Adam Vaccaro: Le questioni aperte dall’Antologia di Poesia Italiana Contemporanea Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura Giorgio Linguaglossa, Roma, Progetto Cultura, 2016 pp. 352 € 18

Fiera del Libro Milano

Fiera del Libro Milano 20 aprile 2017 Presentazione Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo

Nuovi Paradigmi

Nella Prefazione all’Antologia, Come è finita la guerra di Troia non ricordo, il curatore ribadisce in forma quasi di manifesto la propria concezione della poesia, riproponendo alcune questioni cruciali. Ma, prima di entrare in queste, è bene citare il passaggio con cui Giorgio Linguaglossa dà senso al titolo della Prefazione, Il cambiamento di paradigma della forma-poesia: “Cambiamento di paradigma è dizione con cui si indica un cambiamento rivoluzionario nell’ambito della scienza”, locuzione, ricorda, “coniata da Thomas S. Kuhn” in “La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) e che Linguaglossa trasferisce in ambito letterario, ricordando l’opera Paradigm (2001) di Alfredo de Palchi”. Opera che colloca opportunamente tra forme pre-sperimentali e sperimentalismo, e esempio dei “più importanti mutamenti di paradigma della poesia italiana” che “avvengono a cavallo degli anni cinquanta e sessanta”. È peraltro un trasferimento non pacifico, in quanto lo stesso Linguaglossa ricorda con Kuhn che, rispetto allo scienziato, “’lo studioso umanista ha sempre davanti una quantità di soluzioni incommensurabili e in competizione tra loro’”. Tuttavia, anche per me, il tentativo di connettere postulati scientifici e letterari è stato ed è affascinante quanto fruttuoso, anche se Moderno e Post-moderno hanno dilatato ancor più la condizione operativa di “(im)possibilità di epistemologia della poesia” (vedi in A. Vaccaro, Parte introduttiva di “Ricerche e forme di Adiacenza”, Asefi ed, 2001).

Rilievo che poi proseguendo Linguaglossa sviluppa: “Tutto sommato lo sperimentalismo era una pratica rassicurante…introduceva delle certezze”, mentre ora siamo in un universo liquido in cui “tutte le ipotesi di poetica” sono “crollate con il crollo del Fondamento e…non si danno più certezze nell’incertezza generale né alcuna stabilità nell’instabilità generale”, “un nichilismo… diventato nuda evidenza”. “La verità è che il pensiero si è polverizzato a seguito dell’eclissi di un principio fondatore, e la sfera artistica, così come l’etica, si è trovata in balia della assenza di ogni giustificazione…è venuta meno la gerarchizzazione dei linguaggi artistici e dei linguaggi tout-court”; “e quelli poetici si sono disseminati in una pluralità degli stili”, “poetiche del frammento, della duplicazione del frammento”, anche se questo “non si può duplicare né moltiplicare”. Sono rilievi inconfutabili del punto zero in cui siamo. Ma rispetto ad esso, c’è solo la resa o c’è la possibilità di un oltre, che sappia ritornare a un paradigma rinnovato capace di risalire dalle attuali macerie? È la domanda aperta che impegna il libro e giustifica il Titolo, alla quale – come vedremo – Linguaglossa non rinuncia a cercare e a dare risposte, sia attraverso gli Autori antologizzati, sia nella stessa Prefazione, su cui qui intendiamo soffermarci.

Laboratorio 24 maggio 17-1

Laboratorio di poesia, Roma, 24 maggio 2017

 Il punto di partenza

Ma argomentazioni adeguate a tale nodo complesso implicano un confronto con le proprie. Torniamo perciò alle questioni cruciali inizialmente richiamate, a cominciare dalla primissima: “La poesia, come la filosofia, non progredisce, se intendiamo per ‘progresso’ l’accumulazione di ‘risultati’ che si susseguono gli uni agli altri”; “visione…propria di un modello di Ragione di cui siamo tutti debitori”. Tuttavia, precisa l’Autore: “Ci sono momenti in cui la poesia fiorisce, dopo un lungo sonno, e ci sono momenti in cui si riaddormenta”. “Ma…il sonno della Ragione poetica” tende a produrre “un eccesso di chiacchiera e di indifferenza…e quando le domande metafisiche si spengono alla Musa viene accordato un domandare ironico-scettico, il disincanto…che elude la questione…il vero domandare”. E cioè: “Il locutore ha cessato di essere fondatore. È questa la ragione centrale che ha impossibilizzato ogni forma-poesia che stabilisca…una referenzialità diretta con il ‘reale’.”

Ritengo questo “un punto di partenza” – per Rimbaud, decisivo per il prosieguo di ogni percorso – di notevole importanza, che da gran parte dei cultori di poesia contemporanea è semplicemente ignorato (confermando quel sonno sopra ipotizzato), e che chiede invece un confronto approfondito da parte di chi, come me, ne ha fatto un punto fondante del proprio percorso di ricerca. Non posso perciò evitare di rifare, sia pure sinteticamente, alcuni passi essenziali di tale percorso per poter meglio evidenziare quelli che, per me, costituiscono il corpo, il carattere, il valore e i limiti della posizione di Linguaglossa. Posizione che parte dal punto sopra citato, problematico e stimolante, in quanto (o proprio perché) è al tempo stesso materico, anomalo e contraddittorio. La biforcazione concettuale si evidenzia tra critica della Ragione (e relativo orientamento idealistico), accanto a richiami metafisici o ontologici. Tendono tuttavia a prevalere tensioni alla matericità e alla preesistenza della cosa-in-sé (dunque non frutto di pensiero o volontà), concreta o no e a meno che non si tratti di una realtà fondata da una azione creativa/inventiva; accenti rafforzati da locuzioni quali “Ci sono momenti…”, che rientrano più in impostazioni fenomenologiche.

tempo di libri donatella bisutti e giorgio

Fiera del Libro Milano 20 aprile 2017 Presentazione Antologia Come è finita la guerra di Troia non ricordo

Tre questioni

Il confronto con tale impostazione è per me interessante per varie ragioni, relative alla mia visione di idee (sintetizzo) materialistica e fenomenologica. Una visione che, come già evidenziato in precedenti scambi con Linguaglossa sul Sito-Rivista “L’Ombra delle parole”, ha punti decisivi di condivisione che credo siano tra le motivazioni, sia del mio inserimento nell’Antologia, sia del mio coinvolgimento nella sua presentazione a Milano del 20 aprile scorso, nell’ambito della Prima Fiera milanese del libro.

A tale proposito, richiamando alcuni dei 27 Autori inseriti, Linguaglossa afferma che, pur nella loro diversità, hanno “consapevolezza della frammentazione dei linguaggi e della dis-locazione del soggetto poetante. Essi sanno, o intuiscono, che non sarà più possibile ripristinare le fratture che l’epoca del Moderno ha inferto alle categorie un tempo ritenute stabili quali il soggetto, i linguaggi e il reale.”

 L’analisi linguaglossiana coinvolge dunque tre questioni, intrecciate e anche per me fondanti, come è noto a coloro che hanno avuto interesse e occasione di leggere i miei saggi di analisi, sia testuale che di ricerca teorico-pratica – anche attraverso le molte iniziative di Milanocosa: 

  • Il soggetto e la sua identità
  • Il Tempo
  • La Realtà

Ognuna di tali Cose è mobile, metamorfica e molteplice. Ognuna di esse, senza le altre, cadrebbe nel nulla e tutte e tre diventano Cosa attraverso i linguaggi di cui siamo costituiti. Un nulla che non rientra in impostazioni ontologiche, o nel pensiero dell’essere “quando non è” (Severino). Per me il nulla corrisponde alla percezione della non-vita o all’impossibilità/incapacità della mente di elaborare un senso, un evento, un dato, relativi a una entità soggettiva singola o collettiva. Tale nulla riguarda, dunque, sia l’operatore sia il dato/entità operato. Anche se quest’ultimo esiste in sé, per un operatore esiste e diventa reale, solo in quanto   è capace di collocarlo in un processo relazionale e quindi di attribuirgli un senso. Senza di ciò l’oggetto rimane non-vita (per il soggetto) e lo stesso operatore precipita nel nulla di senso e di realtà rispetto alla cosa in-sé, che diventa cosa, reale, solo se diventa parte dell’universo mentale.

Un processo che può avvenire solo attraverso i linguaggi di cui gli esseri umani dispongono. E sono proprio questi linguaggi – che i linguisti tendono a ridurre ad unum, cioè a quello algoritmico fatto di segni-parola, dimenticando tutti gli altri, dei sensi, altrettanto fondamentali per rendere reale in noi questa o quella cosa – struttura di un soggetto e della sua identità. Mente e linguaggi sono quindi funzioni e software corrispondenti a l’hardware di tutto il soma e non del (solo) cervello. Funzioni di quel “cervello bagnato” di cui parla Rita Levi Montalcini, comprensivo di tutti i fasci nervosi e sensoriali, senza i quali il cervello e la mente rimarrebbero sconnessi e incapaci di dire/fare alcunché rispetto al reale.

Non a caso, il primo atto pubblico con cui ho avviato nel 2000 Milanocosa è stato il Convegno (con scrittori, poeti, artisti visivi, filosofi, giuristi, musicisti, psicoanalisti ecc) intitolato “Scritture/Realtà” (Atti, Milanocosa, Milano, 2003), nel corso del quale quanto sopra sintetizzato è stato analizzato da molteplici approcci e linguaggi, proprio in coerenza con tale punto di partenza.

Il mio intervento a tale convegno – dal titolo: “Quale tempo: tempo fermo, tempo reale e tempo mentale”, anche in Parte introduttiva, op. cit. – entrava nell’intreccio tra identità soggettiva ed elaborazione dell’oggetto spazio-tempo, nel processo interminabile di conoscenza della realtà. Con quell’analisi coinvolgevo anche la teoria dell’Autopoiesi dell’identità soggettiva, (dalle ricerche in campo biologico e neurofisiologico di Francisco Varela e Maturana), “fondata su più livelli via via più complessi: immunitario, psico-motorio e socio-linguistico. Ognuno di questi livelli si definisce solo nell’interazione con l’ambiente”. Per cui “Ripetere che ogni identità è determinata dall’Altro, che è quindi (anche) l’altro, può apparire persino banale”. Sono esempi di approcci interdisciplinari, che già nell’antichità hanno fatto intuire quell’unità mobile (poi divisa dai platonismus perennis in tanti doppi, corpo e anima, fisico e spirito ecc) di ogni identità soggettiva.

Diventa perciò “centrale la concezione del soggetto, o del rapporto tra unità e totalità. A tale proposito il modello che ho trovato più corrispondente all’Adiacenza è quello quantistico”, con cui “venne fra l’altro confermata, sin dal livello di particelle subatomiche, l’intuizione di Epicuro di 2.300 anni prima, sulla capacità di movimento spontaneo (clinamen) di ogni corpo (infimo, singolo o collettivo), il quale non ha un’energia data, ma la esalta o la deprime in relazione ai rapporti che sviluppa o meno con altro/i”.

Tutto dunque nasce dalla relazione, che si fa musica, immagine e parola, che si fa pensiero, cosa e mondo. Come ogni forma di vita, anche ogni campo espressivo o di ricerca esclude perciò “sia la totale autonomia che la completa dipendenza”. Ma è da tale possibilità di esaltare o deprimere la (propria) energia, che questa si fa autopoietica e reale, fonda la realtà. Per questo, il punto di partenza condiviso con Linguaglossa, implica, per me, che anche per la poesia l’altro extraletterario arricchisce la realtà e il valore estetico. Per il quale, senza cadere in impegni d’antan, non bastano solo analisi tecniche e formalistiche.

Laboratorio 24 maggio 17

Laboratorio di poesia 24 maggio 2017, Steven Grieco, Antonio Sagredo, Sabino Caronia

Il tempo mentale

“Dunque, senza l’attenzione all’Uno il Tutto ci sfugge, perché la pluralità dell’Uno non è che una forma della pluralità del Tutto; e l’uno molteplice implica la pluralità di senso di ogni termine, come ad esempio quello di realtà e di quelli, a quest’ultimo intrecciati, di spazio e di tempo. Entro la complessità delle varie galassie che costituiscono l’universo mentale dell’identità soggettiva, la categoria tempo è infatti percepita ed elaborata in modi completamente diversi.”

“C’è la galassia (riferibile alle modalità operative dell’Es) in cui il tempo è percepito come un immobile  lago nero…che richiama l’ossimorico oscuro chiarore di Corneille. È insomma il luogo dell’ombra che consente alla luce di essere luce. Non è solo l’inconscio, ma è il nostro accumulo di affettività e di memorie. È anche il luogo dove la soggettività sfuma in quella collettiva, nel patrimonio comune di immagini – archetipiche e no. Più che un tempo perduto è, a mio avviso, un tempo fermo” o “ruotante su di sé: sempre presente e sempre passato. Nella pluralità intra-soggettiva è l’Altro già dentro di noi, disinteressato a ogni norma morale, ma del senso del limite, quindi della necessità etica, è fonte profonda; è il referente mentale sia della nostra corporalità, materiale e immaginale insieme, sia della indefinibilità e irraggiungibilità della poesia, dell’amore e dell’odio, del sesso, dell’insieme, infine, della Cosa che è la vita nella sua totalità.”

“C’è poi la galassia (riferibile all’Io), che agisce nel presente ed elabora invece il tempo come astratta sequenza lineare: è il luogo mentale per eccellenza dell’ossimoro realtà virtuale. Ossimoro che trova dunque dentro l’universo mentale l’incrocio di un bel paradosso: l’area dominata dal passato (assente) tende a operare con modalità più materiali e reali di quella prevalentemente interessata alla realtà del presente.”

  “La quantità di stimolazioni audio-visive del mondo contemporaneo tende in sostanza a una sorta di ingorgo sensitivo mai risolto, perché non attraversa la totalità dei tempi mentali… rimane somma di meteore virtuali, che anziché aiutarci riducono la nostra capacità di vedere, e producono facilmente stati passivi di meraviglia angosciata, se non di depressione.”

Con modalità tendenti ugualmente alla temporalità lineare opera, infine, la galassia (riferibile al Superìo) volta a proiettarsi e a progettare il futuro, che ci aiuta a capire (anche) che non possiamo beatamente naufragare nel visionario, nell’onirico, in fascinose sonorità di effetti-eco, se queste fonti di piacere fruitivo di un qualunque sistema di segni non ci trasmettono una visione di idee – oltre sia il candore ingenuo di una funzione salvifica e consolatoria dell’arte, sia della sua funzione catartica – capace di rafforzare una interazione adiacente che aiuti a farci sentire meno separati e alienati.

Sul punto, vedi anche: https://lombradelleparole.wordpress.com/2016/09/07/adam-vaccaro-quale-tempo-tempo-fermo-tempo-reale-tempo-mentale-quale-poesia-linterazione-con-laltro-da-se-la-questione-del-so

Laboratorio 24 maggio Roma

Laboratorio di poesia 24 maggio 2017, Roma Libreria L’Altracittà via Pavia, 106

 Quali forme

 Non possiamo perciò alonare di ridicolo una Cosa che tenda alla forma di poesia, immaginando di salvare la vita (propria o di altri) con essa, ma è inevitabile che “l’area mentale del Superìo tenda a costruire un atto critico verso l’orizzonte sociale, se è vero che ‘L’orizzonte sociale è connaturato all’atto critico’ (Francesco Leonetti)”. Il che non vuol dire inventare forme di “‘politicizzazione dell’arte’”, contrapposte alla “estetizzazione della politica” (Benjamin), vuol dire porre il problema del vuoto di “progettazione alternativa”; da cui forse nasce un eccesso di tensione verso l’innovazione (solo) tecnico-formale.

“Ammal(i)arsi di nuovo può portare a stare sulla coda dell’esistente convinti di inventare, come la famosa mosca, mille movimenti di opposizione. Si finisce per immaginare che il mezzo – sia esso la penna, il computer o il linguaggio nel suo insieme – possa essere fonte magica, mezzo che diventa generatore autonomo. Come ho già detto altrove, la lingua che parla da sola è un mito visionario lacaniano, di una lingua-soggetto che non esiste. La mia ricerca è perciò fuori da ogni fuoco chiuso nell’esercizio linguistico, in autoappagati jeu de mots iperletterari, con correlativa ideologia del testo per la quale “il testo è tutto”.

Il testo è parte (della vita) che, come ogni altra cosa, non basta a se stesso. È una linea anomala e minoritaria, dantesca, rispetto a forme più consone a petrarchismi o a impostazioni ontologiche astratte, spiritualismi di qualunque tipo o separatezze insormontabili tra arte e vita.

Per me Poesia, non ha a che fare con l’Essere, che agnosticamente non conosco, ma con gli esseri che vivono o sono vissuti dando sangue, emozioni e pensieri al flusso incessante della vita. Per me il fare del poièin è qualcosa di materico e fortemente innervato nell’esperienza dolorosa-gioiosa che ognuno fa nel corso della sua esistenza. Anche la poesia non è niente di diverso da ogni processo di metamorfosi che prende e restituisce qualcosa del processo vitale. Riproporre dunque la questione del soggetto, entro una identità soggettiva stratificata, proteiforme, autopoietica e mai conclusa nella sua incessante interazione col Resto, implica superare l’incrocio Jakobson-Lacan tra Semiotica e Psicoanalisi, utilizzando col senso di galassie mentali la individuazione freudiana di tre fondamentali ambiti/spazi costituenti l’identità soggettiva. 

L’intreccio tra queste diverse modalità operative produce perciò una cosa che chiamiamo (anche) realtà (ma stesso discorso può valere per bellezza, verità, ecc.): spazio mentale fatto di tempo unitario – cioè di una percezione con-fusa e fraterna (adiacente) di passato, presente e futuro. Non può che essere una contemporaneità effimera, fatta di serie di punti di sutura del processo autopoietico, momenti di orgasmo mentale e di una casa del tempo, di spazio fatto di tempo, quale immagine mobile dell’eternità (Platone).

Il piacere del testo (di scrittura e di lettura) sta in questa esperienza di recupero di tempo mentale, quale combinazione tra tempo fermo/circolare (area dell’Es) e tempo lineare (aree dell’Io e del Superìo). Da tale combinazione non ne viene forse una forma di elicoide, quale quella delle colonne del Bernini o del DNA, quale insomma quella citata da Gio Ferri, nella sua ricerca della cosa biologica alla base o al cuore della ragione poetica? (Gio Ferri, La ragione poetica, Milano 1994).

La realtà  – e in particolare la realtà creativa o poetica – è perciò frutto di un’operatività dell’identità soggettiva, che è se costruisce adiacenza tra le varie aree dell’universo mentale. Piacere del testo e comunicazione, purché intesa come mettere in comune (Antonio Porta), sono i ponti possibili di dinamica autopoietica, senza i quali l’energia poetica si deprime e cade in una di quelle fasi di cui parla Linguaglossa all’inizio della sua Prefazione. Le dinamiche di intreccio adiacente tra le varie aree mentali non sono perciò analisi fini a se stesse, ma anche l’ante-rem, o la condizione intra-soggettiva e pre-testuale più adeguata alla costruzione di un testo che voglia tendere al massimo di comunicazione inter-soggettiva, a essere in re, luogo che esalta creatività e intreccio tra estetica e ricchezza di funzione antropologica e socioculturale, tale se vissuto da una comunità e non solo esercizio intimistico. 

Postulato ancora più rilevante in una fase di cambiamenti epocali che tendono a distruggere e a far cadere nel nulla la percezione di una comunità solidale, avvertita e persino decantata (come ad esempio dalla Thatcher) solo come somma di soggetti singoli chiusi nell’individualismo imperante.

Fiera del Libro Milano 20 apèrile 2017

Fiera del Libro Milano 20 aprile, 2017, Lucio Mayoor Tosi legge le poesie

I mondi che siamo

 Sono considerazioni che ho ritrovato in termini calzanti nell’ultimo libro della saggista multidisciplinare Eleonora Fiorani, che nel suo ultimo libro “I mondi che siamo – Nel tempo delle ritornanze” (Lupetti, Milano, 2017), dice: “Viviamo in un’epoca in cui si susseguono profonde metamorfosi e…contraddittorie trasformazioni del mondo che…credevamo di conoscere“. “Diversi sono perciò i modi di vivere il trapasso epocale della seconda modernità a una nuova epoca che non ha ancora trovato una definizione dopo quella di postmoderno di Lyotard…perché ogni nuova concezione della storia implica una visione del tempo”. Aggiunge Fiorani: “nell’intreccio dell’’adesso e del già stato’ – la definizione è di Didi-Huberman – oggetti, avvenimenti, modi d’essere, sensibilità estetiche si inabissano e scompaiono e poi ritornano”, cambiando “il loro uso, valore… statuto antropologico”, insieme al “nostro sguardo”.

Una visione del tempo…mette in campo non solo…presente-passato e futuro, ma i molti e diversi tempi che convivono e anche si intrecciano  o si oppongono in uno spazio dilatato all’intero globo”. “È…un aspetto che ci ha lasciato il Novecento nei modi in cui…ha posto come centrale la questione del tempo, della memoria e della storia, facendo emergere la sua complessità tra “presente attivo…passato reminiscente, sul tempo delle ritornanze…sulle fratture, sui processi inconsci che li accompagnano”. “Già Nietzsche, da cui è partita l’analisi della crisi dei valori nella cultura occidentale, con l’eterno ritorno aveva messo in discussione il tempo cronologico…ed era ritornato sulla circolarità del tempo e sulla ripetizione della cultura. E lo ha fatto ponendo anche il passaggio dall’ontologia all’estetica”. Con “Un nesso stretto” che “collega…Nietzsche e il disagio della civiltà di Freud. Tutto ciò ha posto implicitamente la necessità di un rinnovamento delle metodologie” di analisi “del testo visivo e della critica estetica” con i contributi di Bataille, di Leiris, di Einstein…e ora da Didi-Huberman…del potere delle immagini… intrecciando diversi ambiti disciplinari…antropologia, archeologia, estetica, filosofia perché “’in ogni oggetto storico tutti i tempi si incontrano, entrano in collisione, oppure si fondono plasticamente, si biforcano o si combinano gli uni agli altri’”. Talché “‘futuro passato’ è definizione e oggetto di analisi di Koselleck (1986) della presenza nel presente…del passato e del futuro”.

Questo fa “interrogare il corpo di carne e dei sensi e i suoi nessi con i territori e i luoghi in cui…si iscrive l’abitare”. Dunque “accanto ai concetti” il “potere delle forme e delle immagini di inabissarsi e poi riapparire sotto altra forma”, l’azione de l’”inconscio visivo”, genera “la più profonda o ampia comunione dei contemporanei, aprendo il campo al massimo di senso” attraverso “opere multimediali, di video arte, di narrazioni che intrecciano immagini, suoni, simboli, di nuovi e vecchi media…il linguaggio che tutto parla”.

È l’apertura interdisciplinare di Eleonora Fiorani la fonte di una tensione espressiva e di ricerca – anche per me fondativa – di un fare cultura, arte o poesia che non si rassegnano a ruoli ancillari, ornamentali o parnassiani, per cercare di essere strumento di ricostruzione di senso e pensiero forti, quanto più viviamo una fase epocale che li distrugge e tende a farli cadere nel nulla.

Fiorani ripropone sempre – con tutti i suoi libri e anche con questo – la necessità di rielaborare in questa epoca di decadenza una cornice proposizionale, metodologica  e visionale-concettuale, quanto più viviamo in un contesto che ci fa fare l’esperienza opposta, di una disgregazione e frammentazione socioculturale arresa alla perdita di senso, per me il fondamento del nulla. Ma anche il nulla non ha un significato univoco, può avere tanti livelli e declinazioni, con sapori magici o terrificanti e tragici, con momenti che possono essere connessi a esperienze e momenti sia d’amore che di violenze. Esperienze di attimi d’infinito (Platone) in cui possiamo annientarci o rinascere con moti di Araba Fenice. Dipende da noi – sempre ovviamente nello spazio possibile, tra depressioni e deliri di onnipotenza, di né totale dipendenza, né totale autonomia.

Fiera del Libro Milano, 20 aprile, 2017 Stand di Progetto Cultura

Fiera del Libro Milano, 20 aprile, 2017 Stand di Progetto Cultura

Conclusioni aperte

Sia il mio percorso di ricerca intorno al concetto di Adiacenza, sia le formulazioni interdisciplinari di Eleonora Fiorani hanno in comune il bisogno di ripensare il proprio fare culturale in relazione all’epoca storica che viviamo. Ed è la stessa tensione che trasmettono le proposizioni critiche di Linguaglossa, che, seppure già note, sono dis-piegate e strutturate in forma più organica  e – come ho detto, quasi di manifesto – in questa Antologia. 

Sono posizioni anomali rispetto alle tendenze prevalenti, in cui prevale una sorta di catatonìa sonnolenta e passiva (che non è solo della poesia), denunciata nelle formulazioni iniziali della Prefazione. Lo sviluppo delle argomentazioni successive, che abbiamo ripreso in alcuni nodi e passaggi essenziali, conduce a punti di arrivo che cercano anch’essi moti di risalita dallo stato delle cose.

Ogni termine o oggetto viene alla fine indagato in cerca di una apertura e moltiplicazione di sensi: “così c’è un nichilismo inconseguente e acritico che presta fede alla parvenza di un soggetto che si è eclissato, e c’è un nichilismo forte, che Roberto Bertoldo chiama ‘nullismo’, di chi ritiene che siano ancora possibili le narrazioni autentiche…Il logos di chi accetta e prende in consegna la disseminazione dei linguaggi…è il logos forte che segna una risalita dal profondo della scomparsa delle fondamenta sgretolatesi”. Possiamo aggiungere che anche il frammento non implica un senso univoco: c’è il frammento insignificante di un coccio di bottiglia, e c’è il frammento di cristallo o di diamante che apre a mille sensi e riflessi.

Se il destino del frammento tende a cadere nell’abisso della perdita del senso, la creatività poetica degna di questo nome è la sua vendetta, utilizzando e rovesciando anzi quest’ultimo, per farne il piede del Tutto. Senza la tensione ad esso, non c’è possibilità di ricostruire un senso, non il Senso ma un senso, che non è mai dato una volta per tutte, da rifare con il letto ogni mattina. Illusoriamente o meno, non ha importanza, ma senza quel gesto tutto quel che siamo non riuscirà ad alzarsi e a procedere. Il poièin sta qui e anche Linguaglossa lo dice e lo fa. Gli oggetti non attivano da soli quella interazione complessa che chiamiamo esperienza. E la Cosa si accende se condivisa in relazioni con l’Altro, e quanto più viene coinvolto il livello inconscio, talchéi l’oggetto poetico rimane progetto ignoto anche per chi lo costruisce.  

Per questo, “La forza della nuova poesia italiana sta proprio qui, in questo punto, nel prendere in consegna il testimone di una eredità infranta per ricostruire la forma artistica e riposizionarla”. È la sfida e il merito di questa proposta antologica.

9 maggio 2017

Da Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo

Renato Minore

La piuma e la biglia

1)

C’erano quattro biglie colorate pronte a partire,
ma lo sparo fu rinviato
da sempre. Da sempre le biglie
formavano un quadrato
immaginario e al centro
c’era l’invisibile punto
di convergenza di tutti
i loro colori.

La pista allungata, infinita,
era una distesa
di acqua o di sabbia,
ma senza acqua né sabbia.

2)

Rossa la prima e potevi
aver voglia di spaccarla
per trovare i semi
come dentro la melograna.
Verde la seconda come
quando saltella la capra
sopra i prati e i prati
hanno il luccichìo
della pioggia appena velata.
Bianca era la terza
ed era neve, neve
coagulata o neve sparsa
o cielo torbido che vela
le forme perché cancella
luce e ombra.
Nera la quarta ed era
specchio quasi opaco, l’immagine
riflessa era dietro
la superficie, non dentro,
come se il vuoto fosse
pieno di quel vuoto
nero nerissimo.

3)

Immobili le biglie attendevano
che dall’una venisse
la mossa per la prima partita.
Ma il silenzio
non faceva scandalo, era
il colore naturale,
rosso o verde bianco nero
come le biglie che non partivano.

Ubaldo de Robertis

Il dipinto e la realtà
Deluso dalle imitazioni, belle figure, luoghi ordinari,
forme, colori per niente naturali, un di fuori che ti assale,
fatto di segni che lo spazio modella con emozione lirica.
Il dipinto è meno di quanto si manifesta nella Natura.
Nessuna cosa è più viva di quel puntino rosso che brilla là,
nell’angolo grigio della stanza, o di quella porta
che potrebbe aprirsi, ad un tratto.
Che ti salta in mente di rivelare certe cose in poesia?
Nel silenzio si sente un tic-tac ordigno ad orologeria.
E’ il cuore.
Stranamente ha tre uscite questa stanza,
una celata dalla specchiera dà verso l’esterno,
il vuoto e lo specchio che ti guardano,
che ti scoprono la faccia, denudano la maschera
se dalla feritoia si infiltra il tenue azzurro cielo.
Che cosa altro pretendi di vedere da una finestra?
Cos’altro vuoi che appaia ancora?
La tragicità della vita si nasconde dietro l’immagine
più misteriosa e lieta. Brilla, qui, in primo piano
l’astro di Thérèse vista di spalle che indossa
la robe rose a strisce verticali argentate e un tablier noir,
lo sguardo in direzione delle case, non degli alberi
che Bazille ritrae in secondo piano.
Dramma della quiete, della serenità.
Sembra essere proprio questa la realtà.
La figura virtuale rimanda all’esistente.
Dove è dunque la poesia?
E’ nel modo con cui si divide lo sguardo
tra lo spazio racchiuso dalla cornice, Thérèse, colori, ombre,
o le cose viste nella coscienza della luce azzurra
che manifesta l’astronomia del cielo in una piccola camera?
Ma non è lì che ti senti testimone, spettatore gettato,
dimenticato
bagliore di un Sole già crudelmente
tramontato?

Alfredo de Palchi
                 a Roberto Bertoldo, alla sua onestà

Di sabato notte
scendi dall’ultimo piano
e controlli chi esce e chi rientra
sostando al piano appena sospetti
che un inquilino aspetta
la tua presenza

sdentato, biascica litanie
al crocifisso alla cabala alla mezzaluna
all’ultimo istante chiede perdono
per aver tradito tutti
e incassato ricchezze rovinando famiglie
e aziende in crisi

così alla domenica
il palazzo dorme di inquilini
reduci da Wall Street,
a mezzo giorno scendono in mutande
e salgono con il giornale per leggervi
gli annunci funerari e varie notizia
mai a corto di brutture

la sola giustizia che ho io
sei tu che lo spacci senza perdono
e senza aspettare una risposta –
te la dò io che nulla mi appartiene:
entra nei palazzi e
liberaci dal male.

20 luglio 2008

Onto Vaccaro

Adam Vaccaro Grafica di Lucio Mayoor Tosi

 Adam Vaccaro, poeta e critico nato in Molise nel 1940, vive a Milano da più di 50 anni. Ha pubblicato varie raccolte di poesie, tra le ultime: La casa sospesa, Novi Ligure 2003, e la raccolta antologica La piuma e l’artiglio, Editoria&Spettacolo, Roma 2006. Infine, Seeds, New York 2014, è la raccolta scelta da Alfredo De Palchi per Chelsea Editions, con traduzione e introduzione di Sean Mark. Tra le pubblicazioni d’arte: Spazi e tempi del fare (Studio Karon, Novara 2002) e Labirinti e capricci della passione (Milanocosa, Milano 2005) con acrilici di Romolo Calciati. Con Giuliano Zosi e altri musicisti, ha realizzato concerti di musica e poesia. Collabora a riviste e giornali con testi poetici e saggi critici. Per quest’ultimo versante, ha pubblicato Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi, Terziaria, Milano 2001.  È stato tradotto in spagnolo e in inglese. Ha fondato e presiede Milanocosa (www.milanocosa.it), Associazione con cui ha curato varie pubblicazioni, tra cui: Poesia in azione, raccolta dal Bunker Poetico, alla 49a Biennale d’Arte di Venezia 2001, Milanocosa, Milano 2002; Scritture/Realtà – Linguaggi e discipline a confronto, Atti, Milanocosa 2003; 7 parole del mondo contemporaneo, Milanocosa, Milano 2005; Milano: Storia e Immaginazione, Milanocosa, Milano 2011; Il giardiniere contro il becchino, Atti del convegno 2009 su Antonio Porta, Milanocosa, 2012. Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo, Roma, Progetto Cultura, 2016. Cura la Rivista telematica Adiacenze, materiali di ricerca e informazione culturale del Sito di Milanocosa.

16 commenti

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16 risposte a “Adam Vaccaro: Le questioni aperte dall’Antologia di Poesia Italiana Contemporanea Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura Giorgio Linguaglossa, Roma, Progetto Cultura, 2016 pp. 352 € 18

  1. Nella prefazione alla Antologia ricordavo due Principi filosofici:

    Adam Vaccaro: Le questioni aperte dall’Antologia di Poesia Italiana Contemporanea Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura Giorgio Linguaglossa, Roma, Progetto Cultura, 2016 pp. 352 € 18


    Pensiero di Tsung Ping: «Lo Spirito non ha alcuna forma. Attraverso le cose prende forma. Il nostro pensiero è tracciare le linee interne delle cose».
    Tao: «Prima dell’Uno c’è il Vuoto supremo, il Soffio primordiale che precede lo Yin e lo Yang».

    Peroravo intorno al «Cambio di paradigma» che si affaccia con decisione nella poesia italiana di questi ultimi tre lustri:

    «Autori molto diversi tra loro come Roberto Bertoldo, Antonio Sagredo, Mario Gabriele, Steven Grieco, Gino Rago sono abilitati dalla consapevolezza della frammentazione dei linguaggi e della dis-locazione del soggetto poetante. Essi sanno, o intuiscono, che non sarà più possibile ripristinare le fratture che l’epoca del Moderno ha inferto alle categorie un tempo ritenute stabili quali il soggetto, il linguaggio e il reale. Tutto sommato, anche lo sperimentalismo si basava sulla convinzione rassicurante che introdurre la casualità e il caos nei linguaggi, operare una manipolazione di essi, era una operazione dotata di un forte significato critico; oggi non è più così, sono venuti meno i presupposti sui quali si basava quella filosofia della prassi artistica, oggi non si dà più manipolazione possibile là dove i linguaggi sono essi stessi il prodotto di una instabilità in divenire prodotto dei circuiti mediatici che attecchiscono ai linguaggi artistici. Tutto sommato lo sperimentalismo era una pratica rassicurante, pacificatrice, introduceva delle certezze, delle comodità. E così tutte le ipotesi di poetica che emanavano un editto, un verdetto, tutte crollate con il crollo del Fondamento e della de-territorializzazione dei linguaggi. Oggi, purtroppo, non si danno più certezze che nell’incertezza generale né alcuna stabilità nella instabilità generale. E questo nichilismo, questo rotolare della “X” verso la periferia, come diceva Nietzsche, altri non era che il soggetto che si andava a frangere nella periferia. Questo, appunto, oggi è diventato nuda evidenza.»

    Mettevo in guardia verso gli errori filosofici che stavano alla base di certe operazioni scrittorie parlando di «proposizionalità frastica» (chi vuol capire comprenda) e di un concetto del «frammento» incompleto e acritico:

    «l’adozione di una proposizionalità frastica, per quanto ben guidata e ben teleguidata dal soggetto onnisciente, non farà altro che restare proposizione nominalistica, mero Spiegelspigel, poetiche del frammento, della duplicazione del frammento, quando invece è vero il contrario, che il frammento non si può duplicare né moltiplicare. È infatti questo il peccato mortale dello sperimentalismo che crede nella moltiplicazione dei pani e dei pesci. Un atto di credenza magica e nient’altro.»

    Mettevo in guardia verso ogni formula di facile equivalenza e schematismo, scrivendo che: «disseminazione» delle forme estetiche non equivaleva affatto alla «riduzione in frammenti del mondo in una molteplicità di polinomi frastici», frutto questo di una visione superficiale del «frammento».

    Avvertivo che: «Anche nella storia della letteratura, i nuovi paradigmi non piovono semplicemente dal cielo. Il nuovo che voglia imporsi deve distaccarsi necessariamente dal vecchio per legittimarsi di fronte alla tradizione».

    E concludevo scrivendo che «Il logos di chi accetta e prende in consegna la disseminazione dei linguaggi e la de-fondamentalizzazione delle forme artistiche è il logos forte che segna una risalita dal profondo della scomparsa delle fondamenta sgretolatesi. La forza della nuova poesia italiana sta proprio qui, in questo punto, nel prendere in consegna il testimone di una eredità infranta per ricostruire la forma artistica e riposizionarla dopo la caduta degli idoli e dei simulacra. All’apparire della poesia exeunt simulacra.»

    Nella prefazione ho messo in cantiere un vasto e articolato prospetto di categorie estetiche atte a favorire l’uscita della poesia italiana dalla genericità dell’epigonismo delle poetiche del tardo novecento…

    La prossima Antologia non potrà che raccogliere il testimone di questo lavoro e tratterà la poesia della Nuova Ontologia Estetica… il «nuovo» che avanza…

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    • Laura Cantelmo

      Linguaglossa osserva come molti abbiano una forte resistenza a pensare che, in un mondo i cui pilastri cognitivi, i valori fondanti e le modalità espressive sono stati cancellati, sia necessario, per chi scrive poesia, trovare forme comunicative adeguate alla realtà del nuovo millennio. Certamente lodevole idea quella di ricercare un’espressione che interpreti il mondo attuale. L’idea di Linguaglossa e degli Autori inclusi nella sua Antologia, è di ricorrere alla metafisica, o meglio all’ontologia per rappresentare la poesia nella modernità.
      Tenendo presente che, in campo poetico, c’è chi continua a usare la rima, talvolta le forme chiuse e scrive poesia lineare, la novità odierna, per così dire, sembra essere la poesia performativa o slam poetry, nella quale, come nel rapporto tra musica e poesia, vi è un importante ruolo del corpo, della voce, come strumenti comunicativi, con un conseguente coinvolgimento immediato da parte del pubblico. In relazione a ciò mi pare doveroso citare l’importante saggio di Giuliano Zosi, Musica/Poesia, Mitologia di un’esperienza, Sedizioni, Milano 2014, da me recensito sul sito di Milanocosa. Nell’importante testo del compianto Maestro Zosi, noto compositore, tra le altre argomentazioni, viene sottolineata l’importanza del rapporto relazionale umano come stimolo e impulso alla composizione e all’innovazione. Senza l’occhio aperto sulla realtà esterna non vi è comunicazione né rapporto con l’Altro.
      A me sembra che, nei fatti, o rinunciamo a scrivere, parlare, comporre versi, o non possiamo far altro che attingere ancora a procedure mentali ed espressive note, alla lingua comune. Quando, nel secolo scorso e ancora prima, alla fine dell’Ottocento, vennero rivoluzionate le arti visive, la musica, il romanzo e la poesia, il linguaggio venne adeguato alla realtà sociale e al veicolo comunicativo che le era proprio. In letteratura furono spazzati via i termini aulici cari a una èlite ritenuta ormai decadente. Nel modernismo si usarono i lemmi della lingua corrente, il romanzo fece ricorso (in Joyce) al flusso d coscienza, la poesia conobbe diverse fasi, ma fu comunque concepita “contro” la banalità borghese e così, più o meno, avvenne nelle arti visive e nella musica.
      A mio parere, una “estetica ontologica”, come quella proposta da Linguaglossa, rappresenta un modo autoreferenziale di intendere una forma letteraria, qualcosa di non molto dissimile da “l’arte per l’arte”, essendo escluso in essa, quasi del tutto, il rapporto con l’Altro. Esperimento comunque vicino alla poesia orfica di alcune avanguardie novecentesche. Il tutto vissuto come una liberazione direi gioiosa da norme e schemi tradizionali. Siamo lontani dalla volontà dei surrealisti di creare le condizioni per la libertà spirituale e materiale dell’uomo attraverso una visione nuova, una creatività davvero nuova. Mi si permetta un’osservazione forse banale: senza voler attribuire alla poesia un ruolo importante nell’influenzare il pensiero attuale (vista la difficoltà di fruizione della stessa da parte di un pubblico esteso) credo che rinunciare anche a un minimo di finalità comunicative del linguaggio poetico, a un procedimento fenomenologico e non ontologico, come è stato correttamente analizzato nella sua complessità da Adam Vaccaro, significhi l’accettazione di un individualismo funzionale a quel potere politico ed economico che nei fatti risulta devastante per la vita dell’intero pianeta. Accettazione di questo mondo privo di una visione, che ci viene barattato, ahimè, come il trionfo di una fasulla “libertà” (dalle norme, dall’etica nei rapporti con la realtà esterna, dalle deprecate ideologie – quando ve ne è una sola, quella dominata dal mercato). In tal caso la poesia è pura accettazione di una realtà “liquida”, frantumata, basata sull’individualismo e sul solipsismo, condizionata da una riduzione della libertà e della democrazia. Un mondo che dovremmo, con una assunzione di responsabilità, decisamente contrastare e non accettare.
      Laura Cantelmo

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      • In fatto di assunzione di responsabilità, non credo che le poesie di Rago, Gabriele o dello stesso Linguaglossa, per vie diverse, manchino di impegno. A ben vedere nelle loro poesie vi è, rispettivamente, pensiero costruttivo, amarezza derisoria e angoscia, in gran quantità. Ma per poterne parlare bisognerebbe leggerle, se non si vuole che Il confronto critico offenda la poesia o la anticipi nelle sue finalità e nel percorso.

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  2. Francesca Dono

    esaustiva la disamina che Adam Vaccaro ha scritto sull’Antologia e per aver messo in evidenza nonché in relazione i punti del pensiero NOE con i propri. Mi ero già complimentata con lui privatamente. Bella la presentazione, qui ,a Milano. Gli autori sono tanti. Man mano leggerò tutto.

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  3. Quando Linguaglossa scrive:
    “la poesia ha a che fare più con l’illusione e l’abbaglio piuttosto che con le categorie della certezza e della verità” ( pagina precedente, rispondendo a Margiotta), rivela il pensiero corrispondente – per alcuni un segreto – a chi è già pervenuto a questa constatazione, non per vie filosofiche o di critica letteraria ma in modo empirico ( per me sono state importanti la pratica psicanalitica e la meditazione. E’ la ragione per la quale non ho scritto poesia per quasi vent’anni). Trovo sorprendente che si possa arrivare alle stesse conclusioni percorrendo strade tanto diverse. Tornare a scrivere senza più creder(ci) è alla base del significato ontologico di questa operazione (estetica). Non credendo vien meno la forza che crea identificazione. Il vuoto narcisismo di quest’epoca è servito.

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  4. LE PAROLE DEI MORTI E QUELLE DEI VIVI – LE PAROLE DELLA POESIA ONESTA https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/05/26/adam-vaccaro-le-questioni-aperte-dallantologia-di-poesia-italiana-contemporanea-come-e-finita-la-guerra-di-troia-non-ricordo-a-cura-giorgio-linguaglossa-roma-progetto-cultura-2016-pp-352/comment-page-1/#comment-20460
    Mi fa piacere, caro Lucio Mayoor,

    sapere che siamo arrivati, per due vie distantissime, ad un unico sentiero… e ci stiamo avviando per questo sentiero impervio, tanto impervio che pochi, pochissimi potranno seguirci. Anche in questo articolato di Adam Vaccaro, per tanti versi esaustivo ed esauriente, è come se ci fosse una resistenza (inconscia) a pensare una poesia che abbia un diverso statuto ontologico, le stesse categorie che noi usiamo nel parlare della poesia, intendo la migliore, la più evoluta… non sono più idonee, a mio avviso dobbiamo cercare altre categorie, pensare un altro orizzonte di eventi. Penso che dobbiamo abbandonare un abito mentale e linguistico che ci ha accompagnato in questi decenni ma che ormai ci è estraneo, non ci dice più niente; dobbiamo, credo, indossare un altro vestito linguistico e categoriale… Ed è quello che noi stiamo tentanto con le nostre forze (modeste e insufficienti)…

    Propongo alcune considerazioni di Massimo Donà e Romano Gasparotti contenute nella introduzione a Il Dio negativo. Gli scritti teoretici di Andrea Emo (Marsilio, 1989) – (che raccomando vivamente a tutti di leggere) Dei veri poeti sanno ciò di cui si tratta…

    Scrive Adalberto Coltelluccio in https://mondodomani.org/dialegesthai/acol03.htm

    «…presenza del Nulla originario; eppure ‘è’».[6] Detto in altri termini: l’atto originario stesso contiene in sé sia l’Essere che il Nulla, è pertanto coincidenza dei contraddittori.[7] Affermare l’identità di essere e nulla non può non significare l’accettazione incondizionata della contraddizione, vale a dire la consapevole trasgressione del principio di non-contraddizione aristotelico. Questo perché l’identificazione non è da parte di due termini identici, bensì da parte di termini assolutamente non-identici, cioè è l’identità di veri opposti contraddittori (il Nulla oggetto delle meditazioni di Emo, puntualizzano Donà e Gasparotti, è il nulla come «assoluta mancanza d’essere, alterità assoluta»,[8] non relativa, rispetto all’essere). D’altra parte, i termini della contraddizione sono tali non solo perché si oppongono radicalmente, ma anche e soprattutto perché nella contraddizione vengono ‘identificati’.[9] In tal modo, l’Assoluto è perfetta coincidenza di essere e nulla, a tal punto che l’essere è, in quanto essere, nulla, e il nulla è, in quanto nulla, essere.[10] Così qui la contraddizione in gioco nel pensiero emiano è tale da opporre radicalmente essere e nulla e simultaneamente identificarli. Ma proprio questo è il senso proprio della contraddizione: identificare due cose che sono totalmente opposte (da un punto di vista logico, in verità, si parla di ‘congiunzione’ dell’affermazione e della negazione di uno stesso asserto). Ed essa è la struttura fondamentale della realtà e dell’Assoluto in Emo. Donà e Gasparotti rilevano che l’accettazione della contraddizione, nel pensiero emiano, ha anzi la funzione di essere «rivelazione di Dio». Se Dio è il senso dell’esistere, questo Dio è intrinsecamente ‘contraddizione’, l’incoglibilità di qualsiasi senso, e dunque l’assurdo. Non può esserci, dunque, nell’istituirsi originario dell’Assoluto, un Uno, un Medesimo, che non sia immediatamente Non-Uno o Non-Medesimo, così come questo Non-Uno o Non-Medesimo non può non essere costitutivamente Uno e Medesimo. Donà e Gasparotti sottolineano la necessità di un originario «autonegarsi dell’indivisibile Uno, in realtà sempre identico a se stesso».[11]

    Cosa è la presenza? La presenza è la presenza del togliersi, cioè l’attualità del togliersi. […] La presenza non è un immediato. […] Il negarsi del presente è il suo esser atto, esser in atto, esser presente, attuale […]. Il nulla giustifica, fonda l’originarietà dell’attuale. Appunto perché il nulla è attuale. L’attuale non contiene il nulla staticamente, come un recipiente, ma attualmente, negandosi, togliendosi.[19]

    Essere pura ‘presenza’ vuol dire per Emo, essenzialmente negare, togliere l’immediatezza, ‘de-coincidersi’ dall’implosione infinita originaria in cui niente può ancora cogliersi. Presenza è il portarsi alla presenza nei confronti di ciò di cui essa è presenza, e nell’Inizio questo portarsi alla presenza non avviene che nei confronti di se stesso, dell’Atto originario, poiché nessun Altro c’è nell’Inizio. Anzi, nell’Inizio senza che ci sia l’Altro, a rigore, nemmeno il Se-stesso c’è: il sé, infatti, è già una determinazione, ed è tale solo perché si distingue da altro. Ecco perché Emo afferma anche che la presenza «si identifica», ossia si ‘trova’, coglie se stessa nella nullità dell’Indistinzione originaria. Tuttavia, quest’atto non avviene altro che implicando la stessa nullità (è un originario auto-annullarsi, infatti, non preceduto da nulla), e a partire dall’indifferenza originaria con il nulla. Il portarsi a presenza della presenza avviene solo sul fondamento (-infondato) dell’assenza, ossia di quell’implosione abissale in cui niente è mai coglibile, ma in cui comunque l’Assoluto paradossalmente si dà. Solo il nulla stesso consente, nel suo darsi, l’identificazione stessa della presenza, giacché questa «nega tutto ciò di cui essa è presenza». In questo modo, l’atto originario, proprio nel creare tutto, simultaneamente crea il nulla, e proprio mentre si-fa-presenza non può che farsi-assenza, ossia ‘abolizione’ d’essere e di presenza; infatti,

    la presenza crea tutto in quanto crea il nulla e crea il nulla in quanto si identifica, in quanto si riduce a pura presenza, cioè nega tutto ciò di cui è presenza. […] facendosi presenza dell’essere e della presenza, essa nega e abolisce l’essere e la presenza. In quanto è presenza di essere è presenza di nulla.[20]»

    6.Donà e Gasparotti, Gli scritti teoretici di Andrea Emo, cit., p. XV.
    p. XVII.

    7. Donà e Gasparotti parlano esplicitamente dell’Origine, nel pensiero di Emo, come «identità degli opposti (identità di ‘essere’ e ‘nulla’)» (Ibid.). <

    8. Ibid.

    9. Ove il senso della reale contraddizione non fosse ancora chiaro, vorrei riportare questo passo di Donà e Gasparotti: «l'Identità assoluta, l'Origine, deve essere identificazione di quei diversi assoluti che sono appunto l'Essere e il Nulla» (ivi, p. XVIII, il corsivo è mio).

    10. Ancora una precisazione, da parte di Donà e Gasparotti, servirà a fugare ogni dubbio sulla effettiva contraddittorietà qui messa in gioco: «la presenza di tutto ciò che è presente è in realtà la presenza dello stesso Nulla originario […]. L'essere, cioè, non è al posto del nulla — non c'è l'essere invece del nulla. Bensì l'essere è la stessa presenza del nulla (il nulla non è presente se non come essere)» (Ibid.).

    11. Ibid.

    19. Cfr. A. Emo, Il Dio negativo ecc., cit., pp. 10-11.

    20. Ivi, pp. 12-13

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    • Andrea Emo deve essere stato un gran meditatore. Altrimenti non me lo spiego… ah, ma si diceva delle diverse vie 🙂
      Comunque nello stato di meditazione profonda ( che si ottiene seguendo pratiche ben stabilite, talune anche vecchie di secoli) si può arrivare a queste comprensioni, se non altro a sperimentarle esistenzialmente. Non accade ogni volta che si medita, ci vuole anche un po’ di fortuna, ma con la pratica… Capisci che, poi, mettersi a scrivere può diventare un problema: come fai a credere in questi “illusioni”? Ed ecco che rispunta la tecnica, e ti viene in aiuto.

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    • Mariella Colonna

      Un raggio di sole sulla parete

      che trattiene il verso d’un poeta
      sospeso tra diagonali d’aria
      mi chiama a dialogare con l’ignoto
      o con il vento del Nord che spinge
      verso di me pensieri parole cose
      che il poeta Nemo compone
      in percorsi di frammenti e inusuali pigmenti
      e labirinti a quattro dimensioni.
      Egli inventa un codice di linguaggio che rapisce e incanta
      dentro la foresta di cristallo della NOE coltiva
      esotici fiori che divorano carne e promettono sogni,
      onde che vanno a morire sulla riva.

      Libero da pregiudizi lanciando parole
      a tinte forti e variegate attira naviganti
      avventurosi e perfino
      stormi di uccelli dalle piume vibranti
      e nei frammenti al posto della morte
      scaglia sassi di vita.

      Ma se esista e chi sia questo Nemo non so,
      non si fa conoscere, si nasconde
      dietro le linee inquietanti
      di se stesso.

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  5. Adam Vaccaro: Le questioni aperte dall’Antologia di Poesia Italiana Contemporanea Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura Giorgio Linguaglossa, Roma, Progetto Cultura, 2016 pp. 352 € 18


    Scrive Adam Vaccaro:
    “Se il destino del frammento tende a cadere nell’abisso della perdita del senso, la creatività poetica degna di questo nome è la sua vendetta” e prosegue con questa citazione, credo da Linguaglossa:
    “La forza della nuova poesia italiana sta proprio qui, in questo punto, nel prendere in consegna il testimone di una eredità infranta per ricostruire la forma artistica e riposizionarla”
    Poi seleziona alcune splendide poesie di Renato Minore, tra le mie preferite nell’antologia. E naturalmente De Palchi, che lui queste cose le ha portate a maturazione già da tempo. Infine, perché di un’altra qualità, più meditativa, Ubaldo De Robertis, il quale però scrive:
    “Nessuna cosa è più viva di quel puntino rosso che brilla là,
    nell’angolo grigio della stanza, o di quella porta
    che potrebbe aprirsi, ad un tratto.”
    Quale risposta migliore si potrebbe dare a chi avesse dubbi su questa nuova poesia, perché ancora affezionato a vecchi parametri della poesia lirica e cantilenante?
    Giorni fa Giorgio Linguaglossa ha postato alcune poesie di Maria Rosaria Madonna che hanno del soprannaturale… bisbigliate con furore. Ma ci si accorge del classico quando si presenta come nuovo, o sono io che ho le traveggole?

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  6. A PROPOSITO DELLE PAROLE MORTE E DELLE PAROLE VIVE E DEI POETI PREMORTI – PREMESSE ALLA NUOVA ONTOLOGIA ESTETICA

    Adam Vaccaro: Le questioni aperte dall’Antologia di Poesia Italiana Contemporanea Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura Giorgio Linguaglossa, Roma, Progetto Cultura, 2016 pp. 352 € 18


    Caro Lucio Mayoor Tosi,
    Ad Andrea Margiotta, il quale mi chiedeva cosa ne pensassi dell’«ermetismo», rispondevo:

    ti rispondo parlando di una cosa molto più importante dell’ermetismo o di altre poetiche che hanno affollato il novecento (in questi ultimi tre lustri sono assenti le petizioni di poetica), parliamo delle parole morte e delle parole vive, e chiediamoci se le parole che usiamo sono vive o morte. Il mio parere sull’ermetismo è che è stata una stagione poetica minoritaria, una poesia sacerdotale, fatta da iniziati per iniziati, una tumefazione del gusto. frutto di provincialismo culturale.

    Il problema è: quando sorge una nuova poesia? E la risposta più immediata e sensata è questa: quando la vecchia poesia muore. Quindi ritengo che oggi ci siano quelle condizioni ideali per la nascita di una Nuova Poesia, perché quella vecchia è già defunta da un pezzo.

    Sono convinto che una Nuova Poesia si debba chiedere qual è la sua Patria. Ecco, questo penso sia importante: riconoscere la propria Patria, la patria delle parole nuove.

    Quando Franco Buffoni risponde ad Antonio Natale Rossi il quale gli chiedeva perché avesse estromesso dalla sua antologia di poesia i poeti di età maggiore ai sessant’anni, il curatore rispondeva che lui non si occupava dei «premorti»; e alla successiva domanda circa il perché avesse inserito nella antologia persone che avevano molto più di sessant’anni come Giuseppe Conte e Maurizio Cucchi, il medesimo curatore rispondeva: «Ah, ma quella è un’altra cosa!».

    Ecco, io considero questa esplicitazione della filosofia dei «premorti» come dei reietti da cui guardarsi in quanto più prossimi alla «morte» e quindi non più utili alla prassi dello «scambio» e quindi non più utili ai propri fini pseudo letterari, dicevo che considero queste parole alla stregua della «spazzatura», parola con la quale Adorno bollava «Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura. Poiché essa si è restaurata dopo quel che è successo nel suo paesaggio senza resistenza, è diventata completamente ideologia, quale potenzialmente era dopo che…»1]

    In un paese che avesse una coscienza civile della poesia un tale personaggio dovrebbe essere allontanato dalla «cultura» e destinato al sotto bosco di essa, dovrebbe essere «schermato» perché maneggia gli uomini con lo stesso disprezzo degli ufficiali delle SS.

    Io mi chiedo come possa scrivere «poesie» chi manifesta indifferenza, disprezzo e cinismo verso i morti e verso i vivi e quale sia la sua «patria».

    T,W, Adorno Dialettica negativa, trad it. Einaudi, 1970, p. 331

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  7. antonio sagredo

    “Ma ci si accorge del classico quando si presenta come nuovo, o sono io che ho le traveggole?” ….. >>

    >> entrambe le cose, caro Mayoor… mi hanno detto che i miei versi sono già oltre il classico, e che detengono il record della possanza, e del lirismo oltre ogni immaginazione… mi hanno detto, esagerando, che il mio verso in Europa non ha eguali, e a chi mi diceva questo (un illustre critico)… ho risposto: Europa? Se mai nel mondo! – nicchiando…
    bontà loro!

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  8. gino rago

    Gino Rago

    Adam Vaccaro: Le questioni aperte dall’Antologia di Poesia Italiana Contemporanea Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura Giorgio Linguaglossa, Roma, Progetto Cultura, 2016 pp. 352 € 18


    VERSO UN NUOVO PARADIGMA POETICO

    La Introduzione di Giorgio Linguaglossa non lascia margini ad ulteriori dubbi: si è chiusa in modo definitivo la stagione del post-sperimentalismo novecentesco, si sono esaurite le proposte di mini canoni e di mini progetti lanciati da sponde poetiche le più diverse ma per motivi, diciamo, elettoralistici e auto pubblicitari, si sono esaurite la questione e la stagione dei «linguaggi poetici», anche di quelli finiti nel buco dell’ozono del nulla; la poesia italiana sembra essere arrivata ad un punto di gassosità e di rarefazione ultime dalle quali non sembra esservi più ritorno. Questo è il panorama se guardiamo alle pubblicazioni delle collane a diffusione nazionale, come eufemisticamente si diceva una volta nel lontano Novecento. Se invece gettiamo uno sguardo retrospettivo libero da pregiudizi sul contemporaneo al di fuori delle proposte editoriali maggioritarie, ci accorgiamo di una grande vivacità della poesia contemporanea. È questo l’aspetto più importante, credo, del rilevamento del “polso” della poesia contemporanea. Restano sul terreno  voci poetiche totalmente dissimili ma tutte portatrici di linee di ricerca originali e innovative.
    Molte delle voci di poesia antologizzate vibrano, con rara consapevolezza dei propri strumenti linguistici, in quell’area denominata L’Epoca della stagnazione estetica e spirituale, che non significa riduttivamente stagnazione della poesia ma auto consapevolezza da parte dei poeti più intelligenti della necessità di intraprendere strade nuove di indagine poetica riallacciandosi alle poetiche del modernismo europeo per una «forma-poesia» sufficientemente ampia che sappia farsi portavoce delle nuove esigenze espressive della nostra epoca. Innanzitutto, il decano della nuova poesia è espressamente indicato nella persona di Alfredo de Palchi, il poeta che con Sessioni per l’analista del 1967, inaugura una poesia frammentata e proto sperimentale, una linea che, purtroppo, rimarrà priva di sviluppo nella poesia italiana del tardo Novecento ma che è bene, in questa sede, rimarcare per riallacciare un discorso interrotto. Un percorso che riprenderà Maria Rosaria Madonna con il suo libro del 1992, Stige, forse il discorso più frammentato del Novecento, dove il «frammento è l’intervento della morte dell’opera. Col distruggere l’opera, la morte ne elimina la macchia dell’apparenza»(T.W. Adorno Teoria estetica, 1970 Einaudi).
    Un discorso sul «frammento» in poesia ci porterebbe lontano ma ci aiuterebbe a collocare certe opere del Novecento, come quella citata di de Palchi con l’altra di Maria Rosaria Madonna.
    In un certo senso, questa Antologia vuole riallacciare un «discorso interrotto», collegare i «membra disiecta», capire le ragioni che lo hanno «interrotto» per ripartire con maggiore consapevolezza da un nuovo discorso critico della poesia del secondo Novecento. Forse adesso i tempi sono maturi per rimettere al centro della poesia italiana del secondo Novecento poeti come Alfredo de Palchi,Angelo Maria Ripellino ed Helle Busacca, ma anche Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher ingiustamente dimenticati. Ne uscirebbe una nuova mappa della poesia italiana. In fin dei conti, questa Antologia vuole essere un contributo per la rilettura della poesia del secondo Novecento.
    Se c’è una unica chiave di lettura della poesia del Presente essa sta, a mio avviso, nello spartiacque rispetto alle Antologie storiche come Il pubblico della poesiadel 1975 a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli che apriva ad un’epoca della «poesia-massa» e ai poeti «uomini di fede», non più «intellettuali» a tutto tondo come quelli della precedente generazione poetica. I poeti dell’epoca della stagnazione sono dei solisti e degli isolati, sanno di essere fuori mercato e fuori moda, sanno di essere dei reperti post-massa e ne accettano le conseguenze:Annamaria De Pietro, Carlo Bordini, Renato Minore, Lucio Mayoor Tosi, Alfredo Rienzi, Anna Ventura, Antonio Sagredo, Giorgio Linguaglossa, Letizia Leone, Steven Grieco-Ratgheb,  Edith Dzieduszycka, Mario M. Gabriele, Stefanie Golisch, Ubaldo De Robertis, Guglielmo Aprile, Flavio Almerighi, Gino Rago, Giuseppina Di Leo, Giuseppe Talìa (ex Panetta)sono autori non legati da rapporti amicali o di gruppo, personalità indipendenti che si sono mosse da tempo e si muovono ciascuna per proprio conto ma in direzione d’un eurocentrismo «critico » e dunque proiettate oltre la crisi, oltre Il postmoderno, oltre il problema dei linguaggi poetici epigonici.
    Alcuni autori fanno una poesia del presente ablativo (Flavio Almerighi, Giulia Perroni, Luigi Celi, Adam Vaccaro, Antonella Zagaroli), altri adottano lo scandaglio mitico del “modernismo” europeo:  si  guarda a  narratori come Joyce con l’Ulisse, a Salman Rushdie con Versetti satanici (1998), a T.S. Eliot con La Terra Desolata, ma anche a Mandel’stam, Pasternak, Cvetaeva, agli svedesi Tomas Tranströmer , Lars Gustafsson, Kjell Espmark, ai polacchi Milosz, Herbert, Rozewicz, Szymborska, Zagajewskij, si rivisitano alcuni miti da traslare nello spirito del contemporaneo. Poesia che adotta il  metodo mitico come allegoria del tempo presente (Rossella Cerniglia, Francesca Diano,Giorgio Linguaglossa, Gino Rago) con esiti notevoli. Si tratta di autori nuovi ma non più giovanissimi né nuovissimi, l’aspetto più appariscente è l’assenza dei poeti delle nuove generazioni, e questo è un elemento degno di essere sottolineato e approfondito che consegno alla riflessione dei lettori.
    C’è una diffusa consapevolezza della Crisi dei linguaggi e della rappresentazione poetica quale dato di fatto da cui prendere atto e ripartire; sono i poeti «abilitati dalla consapevolezza della frammentazione dei  linguaggi e della dis-locazione del soggetto poetante» – come giustamente segnala Giorgio Linguaglossa in Prefazione – sono i poeti antologizzati che spingono il metodo mitico nella forma del «frammento», accelerando la crisi di quell’ «Io» non più centro unificante delle esperienze, né più unità di misura del reale, ma ente frantumato, disgregato della realtà nella quale una certa «coscienza» di ciò che è da considerarsi «poetico» è tramontata forse irrimediabilmente ed ha smesso d’essere luogo della sintesi. L’«io» è stato de-territorializzato definitivamente, e di questo bisogna, credo, prenderne atto e tirarne le conseguenze.
    Direi che la nuova poesia guarda con interesse ai nuovi indirizzi della fisica teorica, della cosmologia, della biogenetica, in una parola pensa ad una nuova ontologia del poetico
    Roma, agosto 2016
    Ulteriori, importantissime notizie  possono essere attinte dalle preziose meditazioni critiche di Luigi Celi intorno a Come è finita la guerra di Troia non ricordo  su altre voci poetiche di rilievo presenti  nell’Antologia di Poesia Italiana Contemporanea, postate su L’Ombra delle Parole del 18 luglio 2016.
    Gino Rago

    Postilla di Giorgio Linguaglossa 

    VERSO UN NUOVO PARADIGMA POETICO

    Cambiamento di paradigma (dizione con cui si indica un cambiamento rivoluzionario di visione nell’ambito della scienza), è l’espressione coniata daThomas S. Kuhn nella sua importante opera La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) per descrivere un cambiamento nelle assunzioni basilari all’interno di una teoria scientifica dominante.
    L’espressione cambiamento di paradigma, intesa come un cambiamento nella modellizzazione fondamentale degli eventi, è stata da allora applicata a molti altri campi dell’esperienza umana, per quanto lo stesso Kuhn abbia ristretto il suo uso alle scienze esatte. Secondo Kuhn «un paradigma è ciò che i membri della comunità scientifica, e soltanto loro, condividono” (La tensione essenziale, 1977). A differenza degli scienziati normali, sostiene Kuhn, «lo studioso umanista ha sempre davanti una quantità di soluzioni incommensurabili e in competizione fra di loro, soluzioni che in ultima istanza deve esaminare da sé” (La struttura delle rivoluzioni scientifiche). Quando il cambio di paradigma è completo, uno scienziato non può, ad esempio, postulare che il miasma causi le malattie o che l’etere porti la luce. Invece, un critico letterario deve scegliere fra un vasto assortimento di posizioni (es. critica marxista, decostruzionismo, critica in stile ottocentesco) più o meno di moda in un dato periodo, ma sempre riconosciute come legittime. Sessioni con l’analista, invece, invitava a cambiare il modo con cui si considerava il modo di impiego della poesia, ma i tempi non erano maturi, De Palchi era arrivato fuori tempo, in anticipo o in ritardo, ma comunque fuori tempo, e fu rimosso dalla poesia italiana. Fu ignorato in quanto fu equivocato.
    Dagli anni ’60 l’espressione è stata ritenuta utile dai pensatori di numerosi contesti non scientifici nei paragoni con le forme strutturate di Zeitgeist. Dice Kuhn citando Max Planck: «Una nuova verità scientifica non trionfa quando convince e illumina i suoi avversari, ma piuttosto quando essi muoiono e arriva una nuova generazione, familiare con essa.”
    Quando una disciplina completa il suo mutamento di paradigma, si definisce l’evento, nella terminologia di Kuhn, rivoluzione scientifica o cambiamento di paradigma. Nell’uso colloquiale, l’espressione cambiamento di paradigma intende la conclusione di un lungo processo che porta a un cambiamento (spesso radicale) nella visione del mondo, senza fare riferimento alle specificità dell’argomento storico di Kuhn.
    Secondo Kuhn, quando un numero sufficiente di anomalie si è accumulato contro un paradigma corrente, la disciplina scientifica si trova in uno stato di crisi. Durante queste crisi nuove idee, a volte scartate in precedenza, sono messe alla prova. Infine si forma un nuovo paradigma, che conquista un suo seguito, e una battaglia intellettuale ha luogo tra i seguaci del nuovo paradigma e quelli del vecchio. Ancora a proposito della fisica del primo ‘900, la transizione tra la visione di James Clerk Maxwell dell’elettromagnetismo e le teorie relativistiche di Albert Einstein non fu istantanea e serena, ma comportò una lunga serie di attacchi da entrambi i lati. Gli attacchi erano basati su dati empirici e argomenti retorici o filosofici, e la teoria einsteiniana vinse solo nel lungo termine. Il peso delle prove e l’importanza dei nuovi dati dovette infatti passare dal setaccio della mente umana: alcuni scienziati trovarono molto convincente la semplicità delle equazioni di Einstein, mentre altri le ritennero più complicate della nozione di etere di Maxwell. Alcuni ritennero convincenti le fotografie della piegature della luce attorno al sole realizzate da Arthur Eddington, altri ne contestarono accuratezza e significato.
    Possiamo dire che quell’epoca che va da L’opera aperta di Umberto Eco (1962) aMidnight’s children (1981) e Versetti satanici di Salman Rushdie (1988) si è concluso il Post-moderno e siamo entrati in una nuova dimensione. Nel romanzo di Rushdie il favoloso, il fantastico, il mitico, il reale diventano un tutt’uno, diventano lo spazio della narrazione dove non ci sono separazioni ma fluidità. Il nuovo romanzo prende tutto da tutto. Oserei dire che con la poesia di Tomas Tranströmer finisce l’epoca di una poesia lineare (lessematica e fonetica) ed  inizia una poesia topologica che integra il fattore Tempo (da intendere nel senso delle moderne teorie matematiche topologiche secondo le quali il quadrato e il cerchio sono perfettamente compatibili e scambiabili) ed il fattore Spazio. Chi non si è accorto di questo fatto, continuerà a scrivere romanzi tradizionali (del tutto rispettabili) o poesie tradizionali (basate ancora su un concetto di reale e di finzione separati), ovviamente anch’esse rispettabili; ma si tratta di opere di letteratura che non hanno l’acuta percezione, la consapevolezza che siamo entrati in un nuovo «dominio” (per dirla con un termine nuovo).
    Giorgio Linguaglossa

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  9. Ricevo alla mia email e incollo il commento di Laura Cantelmo:

    Linguaglossa osserva come molti abbiano una forte resistenza a pensare che, in un mondo i cui pilastri cognitivi, i valori fondanti e le modalità espressive sono stati cancellati, sia necessario, per chi scrive poesia, trovare forme comunicative adeguate alla realtà del nuovo millennio. Certamente lodevole idea quella di ricercare un’espressione che interpreti il mondo attuale. L’idea di Linguaglossa e degli Autori inclusi nella sua Antologia, è di ricorrere alla metafisica, o meglio all’ontologia per rappresentare la poesia nella modernità.

    Tenendo presente che, in campo poetico, c’è chi continua a usare la rima, talvolta le forme chiuse e scrive poesia lineare, la novità odierna, per così dire, sembra essere la poesia performativa o slam poetry, nella quale, come nel rapporto tra musica e poesia, vi è un importante ruolo del corpo, della voce, come strumenti comunicativi, con un conseguente coinvolgimento immediato da parte del pubblico. In relazione a ciò mi pare doveroso citare l’importante saggio di Giuliano Zosi, Musica/Poesia, Mitologia di un’esperienza, Sedizioni, Milano 2014, da me recensito sul sito di Milanocosa. Nell’importante testo del compianto Maestro Zosi, noto compositore, tra le altre argomentazioni, viene sottolineata l’importanza del rapporto relazionale umano come stimolo e impulso alla composizione e all’innovazione. Senza l’occhio aperto sulla realtà esterna non vi è comunicazione né rapporto con l’Altro.

    A me sembra che, nei fatti, o rinunciamo a scrivere, parlare, comporre versi, o non possiamo far altro che attingere ancora a procedure mentali ed espressive note, alla lingua comune. Quando, nel secolo scorso e ancora prima, alla fine dell’Ottocento, vennero rivoluzionate le arti visive, la musica, il romanzo e la poesia, il linguaggio venne adeguato alla realtà sociale e al veicolo comunicativo che le era proprio. In letteratura furono spazzati via i termini aulici cari a una èlite ritenuta ormai decadente. Nel modernismo si usarono i lemmi della lingua corrente, il romanzo fece ricorso (in Joyce) al flusso d coscienza, la poesia conobbe diverse fasi, ma fu comunque concepita “contro” la banalità borghese e così, più o meno, avvenne nelle arti visive e nella musica.

    A mio parere, una “estetica ontologica”, come quella proposta da Linguaglossa, rappresenta un modo autoreferenziale di intendere una forma letteraria, qualcosa di non molto dissimile da “l’arte per l’arte”, essendo escluso in essa, quasi del tutto, il rapporto con l’Altro. Esperimento comunque vicino alla poesia orfica di alcune avanguardie novecentesche. Il tutto vissuto come una liberazione direi gioiosa da norme e schemi tradizionali. Siamo lontani dalla volontà dei surrealisti di creare le condizioni per la libertà spirituale e materiale dell’uomo attraverso una visione nuova, una creatività davvero nuova.

    Mi si permetta un’osservazione forse banale: senza voler attribuire alla poesia un ruolo importante nell’influenzare il pensiero attuale (vista la difficoltà di fruizione della stessa da parte di un pubblico esteso) credo che rinunciare anche a un minimo di finalità comunicative del linguaggio poetico, a un procedimento fenomenologico e non ontologico, come è stato correttamente analizzato nella sua complessità da Adam Vaccaro, significhi l’accettazione di un individualismo funzionale a quel potere politico ed economico che nei fatti risulta devastante per la vita dell’intero pianeta.

    Accettazione di questo mondo privo di una visione, che ci viene barattato, ahimè, come il trionfo di una fasulla “libertà” (dalle norme, dall’etica nei rapporti con la realtà esterna, dalle deprecate ideologie – quando ve ne è una sola, quella dominata dal mercato). In tal caso la poesia è pura accettazione di una realtà “liquida”, frantumata, basata sull’individualismo e sul solipsismo, condizionata da una riduzione della libertà e della democrazia. Un mondo che dovremmo, con una assunzione di responsabilità, decisamente contrastare e non accettare.
    Laura Cantelmo

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  10. Nuova Ontologia Estetica significa pensare per fondamenti ontologici

    Adam Vaccaro: Le questioni aperte dall’Antologia di Poesia Italiana Contemporanea Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura Giorgio Linguaglossa, Roma, Progetto Cultura, 2016 pp. 352 € 18


    Vorrei ribattere alla liquidazione frettolosa sopra citata che l’ontologia da economia curtense della poesia post-lirica nelle versioni epigoniche che si sono avute qui in Italia negli ultimi decenni viene sottoposta a critica dalla «nuova ontologia estetica». In ciò non c’è nulla di scandaloso nel pensare l’ontologia dei fondamenti. Ogni poesia riposa su un fondamento di ontologia estetica, anche quella in apparenza invulnerabile alle critiche, anche quella più ingenua e sussiegosa che rifugge, come dice il precedente commento, si basa su una ontologia (involontaria e immediata) del senso comune; è del tutto naturale che il pensiero estetico pensi le proprie fondamenta ontologiche, chi non riflette sulle fondamenta del proprio pensiero è un pensatore ingenuo, nel migliore dei casi apologetico, nel senso che fa apologia dell’esistente.

    Oggi finalmente in Italia si avverte il bisogno di un pensiero che pensi i fondamenti della poesia, e questo lo fa la «nuova ontologia estetica». In fin dei conti, una nuova ontologia dei nomi che noi definiamo estetica perché si applica alla poesia (e non solo) altro non è che un nuovo modo di dare dei «nomi» alle «cose», usare delle «parole» al posto di altre. La scelta delle parole è determinante, ma una scelta la si fa in base a dei criteri, dei principi, che noi definiamo «ontologici» e non legati a mere idiosincrasie soggettive. Il punto di appoggio per comprendere il «concettuale», scriveva Adorno, è il «non concettuale», ma il «non concettuale» non lo si può comprendere senza far ricorso ad un «nuovo concettuale», altrimenti esso si dissolve in vacuo e vuoto nominalismo epigonico.

    Una poesia basata sulla coscienza immediata, sulla immediatezza resistenziale, può essere un bisogno corporale legittimo, un anelito, un desiderio di espressione personalistica che rimane però sul piano della espressione personale, idiosincratica.
    Vero è che bisognerebbe chiedersi perché mai sorga soltanto oggi nella poesia italiana un nuovo bisogno ontologico, il bisogno di ancorare la «nuova poesia» ad una «nuova ontologia»… Ma forse chiedo troppo.

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  11. Nulla da eccepire per i suoi ragli, caro asino, è naturale, ma perché tanta acrimonia? Vita scontenta, bisogno di andare in vacanza ma non ce n’è?

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