
picasso jacqueline_nello_studio 1956
Delineare la poetica di un non-poeta, come Pablo Picasso (1881-1973), è assai complesso: ti pone dinanzi a degli interrogativi alquanto suggestivi in cui ti devi barcamenare con un certa difficoltà, perché stiamo parlando delle poesie di Picasso.
Si potrebbe ben dire che l’attività poetica di Picasso, non fa altro che mettere in risalto la sua attività artistica, difatti, Breton che ne curò un saggio su un giornale surrealista, sostiene che la sua poesia è null’altro che un prolungamento della sua attività plastica, che il fondo basilare è la realtà vista con l’occhio di un pittore: la focalizzazione dell’oggetto va a costituire il soggetto e viceversa. Interviene Bracque a sostegno di questa tesi, dicendo: “l’indifferenza totale del soggetto ci avrebbe portato assai presto ad un’arte incompleta”.
Così è inevitabile che alla nota di Sabartes sui suoi errori di ortografia lui risponda: “Ebbene? Dagli errori si riconosce la personalità, hombre! Se mi mettessi a correggere di cui mi parli, per accordare le parole con delle regole che non hanno nulla a che vedere con me, ciò che è mio si perderebbe nella grammatica che non ho mai assimilato; preferirei inventarne una per la mia fantasia, piuttosto che costringere le mie parole in un ordine che non mi è proprio”.
E così, come nella pittura adatta l’oggetto a sé, nella poesia adatta il linguaggio poetico a sé: quindi la grammatica si trasla e diviene la sua grammatica, in parametri formali che si stendono in una direzione automatista, rimanendo però sempre attaccato alla realtà. E su questo proposito Breton dice: “Il segreto dello sviluppo di tali immagini (parla delle immagini, appunto, della poesia picassiana) è assolutamente riconducibile a ciò che noi sappiamo già di tante ammirevoli nature morte. Nulla sarebbe più falso e ritenuto più falso del loro autore quanto il pensare che esse, poiché sono poetiche, non prendano come punto di partenza la realtà”.
Ed è proprio in questa realtà pittorica legata alla cromatura forte e violenta che si delinea la poetica picassiana. Ma intrappolare un’intera in un solo contesto è un errore critico e Moreno Villa l’ha ben capito dando dei motivi che sono il dinamismo, il sesso, la gastronomia, lo spagnolismo, la condizione di pittore e infine l’istinto, la crudeltà ed infine io vi aggiungerei il tempo, poiché per Picasso noi siamo prigionieri del tempo, che passa irrimediabilmente e l’orologio sembra come glissarlo, difatti interviene subito una poesia dello stesso Picasso a far vedere l’immagine:
Le ore cadono nel pozzo
e s’addormentano per sempre
ogni orologio che batte la sua campana
sa già ciò che è
e non si fa illusioni.
Da qui la prigionia del dinamismo di un tempo eracliteo, che muta e trasmuta in un continuo sciogliersi e divenire. E quindi tutto diviene dinamico in un costante climax, in una ritmica irrazionale, ma fin troppo chiara, caotica, ma assai ordinata e il movimento diviene parte integrante del soggetto e dell’oggetto.
E l’oggetto sarà il sapore semplice, netto, il gusto della realtà- anche se poi si ripete fino a stonare, ma probabilmente se stona ci fa più che bene, perché liquida la razionalità e l’astrattismo imposto, quindi Picasso non può dirsi intellettuale, perché costantemente legato alla percettività, ai sensi, ma lì vi si profila la saggezza, come nello sguardo trinscipitale teorizzato da Mandel’štam.
Figure, figure, e ancora figure in una multiformità di sesso che trasuda sadismo e questo sadismo condensato nel fare sessuale, grezzo, di Picasso diviene una cifra altisonante della sua arte e della sua poetica, così diverrà esteriorizzata la crudeltà in poesie come Sogno e menzogna di Franco. Ed a ciò si aggiunge un impegno politico che si ravvisa in Guernica (figure nette, troncate, semplici, ma ben delineate) o in Massacro In Corea.
Ed a proposito in un’intervista fatta da Simone Tery, Picasso precisa un punto di fondamentale importanza per comprendere la sua arte e il punto focale di un Grande Artista: “Che cosa credete che sia un artista? Un’imbecille che ha solo gli occhi se è un pittore, le orecchie se è un musicista, e una lira a tutti i piani del cuore se è un poeta, oppure, se è un pugile, solo dei muscoli? No, egli è anche un uomo politico, costantemente sveglio davanti ai laceranti, ardenti o dolci avvenimenti del mondo, e che si modella totalmente a loro immagine”.
E poi si presenta quello spagnolismo nell’artista italo-spagnolo, (Picasso, cognome preso dalla madre, era genovese) che va a formare un linguaggio, una cultura, un gusto imprescindibilmente iberico, raffigurato nella semplicità, come in contemporanea poeti attivisti come Lorca facevano. Importante è l’identità col senso di povertà, così tanto che vi è un progressivo voler tornare nella povertà, avendo preoccupazioni più importanti, ma tranquillità meno fittizie, ed è strano che il pittore con la valuta più alta sia di una consapevolezza così lineare, che sembra sfiorare il parossismo.
Ed è lì, solo sul finale, che Picasso, raggiunge la meta che già Blake aveva ben tracciato: l’essere Bambino.
«C’ho messo 4 anni a dipingere come un adulto, ce ne ho messi 80 a dipingere come un bambino»: ed allora quando diviene bambino raggiunge, come Osip Mandel’štam con gli insetti, la consapevolezza degli oggetti tridimensionali.
(Valerio Gaio Pedini)
(Poesie tratte da Scritti SE, Saggi e documenti del Novecento, a cura di Mario De Micheli)
UNA LINGUA DI FUOCO
Una lingua di fuoco soffia sul suo volto
nel flauto della coppa
che mentre gli canta rode la pugnalata dell’azzurro
così allegro
che seduto nell’occhio del toro
iscritto nella sua testa ornata di gelsomini
aspetta che la vela gonfi il frammento di cristallo
che il vento avvolto nella cappa delle mandoble
gocciolante di carezze
distribuisca il pane al cieco e alla colomba color lillà
e prema con tutta la sua cattiveria
contro le labbra del limone fiammeggiante
il corno ritorto
che spaventa coi suoi gesti d’addio la cattedrale
che sviene tra le sue braccia senza un applauso
mentre scoppia nel suo sguardo la radio risvegliata dall’alba
che fotografando nel bacio una cimice di sole
mangia l’aroma dell’ora che cade
attraversa la pagina che vola
e disfa il mazzo dei fiori
che porta via stretto fra l’ala che sospira
e la paura che sorride
il coltello scattante di gioia
lasciandolo anche oggi ondeggiare come gli pare e piace
nel momento preciso e necessario
in cima al pozzo
il grido del rosa
che la mano gli getta
come una piccola elemosina.
(28 novembre 1935)
CORRIDA
Raccogliendo elemosine nel suo piatto d’oro
vestito da giardino
il torero è già qui
sanguinando tra le pieghe della cappa
e ritagliando stelle con cesoie da rose
il suo corpo scuote la sabbia dell’orologio
nel quadrato che scarica sulla piazza
l’arcobaleno
ventilante la sera del parto
senza dolore nasce il toro
agoraio delle grida
che fanno selva al pendio della strada
gli applausi bruciano nel loro fragore dentro il tegame
le mani muovono l’aria di cristallo
la corona di bocche
gli occhi uccelli del paradiso
che le bandiere della mano
gettano sull’orlo del tetto
scende per la scala sospesa al cielo
avvolto nel suo desiderio
l’amore
e bagna i piedi nella barriera
nessun campione sulle gradinate.
I QUADRI
I quadri sono donne pazze
appuntati sul cuore
delle bolle scintillanti
per gli occhi stretti alla gola
dal colpo di frusta carambolesco
che agita le ali
intorno al quadrato del suo desiderio.
SOGNO E MENZOGNA DI FRANCO
Fandango di civette salamoia di spade di polpi di malaugurio strofinaccio di peli di tonsure ritto nel centro di un tegame a coglioni nudi
posto sul cono del gelato di merluzzo fritto della rogna del suo cuore di bue
la bocca piena della gelatina di cimici delle sue parole
sonagli del piatto di lumache che intrecciano budelle mignolo in erezione né carne né pesce
commedia dell’arte di mal tessere e tingere le nuvole prodotti di bellezza del carretto delle immondizie
ratto di fanciulle in lacrime e singhiozzi
sulla spalla la bara colma di salsicce e di bocche
la rabbia torcendo il disegno dell’ombra che lo frusta i denti inchiodati nella sabbia e il cavallo aperto da parte a parte al sole che lo legge alle mosche che imbastiscono ai nodi della rete piena di acciughe un razzo di gigli
torcia di pidocchi dove si trova il cane nodo di topi e nascondiglio del palazzo di vecchi stracci
le bandiere che friggono nel tegame si contorcono nel nero della salsa d’inchiostro sparsa nelle gocce di sangue che lo fucilano
la strada sale sino alle nuvole attaccata per i piedi al mare di cera che imputridisce le sue viscere e il velo che la copre canta e danza folle di dolore
il volo di canne da pesca e alhiguì ahlihuì del funerale di prima classe del furgone di sgombero
le ali spezzate rotolano sulla tela di ragno del pane secco e dell’acqua chiara della zuppa di zucchero e velluto che dipinge il colpo di frusta sulle sue guance
la luce si nasconde gli occhi davanti allo specchio che le fa il verso e il pezzo di torrone delle fiamme si morde le labbra
gridi di bambini gridi di donne gridi di uccelli di fiori di travature e di pietre gridi di mattoni gridi di mobili di letti di seggiole di tendine di pentole di gatti e di carte gridi di odori che si graffiano gridi di fumo che pongono alla gola i gridi che cuociono nella caldaia i gridi della pioggia d’uccelli che inondano il mare che rode l’osso e si rompe i denti mordendo il cotone che il sole che il sole intinge nel piatto che il borsellino e la borsa nascondono nell’impronta che il piede lascia sulla roccia,
APPESO AL COLLO DELLA CORDA
Appeso al collo della corda
appeso perché le sue dita sono raggi di luce azzurra gialla verde arancione
vezzosa
il disegno sinuoso avvolge il dito e lo morde fino al sangue delle sue gengive senza denti
silenziosa
poiché la corda all’estremità della quale essa sta in equilibrio le frusta le cosce e solletica
tra le dita dei suoi piedi la cenere del quadrante dell’orologio sospeso alla fiamma della
candela
odorando di buono la verbena
la cavalcata dei piatti delle forchette dei cucchiai degli strofinacci da cucina messa sul
fuoco scoppiettante e scalciante tra le stanghe che mordono le mani appiccicose del carcere
le braccia liquide
sono le braccia della parola appena uscita dalle labbra e già ebbra della poca attenzione
avvolta nel cotone idrofilo del motivo musicale che si trascina sul cuscino
spruzzando le gocce di sudore
viene a dire amore dolore e un po’ dell’odore del sandalo del ventaglio
suonando l’allarme
immagino un carro d’erbaiolo tirato da giovenche di rosso che imitano i mattoni di un muro
al fascio di luce
uguale a 137.840 meno il bollo messo sull’orlo della sua veste di sposa
incollati alle tempie
le luci attraverso le persiane fucilate dalle ceste dei mandarini messe sul tavolo della sala da pranzo già morte
i riflessi dello specchio bussano alla porta
né carne né pesce come dicono
nascondendo l’aroma dei raggi dell’arcobaleno
ordine nelle idee odore di carbone accecato dalla luce dei fari d’automobile che arrivano a
staccare i raggi incollati alla chiglia del battello staccandosi dal soffitto e servito caldo su
di un lenzuolo gettato sopra la poltrona
ai voli dei colombi
le armi dei cittadini morti inutilmente sepolte nella terra e divoranti i vermi dei cadaveri
incrociando i conti del carbonaio
sentire lontano in campagna le grida di tre bambine attaccate dalle vipere
arrivano al momento giusto
la lettura ad alta voce dell’elenco dei numeri vincenti della lotteria nazionale.
così su Picasso :
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3° poema (di un) idiota
Ecco
sarò io un poeta?
Un nuovo poeta?
Ma dilaniato dalle masse
come uno Stefano…
non esulto!
Sono un truciolo
così piccolo
così inerme
che nell’orecchio del critico grasso
– falso avvocato dei poeti –
s’affonda un odioso giudizio:
come vi permettete d’essere un grande poeta!
La mia parola
furiosa levatrice:
buffoni!
Tutti i poeti sono buffoni!
E sarò anche Dante
se volete
e sarò questo e quello
e ancora un altro!
E sarò un piccolo nulla
per farvi piacere
perché voi possiate costruire
balocchi e balocchi di giudizi infantili
perché voi possiate erigervi
a leccati inquisitori
porporati
con in petto la croce del giudizio finale!
Si, è vero, non è il mio stile
essere un originale poeta
ma dai cancelli azzurri dell’universale
si fanno avanti ratti e gatti
mai così compagni!
mai così sciacalli!
Io non canto
non posso cantare il vostro ritratto
melenso
non è necessario rivoltarsi:
la cucina dei versi
manca del sale e del pepe
si origlia
ci si frantuma
per meglio dividersi
la stima pagata
la misera gloria
d’una discreta minestruzza di parole!
Ho distrutto 10 anni
di vita esemplare.
Non credo
non si può essere poeti:
la prospettiva è buffa.
I versi hanno messo le radici:
ma di quale poeta?
Noi
che abbiamo strozzato l’anno
del suo primo giorno
rifiutiamo gli ismi!
Concordate, dunque,
che ismo e ismo
sono due rette
soltanto due orientamenti
soltanto due direzioni.
Tutte le cose
son lì
lecchine alla parola.
Non schizzate lagrime!
Non esaltate minuzie!
L’arte è sottile:
morì Picasso
dopo Guernica!
Se vuoi riallacciarti
al presente reale
devi darti alla poesia mondiale.
Tutti cantano:
poesia,
alle tue bianche rive musicali…
a.s.
Roma, 1969- 1970
Mi sono piaciute molto le poesie di Picasso, c’è tutta la vigoria dei suoi dipinti, la scomposizione delle immagini che in gran parte li caratterizzano, sono vive, pregnanti. Bella la poesia de La donna seduta, precisa fin nei minimi particolari. Bisogna ringraziare ancora una volta la perizia di divulgatore di Giorgio Linguaglossa che, al suo valore di autore e di critico, accompagna la ricerca di testi che raramente avremmo potuto conoscere.
Lidia Are Caverni
la proposta è stata mia. Anzi, vi consiglio di comprere il libro. mi scuso per qualche mio svarione ortografico, che avevo anche sì corretto, ma mi dimenticai di spedirlo a Giorgio.
l’ultima poesia, purtroppo per la grafica del blog, diviene illeggibile. La poesia venne scritta in due momenti diversi. E si potrebbe leggere anche separando le descriozini delle strofe più lunghe da quelle più corte, poiché le strofe più lunghe vennero scritte in un secondo momento, come aggiuntivo.
Non conoscevo. Grazie.
“senza dolore nasce il toro
agoraio delle grida
che fanno selva al pendio della strada”