L’uso della metafora negli haiku di Tomas Tranströmer e dei classici giapponesi, a cura di Giuseppe Gallo, con una Chiosa di Giorgio Linguaglossa

Marie Laure Colasson Struttura dissipativa 74,5x28 2021

Marie Laure Colasson, Struttura dissipativa, 75,5×28 cm. acrilico su tavola, 2021

Strilli Transtromer Prendi la tua tomba

Gli haiku di Tomas Tranströmer

di Giuseppe Gallo

Tutti gli haiku dovrebbero essere “profondi abissi di pensiero!”, cosi diceva Maria Cristina Lombardi, a proposito degli haiku di Tomas Tranströmer, nella presentazione ai lettori italiani di Il grande mistero, (Crocetti Ed., Milano 2011, p. 7).
Un abisso ricavato attraverso similitudini e metafore, immagini primarie e secondarie, per mezzo di un linguaggio simultaneamente astratto e concreto. In Tranströmer, afferma sempre la Lombardi, “La comprensione” di queste invenzioni e metamorfosi, di questi “richiami a figure ritmico-sonore” e ad «espressioni metaforiche bimembri presuppone conoscenze di mitologia nordica perché, ad esempio, l’oro, che in quella mitologia viene designato come “fiamma dell’onda», per un lettore italiano risulterebbe incomprensibile. Ecco un haiku di Tranströmer, dove egli «cerca di afferrare gli istanti luminosi che gli rivelano nuove dimensioni di significato, squarciando l’immenso mistero che circonda l’uomo con metafore che scompongono, comprimono, fondono e ricreano» (op. cit. p. 9).

“shiragiku no me ni tatete miru chiri mo nashi

.
Guardando attentamente
i crisantemi bianchi–
non un granello di polvere”


Guardando attentamente, anche noi troviamo che lo haiku in questione è costruito, come pure quello Tranströmer, sulla esposizione di due immagini, sulla loro interazione e sulla loro capacità evocativa all’interno della cultura di riferimento. Per noi occidentali il crisantemo evoca la morte, il granello di sabbia, l’infinitamente piccolo, l’atomo della materia e l’attimo del tempo, si pensi alla clessidra…
Ebbene, in questo caso, “Bashō si sta complimentando con l’ospite (Sonome), rappresentato dai crisantemi bianchi, mettendo l’accento sui fiori e, per allusione, alla purezza dell’ospite stesso. Possiamo dunque concludere che ogni “vedere” presuppone anche una cultura. Oggi che viviamo in un’epoca in cui è caduta ogni ideologia, ogni barriera e ogni distinzione tra i piani linguistici e le forme dei pensieri, tutto sembra cadere nel caos dei fenomeni, delle ambiguità e del paradosso. Ogni immagine non è più immagine di se stessa, ma di altro e lo stesso “principio di identità”, ormai è un principio in disuso, mi viene da chiedermi: cos’è la metafora? Che rapporto esiste tra la metafora e l’immagine? “Di che materia sono fatte le immagini?” Chi viene prima, l’immagine o il pensiero? Che funzione svolge, la metafora, all’interno della forma haiku? Ricordate l’interrogativo di Shakespeare: “Di che materia sono fatti i sogni?”
La domanda di fondo è sempre la stessa. Anche noi possiamo chiederci, insieme a Tranströmer, di che materia sono fatte le parole? E perché il mondo ci appare come “un grande mistero”? E’ il mondo una immensa metafora? E perché la metafora sorregge le nostre domande e le nostre risposte? Perché la metafora elaborata in un presente, momentaneo e fugace, scompiglia il fluire del tempo, incidendo il passato e preconizzando il futuro? È la metafora a veicolare la poesia o l’arte in genere?


“In fondo, volendo essere radicali,” afferma Gianna Chiesa Isnardi “la parola stessa non è forse metafora della realtà,…?” (T. Tranströmer, La lugubre gondola, a cura di Gianna Chiesa Isnardi, Bur Rizzol, 2011, p. 97) E tale realtà non è data dalla parola? E la parola non è fondata sulla immagine che contiene? E il nostro pensare non è forse “un pensare attraverso le immagini” contenute nella parola? È evidente allora che “la metafora rinvia al linguaggio della percezione e a quello figurativo” (T. Tranströmer, op. cit., p. 98); che la metafora avvia “l’esplorazione dei legami inaspettati fra le cose del mondo e fra esse e l’uomo…” ( op. cit., p. 99); e che non ci può essere metafora senza “un secondo termine di paragone, uno specchio.” , (op. cit, p. 99). Specchio che significa riflesso di un’immagine, fusione, confusione e divergenza. In definitiva, ogni parola contiene se stessa nella duplicità delle proprie ombre, sotto l’aspetto del “significato” e del “significante”. Entrando nelle parole è come se entrassimo in quello specchio, rifratto e frammentario, ambiguo e misterioso, che è il linguaggio. Entriamo nell’ enigma. Nel vero e nel falso. In quella metafora che tenta di svelare “ciò che sta “dietro le parole” (op. cit, p.101). “Cosa sei tu, dietro te stesso?” si chiedeva Freud. Riusciremo mai a saperlo? Riusciremo mai a tagliare il nodo gordiano di questa ambigua domanda? “Quel che possiamo fare, suggerisce Agamben, è riconoscere… che “il nucleo originario del significare non è né nel significante né nel significato, né nella scrittura né nella voce, ma nella piega della presenza su cui essi si fondano: il logos, che caratterizza l’uomo in quanto zoon logon echon, è questa piega che raccoglie e divide ogni cosa nella commessura della presenza. E l’umano è precisamente questa frattura della presenza, che apre un mondo e su cui si tiene il linguaggio.”(Giorgio Agamben, Stanze, pp. 187-188) Ebbene, cos’è “questa frattura della presenza” che ci permette, a oriente e a occidente del mondo, di rapportarci con le cose della nostra storia quotidiana? Giorgio Agamben risponde che «La presenza» è sempre la manifestazione di qualcosa che rimane nascosto e, proprio perché nascosto e impensato, diviene il «fondamento», ovvero il substrato “metafisico”, che sorregge le forme e i valori attraverso i quali noi pensiamo la realtà che ci circonda e interagiamo con essa. Che sia la metafora la porta di accesso a questo “fondamento”? E la frattura dov’è? È nel rapporto tra S/s: Significato su significante. Ecco perché il “significare” non è né nel Significato e né nel significante, ma nella loro separazione, nella loro divisione e nel vuoto che li sostiene. E di cosa è fatto questo vuoto? Quando si ha a che fare con le parole non possiamo far altro che ingoiare la nostra origine e mordere la nostra coda. Sì, perché ogni comprensione di noi stessi avviene solo attraverso il nostro linguaggio. Il linguaggio è mediazione! Ovvero metafora. Di parole parlate, gridate e sussurrate. L’uomo è l’essere vivente che parla, precipitando dalla Torre di Babele, balbettando di sorpresa e di stupore, e in piena confusione per aver perso le parole della originaria comunicazione con l’altro.
Il linguaggio è solo “frattura” e “separazione” tra S/s e, quindi, vuoto che enuncia la presenza-assenza di un logos, oppure il linguaggio in cui ci perdiamo può esserci di aiuto per l’esperienza della realtà? In effetti, tutto ciò che noi abbiamo esperito o possiamo esperire, del nostro essere nel mondo e di noi stessi è diventato, e diventa, linguaggio! Il linguaggio, allora, non è solo “frattura”, separazione e vuoto, ma può essere inteso anche come rapporto con gli oggetti, e quindi con la realtà, quella che sta davanti a noi e che noi tentiamo di comprendere e di sondare e non solo in senso descrittivo, ma anche come fondamento dell’esistere, perché solo nel linguaggio si può enunciare la maschera “veritiera”, ma momentanea, della realtà. Solo su questa base si può cogliere ciò che emerge dal reale.
Ecco un esempio dove la metafora svolge la funzione per cui è nata.


…. Sono trasportato dentro la mia ombra
come un violino
nella sua custodia nera.

L’unica cosa che voglio dire
scintilla irraggiungibile
come l’argento
al banco dei pegni.

(T. Tranströmer, La lugubre gondola, op. cit., p. 13)

La metafora, dunque, ha la funzione di arpionare le sembianze, i realia, della natura, ridurre queste “macchie” a nostra rappresentazione, rendendole soggettive ed oggettive, nell’illusione che possano contenere, non solo il vuoto, ma anche, gli emblemi della nostra stessa esistenza.
*
Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

Un esempio indiscutibile di come sia mutata la percezione del mondo dell’uomo contemporaneo. Il quale guarda le cose con sguardo diretto, e non vede niente. Infatti, il poeta svedese impiega sempre lo stile nominale, chiama subito le cose in causa e, in tal modo, causa le cose, le nomina, dà loro un nome. Entra subito per la via sintattica più breve dentro la cosa da dire. Perché nel mondo totalmente oscurato non c’è più tempo da perdere. Nel mondo degli ologrammi penduli non c’è più spazio per gli argomenti in pro della colonna sonora. Nel mondo totalmente oscurato chi parla di Bellezza non sa che cosa dice, o è un imbonitore o è un falsario. Oggi il miglior modo per concludere una poesia è: «Tutte le porte chiuse. L’aria grigia». Chiudere. Chiudere le finestre. Chiudere le porte. Sbarrare gli ingressi.
Scrivere su un cartello, in alto, sopra la porta d’ingresso:
«Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.»

Strilli Transtromer le posate d'argento

Strilli Transtromer Ho sognato che avevo

Il mondo è diventato un labirinto
di Giorgio Linguaglossa

Due verità si avvicinano l’una all’altra. Una viene da dentro, una viene da fuori
e là dove si incontrano c’è una possibilità di vedere se stessi.

*
Talvolta si spalanca un abisso tra il martedì e il mercoledì ma ventisei anni possono passare in un attimo: il tempo non è un segmento lineare quanto piuttosto un labirinto, e se ci si appoggia alla parete nel punto giusto si possono udire i passi frettolosi e le voci, si può udire se stessi passare di là dall’altro lato.

*
Che cosa sono io? Talvolta molto tempo fa
per qualche secondo mi sono veramente avvicinato
a quello che IO sono, quello che IO sono.
Ma non appena sono riuscito a vedere IO
IO è scomparso e si è aperto un varco
e io ci sono cascato dentro come Alice.

*
Lasciare l’abito / dell’io su questa spiaggia, / dove l’onda batte e si ritira, batte // e si ritira.
*
Una fessura / attraverso la quale i morti / passano clandestinamente il confine
*
Ho fatto un giro attorno alla vita e sono ritornato al punto di partenza: una stanza vuota

*
… una mattina di giugno quando è troppo presto per svegliarsi e troppo tardi per riaddormentarsi…

*
… e dopo di ciò scrivo una lunga lettera ai morti
su una macchina che non ha nastro solo una linea
d’orizzonte
sicché la parole battono invano e non resta nulla

*
Io sono attraversato dalla luce
e uno scritto si fa visibile
dentro di me
parole con inchiostro invisibile
che appaiono
quando il foglio è tenuto sopra il fuoco!

*
Leggevo in libri di vetro…

*
Stanco di tutti quelli che si presentano con parole,
parole ma nessuna lingua
sono andato sull’isola coperta di neve
[…]
La natura non ha parole.
Le pagine non scritte si estendono in tutte le direzioni!

…la baia si è fatta strana – oggi per la prima volta da anni pullulano le meduse, avanzano respirando quiete e delicate… vanno alla deriva come fiori dopo un funerale sul mare, se le si tirano fuori dall’acqua scompare in loro ogni forma, come quando una verità indescrivibile viene fatta uscire dal silenzio e formulata in morta gelatina, sì sono intraducibili, devono restare nel loro elemento.

Sono versi di Tranströmer. Il problema è che il «vuoto» c’è, e chi non lo ha mai intravisto o non ha mai avvertito quel brivido sulla schiena, non potrà mai esperirlo; il problema è percepirlo e saperlo mettere sulla pagina. Il «vuoto» della civiltà moderna non lo ha inventato la nuova ontologia estetica, c’era già prima della Nuova Ontologia Estetica.
Nella poesia transtromeriana lo spazio assume una configurazione temporale e il tempo una configurazione spaziale. Siamo nel labirinto. Che cos’è un labirinto? È un complesso sistema di stanze, di corridoi intricati e misteriosi, bianche pareti, porte che aggettano su stanze vuote o popolate da esseri simili a noi, e anche da mostri, da fantasmi, da sosia anche loro alla vana ricerca di una via di uscita; e ancora porte, finestre, stanze, un caleidoscopio di pareti che si incrociano, si intersecano, stanze che non hanno più un centro, stanze che aggettano ad altre stanze. Il labirinto è uno spazio bianco. Un luogo in cui l’uomo ancora una volta si trova separato dall’ingombrante presenza del non-io e costretto a cercare la soluzione dentro il sé, in un groviglio inestricabile di porte e di finestre. Un luogo in cui l’io è costretto a cercare il centro, trovare il proprio, appropriarsi del proprio.
Il labirinto è un luogo inospitale. Forse creato dagli uomini per far perdere le tracce del delitto (l’uccisione del Minotauro?); è un luogo impossibile da abitare. Un luogo chiuso, circondato di pareti e porte, dove non v’è nessuna porta che conduca all’uscita. Non v’è uscita. Come non v’è uscita dal proprio «io» intorno al quale ci affatichiamo inutilmente. L’«io» è uno spazio vuoto, come il labirinto, anch’esso uno spazio vuoto.
Sì, la poesia della crisi; ebbene, quella crisi si è rivelata una autentica fortuna. E indicavo quei due versi di Tomas Tranströmer che hanno cambiato il mondo della poesia, quelle righe de La lugubre gondola (1996) mentre le 17 poesie sono del 1954:

Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
giù nel profondo dove l’Atlantico è nero.

Di quel Tranströmer del 1954 nessuno in Italia tradusse quelle poesie se non dopo quaranta anni. E così la poesia italiana ha continuato a fare poesia dell’io, poesia del suffragio universale, dello scetticismo prioritario, della superficie superficiaria, della superfetazione del quotidiano. La mancanza di principio è diventata una posizione di principio, una petizione di principio. La «nuova ontologia estetica» ha semplicemente preso atto dell’eclissi della poesia dell’io e ne ha tratto le conseguenze. La «disseminazione» e la de-fondamentalizzazione del soggetto e dell’oggetto sono diventate una ricchezza imprevista; la distassia e la dismetria sono diventate una insperata risorsa, e il linguaggio poetico, di colpo, si è rivitalizzato. Astuzia della ragione. Quella che era la poesia in crisi, la poesia della crisi, ebbene, quella crisi si è rivelata una autentica fortuna! È paradossale dirlo: è stata la crisi della poesia che ha prodotto una nuova forma-poesia.

22 commenti

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22 risposte a “L’uso della metafora negli haiku di Tomas Tranströmer e dei classici giapponesi, a cura di Giuseppe Gallo, con una Chiosa di Giorgio Linguaglossa

  1. Francesco Paolo Intini

    D’ESTATE A SANT’ELENA

    La grande armèe contro lo zar
    Segue il congresso di Vienna e dunque

    Napoleone trionfante guadagna punti
    Il posto in tribuna, una nuova moglie senza figli Re.

    Belli e con Bukowski sottobraccio alla fiera del libro.
    Ah la generazione cresciuta senza Metternich

    L’aufbau delle inezie nelle stanze azzurre
    I figli gobbi, le baionette tonde,
    la seta da una ragnatela all’altra
    e ballarci sopra fino all’alba. Champagne!

    Alle 13.00 visita guidata alla villa di Wellington
    dove il poveretto spirò. Ei fu.

    Guido Galdini

    LAVORI DOMESTICI DIECI. IL NASTRO ADESIVO

    non è propriamente un lavoro domestico
    ma è comunque una necessità casalinga
    staccare l’estremo lembo del nastro adesivo
    che aderisce cocciuto alla restante parte del rotolo

    inizi a sfiorarlo con cura, a lusingarlo
    avvertendo ai polpastrelli quel minuscolo gradino
    che provvedi a scalfire con l’unghia, a sollevarlo
    pian piano, prima che si mostri offeso e si laceri

    conquista intera la sua fiducia
    fallo partecipe di una necessità superiore
    perché conceda qualche centimetro del suo corpo
    alle tue mire di sigillare e rinchiudere
    così urgenti quando non basta scolorire.

    LAVORI DOMESTICI UNDICI. IPOTESI DI LAVORO

    chiudere i cassetti o lascarli socchiusi
    per distrazione o per scelta
    è un’abitudine che diventa una teoria
    man mano veniamo a patti con le maniglie

    dentro i cassetti ci sono fatti che ci riguardano
    tenerli a bada con tutti i nostri recinti
    è certo la più opportuna delle conquiste
    ma nemmeno dimenticarli è un’opzione da trascurare
    specie quando le chiavi sono una forma di conoscenza
    senza dover ricorrere all’astuzia dei grimaldelli.

    La mutazione della «forma-poesia»

    I «lavori domestici» di Guido Galdini sono originalissimi, infatti non c’è niente in giro di simile, anzi, Galdini «chiude» il minimalismo all’angolo e apre così una altra strada alla «poesia da cucina» inventando un suo post-minimalismo delle cose da cucina e degli oggetti da cucina, di tutte quelle cose, documenti etc. che ci riguardano da vicino e sono indispensabili per la nostra esistenza giuridica e documentale.
    Il lavoro destrutturante la razionalità della struttura lineare della poesia di Francesco Intini è altrettanto importante perché mette un alt, uno stop alla forma-poesia commento, alla glossa e alla interpretazione; è vero il contrario: che non tutto è interpretazione e che c’è un nocciolo duro che sfugge sempre alla interpretazione, mettendo così fuori gioco uno dei capisaldi del pensiero post-moderno.

    La razionalità della struttura sintattica lineare della poesia del tardo capitalismo corrisponde ad una concezione «razionale» dell’economia e quindi del rapporto tra il soggetto e l’oggetto e del soggetto con la produzione di merci che corrispondevano ai bisogni e ai desideri del consumatore.
    Con la crisi della produzione e del consumo che ha investito i paesi de capitalismo post-industriale dell’Occidente in questi ultimi due decenni, quel tipo di produzione artistica incentrata sulla razionalità della soggettività psicologica mette a nudo i propri limiti. Quella razionalità strumentale è avvertita adesso come costrizione, impedimento, intralcio; all’improvviso, diventa rigida e inflessibile. Al suo posto subentra l’emotività, che si accompagna alla ideologia della libertà quale mezzo per il libero sviluppo della persona.

    Nella poesia di Tomas Tranströmer la libertà della soggettività entra in crisi irrimediabile già con l’opera di esordio del poeta svedese con 17 poesie del 1954. Il poeta svedese inaugura una poesia dell’esistenzialismo e si guarda bene dal fornire qualsiai glossa o commento a ciò che la sua poesia mette in evidenza, si guarda bene dal fornire una qualsiasi psicologizzazione dell’esistenza umana, anzi, de-psicologizza e oggettivizza la vita dell’inconscio attraverso fulminanti metafore e traslati.

    Essere liberi implica dare libero sfogo alle emozioni. Ilcapitalismo finanziario dell’emozione strumentalizza la libertà: la libera esternazione (interiore ed esteriore) dell’emozione è salutata come espressione della libera soggettività interpretata come complessificazione emotiva ed emozionale della personalità.

    L’ideologia del potere neoliberale strumentalizza proprio questa libera soggettività delle emozioni e della psicologia. La razionalità è contraddistinta da oggettività, universalità, era un tempo un argine all’emotività, che è qualità squisitamente soggettiva, situazionale e volatile. Le emotività emergono soprattutto nel mutamento degli stati psichici, nelle modificazioni della percezione; il razionalismo rappresentativo di un Tranströmer predilige una forma-poesia de-psicologizzata.

    L’economia neoliberale, che abbatte sempre piú la continuità in vista dell’incremento della produttività e introduce una sempre maggiore instabilità e precarietà, accelera la trasformazione emotiva del processo di produzione. Anche l’accelerazione della comunicazione favorisce la mutazione emotiva, la precarietà e la volatilità dell’emotività.
    Cosí, la pressione verso l’accelerazione porta a una dittatura dell’emozione e dell’emotività.
    Il capitalismo finanziario fa sempre più riferimento agli aspetti emotivi della pubblicità, del design, della moda e del consumo; il consumo, strumentalizza e mette a profitto le emozioni e l’emotività inconscia il cui scopo è suscitare un maggiore stimolo all’acquisto e piú bisogni. Il design e la moda diventano emotivi, non si fanno scrupolo ad utilizzare la nostra predisposizione per le emozioni, plasmano modelli emotivi per massimizzare il consumo. È finito il capitalismo che invitava al consumo degli oggetti, oggi la produzione si affida piuttosto alle emozioni e alla libera emotività, per la semplice ragione che gli oggetti non possono essere consumati all’infinito, le emozioni invece sí. Le emozioni si sviluppano al di là del valore d’uso: aprono, in questo modo, un mondo, un nuovo e infinito campo per il consumo. Il capitalismo della società post-moderna, dove ogni «oggetto» ha il suo posto nel mercato ed è funzionale alla soddisfazione del consumo, è stato sostituito con il capitalismo emotivo costruito per rendere funzionali le emozioni, le emotività, funzionali al profitto.
    Questi cambiamenti epocali hanno influito sulla forma-poesia e sugli oggetti d’arte rendendo le forme ancora più instabili e precarie. È la stessa struttura del discorso della poiesis che è diventata instabile e precaria.

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  2. https://twitter.com/i/status/1420737679830896647

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  3. Tiziana Antonilli

    Due parole sull’idea di ‘frattura della presenza’. Agamben dice che ‘ la presenza è sempre la manifestazione di qualcosa che rimane nascosto’. E’ noto che è proprio l’assenza la più alta forma di presenza, possiamo sperimentarlo nella nostra vita quotidiano, quando a una cena, per esempio, chi manca è il più presente. Anche in poesia il non detto diventa più importante del detto. Penso ai versi di Emily Dickinson :Heavenly hurt it gives us /we can find no scar / but internal difference / where the meanings are. ( da ‘ There’s a certain slant of light ‘ ) dove l’internal difference può essere proprio la frattura in cui ci sono i significati , il ‘fondamento ‘ di cui parla Agamben.
    Ultima osservazione, se è presente la parola ‘ come’ a mio avviso siamo in presenza di una similitudine, non di una metafora.

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  4. Inediti da HORCRUX
    posted luglio 29, 2021 by MARIO M GABRIELE

    http://mariomgabriele.altervista.org/inediti-da-horcrux-2/#comment-314

    1

    Le signorine del Banco dei Pegni
    avevano da fare con l’Anti-Age.

    Domenica, ridurremo Guernica
    nella misura di 50×70
    attivando i film cult nel backstage.

    Susanna Clarke lasciò schizzi di fantasia
    con Piranesi nella forma storytelling.

    Con un account on line
    riuscimmo a trovare la strada a nonno Vincent
    illuminandogli la notte.

    Non ci sono proposte avantgarde
    dopo la fine di Baldus.

    Riprendiamo a leggere le lettere
    di Rilke a Magda von Hattingberg
    per capire l’oscillazione del confidenziale.

    Il violinista di Jacrek Kaspszyk
    ha accompagnato Wagner con due sole note
    come l’universo col Big Bang.

    Erik ha spedito i fondamenti dell’Essere
    a Klutz Nabof,
    Editor, Klostermann Frankfurt a. M.
    come linguaggio e tempo finale.

    Ciò che accade ora
    dipende da dove viene l’Abgrund?

    Non a caso La bella Elena
    si presentò a Offenbach à la Vie Parisienne.

    2

    Il libro aveva eccipienti verbali
    per un cocktail frappè.

    Il giorno in cui Kerry si avventurò nell’ermeneutica
    dimenticò Lévi Strauss e Marx.

    In area anglosassone recuperammo i lessemi
    blockchain developer.

    Tutto questo per suggerire a Molly
    di non sfogliare il vocabolario
    per cercare l’origine di culture europee.

    Essendo chiusa la pinacoteca
    ci fu con Antebellum la mostra degli orrori
    del sottoproletariato in USA.

    C’è una pandemia in giro che vuole aiutare la Morte
    nel suo lungo cammino per il Mondo.

    Siamo di nuovo a parlare di thriller
    e di stagisti nel cercare i quadri falsi di Monet.

    Beson si agganciò a Les Fleurs du Mal
    per non essere metafisico come Padre Bernard.

    Il papillon nero di Mister O’Briam
    era per ricordare Fukushima.

    La notte in cui scomparve il passero solitario
    tornò l’effetto buio con le Centurie.

    Dura ancora il Processo a Josef Kafka.
    Nicol Bouvet è pessimista.

    Jakobson ha messo in solitudine
    i temi dichiarativi e metafisici
    assieme ad Alexandre Radichtchev
    e Bertolt Brecht
    con i versi Kalashnikov.

    Questa sera, se credi, ci fermeremo al Caffè Zaire
    e avremo modo di contattare Antonin Artaud
    con i suoi versi in Le Livre à venir.

    È una classica poesia della Fine della metafisica e della Fine dell’Ermeneutica. È un classico dell’epoca post-Covid. E come ogni classico non si discute.

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  5. Fino al 2012, quindi circa dieci anni or sono, scrivevo ancora poesie a tematica esistenzialistica. Cercavo di indagare le problematiche dell’esistenza degli uomini del mio tempo. Dopo quella data qualcosa di determinante è cambiato, mi resi conto che non era più possibile scrivere una poesia o un romanzo esistenzialistici, e svoltai verso una nuova ontologia estetica di cui la poetry kitchen è l’ultimo e più ragguardevole esito.
    Il mondo era mutato radicalmente, e la forma-poesia non poteva restare ferma in attesa di tempi migliori. La crisi del capitalismo neoliberale mondiale e italiano del 2008 era lì, sotto gli occhi di tutti. E c’erano delle buone ragioni per non scrivere più alla maniera del soggettivismo esistenzialistico.

    Lo stato di conflittualità permanente presente nelle società a capitalismo neoliberale e la percezione di vivere in una costante guerra civile, sono i corollari del nostro odierno modo di vita, la traccia di una via permanentemente sbarrata alle istanze della coscienza critica dell’esistente. Non c’è nulla di meglio che una condizione di shock permanente per indurre gli uomini alla resa, o quantomeno ad una condizione di adattamento alle circostanze vissute come oggettive e immodificabili. È la condizione dello shock che apre le porte delle stanze costipate di armadi e di cofani dove nascondiamo gli abiti dismessi della nostra incapacità a vivere. Lo stato di shock da catastrofi che caratterizza le società neoliberali rappresenta l’opportunità, anzi il quotidiano di una nuova articolazione del dominio neoliberale. Il regime neoliberale opera mediante shock: lo shock deforma e disarma la coscienza, la rende inerme, la riduce alla difensiva e alla rinuncia a qualsiasi resistenza. Così, gli uomini paralizzati e traumatizzati dalla catastrofe permanente, si offrono supini alla nuova articolazione neoliberale del dominio.

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  6. Nella poesia di Tranströmer ha luogo, viene in evidenza, per la prima volta nella poesia occidentale, con grande chiarezza l’Evento. Che cos’è l’Evento? È qualcosa che accade in un modo che il soggetto non aveva minimamente previsto. Una volta accaduto, l’evento cambia il soggetto, lo obbliga a riformulare la sua percezione del mondo e la sua comprensione di esso.
    L’Evento interrompe e cambia alla radice ciò che si è creduto valido fino a quel momento: l’ordine esistente. L’Evento è imprevedibile e improvviso quanto un evento naturale come un fulmine in un cielo sereno. È imprevedibile e inspiegabile, eppure accade, si sottrae a ogni calcolo e a ogni previsione: dà semplicemente avvio a uno stato esistentivo completamente nuovo.

    L’Evento fa entrare nel campo del soggetto un fuori, che irrompe nel soggetto e lo strappa alla sua sottomissione. Gli eventi rappresentano rotture e discontinuità che dischiudono nuovi spazi di possibilità, di libertà. Seguendo le orme di Nietzsche, Foucault si attiene a quell’idea della storia che lascia «apparire l’evento nella sua unicità». Con evento, Foucault intende «l’inversione di un rapporto di forza», il «crollo di un potere, la ri-funzionalizzazione di una lingua e il suo impiego contro i parlanti precedenti».1 Nell’evento il soggetto parla, improvvisamente e inspiegabilmente, un altro linguaggio.

    L’Evento produce una frattura nel quadro delle certezze e delle credenze precedenti ed obbliga il soggetto ad uscire fuori della sua soggettività per formulare una nuova costellazione di senso dell’esistenza. Gli eventi sono delle svolte nelle quali si compie un’inversione, un capovolgimento del rapporto di dominio che lega ideologicamente il soggetto al mondo. L’Evento apre la possibilità di un nuovo mondo. Un avvenimento accade che introduce qualcosa che mancava completamente nello stato esistenziale precedente. L’Evento è il contrario del «vissuto» che invece promuove il ricordo e lo sistematizza in una continuità storica, in un quadro stabilizzato e positivo senza nulla aggiungere o modificare della soggettività. L’Evento è ciò che fa aver luogo l’esperienza. Senza Evento non si ha, letteralmente, esperienza. Esperienza significa trasformazione della soggettività.

    L’esperienza del poetico è una esperienza che si sostiene soltanto nell’evento del linguaggio. Tale concetto era già stato anticipato da Agamben da quello di «in-fanzia» teorizzata nel 1978: con «in-fanzia» il filosofo romano intende una esperienza del linguaggio che si dà all’interno del linguaggio stesso, che presuppone il linguaggio ma al di là di qualsiasi intenzione informativa. Agamben distinguerà, qualche anno dopo, l’esperienza di linguaggio attraverso le proposizioni proferite nel linguaggio dall’esperienza che viene fatta del linguaggio nel linguaggio. Per Agamben si ha da una parte il linguaggio come strumento di comunicazione per un dire-qualcosa-su-qualcosa, e dall’altra l’esperienza dell’aver-luogo del linguaggio in quanto tale. L’uno e l’altro aspetto non sono separabili ma si danno all’unisono. Scriverà Agamben nel 1985, «prima di trasmettersi qualcosa, gli uomini hanno innanzitutto da trasmettersi il linguaggio».2

    1 M. Foucault, Von der Subversion des Wissens ,hrsg. W. Seitter, Fischer, Frankfurt a.M. 2007, pp. 110 sgg. Ed. it. Conversazioni con Claude Lévi-Strauss, Michel Foucault, Jaques Lacan a cura di P. Caruso, Ugo Mursia, Milano, 1969.
    2 G. Agamben, «Tradizione dell’immemorabile»:. in; Id., La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Vicenza, Neri Pozza, 2005, pp. 147-162 p. 152.

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  7. UNDICI POESIE di Tomas Tranströmer – LA COSTRUZIONE DELLE IMMAGINI IN MOVIMENTO Commento di Giorgio Linguaglossa traduzioni di Enrico Tiozzo e Maria Cristina Lombardi


    da 17 Poesie (1954)

    Sotto il quieto punto volteggiante della poiana
    avanza rotolando il mare fragoroso nella luce,
    mastica ciecamente il suo morso di alga e soffia
    schiuma sulla riva.
    La terra è celata dalle tenebre frugate dai pipistrelli.
    La poiana si ferma e diventa una stella.
    Il mare avanza rotolando fragoroso e soffia
    schiuma sulla riva.

    *

    L’albero della luna è marcito e si sgualcisce la vela.
    Il gabbiano volteggia ebbro lontano sulle acque.
    È carbonizzato il greve quadrato del ponte. La sterpaglia
    soccombe all’oscurità.
    Fuori sulla scala. L’alba batte e ribatte sui
    cancelli granitici del mare e il sole crepita
    vicino al mondo. Semiasfissiate divinità estive
    brancolano nei vapori marini.

    .
    Storia fantastica

    Ci sono giorni d’inverno senza neve quando il mare s’imparenta
    con i tratti montuosi, accucciandosi in grigie vesti di piume,
    un breve attimo blu, lunghe ore con onde che invano
    come pallide linci cercano un appiglio sulla riva ghiaiosa.

    In giorni come questo esce il relitto dal mare in cerca dei
    suoi armatori, seduti al chiasso delle città, e gli equipaggi
    annegati soffiano verso terra, più sottili del fumo di pipa.

    (Nel nord vagano le vere linci, con artigli affilati
    e occhi sognanti. Nel nord dove il giorno
    vive in una caverna giorno e notte.

    Dove il solo sopravvissuto può sedere
    alla fornace dell’aurora boreale e ascoltare
    la musica dei morti assiderati.)

    .
    Meditazione agitata

    Un temporale fa girare all’impazzata le ali del mulino
    nel buio della notte, macinando nulla. – Ti
    tengono sveglio le stesse leggi.
    Il ventre dello squalo è la tua fioca lampada.

    Soffusi ricordi calano sul fondo del mare
    e là si irrigidiscono in statue sconosciute. – Verde
    di alghe è la tua gruccia. Chi va
    al mare torna impietrito.

    .
    Elegia (1973)

    Apro la prima porta
    È una grande stanza soleggiata.
    Un’auto pesante passa per la strada
    e fa tremare il vasellame.
    Apro la porta numero due.
    Amici! Avete bevuto il buio
    e siete diventati visibili.
    Porta numero tre. Una
    stretta camera d’albergo.
    Vista su una strada secondaria.
    Un lampione che scintilla sull’asfalto.
    La bella scoria delle esperienze.

    Volantini (1989)

    La silenziosa rabbia scarabocchia sul muro in dentro.
    Alberi da frutto in fiore,
    il cuculo chiama.
    È la narcosi della primavera. Ma la silenziosa rabbia
    dipinge i suoi slogan all’inverso nel garage.
    Vediamo tutto e niente,
    ma dritti come periscopi
    presi da una timida ciurma sotterranea.
    È la guerra dei minuti. Il bruciante sole
    è sopra l’ospedale, il parcheggio della sofferenza.
    Noi chiodi vivi conficcati nella società!
    Un giorno ci staccheremo da tutto.
    Sentiremo il vento della morte sotto le ali
    e saremo più dolci e più selvaggi che qui.*


    * da Poeti svedesi contemporanei a cura di Enrico Tiozzo, Göteborg, 1992

    .
    Epilogo

    Dicembre. La Svezia è una nave malandata
    in missione. Contro il cielo del tramonto sta
    il suo albero aspro. E il tramonto è più lungo
    di un giorno – la via che porta qui è sassosa:
    solo verso mezzogiorno esce la luce
    e il colosseo dell’inverno si alza,
    illuminato da nuvole irreali. Allora sale d’un tratto
    vertiginoso il fumo bianco
    dai villaggi. Altissime stanno le nuvole.
    Alle radici dell’albero celeste fruga il mare,
    distratto, come in ascolto di qualcosa.
    (Invisibile viaggia sull’altra metà
    dell’anima un uccello che sveglia
    chi dorme con le sue grida. Così il telescopio
    gira, cattura un altro tempo
    ed è estate: mugghiano le montagne, gonfie
    di luce e il ruscello solleva lo scintillío del sole
    nella mano trasparente… sparito in quell’attimo
    come quando la pellicola di un film si spezza al buio.)

    Ora l’astro della sera brucia attraverso la nuvola.
    Alberi, recinti e case aumentano, crescono
    nella silenziosa slavina che precipita nel buio.
    E sotto la stella ancor più si suscita
    l’altro paesaggio nascosto che vive
    la vita dei confini sulla radiografia della notte.
    Un’ombra trascina la sua slitta tra le case.
    Stanno in attesa.

    (da Poesia dal silenzio, Crocetti Editore , 2001, trad. Maria Cristina Lombardi)

    *
    La coppia

    Spengono la lampada e il suo globo risplende
    un istante prima di sciogliersi
    come una pastiglia in un bicchiere di tenebre. Poi si sollevano.
    Le pareti dell’albergo si gettano nel buio del cielo.
    I gesti dell’amore si sono acquietati e loro dormono
    ma i pensieri più segreti s’incontrano
    come quando s’incontrano due colori e l’uno nell’altro fluiscono
    sulla carta bagnata di un dipinto infantile.
    È buio e silenzio. Ma la città stanotte
    si è avvicinata in fretta. A finestre spente. Le case sono qui.
    Vicinissime, stanno serrate in attesa,
    una folla di volti inespressivi.


    Storia fantastica

    Ci sono giorni d’inverno senza neve quando il mare s’imparenta
    con i tratti montuosi, accucciandosi in grigie vesti di piume,
    un breve attimo blu, lunghe ore con onde che invano
    come pallide linci cercano appiglio sulla riva ghiaiosa.
    In giorni come questo esce il relitto dal mare in cerca dei
    suoi armatori, seduti al chiasso delle città, e gli equipaggi
    annegati soffiano verso terra, più sottili del fumo di pipa.
    (Nel nord vagano le vere linci, con artigli affilati
    e occhi sognanti. Nel nord dove il giorno
    vive in una caverna giorno e notte.
    Dove il solo sopravvissuto può sedere
    alla fornace dell’aurora boreale e ascoltare
    la musica dei morti assiderati.)

    .
    Sfere di fuoco

    Nei mesi oscuri la mia vita scintillava
    solo quando ti amavo.
    Come la lucciola si accende e si spegne, si accende e si spegne,
    – dai bagliori si può seguire il suo cammino
    nel buio della notte tra gli ulivi.
    Nei mesi oscuri l’anima stava rannicchiata
    e senza vita
    ma il corpo veniva dritto verso di te.
    Il cielo notturno mugghiava.
    Furtivi mungevamo il cosmo e siamo sopravvissuti.
    Pagina di libro notturno
    Sbarcai una notte di maggio
    in un gelido chiaro di luna
    dove erba e fiori erano grigi
    ma il profumo verde.
    Salii piano un pendìo
    nella daltonica notte
    mentre pietre bianche
    segnalavano alla luna.
    Uno spazio di tempo
    lungo qualche minuto
    largo cinquantotto anni.
    E dietro di me
    oltre le plumbee acque luccicanti
    c’era l’altra costa
    e i dominatori.

    Uomini con futuro
    invece di volti.

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  8. milaure colasson

    Sono poesie iscritte nella “frattura metafisica della presenza”, là dove la presenza sconfina nella non-presenza.
    Transtromer ha capito per primo in Europa che fare poesia moderna significa insistere e indagare in questa dimensione. Penso che la condizione dell’essere senza parola sia la condizione ideale per fare poesia. Essere senza parola. Sostare in quel vuoto di significazione non vuol dire chiedersi che cosa significa il fatto che “io parlo” (che è la classica domanda che si pone il filosofo), ma chiedersi: perché mi trovo nel vuoto-di-parola?, che ci faccio con questo vuoto di parola?.
    In questo momento di grande crisi dovuta al Covid, è impellente porsi delle domande ed è altrettanto impellente porsi delle risposte. Il Covid ha funzionato come un Grande Acceleratore della crisi.

    «Nei libri scritti e in quelli non scritti, io non ho voluto pensare ostinatamente che una cosa sola: che significa “vi è linguaggio?”, che significa “io parlo”?» (G. Agamben 1978, p. X): così scrive Agamben, nella prefazione all’edizione francese di Infanzia e storia (Payot, 1989), intitolata Experimentum linguae.
    .

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  9. Jacopo Ricciardi

    A mio parere l’attrattiva delle poesie di Transtromer è la posizione del poeta rispetto al suo essere uomo e scrittore, ossia Transtromer dà solidità oggettiva all’osservazione del mondo non essendo ostaggio dell’uomo che vuole esprimersi soggettivamente. Quindi non è l’esperienza soggettiva dell’uomo Transtromer che il poeta Transtromer sta scrivendo, ma è il poeta ad osservare la presenza del mondo insieme alla soggettività che le sta dentro e forse la genera, in un rapporto di parti legate da una dipendenza non risolvibile, e forse per questo oggettivabile. Quindi Transtromer fa della propria poesia un meccanismo che svela la giunzione tra i componenti della realtà senza mascherarli in una glassa soggettiva: un orologio che tolto il quadrante e le lancette lascia percepire l’andamento calibrato di un mistero che non si svela; è il magnetismo tra le parti, la dipendenza dinamica, la fuga di una traiettoria trattenuta, il battito sottile e improvviso, l’imprevisto di un ingranaggio. Se l’ora della soggettività è stata buttata via alla scrittura di queste poesie esse hanno mordente perché in noi lettori scorrono senza sosta le lancette di una soggettività. Ora Transtromer parla alla soggettività impersonale del lettore, quindi questo leggendo si sentirà intrappolato e tirato nella dinamica di un meccanismo che non gli mostra mai l’ora ma che in ogni istante gli ricorda di essere un orologio. È la compattezza di queste poesie, la lampeggiante granitica presenza delle parti a stupire il lettore, ovvero di essere nascosto lì, in pochi punti che hanno la profondità di abissi dove si perde l’orientamento e dove si siede a proprio agio, per un tempo indefinibile, di secondi sterminati. Se si scrive un testo e il testo è fatto di parole, e le parole trasportano come strumento la soggettività, allora per oggettivare quella soggettività delle parole si deve farle seguire una via trasversale, quasi contraria, controcorrente, lontano dall’organizzazione solita, ovvero puntare sull’immagine, una serie di immagini generate dalle parole, nate nel mondo delle parole, e non mimeticamente dal mondo esterno, e così creando un reale autonomo. E queste immagini tipiche di Transtromer non si usurano nel reale esterno del mondo, ma restano immobili, inconsumate, sospese sul linguaggio, o forse dentro di esso reggendolo. Se fosse così allora il mistero del meccanismo del linguaggio sarebbe evidenziato e indicato, e l’azione di un poeta furturo a Transtromer dovrebbe solo calarsi da quelle immagini nella zona sottostante e scrivere emulsionando il vuoto. Per questo credo che Transtromer sia uno dei pochi vessili della poesia vera del futuro, che dovrebbe essere oggi. La Poetry Kitchen ne ha le doti. E come questa materialità della poesia del poeta Svedese non abbia svegliato il grido della gioventù poetica italiana è un mistero.
    La metafora “Il ventre dello squalo è la tua fioca lampada” non ha niente di naturalistico, le parole sono sfondate dal loro senso, gonfiate come ematomi svuotati, e lo squalo si muove in fondo al mare e il suo ventre è la tua fioca lampada ma l’azione non sta in nessun oceano del mondo esterno ma è l’oceano esterno che è spostato in un’interiorità dell’accadere del mondo che è altrove (prossimo al vuoto). Queste immagini non portano allo schermo del mondo esterno, ma sprofondano nella loro autonomia che intorno ha il vuoto. In Transtromer tutto sprofonda nel foglio, attraverso le immagini esaurite in se stesse. Per questo sono tanto attraenti e magnetiche per il nostro essere, poiché lo segnano come non esistente ma presente. L’apparenza del mondo si prosciuga nella stringata alta massa delle poesie e la soggettività personale si prosciuga nell’oggettività del soggetto, e l’essere del lettore che legge è parte oggettuale tra le cose, e si sperimenta un’assenza nell’ego, uno svuotamento, e si comunica attraverso il mistero meccanico del reale.

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  10. scrivevo in un commento del 31 marzo 2015

    caro [Omissis],
    … dopo Transtromer la poesia occidentale non sarà più come prima e chi non se n’è accorto continuerà a percorrere la solita strada di una poesia lessematica e fonematica. Per chi invece è in grado di comprendere la novità della impostazione che Transtromer ha dato alla forma-poesia, si potranno aprire spazi ulteriori, nuovi percorsi, nuovi modi di fare poesia. Dico per fortuna Transtromer non ha bisogno della mia guarentigia, ormai la sua lezione fa parte del demanio della cultura occidentale.
    L’immagine, tu mi chiedi che cos’è l’immagine?, ebbene io non scomoderò la cosa in sé e altre categorie filosofiche, dirò solo che l’immagine è vecchia come il mondo, dalle grotte di Altamira ai giorni nostri non è cambiata granché nella sua essenza iconica; l’immagine, o meglio, le immagini concatenate di Transtromer non sono dei trucchi da prestigiatore, sono l’essenza del linguaggio poetico, sono i veicoli che ci portano in prossimità degli «oggetti», che rinnovano la nostra sensibilità di lettori e di fruitori della poesia. Del resto viviamo ormai da diversi decenni, da quando sono stati inventati il cinematografo e la televisione, in un mondo che si esprime mediante immagini e il montaggio di immagini, e il fatto che la poesia occidentale (e soprattutto italiana) se ne sia accorta con vari decenni di ritardo non è certo colpa mia ma della incapacità della cultura poetica italiana di riconoscere questo semplice dato di fatto. In fin dei conti, l’immagine di Transtromer non nasce dal nulla, ha dietro di sé la «metafora tridimensionale» della poesia di Mandel’stam, e chi non se ne è accorto sarà condannato a restare indietro, a scrivere nel verso lineare e unidimensionale e presto sarà condannato al dimenticatoio delle parole epigoniche.

    dal mio libro di critica: “Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea” Società editrice Fiorentina, 2013:

    «“Andiamo verso la catastrofe senza parole. Già le rivoluzioni di domani si faranno in marsina e con tutte le comodità. I Re avranno da temere soprattutto dai loro segretari”. Era l’aprile del 1919 quando Vincenzo Cardarelli scriveva queste parole. Era iniziata la rivoluzione della società di massa, la rivoluzione industriale era ancora di là da venire, e l’epoca delle avanguardie era già alle spalle, il ritorno all’ordine era una strada in discesa, segnato da un annunzio che sembrava indiscutibile.
    Oggi, a distanza di quasi un secolo dalle parole di Cardarelli, è avvenuto esattamente il contrario di quanto preconizzato dal poeta de “La Ronda”: oggi andiamo verso la catastrofe con un eccesso di parole. Le rivoluzioni di domani non si faranno né in marsina né in canottiera, né con tutte le comodità né con tutti gli incomodi: non si faranno affatto. Una poesia come questa del Dopo il Novecento non può che nascere in un’epoca in cui parlare di “rivoluzione” è come parlare di ircocervi in scatola. Non c’è opera della rappresentazione letteraria del secondo Novecento che non tenda, in qualche modo, al verosimile e, al contempo, non additi la propria maschera. La poesia e il romanzo dello sperimentalismo, rispetto alla poesia del post-ermetismo e dell’ermetismo, ha una sofisticata coscienza del carattere di “finzione” dell’opera letteraria, ha coscienza della propria maschera, anzi, c’è in essa una vera e propria ossessione della “maschera”».

    Nel libro ho tentato di «attraversare» i testi a partire dal mio personale punto di vista. Ho attraversato davvero tanti testi e tanti autori. Il punto di vista dal quale osservo è questo: La fine della Tradizione, la fine del Novecento, la Recessione e la fine della modernizzazione, la fine di un Modello di sviluppo e di modernizzazione. E mi sono chiesto: come si riflette questo
    orizzonte in quello che facciamo e in quello che giudichiamo? – La critica che ho messo in atto è quindi una Critica di accompagnamento; ho tentato di accompagnare i testi per vedere dove essi mi portavano, ho tentato di indagare perché certe strade intraprese da alcuni autori fossero strette e ripide, altre fossero sbarrate e di difficile accesso, altre ancora in salita vertiginosa e altre in discesa ripida. Ho tentato una mappa del Contemporaneo. Senza bussola, senza periscopio: e mi si è fatto chiaro il pensiero del Nichilismo, di questo «rotolare via dal centro verso un punto “X” della periferia» (Nietzsche).
    Un viaggio verso un territorio che non conosciamo.

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  11. Ecco una mia poesia, inedita, del 2011 (avevo appena letto Tranströmer). Fa parte di una mia raccolta inedita dal titolo “Distretto n. 18”.

    premo l’interruttore della luce.
    luce accecante.
    una stanza con i mobili stipati, costipati.
    i divani coperti da lenzuoli bianchi
    i tappeti polverosi
    il corridoio
    la toilette alla turca…
    la porta spalancata, le pozze di urina…
    gli scorpioni nei recessi polverosi
    così numerosi…

    “la maniglia, dov’è la maniglia?”
    apro la porta, la spalanco. il pulsante rosso, a sx,
    lo premo.
    luce accecante.

    “è soltanto una stanza vuota,
    è bene che rimanga vuota, sprangata,
    per sempre”

    per chi è all’interno ogni effrazione riesce vana.
    non ci si entra di straforo
    non ci si entra due volte come nel Biferno
    non ci si entra e non si esce gratis,
    che diamine!
    lo devi pur pagare il biglietto d’ingresso!
    ci sono dei rumori, scricchiolii…

    il pulsante bianco.
    lo premo.
    un cassettone, una bottiglia rovesciata, barattoli,
    un attaccapanni, gli abiti dismessi,
    il calorifero smontato, una lampada al neon…

    comprendo tutto ciò nei minimi dettagli
    nei minimi dettagli (!?)
    sì,
    nei minimi dettagli…

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  12. Le parole creano l’immagine, esattamente come Van Gogh creava i suoi paesaggi con segni e colore. Le immagini non precedono le parole. E non si entra nelle parole (montagna, persona, nuvola…) ché questa è prerogativa della critica. Infatti, scrive Linguaglossa: “Entrando nelle parole è come se entrassimo in quello specchio, rifratto e frammentario, ambiguo e misterioso, che è il linguaggio. Entriamo nell’enigma”.
    A mio avviso, le parole nascono senza precisa collocazione. E subito se ne partono per strade che l’immagine, in quanto data, fissa e singola, non può contenere. Le parole hanno dinamismo, sono in movimento. Sono l’azione del poeta. Quando Tranströmer insegue l’immagine, lo fa senza complicazioni, in prosa. Ma si serve del frammento: struttura instabile, mossa e imprevedibile.
    Per chi scrive in frammenti, l’haiku è sicuro oggetto di interesse. È una sfida, perché l’haiku ha rigida struttura metrica, creata appositamente per limitare concetti e voli di fantasia (tipico dello zen). Nella nuova poesia, noe o kitchen, serve ad evitare lirismi e maniere ereditate. Insomma, vi è qualcosa negli haiku che vale la pena di apprendere.

    Gli dico, dattero. Non ho altre parole.
    Toh, sei cavalli.

    LMT

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  13. Condivido l’acuta osservazione di Lucio Tosi quando scrive:

    Tranströmer «si serve del frammento: struttura instabile, mossa e imprevedibile.
    Per chi scrive in frammenti, l’haiku è sicuro oggetto di interesse. È una sfida, perché l’haiku ha rigida struttura metrica, creata appositamente per limitare concetti e voli di fantasia (tipico dello zen). Nella nuova poesia, noe o kitchen, serve ad evitare lirismi e maniere ereditate. Insomma, vi è qualcosa negli haiku che vale la pena di apprendere.

    Gli dico, dattero. Non ho altre parole.
    Toh, sei cavalli.»

    L’haiku ha una struttura fissa e regole fisse, l’Instant poetry e la poetry kitchen (che può essere una sommatoria di Instant poetry), invece no. E questo è un grande vantaggio
    Innanzitutto, la poetry kitchen predilige lo stile dichiarativo, la paratassi e l’asindeto. Il perché è, penso, ovvio. L’«io» può essere presente, ma lateralizzato, marginalizzato, posto in posizione periferica (pensare che l’io debba essere al centro vuol dire fare una poesia centripeta, il che è una lampante limitazione perché lascia fuori del suo raggio d’azione tutto ciò che è centrifugo o entropico).

    A leggere bene la mia poesia postata sopra, si può rilevare che l’«io» è diventato un ente generico, nel senso che chiunque potrebbe ripetere lo schema della poesia mettendo il proprio io come tema della composizione. Il risultato sarebbe diverso per ciascuno di noi.
    L’«io», in quelle mie lontane poesie del periodo 2008-2012, è diventato un ente generico e periferico; infatti, la riprova è che la poesia non narra ciò che avviene nell’io ma ciò che sta «fuori» dell’io.
    Dopo quel periodo (2008-2012) ho intrapreso il viaggio di una nuova ontologia del poetico; ormai i tempi erano maturi. Il viaggio l’ho fatto con i miei compagni di strada che devo ringraziare per gli stimoli e le sollecitazioni che mi hanno dato. L’accelerazione dovuta a questo lavoro collettivo ha prodotto ottimi risultati.
    Tutto questo tragitto l’ho fatto avendo in mente la rivoluzione del poetico messa in piedi dalla poesia di Transtömer. È da lì che ho ricevuto la scossa elettrica, un vero e proprio elettroshock.

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  14. IN ATTESA DEL GRANDE LITIGIO

    Scorre magnesia nelle arene.
    Osmosi prima di tutto e si richiamino i gladiatori

    Al mercante di spade non dire il prezzo dell’acqua
    consuma e uccidi da leopardo.

    La bella spalanca i fiori gialli
    gli stami trattano sperma a Wall Street.

    Il leone parlò del 2100. All’epoca si era cuccioli abbastanza
    Per vedere allegro il buon Sole.

    Idrogeno alla crudaiola
    E in quanto all’elio bastava farne una frittata.

    Vedemmo albe e tramonti invertire
    Raggi cadere pesantemente al suolo.

    E su tutto un odore di pendolo bruciato.
    Sarà un treno ma solo nel ‘74.

    Agosto doveva essere il quadro nella camera da pranzo
    Tra i mesi quello da portare a letto.

    Oh gioventù che si danna di cenere e fulmini!

    Ora, l’annichilirsi è nell’ agenda del prossimo consiglio.
    E dunque l’ordine è perfetto.

    Il 2021 è noto a tutti
    Perse sangue dagli organi interni.
    Lo ricoverarono a sirene spiegate
    E quello si mise a bestemmiare sulla sfortuna.

    Il bambino non fu mai riconosciuto.
    Si sentiva un’ape ma senza giurarci sopra
    ronzò fino al capoverso precedente.

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    • La poesia di Francesco Intini mostra che non si dà alcun «dire originario» né alcuna «archeologia» nel linguaggio, che ogni sforzo volto al rinvenimento della struttura presupponente del linguaggio che innerva l’ontoteologia occidentale, a partire dal to ti en èinai e dall’ousia aristotelici, è destinato a cadere nel vuoto. L’ontologia classica con la distinzione aristotelica di dynamis ed enèrgeia, con la sua scissione della sostanza (ousia) in un hypokeimenon (soggetto sottordinato), è destinata a sbattere contro un vicolo cieco. Il linguaggio è un labirinto in cui tutte le strade si perdono in direzioni entropiche. Così stando le cose, il linguaggio poetico è destinato, per Intini, ad un perenne scacco di senso e di sensorietà. Il poeta pugliese è il più drastico (tra i poeti kitchen) sostenitore di questa tesi, non mostra mai ripensamenti o timidità nel proseguire in questa sua ricerca verso l’assoluto, ovvero, verso il nulla, ovvero, verso la ri-funzionalizzazione della lingua e il suo impiego contro i parlanti precedenti e coevi.

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  15. Jacopo Ricciardi

    Per il guardante l’immagine precede la scrittura. Per lo scrittore l’immagine precede la scrittura (prima Ungaretti vede mohammed Sceab poi scrive di ciò che ha visto di Moammed Sceab; Rimbaud prima vede un morto che sembra addormentato e poi lo scrive, prima vive con Verlaine e poi scrive La saison en enfer; Dante vede Beatrice e poi ne scrive). Che poi il testo abbia una propria autonomia nella realtà, un proprio reale, è certo, e questo crea un’immagine che resiste nel testo pur venendo dall’esterno di esso. E mio avviso questo legame biografico di una immagine, questo cordone ombelicale, che causa un egocentrismo del testo, una univocità espressiva, deve essere tagliato. Transtromer crea un’immagine che è sì legata all’accadere del mondo ma è slegata dalla propria percezione momentanea, da un evento personale diretto. Le sue immagini diventano metafore raffreddando l’esperienza, e oggettivandola in una totalità logica dell’esperienza, è un’esperienza vista col cannocchiale di Galileo. L’immagine di Transtromer viene letta nel vortice che porta all’orizzonte degli eventi, e la sua territorialità è l’autonomia delle leggi del vortice: spazio e tempo compressi, stirati, saltellanti tra l’uno e l’altro.
    Il mondo preesiste in quanto maschera, le parole sono la sola cosa contemporanea dell’uomo, dare autonomia alle parole è necessario per reinvadere il mondo e vedere cosa succede. L’immagine è l’arma che le parole hanno per manifestarsi: in Mario Gabriele l’immagine svuota le cose del mondo attraverso il contenitore delle parole; parole che fanno vacillare la visione del guardante, smontano ciò che vede, crolla il primo reale apparente lasciando percepire veramente il vero secondo reale vuoto. Allora il mondo è popolato da apparenze svelate e da fantasmi più veri delle persone.
    Transtromer verso la fine della sua attività sceglie la forma poetica brevissima come un’annunciazione che rende l’autonomia dell’immagine essenziale e concreta quanto un esplosione, puntuale nella realtà del mondo, del fatto del testo. Questo concreto del testo diventa nel futuro l’apertura del testo in azione esperienziale oltre il libro, alla lettura (e non dopo). La metafora diventa allora frattura tra due verità estranee che si combinano nell’altrove della mente. Nella mente ciò che è incompatibile resiste e ha presenza, ed è motore di un’azione sconosciuta che avverrà nel mondo come una deflagrazione che cambia l’aspetto di un tratto di mondo. La verità filtra così nell’apparente, e presenza e azione sono la stessa cosa. Siamo nella mente vera che accade nel mondo (io questa condizione la chiamo Sé). Il bambino che gonfia una bolla all’altra estremità di una stecca cava in un quadro di Chardin mostra in effetti il fiato proprio dell’uomo che invade lo spazio della realtà apparente; quando quella bolla esploderà il fiato penetrerà repentino in quella realtà creando un trauma. Ora io penso che la nuova poesia debba fare la stessa cosa con la mente, soffiarla in una bolla per farla esplodere sulla realtà apparente e così modificarla realmente e per sempre. La bolla è il testo destinato ad esplodere, che nel momento in cui viene letto è già esploso e sta esplodendo, e noi non siamo più lettori perché stiamo già facendo qualcosa, armeggiando con il vuoto e cambiando le nostre abitudini. La famosa immagine di Eliot “In the room the women come and go. Talking of Michelangelo.” conferma il primato della mente per l’immagine poetica, ma la poesia ancora non scardina la realtà, non fa cadere l’apparenza su se stessa. È come se sentenziasse: ci sono due mondi ma ancora non mette i due mondi l’uno contro l’altro. C’è un dislocamento del reale che apre alla realtà della mente, ma non una frattura netta, brutale, nichilista. Il “gusto” si salva ancora in quell’immagine e trascina con sé del residuo di ego come la traccia di una lumaca.

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  16. vincenzo petronelli

    E’ sempre un enorme piacere in termini di entelechia poietica, la proposizione e la lettura dei testi di Trastromer. E’ acclarato il fatto che tutti noi legati al gruppo della Noe e dell'”Ombra”, ma in generale tutti i poeti che ricerchino un instradamento innovativo e soprattutto di rottura rispetto al “mainstream” della poesia lineare, debbano ineludibilmente metabolizzare ed introiettare le lezione transtromeriana: è un riferimento imprescindibile. Condivido appieno l’opinione più volte espressa da Giorgio, del taglio alfa costituito nella storia della poesia tra un pre- ed un post- Transtromer.
    La capacità del poeta svedese, come del resto emerge da quest’articolo, di inserirsi, riempire, formulare i vuoti di significazione, costituisce una lezione non solo poetica, ma di filosofia del linguaggio ineludibile, per decifrare e re-interpretare come attori protagonisti, la “crisi della presenza” (prendendo in prestito la celebre teoria di Ernesto De Martino) del soggetto, di fronte alla frattura ontologica che contraddistingue il mondo attuale. Inoltre, poiché ritengo che le immagini ed il registro stilistico di un grande poeta o in generale di un grande artista, restituiscano sempre uno spaccato di interpretazione antropologica della propria epoca, trovo che non sia casuale il collegamento tra la funzione catartica della poesia di Transtromer e la sua “estetica dell’inverno”, tipica della cultura scandinava.
    I paesaggi invernali descritti da lui magistralmente descritti, incarnano perfettamente l’idea dello spaesamento, del vuoto della significazione convenzionale. Nato in una città, mi chiedevo da ragazzino, come fosse possibile che la maggior parte dei miei simili non riuscisse ad apprezzare la bellezza, le suggestioni, della totalità delle stagioni, vivendo praticamente ad un’unica dimensione, quella estiva, ricercandola in confezione omogeneizzata anche durante il resto dell’anno. Ho avuto la fortuna di frequentare le campagne e le montagne ed il mare (sono nato in una città di mare, ma in cui il litorale è periferico e quindi in inverno bisogna “andarselo a cercare”) anche in autunno ed inverno, il che mi rendeva privilegiato rispetto a molte persone accanto a me, ma non riuscivo a spiegarmi questo iato. Giunsi così alla conclusione che, in una società già fortemente omologata (seppur ante-internet) la sospensione di condivisione mondana che l’inverno e l’autunno creano, con il risveglio del “tremens” delle forze primordiali, che pongono l’individuo medio dei nostri e di quei giorni – privato della dimensioni della trascendenza e della metafisica – in una condizione di sgomento – mentre affascinano filosofi, antropologi, pittori, poeti – per l’incapacità di riuscire a trovare una risposta ai quesiti che ci pongono tramite il nostro delirio di dominio tecnologico, preferiscono la fuga verso il consolatorio, dimostrando una pochezza interiore sconcertante.
    In fondo, gli stessi problemi ambientali che ci stanno devastando, fino a poco tempo fa, non suscitavano una grande indignazione, poiché le previsioni degli ambientalisti in fondo apparivano apocalittiche e quindi era meglio non pensarci, nel trastullo apotropaico del “cognito” riassunto dal ritornello: “ma cosa vuoi che sia? Il tempo è sempre stato ballerino; in fondo avremo solo un po’ di caldo in più”; l’importante per i più era avere più estate e meno sollecitazioni individuali spaesanti.
    Sono forse uscito fuori tema, ma il fascino che la ricerca poetica ed anche in particolare la poetica transtromeriana ha sempre esercitato su di me, è stato anche sempre collegato alle mie ricerche antropologiche e di storia delle religioni – pur provenendo da un retroterra laico – che mi hanno sempre posto di fronte al “primordiale” ed al “sacro”. Venendo al tema dell’ haiku, concordo assolutamente con Lucio, sul fatto che sia una forma di espressione poetica coincidente e forse sublimante per alcuni aspetti, la poetica del frammento perché, come dice Giorgio, aborre l’inessenziale e credo che anche nella forma evolutiva dell'”instant poetry” con la sua forma chiusa, possa offrire un contributo e dei riferimenti notevoli, da considerare con attenzione.
    Un caro saluto a tutti.

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  17. caro Vincenzo,

    una nuova poesia non nasce mai a valle, ma a monte; bisogna risalire all’origine della discesa culturale che ha attinto la poesia italiana per poter risalire. Una nuova poesia può nascere quando muore definitivamente il linguaggio poetico di Zanzotto e del Montale di Satura, con tutto ciò che è a valle di quei linguaggi poetici.

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  18. vincenzo petronelli

    Condivido pienamente caro Giorgio. In effetti credo (e l’ho sperimentato sulla mia pelle prima dell’incontro con la Noe) che il danno profondo che la vecchia poesia ha creato, non riguardi tanto in sé e per sé l’opera dei vecchi dinosauri della poesia “a monte”, quanto i detriti che la stessa ha disseminato “a valle”.
    Un abbraccio.

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  19. A proposito della poesia dell’IO di Tomas Tranströmer, cito una riflessione di Felice Cimatti.

    Che cosa sono io? Talvolta molto tempo fa
    per qualche secondo mi sono veramente avvicinato
    a quello che IO sono, quello che IO sono.
    Ma non appena sono riuscito a vedere IO
    IO è scomparso e si è aperto un varco
    e io ci sono cascato dentro come Alice.

    (T.T.)

    Chi dice “io”

    Quando qualcuno, prendendo la parola in una discussione, dice ad
    esempio “Io penso che …”, chi è che dice “io”? Secondo la spiegazione
    più semplice, quella tradizionale (in fondo anche quella che abbiamo
    appena trovato in Heidegger), l’entità linguistica “io” si riferisce ad una
    entità preesistente, non linguistica, una sottostante entità psicologica
    che possiamo indicare con IO. In sostanza, è l’IO che può dire, di sé,
    “io”: prima la psicologia, cioè la mente/persona, poi la parola che vi si
    riferisce. Il punto più importante è che mentre l’IO non avrebbe bisogno
    dell’“io”, appunto perché esiste indipendentemente dal linguaggio, non
    vale invece il contrario: senza IO non può esserci il pronome, la parola
    “io”. Questa la spiegazione tradizionale. E così siamo tornati al punto
    in cui eravamo arrivati nel paragrafo precedente. Ma da dove spunta
    questo IO? Prendiamo proprio la formulazione di Heidegger: «nella
    coscienza, l’Esserci chiama se stesso». Il punto è, alla lettera: come fa
    l’Esserci, a chiamare sé stesso? Questa stessa formulazione solleva
    un primo problema: che lingua userà, l’Esserci, per chiamarsi? Heidegger se ne tira fuori, come abbiamo visto, sostenendo che in realtà
    questa chiamata non avviene mediante le «chiacchiere pubbliche del
    Si», bensì mediante una chiamata silenziosa. Ma questo non risolve il
    problema, evidentemente, semmai l’aggrava.*

    [e qui Cimatti cita Benveniste]

    è nel linguaggio e mediante il linguaggio che l’uomo si costituisce come soggetto; poiché solo il linguaggio fonda nella realtà, nella sua realtà che è quella dell’essere, il concetto di “ego”. La “soggettività” di cui ci occupiamo in questa sede è la capacità del parlante di porsi come “soggetto”. Essa non è definita dalla coscienza che ciascuno prova di essere se stesso (nella misura in cui se ne può dare conto, tale coscienza non è che un riflesso), ma come l’unità psichica che trascende la totalità delle esperienze vissute che essa riunisce, e che assicura il permanere della coscienza. Noi riteniamo che questa “soggettività”, che la si consideri da un punto di vista fenomenologico o psicologico, non importa, non è altro che l’emergere nell’essere di una proprietà fondamentale del linguaggio. È “ego” chi dice “ego”.
    In ciò troviamo il fondamento della “soggettività”, che si determina
    attraverso lo status linguistico della “persona”.

    […] Secondo Benveniste «l’unità psichica che trascende la totalità delle esperienze vissute che essa riunisce, e che assicura il permanere della coscienza» è l’effetto complessivo dell’uso ripetuto delle forme vuote del linguaggio. Il pronome “io” permette di costruire l’IO: «qual è quindi la “realtà” alla quale si riferiscono io e tu? Unicamente una “realtà di discorso” […]. Io può essere definito solo in termini di “parlare”, e non in termini di oggetti, come lo è invece un segno nominale. Io significa “la persona che enuncia l’attuale situazione di discorso contenente io”»31. In questo modo Benveniste ha risposto alla domanda a cui Heidegger non era riuscito a rispondere: «nella coscienza, l’Esserci chiama se stesso» scrive Heidegger, senza spiegare come sia possibile questa prestazione.

    * ile:///C:/Users/Giorgio/Downloads/Lalalangue_sert_a_de_toutes_autres_chos.pdf

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  20. vincenzo petronelli

    Riflessione molto interessante e pertinente caro Giorgio. Riconducendola ad una dimensione polemica, si ricollega ad un pensiero affioratomi alla mente spontaneamente in questi giorni, quando mi è comparsa sotto gli occhi (nonostante da tempo mi sia cancellato dal gruppo facebook di poesia in cui lo scritto cui sto per fare riferimento era contenuto: uno dei tanti pseudo-collettivi poetici cui lo strumento digitale, utilissimo per altri versi, ha dato la stura) una poesia di uno dei tanti scrittori da tastiera che scriverà penso, 30 – 40 poesie al giorno, nella quale a mo’ di invettiva (devo dire larvata) reclamava la sua libertà incodizionata nell’usare l'”ego” nella sua scrittura che, evidentemente per la sua pervasività, gli è stata stigmatizzata da alcuni suoi interlocutori (magari anche da te Giorgio, visto che so che molti ti scrivono per sottoporti loro scritti), sottindendendo il fatto che nessuno fosse autorizzato ad esprimere giudizi ostativi sulla sua libertà di scrittura, quasi fosse un diritto di libertà personale inalienabile.
    Da un lato mi chiedevo, per quale ragione chiedano pareri ad altri interlocutori se poi la stessa esaltazione intima dell'”ego” che emerge dalla scrittura, li accechi anche rispetto alla dimensione esistenziale della propria esperienza poetica, al punto da deplorare qualsiasi risposta che “rompa il loro giocattolo”; dall’altra, non capisco come si possa scrivere poesia in modo così dilettantistico da non considerare le profonde implicazioni di ordine filosofico, sociologico, storico, antropologico, semiologico, che sottende l’uso del linguaggio poetico. Come ho detto a Giorgio, credo in tutta sincerità che se non avessi trovato dimora nell'”Ombra” e nel progetto Noe, avrei abbandonato la scrittura poetica, proprio a causa di questa pochezza pervadente che non mi consentiva di trovare una dimensione con la quale confrontarmi e crescere.
    In questo caso più che mai: “GRAZIE OMBRA”.

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  21. caro Vincenzo,

    sai, in fin dei conti ciascuno è libero di scrivere le poesie che vuole, certo qualcuno mi invia le sue poesie in lettura ma verso queste persone io non sarei troppo negativo, in fin dei conti loro scrivono per star bene, e se stanno bene così, buon per loro… io penso agli autori di poesia che si auto pubblicano da decine di anni in Einaudi e ne Lo Specchio, loro hanno capito benissimo che non sono solito unirmi al coro degli esaltatori delle loro opere e quindi mi hanno bannato. Funziona così, se non li esalti ti bannano. Sono, come li chiamava Baudelaire, «delle canaglie».

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