vitale. Nessuno può possedere o nominare la verità, ma ai poeti è concesso evocarla nei mille modi che significante e significato rivelano grazie al loro sfinimento nell’impossibile tentativo di nominare o possederla. Grazie, Magister, per queste parole pronunciatesullondadeltempogravitanti… intorno alla “cosa”. Caro Giorgio Linguaglossa…mi accorgo che incominciamo a parlare lo stesso linguaggio…anche se io lo balbetto soltanto!

(Mariella)

Onto Espmark

Kjell Espmark, nella grafica di Lucio Mayoor Tosi

Poesie di Kjell Espmark da La Creazione (2016, Aracne) traduzione di Enrico Tiozzo

 Commento «ontologico» di Giorgio Linguaglossa

 Nella nuova poesia il problema in ambito estetico è percepire il nulla aleggiare nelle «cose» e intorno alle «cose», percepire il vibrare del nulla all’interno di una composizione poetica così piena di «cose» e di significati… per scoprire che tutte quelle «cose» e quei «significati» altro non erano che il riverbero del «nulla», il «solido nulla» del nostro nichilismo, quest’ospite ingombrante che non possiamo più mettere alla porta, perché tanto non varrebbe, si ripresenterebbe tale e quale dinanzi e dietro di noi senza preavviso…

La «positività» del nulla, come ci ha insegnato Andrea Emo, è la sua stessa nullità, la sua nullificazione. Credo che questo sia chiaro a chi legga la poesia di Kjell Espmark con la mente sgombra, senza pregiudizi, facendo vuoto sul prima della poesia, e sul dopo, leggerla come si respira o si guarda uno scricciolo che trilla, come un semplice accadimento che accade sull’orlo di qualcosa che noi non sappiamo… Ascoltare negli uomini e le donne che parlano in questa novella Antologia di Spoon river la progressiva nullificazione del nulla che avanza e tutto sommerge nella sua progressiva forza nientificante. È questo propriamente ciò di cui tratta la «nuova ontologia estetica», prima ancora di parlare di metro, di parola e di musica e quant’altro…

Mi conoscete come Yan Zhenqing,
il maestro del pennello dritto.
Ma l’imperatore mi trovò altro uso.
Le rivolte allora squarciavano il regno.
I figli pugnalavano il loro padre
e le donne si sbudellavano come galline.
La realtà da noi ereditata cadde in pezzi.
Sì, la luna stessa fu ridotta in cenere.

Il mio valore durante la resistenza
mi aveva fatto diventare ministro.
Ma la mia aperta critica ai cortigiani corrotti
suscitò l’ira del primo consigliere.
Mi mandò a fare giustizia
del capo della rivoluzione Li Xili
pagando con la mia vita per l’oltraggio.

Ma Li voleva comprarmi. Si racconta
che accese un falò in giardino
minacciando di buttare un no nel fuoco.

*

E che io destai il suo rispetto
quando da me andai verso le fiamme.
La memoria vuole eradere ciò che davvero accadde.

Il mio stile che trovai solo dopo i cinquanta
vi racconta tutto questo.
Una pennellata comincia e finisce debolmente
come la donna che a lungo ho amato
ma il corpo del segno è d’un guerriero.
Solo così lo scritto è capace d’intervenire.

Ora ero al limite del mio filo d’erba curvantesi.
L’ultima notte nel tempio di Longxing
scrissi mentre aspettavo il boia.
Il diretto, oggettivo scritto
restituì alle parole saccheggiate il loro senso.
Costrinse la cenere a ridiventare luna,
riempì lo stagno perché vi si specchiasse
e ridiede al Buddha nel tempio le sue braccia.
Quelli che venenro per strangolarmi
furono atterriti dalla forza dei segni.

*

Quando prendeste il largo
tra costellazioni spaventose
lasciandomi da questa parte del Giordano
portaste con voi una patria incompleta.

Divenni un mucchio di ossa abbandonate
rose da iene e avvoltoi
e rese lucide da vento e sabbia.
Ma i resti della gabbia toracica
trattennero ciò che il naufrago capì.

E ciò che veramente è io in me
non s’arrese. Questa tremula fiamma sperduta
ha vagato lungo vie polverose,
che non erano polvere né vie,
per cercare voi, i miei.

Volevo mettere la mia anziana parola
nei vostri sogni, senza destarvi. Sussurrare:
La creazione è ancora incompiuta.

*

Ed è in voi che spera.
Avverto come vi girate nel sonno
con mani che afferrano nell’aria vuota
come per difendersi.

Ma perché giacete in così tanti,
ammucchiati insieme disperatamente,
su una sorta di letti di assi sporche?
E perché siete così smunti?

Voglio spargere in voi ciò che ho capito,
come cerchi su un’acqua dormiente.
Ma perché l’acqua è così scura?
E perché trema senza sosta?

*

Mi precipitai fuori, trasformata in fiamme
dalla biblioteca di Alessandria.
I nove rotoli di papiro in cui abitavo
ancora crepitanti di deluso amore,
mutarono in scintille e salienti schegge.
E morii per la seconda volta.

Frammenti di me rimasero come citazioni.
La mia parola per cielo s’impigliò in un dotto pedante –
Lui era fisso alla scrivania
Quando il blu di colpo divenne il blu profondo.
Un pronome usato in modo inusuale
stregò un grammatico. La parola
che scrisse se stessa in giallo e verde – uno scarabeo! –
aprì le sue elitre e si alzò
per portare il suo contesto attraverso i secoli.

Altri frammenti di ciò che era Saffo
rimasero come schegge sui passanti
per “richiamare chi a lungo amò”

*

Invece di cercare la Grande Visione
dovresti dedicarti ai piaceri della procreazione
e poi uscire con la tua donna nella luce lunare,
ascoltare l’unico liuto
e sentire l’aria fredda passare sul collo
Quel consiglio l’avesti da me, Li Zhi,
che una volta cercò d’insegnarti a scrivere
come salta la lepre e come colpisce il falco,
non per essere citato.
Non cercare di difenderti col fatto
che molti vogliono bruciare i tuoi libri.
Il vero testo
brucia mentre la mano scrive –
la carta s’accartoccia con i bordi neri.

Sull’estrema punta del capello
dove non visto costruisti la tua capanna
trovasti un’accademia.
Sono deluso da te.
Hai dimenticato me gettato in galera

Trovai sì l’ombra del mio amato
ma brancicò sopra di me
senza riconoscermi.
Allora passai la goccia di sangue sulle sue labbra,
l’ombreggiatura più scura che erano le sue labbra,
e lui stupì –

*

La mia mano che mano più non era
prese la sua che ancora era ombra.
E cominciammo a salire su nel buio.
Ad ogni gradino noi creammo
un pezzo dell’altro – un contorno noto,
gli occhi che un giorno scelsero l’altro.
Sì, dalle carezze ci nacquero sessi noti.

Vicino alla luce alla fine della scala,
alitato il respiro l’un nell’altra
rimanemmo fermi sopra un gradino
che doveva dirci qualche cosa:
spingi indietro la tua immagine dell’altro
e lascia che l’altro sia l’altro.
Stupiti ci fermammo,
prima che la creazione si compisse,
per imbrigliare il bisogno di riconoscere.
Ed era la sera del sesto giorno.

Onto Linguaglossa triste

Giorgio Linguaglossa nella grafica di Lucio Mayoor Tosi

giorgio linguaglossa

26 luglio 2017 alle 8:22 gentile Mariella,

UNA POESIA DI STEVEN GRIECO RATHGEB.

È erraneo e ultroneo mettere il Signor Estraneo alla porta

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/25/il-ritorno-di-odisseo-loblio-della-memoria-odisseo-e-un-cialtrone-un-disertore-della-guerra-di-troia-una-poesia-inedita-di-giorgio-linguaglossa-la-rilettura-del-mito-dal-punto-di-vista-della/comment-page-1/#comment-22003

forse la parola «mistero» è quella più adatta ad indicare quel qualcosa che non riusciamo a nominare, ma forse è per il fatto che «quella» Cosa che non riusciamo a nominare è qualcosa che non possiamo indicare con «una» parola ma deve essere «evocata» dalle parole. Forse quella Cosa è qualcosa che sta «prima» del linguaggio, e cmq «fuori» del linguaggio. È di questo ciò di cui si deve occupare la poesia. Tutte le chiacchiere descrittive e paesaggistiche (anche ben scritte!) della poesia italiana degli ultimi cinquanta anni devono essere poste nel dimenticatoio, liberiamoci finalmente di tutta la poesia che non ha mai tentato (perché non ne era capace) di nominare l’innominabile. Eppure, questo è il compito della poesia, altrimenti è «chiacchiera».

Leggiamo una poesia di un autore , è Steven Grieco Rathgeb. Si tratta di poche parole:

Una brezza
la porta si è spalancata. Fitto fogliame,
nessuno,
la soglia non varcata.
In questo addio, sono tornato a casa.

(Steven Grieco -Rathgeb da Entrò in una perla, Mimesis Hebenon, 2016)

Non mi cimenterò in una analisi dettagliata delle parole, l’ho già fatto in altra sede e non mi ripeterò. Ecco, qui siamo messi davanti ad un «mistero», come lo chiama Mariella, o ad una «Cosa», come la chiamo io (il che è lo stesso).

La poesia disegna la «cornice» del «vuoto», non può fare altro che disegnare questa «cornice» per mettere a fuoco un «evento»: una «porta» che «si è spalancata». E qui la poesia è già finita.
Il fatto è che noi nella nostra vita quotidiana abbiamo visto miliardi di volte una porta «spalancata», e allora che cos’è che ci sembra abbia del miracoloso, del mirabolante in questa apparizione? Perché, che cosa fa di «quella» porta un evento singolare e irripetibile? È irripetibile perché nel verso seguente è detto «nessuno», non c’è anima viva là intorno. E allora ci chiediamo: che cosa fa di questa risposta della poesia una risposta significativa? Che cosa significa «per noi» che quella «porta» «si è spalancata» (da notare il riflessivo, quasi che l’azione dello spalancarsi sia stata compiuta da una terza persona o da «nessuno», che so, da un colpo di vento…), poi viene detta una semplice frase lasciata cadere lì per caso:

la soglia non varcata

Dunque, finalmente siamo arrivati alla parola chiave: «la soglia»; si badi al determinativo «la», quindi si tratta di una «soglia» davvero particolare, unica, che non si ripeterà, che non può più ripetersi perché è lì che si consuma un destino. Si badi, tutto intorno c’è silenzio, non c’è un rumore, non c’è una allitterazione, non c’è alcun concerto di significanti o di assonanze: tutto è muto, ciò che avviene avviene nell’ammutinamento della voce; non ci sono parole, «nessuno» parla e nessuno ascolta. Il silenzio irrigidisce la composizione che si esaurisce in pochissime parole. L’evento sta per consumarsi, anzi, si è già consumato. Il protagonista che parla, colui che sta a lato o dietro la «cornice» della composizione, ha preso la decisione, ha vissuto l’evento e l’evento gli ha parlato. L’Estraneo, colui che è invisibile, ha parlato, ha parlato, ovviamente, nella sua lingua non fatta di parole.

Non v’è chi non veda come questa poesia sia estranea al descrittivismo impressionistico della poesia italiana di questi ultimi decenni, quella alla moda, intendo; qui non ci sono battute di spirito o giochi verbali, qui si va all’essenza delle cose, si va verso l’essenza.

Ho scritto in altra occasione questi Appunti che voglio richiamare:

È stato possibile parlare di «nuova ontologia estetica»,
solo una volta che la strada della vecchia ontologia estetica si è compiuta,
solo una volta estrodotto il soggetto linguistico
che ha il tratto puntiforme di un Ego in cui convergono,
cartesianamente, Essere e Pensiero,
quello che Descartes inaugura e che chiama «cogito».Solo una volta che le vecchie parole sono rientrate nella patria della vecchia metafisica, allora le nuove possono sorgere, hanno la via libera da ostruzioni e impedimenti perché con loro e grazie a loro sorge una nuova metafisica.

 

Onto Giuseppe Ungaretti

Giuseppe Ungaretti nella grafica di Lucio Mayoor Tosi

Sull’Estraneo

Il discorso poetico è quel capitolo della mia storia che è marcato da una barratura, da un bianco, abitato da un certo tipo di menzogna che si chiama «verità» della poesia nelle sue svariate versioni: poesia onesta, poesia orfica, poesia sperimentale, poesia degli oggetti, poesia della contraddizione, poesia del minimalismo, poesia del quotidiano etc.; è il capitolo censurato di quella Interrogazione che non deve apparire per nessuna ragione. Il discorso poetico abita quel paragrafo dell’ inconscio dove siede il deus absconditus, dove fa ingresso l’Estraneo, l’Innominabile. Giacché, se è inconscio, e quindi segreto, quella è la sua abitazione prediletta. Noi lo sappiamo, l’Estraneo non ama soggiornare nei luoghi illuminati, preferisce l’ombra, in particolare l’ombra delle parole e delle cose, gli angoli bui, i recessi umidi e poco rischiarati.
È erraneo e ultroneo mettere il Signor Estraneo alla porta. Un atto di suprema ingenuità oltre che di scortesia, perché egli è qui, dappertutto, e chi non se ne avvede è perché non ha occhi per avvedersene.
Tutto quello che possiamo fare è intrattenerci con Lui facendo finta di nulla, cincischiando e motteggiando, ma sapendo tuttavia che con Lui è in corso una micidiale partita a scacchi.

Odisseo inaugura il viaggio. A Noi, dopo 3000 anni ci resta il viaggio turistico.

Il responso di Andrea Emo:

«Il regno dell’Essere è alla fine. L’Essere non è più considerato una salvezza; l’essere è stato una funesta sopraffazione contro l’innocenza del nulla. … L’eternità dell’essere è stanca; l’essere vuole ritornare ad essere l’eternità del nulla, unico salvatore. Il nulla è il salvatore crocifisso dalla soperchieria dell’Essere?»
[…]
«nel paradosso è sempre e finalmente l’unica verità; ma nel paradosso, e perciò nella Verità, possiamo soltanto credere. Il linguaggio, il Verbo del Paradosso, è il mito; soltanto il mito sa esprimere il paradosso» […] «l’assoluto non ammette relazione altro che con il nulla. Dalla relazione iniziale (nozze abissali, infernali) tra il tutto e il nulla sono nati l’universo, gli esseri e le cose»*

* citato da Adalberto Coltelluccio in
https://mondodomani.org/dialegesthai/acol03.htm
Cfr. A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, a cura di Massimo Donà e Romano Gasparotti, Marsilio Editori, Venezia 1989.

onto Lucio Mayoor Tosi

Lucio Mayoor Tosi nella sua grafica

Lucio Mayoor Tosi
26 luglio 2017 alle 7:08

SULLA POESIA DEL NICHILISMO E L’ONTOLOGIA TRADIZIONALE

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/25/il-ritorno-di-odisseo-loblio-della-memoria-odisseo-e-un-cialtrone-un-disertore-della-guerra-di-troia-una-poesia-inedita-di-giorgio-linguaglossa-la-rilettura-del-mito-dal-punto-di-vista-della/comment-page-1/#comment-22002

Il termine “inconoscibile” è indicativo di un approccio solo mentale. Quando la “cosa” cade fuori dal mentale è inconoscibile. Il termine “cosa”, così come la parola “vuoto” sono indicativi di un limite nel sistema di apprendimento. Credere che ci sia un oltre o dell’altro presuppone, necessariamente, che si compia un atto di fede. E’ a questo punto che la filosofia, nello sforzo di superare se stessa, pur tenendo conto dei limiti del linguaggio, finisce col cedere qualcosa alla teologia. Oppure, questa sarebbe la mia opinione, avvicinandosi ai temi della spiritualità ne avverte il riverbero. Si tratta evidentemente di un tentativo di riappropriazione, un ratto di conoscenza operato nei confronti della spiritualità. Ma la conoscenza, così come l’intendiamo da sempre qui in occidente, verte solo su due fronti tra loro contrapposti: ragione e spiritualità. Il fatto che ci si trovi a dover fare i conti con il nulla e l’indicibile non mi meraviglia affatto. In oriente questo non sempre accade. Nello Zen ad esempio – Zen non è una religione e nemmeno una filosofia – si procede da secoli, scientificamente, utilizzando altri sistemi percettivi della conoscenza, dove si dà maggiore importanza alla fattività piuttosto che alla teorizzazione o al pensiero cartesiano. Va detto che per lo Zen, Dio non è mai esistito e questo semplifica notevolmente le cose.
Sono invece d’accordo con di Carlo Livia, quando scrive:
“Se è vero che la dissoluzione nichilista è ormai così avanzata da non poter essere superata o rimossa da una semplice ricostruzione dell’ontologia tradizionale, l’unica speranza risiede in un processo creativo che sappia indagarne l’essenza genetica, lasciandosi risucchiare dal vortice del nulla fino a scorgere il fondamento del suo accadere, facendo tesoro d’ogni luce che possa rischiare l’oscurità in cui ci muoviamo”.

Scrive Heidegger:

«L’atto del poetare è quindi ciò che istituisce la cultura. La Grundstimmung ovvero la tonalità emotiva fondante di un popolo, quindi la verità del suo esserci, è istituita dai poeti che, unitamente ai pensatori e agli statisti, creano opere di grande potenza generando nuove condizioni dell’esserci. E, riferendosi a Höderlin, il “poeta del poetare”, rivela:

«Es kann sein, dass wir dann eines Tages aus unserer Alltäglichkeit herausrücken und in die Macht der Dichtung einrücken müssen, dass wir nie mehr so in die Alltäglichkeit zurückkehren, wie wir sie verlassen haben.»
(IT)
«Può darsi che noi un giorno usciamo (herausrücken) dal nostro quotidiano, dovendo entrare nella potenza della poesia (Macht der Dichtung), e che non possiamo più tornare alla quotidianità così come l’abbiamo lasciata.»
(In GA 39 p.22)

La scelta di Hölderlin è da Heidegger ben meditata in quanto il poeta tedesco è «der Dichter des Dichters und der Dichtung» (“il poeta dei poeti e della poesia”), non solo, Hölderlin è anche il «der Dichter der Deutschen» (“il poeta dei tedeschi”), e siccome lui è tutto questo ma il suo poetare è “difficile” (Schwer) e “arcano” (Verborgene), la sua “potenza” non è divenuta “potenza” del popolo tedesco e “siccome non lo è, lo deve diventare” (Weil er das noch nicht ist, muß er es werden).

Leopardi, al contrario di Hölderlin,

non è mai diventato il poeta degli italiani moderni, non è mai diventato il poeta del popolo italiano, è stato miscompreso. Chiediamoci: perché è avvenuto questo?, al punto che una poetessa in fama di visibilità e di allori lo ha inserito tra i minori.

Costantina Donatella Giancaspero_11_dic_2016

Donatella Costantina Giancaspero, Fiera del Libro dell’EUR, Roma, 2017

Presentazione di Kjell Espmark di Donatella Costantina Giancaspero

 Kjell Espmark, tra i più importanti scrittori svedesi, è nato nel 1930 a Strömsund, una suggestiva cittadina della Svezia centro-settentrionale. Professore di Letteratura comparata all’Università di Stoccolma, nel 1981 è stato nominato membro dell’Accademia di Svezia, dove, per molti anni, ha rivestito la carica di presidente del Premio Nobel.

Ancora studente presso l’Università di Stoccolma, Kjell Espmark esordisce come poeta nel 1956, con la raccolta L’uccisione di Benjamin, dove si coglie la netta influenza di T.S. Eliot, influenza che verrà superata, nelle opere successive, fino al raggiungimento di un suo personalissimo linguaggio. A questo lo condurrà la ricerca compiuta a partire dal 1970. Ciò che Espmark andava perseguendo in questi anni era una sorta di “traduzione dell’anima”, la sua “materializzazione” – ovvero come l’”interiore” diventa “esterno”–, ispirandosi alla tradizione del modernismo lirico internazionale (da Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, a Eliot e Breton) e, successivamente, a quella propriamente svedese (Ekelund, Lagerkvist, Södergran, Ekelöf, Thoursie e Tranströmer). La volontà di materializzare ciò che è interno è, infatti, una caratteristica sia del simbolismo, che dell’avanguardismo degli anni ’10 e del surrealismo.

Poco dopo aver ricevuto la cattedra (1978), Espmark inizia a lavorare a una nuova trilogia lirica culminante con Il pasto segreto (1984). La prospettiva s’era ormai allargata, centrando l’attenzione sull’Europa e, successivamente, sul mondo intero.

Dalla fine degli anni Ottanta al 1990, Espmark si afferma anche come romanziere. Il ciclo di sette romanzi, L’età dell’oblio, che rappresenta una delle opere fondamentali della letteratura svedese, offre un quadro sconvolgente del malessere e dell’angoscia del Novecento. Nel frattempo, pubblica altre due raccolte di poesia: Quando la strada gira (1992) e L’altra vita ((1998): traduzione a cura di Enrico Tiozzo.

All’attività di poeta e romanziere, Espmark unisce quella di drammaturgo e saggista, pubblicando, tra le altre opere, una monografia su Tomas Transtömer. In totale, al suo attivo, egli annovera una sessantina di volumi, che gli hanno valso numerosi premi nazionali e internazionali.

Sul finire del Millennio, Espmark, ben lungi dall’esaurire la propria creatività, ha scritto alcune delle sue opere poetiche più grandi; non ultima quella composta nel 2002, dopo la scomparsa della moglie, I vivi non hanno tombe. Qui il testo è affidato interamente alla voce della moglie perduta, nella rievocazione di altre figure scomparse. Punto culminante della sua scrittura lirica è senz’altro La via lattea (2007), definita “la migliore raccolta di poesie pubblicate da un autore svedese nel 2000”.

Nel 2010 esce L’unica cosa necessaria, Poesie 1956-2009. Nello stesso anno I ricordi che si trovano. Del 2014 è Lo spazio interiore e, ultimo (2016), La creazione con la prefazione di Giorgio Linguaglossa, pubblicati in Italia da Aracne Editrice, nella traduzione di Enrico Tiozzo.

 

 

 

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Anna Ventura: Stella lucente, un inedito e tre poesie da Nostra Dea, 2001, con un Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa: L’evento della parola non è il luogo stabile e sicuro, eterno del nostro esserci; quell’atto di compromissione senza compromessi che contraddistingue la dizione poetica. L’Estraneo fa irruzione nel frammento.

Lucio Mayoor Tosi composizione con divano bianco

Composizione grafica di Lucio Mayoor Tosi con divano

Anna Ventura è nata a Roma, da genitori abruzzesi. Laureata in lettere classiche a Firenze, agli studi di filologia classica, mai abbandonati, ha successivamente affiancato un’attività di critica letteraria e di scrittura creativa. Ha pubblicato raccolte di poesie, volumi di racconti, due romanzi, libri di saggistica. Collabora a riviste specializzate ,a  quotidiani, a pubblicazioni on line. Ha curato tre antologie di poeti contemporanei e la sezione “La poesia in Abruzzo” nel volume Vertenza Sud di Daniele Giancane (Besa, Lecce, 2002). È stata insignita del premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tradotto il De Reditu di Claudio Rutilio Namaziano e alcuni inni di Ilario di Poitiers per il volume Poeti latini tradotti da scrittori italiani, a cura di Vincenzo Guarracino (Bompiani,1993). Dirige la collana di poesia “Flores”per la  Tabula Fati di Chieti.

Suoi diari, inseriti nella Lista d’Onore del Premio bandito dall’Archivio nel 1996 e in quello del 2009, sono depositati presso l’Archivio Nazionale del Diario di Pieve Santo Stefano di Arezzo.

È presente in siti web italiani e stranieri; sue opere sono state tradotte in francese, inglese, tedesco, portoghese e rumeno pubblicate  in Italia e all’estero in antologie e riviste. È presente nei volumi: AA.VV.-Cinquanta poesie tradotte da Paul Courget, Tabula Fati, Chieti, 2003; AA.VV. e El jardin,traduzione di  Carlos Vitale, Emboscall, Barcellona, 2004. Nel 2014 per EdiLet di Roma esce la Antologia Tu quoque (Poesie 1978-2013). Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Roma, Progetto Cultura, 2016)

Anna Ventura copertina tu quoque

Il soggetto è quel sorgere che, appena prima,
come soggetto, non era niente, ma che,
appena apparso, si fissa in significante.

L’io è letteralmente un oggetto –
un oggetto che adempie a una certa funzione
che chiamiamo funzione immaginaria

il significante rappresenta un soggetto per un altro significante

J. Lacan – seminario XI

L’«Evento» è quella «Presenza»
che non si confonde mai con l’essere-presente,
con un darsi in carne ed ossa.
È un manifestarsi che letteralmente sorprende, scuote l’io,
o, sarebbe forse meglio dire, lo coglie a tergo, a tradimento

G. Linguaglossa

Il soggetto è scomparso, ma non l’io poetico che non se ne è accorto,
e continua a dirigere il traffico segnaletico del discorso poetico

G. Linguaglossa

La parola è una entità che ha la stessa tessitura che ha la «stoffa» del tempo

G. Linguaglossa

La costellazione di una serie di eventi significativi costituisce lo spazio-mondo

G. Linguaglossa

Con il primo piano si dilata lo spazio,
con il rallentatore si dilata e si rallenta il tempo

G. Linguaglossa

Onto Ventura

Anna Ventura, grafica di Lucio Mayoor Tosi

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Anna Ventura

Stella lucente

Vagate nel Cosmo,
pianetini di cui nessuno si cura, nemmeno
la stella morta intorno a cui roteate:
come quei bambini smarriti
che vengono dai paesi in guerra, bambini
che hanno perso la famiglia,
la casa, il paese in cui sono nati.
Eppure cresceranno,
e andranno nel vasto mondo, e lì impareranno
tutto quello che c’è da imparare:
cioè che ci vuole una terra su cui poggiare i piedi,
un riparo per la notte, acqua e pane
per non morire di inedia.
Un bambino che sa questo
sarà un uomo forte,
come un pianetino seguirà la sua orbita,
imparerà a evitare i buchi neri,che ti ingoiano,
e le stelle troppo luminose, che ti bruciano.
E un giorno saprà che, nel cosmo,
vagano altri pianetini come lui;
forse incontrerà un amico
con cui roteare un po’ insieme, forse
incontrerà l’odio e la paura che ne consegue;
se avrà fortuna, incontrerà la conoscenza,
il dono più ambito, quello
che di un pianetino smarrito fa una stella lucente. Continua a leggere

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Adam Vaccaro, Note a margine del fare poesia e Poesie edite e inedite sul tema della autenticità – Due Domande ad Adam Vaccaro e Risposte 

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Teatro dei pupi di Acireale

Cercherò qui di riprendere alcuni dei punti per me fondanti, enucleati lungo il mio (ahimè) non breve percorso di ricerca intorno al fare poesia, oggi e non solo.
Il primo riguarda l’indefinibilità e l’interminabilità della poesia, come diceva Giuliano Gramigna. O, in versi memorabili, Roberto Sanesi: “Perché portare a termine/ quando nessuno, in giardino,/ ha mai visto il mio glicine concluso”. La bellezza, anche in poesia, oscilla dunque per me su una tensione di apertura e di interminabilità, che comporta la sospensione del senso, tanto da titolare un mio libro “La casa sospesa”. Conclusione che però rimane aperta a serie di domande, oltre che sui sensi e significati specifici di un testo, sul perché e per cosa fare poesia, oggi in particolare – se l’intento non è quello di essere moderni, postmoderni, all’avanguardia, minimalisti, arrabbiati o altro, ma semplicemente presenti. Dando cioè un contributo di conoscenza e di senso delle mille contraddizioni dell’esistente, personale e collettivo.

Domanda quest’ultima necessaria, ancor più davanti alle mille forme, più che dell’albero, della foresta della poesia contemporanea. Domanda, alla quale chi pretende di farla, credo debba dare qualche risposta.
Un glicine e ogni albero, come ogni altro singolo essere vivente, ha inscritto in sé il destino della propria morte, necessaria co-autrice della vita più ampia della specie o della foresta di cui fa parte (un mio verso di anni fa diceva: “la morte non esiste, assiste”, dando a tale termine senso non passivo, ma attivo del mondo contadino di chi assiste il fuoco).
E la foresta, come ogni altro universo, è anche intreccio di lotte tra e dentro le specie, in cui le più forti e vincenti non è detto siano le migliori o le più auspicabili. Come insegna Darwin, il risultato migliore non è sempre garantito.

Anche nella foresta della poesia, si affermano oggi malanni deleteri di supponenze, interessi familistici e di gruppi con contrapposizioni inappellabili e logiche monoteistiche di una deità che nulla deve dire o giustificare del proprio fare. La molteplicità si articola in somma di chiusure di un mondo a parte, i cui sensi e significati tendono a rimanere sospesi indefinitamente nell’alto dei cieli. Che pare rozzo e patetico interrogare da parte del Resto.

L’insieme tende a enucleare (ricordando tesi integrate nella mia ricerca di fondo dell’Adiacenza, di qualche decennio fa) due rive, una che estremizza la sua inutilità mercantile, fino a declinarla in termini assoluti e antropologici. È la riva che chiamo dell’iperdeterminazione del significante, appagata di sé o, se vogliamo, autoreferenziale e deresponsabilizzata nei confronti del lettore/fruitore. Il quale non stia a porsi domande o a porre quella domanda all’Autore. Legga, ascolti i suoni inanellati e ne tragga, se è capace, piacere e sensi. È la riva che pone l’accento sui giochi di parole o del mito moderno/lacaniano dell’Altro della lingua che parla e crea il mondo, la lingua ante rem, che precede le cose e non il contrario, che accentua una componente pur costitutiva e imprescindibile della poesia quale è la fascinazione o l’effetto di meraviglia sonora. La riva su cui siede il creator dal nulla, che come carne di Dio è, e non deve spiegare alcunché. Il senso e i significati siano perciò diafani e impalpabili, se non indecifrabili. E non meraviglia se poi molti possibili fruitori non vengano attratti dai libri e dalle letture pubbliche di poesia.
All’opposto, sull’altra riva, si apparecchia l’iperdeterminazione del significato, ornando al più di divertissements verbali la banalità o l’illusione di dire tutto, offrendo una pietanza cui nulla si può aggiungere. E che non può soddisfare la fame più acuta di cui oggi soffriamo. Della mancanza di speranza e della perdita del senso, di cui cercheremo di toccare qui qualche chiodo.

Tra le due rive, non saprei dire oggi quale prevalga. Da parte mia ricerco quella che ho denominato, con immagine utopica e paradossale, Terza riva, che tenda a coniugare complessità e transitività, adiacente alla totalità del Soggetto Scrivente e del mondo, ricca di sensi e domande sospese ma anche di risposte e aperture rispetto al contesto chiuso e senza speranza che i poteri in atto ci offrono. Contesto che si rafforza quanto più i comportamenti e il dire non mettono in comune, non creano comunità e condivisione ma solo somma fàtica di io io, in ridicola paranoica competizione – acido succo della libertà declinabile qui e ora.
È un contesto dominato dall’ideologia neoliberista e infarcito di giochi di parole (ben più micidiali di quelli di tanti aspiranti poeti) nel mare di menzogne ammannite con parole-mantra – riforme, cambiamento, crescita, civiltà, democrazia – col fine gattopardesco ed eterno del potere, della conservazione dell’esistente e di cambiare tutto per non cambiare nulla. Una costante azione lobotomica e di inebetimento politico e tecnologico, di cui sono immagine adeguata i felici imbecilli esposti dalla pubblicità.

Anche sul piano del contesto, non meraviglia se poi i più fuggono da ogni ritualità democratica, nauseati dal suo livello di falsità e corruzione. Si è parlato di catastrofe antropologica e basta vedere l’immonda tragicommedia cui stiamo assistendo rispetto agli immigrati, tra critiche xenofobe e cialtronismi buonisti che spesso (in Italia) si intrecciano con organizzazioni criminali.
Credo che la poesia non debba fuggire in un suo alveo neoparnassiano, ma ricercare energie per fare un ben altro verso, innervato in una visione libera e critica, arduo ossimoro capace di riaprire orizzonti diversi di un’utopia umana che pare irrimediabilmente uccisa dalla realtà attuale. Per questo credo in vitali segni di canto incisi tra le rughe della barbarie in atto.
E per farlo, ho auspicato anni fa l’immagine di una sua oscillazione tra stanza e strada, modalità che trovo sia nei poeti italiani che più mi interessano, sia in alcuni poeti residenti in America, che da decenni svolgono anche funzioni di promozione della poesia italiana contemporanea (vedi De Palchi, Fontanella, Valesio).

Concludendo queste brevi note, concordo con chi – come Antonio Porta – afferma(va) che la poesia è, come ogni altra attività umana, parte del mondo e non mondo a parte, che quindi è solo qui che può cercare modi e forme per essere presente, riuscendo a transitare e a muovere (come dice Alfredo De Palchi) i sensi del fruitore. Che non scappa se trova parole che, a partire dall’esperienza di chi scrive, sappiano dire e misurarsi con gli abissi comuni, con il bisogno di condivisione e di amore, di bellezza e canto, corpi (come diceva Gramigna) della fame acuta che oggi (e sempre) sentiamo, di parole capaci di fare speranza.

Settembre-ottobre 2015
Adam Vaccaro

Avevo posto tempo fa ad Adam Vaccaro due questioni sotto forma di Domande. Le ripropongo perché credo che siano in qualche modo in contatto con la problematica della «Adiacenza» tra la scrittura e la realtà propugnata da Adam:

Domanda: “Esperienza è stata definita da Hans-Georg Gadamer il meno rischiarato dei concetti filosofici. Mentre la «rappresentazione» evoca dal canto suo implicazioni paradossali che richiedono di essere esplicitate. I paradossi sembrano puntualmente duplicarsi ogni qualvolta il problema della rappresentazione viene ad incrociarsi con quello dell’esperienza della temporalità: mentre sul piano dell’esperienza e del linguaggio ordinari percepiamo (o crediamo di percepire) il tempo come «qualcosa» di autonomo dallo spazio, sul piano della rappresentazione – anche la più filosofica o la più puramente teoretica – non possiamo esimerci dal ricorso ad analogie e metafore spaziali. La metafora dello «scorrere» solca come un fiume carsico il sottosuolo della lingua in tutte le epoche e in tutte le culture: dal panta rei eracliteo a espressioni latine come tempus elabitur, fugit irremeabile tempus, oppure moderne come Im Laufe der Zeit (che è anche il titolo di un bel film di Wim Wenders) o «nel corso del tempo». Ciò segnala una circostanza ulteriore: nelle nostre rappresentazioni, spazio e tempo fungono da coordinate orientate a partire da un punto di convergenza costituito dal soggetto-sostegno delle sensazioni. Coordinata-tempo e coordinata-spazio, in altri termini, si intersecano nell’hic et nunc, nel qui-e-ora, dell’Ego”.1]

foto-citta-macchine

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RispostaSe il soggetto è una sorta di contenitore-adrone, l’identità è una forma di quark, e la sua carica energetica è il cuore interattivo. L’identità ha caratteri virtuali, che rischiano di condurre su un piano metafisico, nel senso che è (sempre) temporanea e provvisoria (auto)composizione delle componenti intrasoggettive, in perenne ricerca di una impossibile stabilità (intesa come identico a) e unicità. Per questo a mio avviso la metafora che forse meglio la rappresenta corrisponde a un impossibile incrocio tra casa e cosa: la prima come evidenza che resiste, la seconda come imprendibilità e ricerca inesauribile.
Per questo il testo (poetico in particolare) è ciò che può materializzare meglio questa duplicità e complessità. Per le stesse ragioni parlo di identità come dimora o casa del tempo: essa è infatti categoria che tende a collegare accumuli di esperienze coinvolgenti memoria, azioni e progetti: passato, presente e futuro. Quindi, casa come immagine di spazio e paradigma necessari all’incessante interrogazione della cosa – interrogata e interrogante – costituita dall’inafferrabile esperienza psichica del tempo.
Come nella domanda precedente, condivido dunque le varie premesse che fai, compresa quella relativa a spazio e tempo, quali nomi diversi di una stessa cosa, da cui ho sviluppato il mio percorso di ricerca, che cerco qui di sintetizzare per una minima sua intellegibilità.

La nostra mente è il software di tutto il corpo e non solo del cervello. Essa non va concepita solo come funzione dei nostri piani alti, ma come funzione di quello che la Montalcini chiama “cervello bagnato”, che implica anche tutti i fasci nervosi, conduttori dei sensi e dei loro linguaggi che la sua funzione complessa elabora in modi diversi, producendo mondi diversi nel nostro universo mentale.
È un caleidoscopio di realtà che fa la vita umana, in cui tutto è separato da una barra, ma anche congiunto attraverso scambi incessanti di lingue ed esperienze specifiche che tendono a costruire le tessere del mosaico di spaziotempo della esperienza complessiva della nostra soggettività e vita.
Nel mio tentativo di albero metodologico chiamato Adiacenza, (vedi, tra le altre, Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi, Milano, 2001, o Corpi d’Amore, in La poesia e la Carne, La Vita Felice, Milano, 2009) ho ipotizzato tre modalità, diverse e interagenti, della nostra operatività mentale, rispetto alle lingue del corpo e alle corrispondenti esperienze. Ho utilizzato (senza finalità psicologiche) le categorie freudiane, ipotizzando che ogni sistema di segni venga operato da tre fondamentali modalità chiamate Mod-Io, Mod-Es e Mod-Superìo, corrispondenti rispettivamente a tre aree mentali:

area analitica, con utilizzo metaforico, astratto, strumentale e descrittivo;
area affettivo-corporale, con utilizzo totalizzante, metonimico, materialistico;
area etica, con utilizzo volto a un fine, qualunque esso sia, dato dalla visione di idee e dal sistema di valori/disvalori scelto.
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Tali aree tendono rispettivamente a produrre un alone ideologico, della Verità, del Testo, o del Valore. Dando a ideologia l’accezione di falsa coscienza o totalizzazione di una parte rispetto al resto (cfr, K. Marx e F. Engels, L’ideologia tedesca Opere complete, V, Roma 1972).
Un esempio delle operatività diverse del nostro universo mentale è dato proprio dalla categoria tempo. L’Io opera nel presente e la percepisce come astratta e lineare, il Superìo la proietta nel futuro, e per l’Es è un tempofermo o circolare, sempre presente e sempre passato. Anche tra queste aree ci sono barre che non possiamo penetrare né aprire mai completamente, pena la loro (e la nostra) distruzione. È il senso del limite e del mito di Orfeo. Ma sono altrettanto necessari all’ecologia della mente, attimi di interruzione delle separatezze consuete. Ho chiamato tali attimi di tempo mentale, in cui tempo lineare e tempo fermo-circolare si combinano e si superano facendo pensare a una forma di elicoide, quale quella delle colonne del Bernini o del DNA.
La ragione profonda della poesia sta nella necessità vitale di offrire attimi di tempo mentale. Per la stessa ragione, la critica di ogni totalizzazione ideologica è necessaria, non solo e non tanto per una speculazione concettuale, quanto per recuperare vita e salute.

Il corpo vivente si esprime nelle dinamiche fenomenologiche tra totalità e molteplicità in una condizione normale che fa dire a Paul Klee: “La capacità spirituale dell’uomo di spaziare a piacimento nel terreno e nel sovrumano è in antitesi con la sua impotenza fisica, all’origine della tragedia umana… L’uomo è per metà alato, per metà prigioniero”. E che fa dire a Umberto Galimberti: “la parola è schizofrenia, la mente (phren) scissa (schizo) in due mondi, dove l’uno si rifrange nell’altro, per cui è indecidibile quale sia il mondo vero”. Sta allora solo nella pato-logia, “in quel patire (páthos) che si fa parola (loghia)” di chi prova ad abitare “la profondità dell’abisso (Ab-grund)”, “la dimensione frantumata dell’essere”, l’unico sbocco concesso? All’arte e alla filosofia non resta che la “proclamazione alta e forte di questa lacerazione”.

(U. Galimberti, La casa di psiche, Feltrinelli, Milano, 2005)?

Se tutto ciò è vero e, come dice “Jaspers: La nostra forza è la scissione, abbiamo perduto l’ingenuità”, credo pure che ciò non contraddica il paradosso costitutivo dell’arte in tutte le sue forme: il piacere della prassi poetica, di uscita precaria dalla distanza scissa in cui siamo, incarna quella dell’amore, della sua forza e verità di momenti di unione della molteplicità intra e inter soggettiva, dove verità ha qui un senso fenomenologico, “significa che in esso riusciamo a vivere”. Verità, dunque, come salute, avvenire, sviluppo, potenza, vita. Adiacenza, quindi, quale nome di tali momenti necessari alla continuità della vita – entro un processo fenomenologico, in cui ad esempio Antonio Porta distingueva con Luciano Anceschi tra vero e verità, intendendo il primo quale punto di interazione tra il soggetto e l’esperienza…che però non è definitivo come la verità”, quale spesso intesa dall’Io.

Abbiamo perso l’ingenuità, ma di questo dobbiamo farne momento di vita e di forza, non di resa alla perdita di senso. Le barre e le barriere tra le diversità e le separatezze sono dati delle realtà intra e intersoggettive, ma l’arte e la poesia più grandi ci aiutano a vivere momenti – precari e fragili come gli orgasmi d’amore – in cui la gioia esplode perché quelle paratie sono state rotte e l’Io non è più solo nei suoi deliri di onnipotenza, ma condivide con l’Altro (interno ed esterno) attimi di infinito, stati mentali capaci di produrre, sia forme come L’infinito leopardiano, sia quella che Platone nel Timeo chiama “immagine mobile dell’eternità”.
È l’utopia concreta donata, qui e ora, da ogni processo creativo o d’amore. Innervato in un percorso accidentato, quale è ogni percorso di comunicazione. Cioè capace di mettere in comune, e che, come diceva ancora A. Porta, “non è un piroscafo di linea”.
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Domanda: Oggi siamo tutti gettati nella “Perdita”. Il mondo globale ha questa ricchezza, questa possibilità: che noi stiamo in mezzo ad un mondo irriconoscibile, vario, dispari, incredibilmente ricco e complesso. Un mondo senza Dio, è stato detto. E per fortuna, aggiungo io, perché ci si è dispiegato un mondo che non immaginavamo. Nuove sfide sono davanti all’umanità, nuove possibilità si aprono. Heidegger ha chiamato questa condizione «l’Oblio dell’essere», che significa questo allontanamento di noi da noi stessi. E questo allontanamento è il nostro stesso Progetto, un Progetto, la «Tecnica», che contiene al suo centro una Perdita. Allora, Perdita dell’Origine (Ursprung) e Spaesatezza (Heimatlosigkeit) si danno la mano amichevolmente. Se manca l’Origine, c’è la spaesatezza. E siamo tutti deiettati nel mondo senza più una patria (Heimat). Ed ecco l’Estraneo che si avvicina. E all’approssimarsi dell’Estraneo (Unheimlich) le nottole del tramonto singhiozzano.

Voglio dire che oggi abbiamo bisogno di un’arte che ci dia la rappresentazione di questa frammentazione («fragmentation», secondo la dizione di Salman Rushdie); abbiamo bisogno di un’arte che ci consegni e ci riconcili con questa diversità-disparità. Che incontri l’Estraneo. Chi è l’Estraneo? L’Estraneo è la Maschera con cui ci si presenta il Diverso, il dispari, ciò che non comprendiamo e che non ci aspettavamo. «Aspettare», significa porsi nella dimensione dell’accettare, dell’accogliere ciò che ci si presenta come Estraneo. E questo compito è un compito precipuo dell’arte. L’arte, la poesia devono porsi nella posizione dell’accoglimento della diversità e dell’Estraneo. La «maschera» è il modo con il quale si presenta a noi l’Estraneo.

1] Giacomo Marramao Minima temporalia luca sossella editore 2005, p.

Poesie di Adam Vaccaro

SIGNOREMIE

Oh quante volte fare per altre vie la stessa strada
cercando nel passato una strada
dal presente al futuro
                                            Ti ricordi miasignora
che gare di baci carsi
scintille arse e perse nel vento
le cosce tenute come portafogli ricolmi
intenti a non lapidare quel capitale
di sogni e miracoloso nel ventre

Ti ricordi               miasignora
il cammino fatto per cercare quel punto
fatto sempre di punti dell’intento
di ricominciare daccapo

e che fatica disperazione e premio
                                    prima e dopo quel punto

                 Che signora era allora Milano
                 calda e coicapelli nel vento
                 una barca alla ricerca del largo
                schiaffeggiata dall’acque e baciucchiata dal sole
                dopo i massacri recenti della guerra più oscena
                tra buchi nel ventre topi sommersi volti riemersi

                                                   Entrare in un bar – allora – era come
                                                   cucciarsi in un angolo curvo dell’arca
                                                   ruotando gli occhi e quel bicchiere
                                                   s’una voce giurando riflessa

Stavo con te scorrevamo nel sogno
    i sogni belli del dormiveglia in
      quell’alba rosata del dopoguerra
          ch’aiutava certo a danzare sul mare
              cupo di fame e di attese gonfiate
                  così poveri e ricchi così poveri e ricchi
come noi su questo letto

Sett. ’97
(Da La casa sospesa, Joker, Novi L. 2003 e da La piuma e l’artiglio, Editoria & Spettacolo, Roma 2006)

IM/POTENZE

c’è una tempesta che non cessa
e nei bar girano relitti
la faccia del male è
in un ragazzo di ventanni
che ha già visto tutto il vuoto
nel passato e nel futuro
                                           sapessi che male dice
                                           dammi mille lire
di cosa mi occupo         di arte
                                           della sopravvivenza

Febbr. ‘98

(In La casa sospesa, Joker Ed., Novi L., 2003; poi in La piuma e l’artiglio, Editoria&Spettacolo, Roma 2006)

Adam Vaccaro 2013

Adam Vaccaro 2013 Firenze

(Quintocortile

Milano infila tunnel del metrò
per rincorse di istanti veloci
che sommati fanno un niente

per farne montagne di macerie
tra sogni di un perduto verde e
incanti di incontri che a settembre

fumavano salsicce e bandiere rosse
parentesi in attesa di ragazzi bravi
a fare il gioco delle coppie con siringa

Milano ora fila sogni disfatti su uno spiedo
sapiente che cucina mucchi di denari
ricchezze povere di dolori e pensieri

Milano infila eppure ancora cortili uno dentro l’altro
che ritrovano in fondo – ancora visibile – il tempo

2004
(In Seeds, Chelsea Ed., New York 2014)

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(Clitennestra

In cerca di semi piccoli e testardi
si muove intenta e cauta Clitennestra: io
che ho dato la vita e poi la morte
sono qui tra questi mucchi di rifiuti
                                                                   travolta
dall’odio che ribolliva prima
di uccidere Agamennone e
quali semi di vita troverò qui
per altri solo un’isola di morte?
                                                                   Qui
ai bordi della città che ancora dorme
oltre questa discarica di orme e silenzi
fino a quando scoppierà il frastuono
di centomila cavalli di lamiera.
                                                                    Io
che per malfusso caso presi il nome
di un’assassina ho ucciso un’ora fa
chi ha fatto di me una regina
di questo viale quasi vallo o
                                                                  fessura
che accostella inviti e luci di latte verso
il ventre-città. Io regina tradotta dalle
montagne aspre d’Albania e poi ridotta
a discarica di misere colline di piacere.
                                                                   Lui
che altro Agamennone si disse ed erede
quando con un inchino apprese il mio
che sorridendo disse vedi che sono
sarò sempre il tuo re.
                                                                   Lui
che scivolando con me da quelle
montagne di fame a questi sommersi
viali di pizze stracci fumi e giarrettiere
non poteva sapere l’odio feroce
                                                                 l’odio
che divampava in me come le fiamme di quel
lanciafiamme visto al cinema mentre
lui con una mano nella cosa tra le cosce
mi sussurrava all’orecchio
                                                                sai
regginadicazzi che quel figlio di nessuno
te l’ho venduto…e uno sghignazzo senza
sorrisi e inchini gli squarciava il petto
che a me sbranava la gola che ora
in mezzo a questo pattume respira

2001
(In La piuma e l’artiglio, Editoria&Spettacolo, Roma 2006 e in Seeds, Chelsea Editions, New York, 2014)

.
Poesia di pietra

Milano è poco più di niente, pensa
il distratto che corre con le cuffie
sulla sua capacità di sentire. Poi
senza più fiato si accascia
in questo slargo di sassi
con la montagna di guglie bianche
che lo guarda. E qualcosa si accende
s’illumina anche in lui l’immagine
di una poesia di pietra
lanciata a meraviglia del cielo
alla sua così oscena e plateale
indifferenza
febbraio 2015

(Inedita)

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Guglielmo Aprile DIECI POESIE da “L’assedio di Famagosta” LietoColle, 2015 con un Commento di Giorgio Linguaglossa

Il gioco dell'Altro

Il gioco dell’Altro

Guglielmo Aprile è nato a Napoli nel 1978. Attualmente vive e lavora a Verona. Ha pubblicato diverse raccolte di poesia, tra cui Il dio che vaga col vento (Puntoacapo Editrice, 2008), Nessun mattino sarà mai l’ultimo (Zone, 2008) e L’assedio di Famagosta (LietoColle, 2015); è presente nell’antologia Il miele del silenzio (Interlinea, 2009). Collabora da anni con periodici specializzati attraverso saggi e recensioni.

Commento di Giorgio Linguaglossa

 Il 17 agosto 1571 avviene la capitolazione della fortezza di Famagosta. La difesa di Famagosta fu una della pagine più epiche mai scritte dalle armi veneziane. Il veneziano Marcantonio Bragadin, prefetto civile, e il perugino Astorre Baglioni, capitano di ventura, ingegnere militare e comandante delle truppe cittadine, tennero contro un esercito nemico immenso, facendo pagare alla Sublime Porta un prezzo sproporzionato per una vittoria amara. Ma la loro sorte fu terribile, indicibile addirittura quella di Bragadin il quale, dopo torture indicibili, fu scorticato vivo. Alla fine 500 soldati veneziani infliggeranno agli ottomani forti di un esercito di duecentomila soldati, ben 52mila morti. La battaglia di Famagosta resterà una delle pagine di gloria della repubblica veneziana nella sua guerra infinita contro le sovrastanti forze degli ottomani.

Ma perché Guglielmo Aprile ha intitolato così il suo libro di poesia? Qual è il significato recondito di questo titolo?

venezia 5

 Il tema dell’Altro o dell’Estraneo pone la necessità di chiederci se «il posto che occupo come soggetto del significante è, in rapporto a quello che occupo come soggetto del significato, concentrico o eccentrico».1 La risposta di Lacan sarà che il luogo del soggetto è radicalmente eccentrico in quanto esso nasce come campo dell’Altro. Luogo della catena differenziale dei significanti, il soggetto nasce con il significante, nasce diviso. Il soggetto che si costituisce a partire dall’Altro, è sempre un soggetto alienato, separato. Una struttura analoga la si ritrova in Heidegger, dove l’Ereignis (l’evento appropriante) è insieme e indissociabilmente Enteignis (espropriazione). L’Altro di Lacan è innanzitutto l’Altro del linguaggio come catena significante, così come per Heidegger il linguaggio è la «casa dell’essere» e «il modo più proprio  dell’Ereignen», dunque l’ambito stesso in cui accade l’appropriazione reciproca di uomo ed essere. Questo rapporto si sostiene sulla priorità e autonomia del linguaggio rispetto all’uomo: come Heidegger afferma che innanzitutto «il linguaggio parla» e non l’uomo e che l’uomo è uomo in quanto è all’ascolto e corrisponde a questo linguaggio che sfugge al suo potere, così per Lacan «è il mondo delle parole a creare il mondo delle cose […]. L’uomo parla dunque, ma è perché il simbolo lo ha fatto uomo».

In secondo luogo, e come già accennato, il soggetto mantiene la traccia di questa sua etero-costituzione, nel suo stesso essere e in tutta la sua esperienza. Il «soggetto» per Lacan è caratterizzato da una essenziale mancanza-a-essere, in quanto affetto non da una mancanza determinata («ontica», nei termini di Heidegger), ma da una mancanza ontologica, costitutiva del suo essere, perché è un soggetto che si istituisce originariamente come diviso e scisso nel campo dell’Altro. Proprio perciò il soggetto lacaniano è un soggetto desiderante e «il desiderio è la metonimia della mancanza ad essere»2: il desiderio nel suo carattere eccentrico è l’espressione di questa mancanza-a-essere, di questa negatività che attraversa il soggetto e gli impedisce di essere fondante e fondato. Questi motivi sono all’opera potentemente anche nell’analitica esistenziale, dove alla mancanza-a-essere lacaniana corrisponde l’essere-gettato dell’esserci e soprattutto le conseguenze ulteriori che Heidegger ne trae nella seconda sezione di Essere e tempo.

venezia cortigiane

Il gioco dell’Altro

 

Questo libro di Guglielmo Aprile si presenta come una vera e propria indagine sulla fenomenologia dell’Altro, dell’Estraneo. Il «compagno di culla», il «pupazzo dal berretto rosso e le bretelle», il «tiranno… in livrea», il «re spodestato», l’«arlecchino», il «venditore di zucchero filato» etc., una sorta di figure che oscillano tra il gusto dell’orrido e del familiare, del regno infantile dello spirito e del regno onirico, «re» e «uccello bianco», «merlo» e «bambola sventrata». L’estraneo, questo sosia riottoso e irriverente, viene indagato nella sua complessità ontologica ed esistenziale. Si verifica una lotta furibonda tra il soggetto in via di disparizione e l’Altro, una sfida infinita nella quale l’Altro assume le sembianze più inverosimili e diverse e il soggetto è ossessionato, colonizzato da fobie e ossessioni. L’angoscia e la paura che si dipanano  sono il significante del soggetto, la traccia della sua sconfitta e della sua disparizione. Libro della disparizione, quindi, del soggetto che si eclissa lasciando un buco vuoto, uno spazio occupato dai significanti onirici e iconici. Un assedio dunque, non meno sanguinoso di quello che avvenne alla fortezza di Famagosta difesa eroicamente dai veneziani al comando di Marcantonio Bragadin, meno di mille unità combattenti che inflissero agli ottomani cinquantaduemila uccisioni durante gli asperrimi combattimenti.

Scrive Guglielmo Aprile: «Gli Dei, dopo il loro tramonto con la fine dei paganesimo, hanno lasciato delle tracce: e queste sono da rinvenire nel linguaggio; tuttavia il vuoto da loro lasciato brucia, per cui la loro mancanza e’ analoga alla cicatrice causata da una ustione. Ma gli Dei abitano nelle lande più antiche della psiche Dell uomo moderno; sono soltanto addormentati, eppure la loro presenza si lascia percepire, anche in forme non consapevoli, in alcuni oggetti, che si fanno loro emissari e messaggeri, assurgendo a simboli: ecco allora le irruzioni del numinoso nella nostra vita, che sconvolgono e stupiscono, e di fronte alle cui epifanie ci sentiamo spiazzati e temiamo di rasentare gli stati pericolosi del delirio e dell’allucinazione, ossia del disordine mentale. In fondo il mio libro enumera una serie di figure riconducibili tutte al perturbante freudiano: prima fra tutte quella del “bambino”, che è però spogliato di innocenza rousseiana, in quanto è selvaggio, vicino alla dimensione dei progenitori arcaici, e proietta in sé le pulsioni istintuali dell’Es e i corollari schemi difensivi che l’Io adotta per reazione al dilagare di questi; volevo quindi riprendere il tema Dell Ombra, ma risemantizzandolo in direzione psicoanalitica, rispetto ai connotati di ‘copia imperfetta di un modello ideale’ che gli attribuiva il platonismo».

 1 Id., Le séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse (1964), Seuil, Paris
1973 ; tr. it. di A. Succetti, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi
(1964), a c. di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2003, rispettivamente p. 193 e p. 194
2 Id., La direzione della cura e i principi del suo potere, in Scritti, vol. II, p. 618

Guglielmo Aprile fotoPoesie di Guglielmo Aprile

A cinque anni, il mio compagno di culla
era un pupazzo dal berretto rosso
e le bretelle; avevo il terrore di lui.

A volte mi ricompare davanti
nei vicoli più bui delle giornate,
dagli angoli di cassapanche
non chiuse bene, dal fondo di camere
in cui non spolvero da tempo;
non dice niente, mi osserva solo
con quell’espressione che tanto mi angosciava una volta.

È lui che stacca pezzi di ruggine
dalle cancellate ancora da verniciare,
che soffia polvere di gesso
sulle teste della gente alla fermata.

Non posso nulla
per impedire il suo arrivo, solo far finta
di ignorarlo, quando in autobus
o in un outlet, di nascosto, ammicca
rivolto a me con strani, terribili
cenni, e grazie a Dio gli altri
non se ne accorgono.

*

Il tiranno indossa
una livrea variopinta, che smentisce
l’ombrosità di certe sue occhiate torve,
il pallore delle sue veglie.

Ogni giorno stupisce la corte
inventandosi un’altra, più originale
assurda voglia da soddisfare:
a un suddito comanda
di sodomizzare una porta, ad un altro
di passare attraverso un’inferriata
fino a slogarsi una spalla, oppure
di sfilare in pubblico imitando una capra;
e ce ne vuole, perché i più pazienti
dei suoi consiglieri lo distolgano
da certi paradossali capricci.

Così lo hanno messo al bando su un’isola
fuori da ogni giurisdizione,
ma lui neanche se n’è accorto, e insiste
a covare le uova nere
delle più mostruose fantasie
mentre a sua insaputa lo tengono
incatenato a un letto, in attesa che prenda sonno.

*

Il re spodestato, rinchiuso
nella torre più alta, da solo,
sentitelo come delira!

Non ha con chi parlare, e sono mesi
che ha rinunciato al sonno; e quante volte
l’uccello bianco della follia, con la sua risata atroce,
gli è balenato dinanzi! E lo tenta
a strangolare mentre dormono i suoi parenti,
a versare liquido verde nei pozzi,
a bruciare vivi senza giustificazione
gli ambasciatori giunti a informarsi della sua salute;
a tenerlo a bada è solo
l’efficiente turnover dei carcerieri.

Lo hanno dovuto rinchiudere, si dice,
perché fuori controllo, e il suo spettro
viene ancora evocato per far paura ai bambini,
anche se in tanti
non l’hanno mai visto in faccia, e pensano persino
che sia il frutto di una superstizione.

Il re, come delira
dall’alto della sua torre! Fatelo tacere,
vi prego, fatelo tacere
o l’intero regno cadrà nello sconquasso,
diverrà ingovernabile.

*

Guglielmo Aprile

Guglielmo Aprile

Inverecondo arlecchino,
tutto imbrattato di feci e di sangue,
si annida
dietro l’abito bianco delle villette a schiera,
medita i suoi sabba tempestosi
nei sottopassaggi della stazione,
rievoca in fondo a un garage
i fiori neri delle orge babilonesi,
sembra quasi ci provi gusto
a offendere, a scandalizzare
appassionati di bird-watching
e mansueti collezionisti di farfalle
con i suoi turpi sillogismi.

Mi rimbocco le coperte
della palude, per non lasciarmi irretire
dalle sue provocazioni, ma non è facile
convivere con gli strampalati schizzi
sparpagliati ovunque in camera
che attestano le sue velleità come architetto

ed esorcizzare in continuazione
date e segni
dei suoi improbabili eppure preoccupanti
oroscopi.

*

C’è una bambola sventrata
nella cantina umida, per quanto
io cambi indirizzo o mi dia assente al telefono
o fornisca generalità false ai poliziotti
lei è lì, e mi aspetta
con il suo atavico conto da chiudere.

C’è una bambola sventrata
che penzola alla spalliera, con le braccia in croce
e il sorriso guasto, simile a un ragno morto;
dovrò disfarmene un giorno o l’altro,
prima che tutta quella paglia si rovesci
dalle ferite delle sue cuciture;

e intanto, ad ogni risveglio, nuovi, mostruosi
peli neri si moltiplicano formicolanti
sulle sue braccia di raso.

*

Fuori dalle finestre, c’è da anni
un merlo che resta ore e ore
ad insultarmi; ignoro quale colpa
mi rinfacci, e perché tanto astioso
accanirsi contro di me, in quel suo
farneticare. Forse la sua voce
così falsamente melliflua, subdola
e così aperta alle più varie e libere
esegesi, non è
che l’indizio, la crepa
nell’impalcatura che scricchiola,
il definitivo strappo nel filo
che tiene insieme libri e suppellettili
ognuno al posto proprio sulle mensole,
il collasso astrale e lo sbriciolarsi
degli specchi. Sprangate ante e balconi,
parlate a voce più alta, non voglio
più sentirlo, quel canto, il suo presagio
catastrofico, il suo annuncio che schianta
agli astrologhi assiri i pugni sulle tempie.

*

eyeliner-o-matita-per-il-vostro-make-up

eyeliner-o-matita-per-il-vostro-make-up

Mi sfianco a camminare nei mercati,
per non far caso
al chiodo che stride
sulla piastra che gira, gira
senza posa.

Il venditore di zucchero filato
esorta alla temperanza dei sensi
file di bambini pensosi e muti
stretti in cerchio, composti;
badanti filippine
annotano sui loro quaderni gialli
soluzioni audaci
ad antichi dilemmi teologici.

E intanto, l’Arrotino, all’angolo
dove tutte le strade s’incrociano, persevera
nel suo lavoro, chino
e silenzioso sulla piastra
che gira monotona e intride
del suo pianto in sordina
l’aria di ogni mattina.

*

Nei corridoi un confuso
groviglio di voci di vecchi
che biascica sempre la stessa
formula ottusa. I passi

tentano le strade
meno battute, pur di scrollarsi
del rumore che loro stessi fanno
calcando la polvere. Cerco

quel prato fuori città, dove
dicono ci sia un albero
dalle ciglia violette
alla cui ombra

dormire.

*

Popolazioni sordide,
dalla parlata scurrile,
dedite a culti feroci,
le vesti stracciate, escono
dai tuguri, a una certa ora
della notte, e dilagano

nei quartieri pavimentati di marmo
dove vecchi diplomatici in gilet bianchi
con gesto lento e solenne
abbeverano canarini;

si abbandonano ad ogni
genere di intemperanze, poi
rientrano nei loro
covi sotterranei, come l’acqua
al termine di una piena;

e tutte le strade tornano sicure,
tranne una, alle spalle della stazione:
non ci ho mai messo piede lì
perché dicono ci sia nascosto

un ragno enorme.

*

Ho cercato di procrastinare
quell’incontro
fino all’ultimo, nascondendomi
per ore nei portoni,
con l’ostinazione di chi
pur di rinviare la propria morte,
di chiedere proroghe all’inevitabile
fitta sotto lo sterno,
esagera con il caffè
e incendia ogni arcipelago
sull’agenda delle proprie giornate;

ma mi ha ghermito alle spalle
quando credevo di averlo seminato:
mi può far suo (questo vuole provarmi)
come e quando gli pare.

L’errore del giardiniere
è nel metodo: le erbacce più le combatte
con cesoie e diserbanti,
più istiga il loro proliferare
pervasivo e incontrollato.

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