Mario M. Gabriele
Sulle Antologie di Poesia del secondo Novecento
Retrospettiva storica
Se andiamo a leggere le antologie poetiche italiane, a cominciare da: I Poeti Futuristi, con un Proclama di F.T. Marinetti, Milano, 1912, passando a quelle regionali e alle tante, tantissime pubblicazioni sulla Letteratura italiana, tra repertori e consuntivi, ci accorgeremmo subito di quanti modi, stili e manifesti è segnato il cammino della poesia, assieme al fenomeno delle omissioni, con gravi ripercussioni sull’assenza di molti poeti, condannati dalla storia che procede per “repressioni, per grandi operazioni di pulizia etnica e quindi per falsificazioni specie quando il discorso critico e la sua soluzione storiografica si traduce in uno schiacciamento sulla contemporaneità”. (Luigi Baldacci-Novecento, Rizzoli, Gennaio 2000, pp.18-19). L’invisibilità che circonda gran parte di questi poeti ci ricorda vagamente: Il Cavaliere inesistente di Italo Calvino, e più in specifico, il protagonista Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, Cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez, pignolo e intransigente paladino che non esiste, dato che nella sua brillante armatura è il vuoto, e per questo è deriso e schernito dai suoi compagni. Tuttavia, Agilulfo è il migliore tra tutti gli armigeri al servizio di Carlo Magno. Sta di fatto che molti repertori, da più di 50 anni, si sono chiusi in uno spazio culturale ben definito e caratterizzato da uno squadrismo letterario che lascia poche possibilità d’accesso a chi ne ha titolo e merito, anche se esistono nelle più lontane periferie, cose valide che, come diceva Pasolini, “non si ha il coraggio di farle venire a galla”, né si può sperare in un intervento della critica poiché essa ha smarrito il legame tra letteratura e società, dopo l’avvento del post-strutturalismo in cui prevalgono le ipotesi decostruzioniste e neonichiliste che annientano la testualità letteraria nella sua specificità”. (Romano Luperini, Breviario di Critica, Guida, 2008, pag. 59).
Molti sono i poeti che hanno percorso vie opposte a quelle della Tradizione, aggregandosi alla realtà dell’intellettuale organico con un work in progress di febbrile spinta avanguardista.
Cosicché la scrittura, comprensiva di ogni sapere, affrontata da Roland Barthes nell’opera Il piacere del testo, ha comportato per alcuni poeti qui presenti, un rinnovamento della forma con il rifiuto del riflusso, riscoperto come autentica griffe dall’industria editoriale, sempre alla ricerca di “casi” letterari, con tanti curatori, sordi da una parte e ciechi dall’altra, finendo con l’essere essi stessi i promotori di un razzismo etnico-culturale, simile a quello degli anni Cinquanta-Sessanta, quando a Torino facevano bella mostra di sé sulle facciate dei portoni e nelle bacheche le famigerate scritte: ”Non si affitta a meridionale!”. Oggi che la biologia molecolare sembrerebbe anche confermare, in qualche modo, la tesi di Julian Huxley e Alfred Haddon, secondo la quale il razzismo non è scritto nei geni, ma è un prodotto della nostra cultura, appare ancora più grave tollerare l’odio e l’indifferenza, infatti “I livorosi, non mirano ad un proprio avere, ma al non avere degli altri. Ciò che non sopportano è che gli altri godano di un vantaggio”. (Gunter Anders: Linguaggio e tempo finale. Micromega, 5-2002, pag. 117). Questo è un altro motivo che concorre all’invisibilità dei poeti offuscati da un pregiudizio meneghino o lombardo-veneto, che vuole, a tutti i costi, “creare una brutale scissione degli “italiani al di sopra e al di sotto del Quarantesimo Parallelo”. (Giuliano Manacorda, I Limoni, Caramanica Editore, 2001. Non due ma cinquant’anni di poesia, pag. 12).
La critica di oggi si è creata una propria nicchia, fuori dalle Grandi Case Editrici, dopo le performance dei Lirici Nuovi di Luciano Anceschi, – Mursia 1954; dei Poeti del Novecento, di Giacinto Spagnoletti –Mondadori 1952; de I Novissimi (poesie per gli anni 60), di Alfredo Giuliani, -Einaudi 1965; di Poesia del Novecento di Edoardo Sanguineti,-Einaudi 1969; de Il Pubblico della poesia di Berardinelli e Cordelli –Lerici 1975; fino alla Parola Plurale, Sossella Editore, 2005 a cura di Andrea Cortellessa con la partecipazione di 8 curatori, tutti serventi dell’ala estrema del linguaggio autonomo, dopo la frattura tra l’Essere e il Nulla. Non è un caso isolato, se dopo la fine di un periodo letterario ne succeda un altro, sostitutivo di forme e scrittura. Tra le tante categorie catalogate non sfugge il concetto di moderno e postmoderno, con valenze diverse, tra incontri culturali, e discussioni accademiche, che hanno influito sul pubblico dei lettori, indirizzandoli anche nei campi socio-culturali e filosofici.
Ma è a partire dal 1930 che il postmoderno ha mantenuto le fila di un predominio letterario e tecnologico, esercitando un’azione di diffusione estetica, attraverso l’uso linguistico anglo-americano, con diramazione della critica a partire dagli anni Sessanta con punte di diramazione nel campo sociologico e post-industriale, anche attraverso la diffusione di Riviste Il Verri e Officina.-
Habermas, nei suoi indirizzi operativi, ha colto nel postmoderno una forma di tardo capitalismo come pensiero post-metafisico, a cui poi si aggiunge il pensiero debole di Vattimo, corroborato dall’influsso filosofico di Nietzsche e Heidegger, con le esequie alla metafisica occidentale.
Nel settore letterario molto si è sviluppato tecnicamente. Tutte le edizioni, formato stampa, subirono variazioni estetiche differenti. Ma è dal 1968 che la tecnologia agisce sul postmoderno con l’elettronica e il software, raggiungendo il “Villaggio Globale”. Il testo poetico subisce variazioni di ogni tipo diventando soggetto-oggetto del poeta, il quale ha anche la libertà di optare per il selfpublishing e le Case Editrici Minori senza alcuna certezza di successo. “Fine ultimo della letteratura è la creazione sintattica, lo stile, il divenire della lingua. Non c’è creazione di parole, non ci sono neologismi che valgono al di fuori degli effetti di sintassi in cui si sviluppano. Sicché la letteratura presenta giù due aspetti, in quanto opera una decomposizione o distruzione della lingua materna, ma anche l’inversione di una nuova lingua nella lingua attraverso creazione di sintassi” (G. Deleuze. Critica e clinica, Milano 1996). È ciò che un po’ accade nella Nuova Ontologia Estetica la cui prima datazione risale, con molta probabilità nel 2017.
Riflessioni sulla poesia
A conti fatti, quello dei critici, è un resoconto linguistico sulle opere esaminate, senza dubbio notevole, con un elettrolux che ha illuminato alcuni spazi, oscurandone altri. Qualsiasi previsione sulla morte della poesia è temporanea, in quanto le proposte linguistiche si alternano come ricambi nel tempo. La parola poetica finisce con l’essere particella organica, per diventare separatista e intoccabile con la forza espressiva di un postmodernismo telematico, e l’agglutinazione delle figure retoriche, tra le più diverse come, ad esempio l’allegoria, l’allusione, l’anacoluto l’anafora, per non parlare poi delle diafanie e disfanie, integrate ai testi poetici, e riscoperte ultimamente.
Passato e presente si annullano e si dicotomizzano nella forma, secondo le macerie e le ricostruzioni esaminate dalla linguistica e dallo strutturalismo. C’è stata, col passare dei decenni, una ermeneutica di diversa angolatura, che ha emulato categorie extranazionali, fino ai suggerimenti di altri modelli attraverso le esplorazioni dell’inconscio volute da Freud e da Jung.
Moltissime sono state le ricerche sul piano ontologico, filosofico ed esistenziale, con distinzioni politiche alla Sanguineti e alla Pasolini, come ultima tappa di alternanza linguistica, dove non sono mancate le esternazioni positive e negative. Si è provato di tutto: dalla Pop Art, alle accumulazioni narrative, tra reviews, fin de siécle, e oggettologia: una sorta di Nouveau francese.Questa intercomunità culturale ha retto per decenni, a prescindere dallo stato di apnea delle nuove generazioni poetiche, che si sono alternate non pensando più agli strumenti umani e alla comunicazione. Ne sono una dimostrazione le zone d’ombra e gli orrori della lingua “cannibal” degli anni Novanta, con Aldo Nove e Niccolò Ammaniti.
Tutto questo ha coinvolto, anche se per breve tempo, “l’architettura moderna con le sue convenzioni, i suoi dogmi, le sue grandi esperienze, il grande modello archetipo, corrotto e tradito nella interpretazione, come una sorta di sacra scrittura, ma pur sempre seguito e obbedito nella letteratura- e sotto processo da lungo tempo-, ma gli attacchi subiti a ondate successive, continua a opporre una barriera fatta di indifferenza e garantita da una alleanza con il potere.” (P.Portoghesi, Dopo l’architettura moderna).
Le strade della poesia, viste nella loro topografia sono diverse. Non sappiamo se si debbano considerare chiuse, tanto che “l’umanità ne potrebbe fare benissimo a meno”, come ebbe a dire Montale nel suo Discorso tenuto all’Accademia di Svezia il 12 dicembre 1975. Tuttavia, come Egli ebbe a dire: “non sempre la poesia è cancellabile dalla mente e dal cuore dell’umanità”, essendo espressione di sentimenti dichiarati tra fobie e nevrosi del nostro Tempo, con un linguaggio prevalentemente psicosomatico ed esistenziale, parapsicologico e metasperimentale. Ed è ancora Montale ad affermare che “La poesia è una entità di cui si sa assai poco, tanto che due filosofi diversi come Croce storicista-idealista e Gilson cattolico, sono d’accordo nel ritenere impossibile una Storia della poesia”.
A conti fatti, la poesia di oggi è alla ricerca di nuovi segni verbali mettendosi in ginocchio a raccogliere i frammenti con una nuova gestione del linguaggio in forma di distici, peritropè e polittici. Qui ne cataloghiamo gli esiti, diversi ed espressivi, come volontà del ricambio della forma e del verbum da parte dei poeti antologizzati. Tuttavia, nonostante queste apprezzabili opportunità estetiche e stilistiche, c’è un ramo nel giardino della poesia, che pur mancante di clorofilla alle foglie, sopravvive e si ripropone come se in questo lasso di tempo tutto fosse rimasto in stand by.
Oggi siamo di fronte ad una manovalanza estetica che immette nel mercato una poesia mercificata come pannolini da China Town. Ognuno può scrivere ciò che vuole, pensare come crede, narcotizzarsi ad ogni occasione, tentare perfino di scrivere poesie come favolette per i bambini iperpiretici per farli addormentare. Non c’è più un luogo sociale, esistenziale, storico, pluriculturale dove connettersi. Continuare col Novecentismo linguistico è operazione di enorme spreco, che non ha mai cessato di esistere. Oggi ci troviamo di fronte ad un concerto demagogico e populistico della poesia come fenomeno sempre più diffuso anche nelle diverse categorie generazionali.
È evidente che tutto questo non può che decretare la crisi della poesia, incapace di albeggiare. Si rischia di rimanere nella stagnazione scivolando nella sciatteria, dimenticando la progettualità considerata eversiva, proprio perché ritenuta un attacco all’establishement linguistico, dimenticando che ci vuole tanto di senso autocritico del proprio lavoro.
È chiaro che in questi termini la critica ufficiale non può che assentarsi, uniformandosi al culto del replay. Scrive Mario Lunetta in Poesia italiana oggi, Paperbacks poeti- New Compton Editori, 1981, pag. 17 della Introduzione:
”Bisogna operare per la professionalità che non è puro e semplice professionismo, realizzando nel massimo dell’arbitrio il massimo del rigore, operando insomma per e con una letteratura di poesia che contenga sempre al suo interno polisenso la consapevole teoria critica del proprio prodursi”.
Quali siano i frutti di un rinnovamento linguistico non si sa. Ma intanto è lecito proporli salvaguardando le aspettative di un pubblico in attesa di un nuovo panorama storico e linguistico. Il lettore silenzioso, che non esprime giudizi, è un critico che si autoesclude da una dialettica oziosa e ostativa, in attesa di documenti e tempi migliori. Il Novecento ha indubbiamente il suo peso maggiore, senza escludere chi si attiva con le alternanze linguistiche. C’è una idea di come va rifondata la poesia. Ma anche questa va proposta nei limiti della persuasione estetica, badando ad armonizzare il tutto con un impianto pluricostruttivo attraverso i sistemi collaborativi e interdisciplinari.
Il Frammento e La Nuova Ontologia Estetica
La «nuova ontologia estetica», secondo il pensiero di Giorgio Linguaglossa “non è né una avanguardia né una retroguardia, è un movimento di poeti che ha detto BASTA alla deriva epigonica della poesia italiana che durava da cinque decenni. Deriva da un atto di sfiducia (adoperiamo questo gergo parlamentare), abbiamo deciso di sfiduciare il governo parlamentare che durava da decenni nella sua imperturbabile deriva epigonica. Occorreva dare una svolta, imprimere una accelerazione agli eventi. E deriva da un atto di fiducia, fiducia nelle possibilità di ripresa della poesia italiana”.
Le motivazioni espresse dai sostenitori del “frammento” scaturiscono dal fatto che questa dimensione fenomenica abolisce L’IO, centrale e narrativo, cancellando l’elegia. Tutto il Novecento è stato portabandiera di un dire poetico monocratico e monocolore, eccezione fatta per il Gruppo 63, che con i readings, le maratone, i festival e gli happening, hanno equidistanziato la poesia dei vari Sinisgalli, Rebora, Onofri, Saba, Gatto, ecc., immettendo non una poesia minore da quella tradizionale, ma offrendo un mix di avanzamento culturale, e di plurilinguismo, che poi i vari Ottonieri, Baino, Ramous, Viviani ecc. hanno declassato in una regressione schizofrenica della parola, subito dopo rastrellata e mitigata da Cucchi, De Angelis, Lamarque, Ruffilli ed altri, che si sono spinti fino all’afasia e alla colliquazione della parola. Ciò ha portato ad una restaurazione della poesia tradizionale, portata avanti da certi poeti nostalgici o più semplicemente legati alla parabola dell’estasi e delle emozioni.
In verticale c’è la poesia vista come un aloe arborescente, in basso invece c’è il frammento o più in specifico la miniaturizzazione dell’Ente parola, che vuole essere l’engramma neuronico nell’orrore del nostro Tempo.
Molti collegano la nascita del frammento ai poeti parodici e della Grecia antica, o addirittura agli Haiku. Ma quello di cui stiamo parlando, pur nella brevità espositiva, non finisce in uno scatto fotonico, ma l’amplifica ricucendo il discorso poetico dagli strappi prodotti.
Le interpunzioni hanno la loro validità in quanto sono sintesi di un’onda corticale che diventa accrescimento formale anche originale, secondo chi lo propone, ma mai un aborto linguistico perché la voracità delle spezzettature coinvolge l’assolutezza del dire in un unico armonium.
Una riflessione più ampia la potrà dare il lettore dopo la lettura dei testi qui antologizzati, che si avvalgono del frammento, in modo da verificarne i movimenti e le pause. Solo recentemente, e grazie all’interesse di lettori e poeti verso una nuova ontologia estetica, che il frammento trova la sua ragione d’essere in quanto trattasi di collagene e interruttore del flusso linguistico, come Centro e non Centro a “effetto di superficie”. Il suo ruolo è l’inserimento autonomo su tutte le esondazioni verbali che vanno oltre ogni ragionevole misura, anche a costo di fare una sorta di puzzly. In altre parole, è un movimento lessicale, fluidificante e di “pronto soccorso”, quando si verificano i prolassi del verso libero, senza alcuna limitazione da parte del poeta.
Senza dubbio si tratta di una soluzione a basso costo estetico, figurativo, di pausa respiratoria di fronte al prevalere delle tonalità colloquiali su cui poggia la poesia remissiva e delle confessioni autobiografiche. È una immigrazione, compulsiva e sussultoria di elementi linguistici che hanno una specifica sinteticità e illuminazione.
Ma ha un senso tutto questo? Secondo Deleuze, è l’imprevedibilità del caso a generare il senso che non si produce dall’azione di un soggetto. È libero di agire non essendo legato a nessun vincolo. Si genera da sé, riducendo altezze e profondità, finito e infinito, in un dualismo sottoposto alla verifica dell’inconscio. Anche il “senso” è un evento in forma di “frammento in rovina”, che può adattarsi a tutti i fenomeni esterni, privo di approdi salvifici per la poesia nel dissolvimento dell’IO e di tutti i Fondamenti, senza alcuna possibilità di salvezza a ”portata” dello “Spirito”, per uscire dal calendario giornaliero e dalla marginalità dell’essere qui e ora, essendo noi stessi frammenti di un Principio (Vita) e del suo controsenso, rappresentato dalla (Morte). Tranne le argomentazioni religiose, è evidente che la filosofia del razionalismo ateo non riesce a dare un “Centro” se non quello di un “polo” negativo, trasformando l’Essere in un non Essere, secondo il pensiero di Heidegger, così come la poesia che cerca lo Zenith dopo ogni collasso della parola.
La Scrittura per Frammento e Distici
La Nuova Ontologia Estetica è un dato incontestabile. Non si tratta di un evento poetico marginale. Esiste. Si è formalizzato. Ci sono atti che testimoniano la realtà di questa nuova fase poetica, messa in discussione, con ostinata opposizione da chi, con propri pregiudizi, ne mette in risalto l’inutile proposizione. È come scontrarsi di fronte a un muro; quello di Berlino era più friabile. Abbiamo aperto un fronte, superata la fumisteria di certi coattori della rimembranza palcoscenica.
Giuliani e Sanguineti proposero l’Avanguardia sapendo di andare incontro ad una difficile battaglia. La loro ricerca era già uno spinterogeno contro tutta la mulineria poetica del Novecento. Un dialogo con soggetti ipoacustici, non è certamente terreno fertile per un contraddittorio. Una poesia nuova, colta, ben costruita dall’esperienza e dalla sensibilità, come questa della Nuova Ontologia Estetica, non può accettare dettagli inutili come prova di un discorso semplicemente avversativo, e troppo tradizionale, che rimane all’apice del non senso.
I poeti qui presenti estetizzano, ciascuno per proprio conto, gli indirizzi operativi su cui si fonda la loro base estetica, ben sapendo della degradabilità del Nulla e della presa d’atto della bocciatura dell’IO, in quanto essi stessi si allontanano dalla metafisica inseguendo il proprio ologramma verso una psicologia che sposta i termini della speranza verso l’inesplicabilità dell’Essere, così come concepito da Heidegger.
In data settembre 2019 alle ore 08:38:11, L’Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internaziona
https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/09/25/mario-m-gabriele-sulle-antologie-di-poesia-del-secondo-novecento-retrospettiva-storica-da-lirici-nuovi-di-luciano-anceschi-1954-a-how-the-trojan-war-ended-i-dont-remember-2019/comment-page-1/#comment-59290
Le antologie di poesia italiana dal 2000 ai giorni nostri
Nell’anno 2005: escono tre Antologie di poesia: Parola plurale, Dopo la lirica, La poesia italiana dal 1960 a oggi.
Il problema metodologico sconfina e rifluisce in quello della datazione. Grosso modo tutte e tre le antologie scelgono l’anno 1960, l’anno della rivoluzione operata dai Novissimi e dalla neoavanguardia quale linea di demarcazione dopo la quale la poesia italiana subisce il fenomeno della dilatazione a dismisura delle proposte di poesia accompagnate dalla caduta del tasso tendenziale di problematicità delle proposte stesse che finiscono per collimare con le posizioni di poetica personalistiche da parte delle personalità più o meno influenti. Si può notare anche una de-ideologizzazione delle proposte di poesia derubricate alle esigenze di auto promozione di gruppi o di singole personalità. La storicizzazione delle proposte di poesia viene così a coincidere con l’auto storicizzazione ad opera delle personalità più influenti e facoltose.
Così Piccini dichiara nella introduzione alla sua antologia i suoi intendimenti metodologici:
Nonostante tutto ciò, e messolo in conto, l’antologia che il lettore ha fra le mani nasce e si articola come un tentativo di risposta al vuoto storiografico descritto, verificatosi ora per contrazione ora per casualità, ora per esplosione demografica, democratica e orizzontale delle presenze […]. Quello che si vuole evitare è di favorire in sede storica la proliferazione di autori minori in seno a una stessa trafila poetica, a una medesima (tra le tante possibili) tradizioni. Cercare di fornire per ogni orientamento e ricerca il o i migliori rappresentanti, con tutto il cumulo della loro irriducibilità a un sistema, a una poetica predefinita è la bussola che ha orientato la redazione della presente antologia. (Piccini 15)
Piccini intende mettere un freno all’esplosione demografica delle antologie e lo fa con un’antologia ristretta a poche personalità che siano però considerabili «nevralgiche e capaci di render ragione del quadro» (Piccini 36). Coerentemente con questo presupposto, soltanto tre dei ventuno poeti antologizzati da Berardinelli e Cordelli sono inclusi in La poesia italiana dal 1960 a oggi: Cucchi, De Angelis e Magrelli. Salta agli occhi comunque che la selezione degli autori introdotti: Rondoni, Ceni, Mussapi sia il prodotto più di negligenza per non aver incluso nessun autore che non fosse già ampiamente confortato da una lunga frequentazione dei luoghi deputati della poesia istituzionale.
La seconda antologia del 2005 è Dopo la lirica, curata da Enrico Testa, per Einaudi. Il periodo considerato va dal 1960 al 2000, la selezione include ben 43 autori di poesia. Nella Introduzione, dopo un excursus sulle linee di forza della poesia degli ultimi tre decenni, il curatore presenta i poeti in rigoroso ordine cronologico. Pur nella ampiezza e sobrietà del quadro storico contenuto nella introduzione, alla fin fine il criterio adottato dal curatore finisce per essere quello del catalogo e dell’appiattimento degli autori in un quadro storico direi unidimensionale. Voglio dire che dal quadro storico scompaiono le differenze (se differenze ci sono) tra un autore e l’altro e non è spiegato perché proprio quelli siano i prescelti e per quale giudizio di gusto o di militanza. Se la poesia è in crisi di crescenza esponenziale, il curatore amplia a dismisura i poeti inclusi nella antologia, quando invece sarebbe stato ovvio attendersi una restrizione delle maglie larghissime. A questo punto, l’analisi linguistica dei testi si rivela per quello che è, un valore informazionale e di nessuna utilità ai fini della storicizzazione che avrebbe dovuto spiegare perché proprio quei poeti e non altri. Testa sfiora la problematica centrale, le “grandi questioni” del pensiero e, in particolare, il nichilismo […]; la presenza, infine, di motivi e strutture antropologiche: le figure dei morti al centro di rituali evocativi o procedure sciamaniche, visioni arcaiche dell’essere, animismo della natura, funzione non strumentale e “magica” degli oggetti. (Testa XXXII)
Il criterio guida della antologia è la individuazione,di una rottura radicale della lirica italiana verificatasi negli anni Sessanta. Rottura dovuta a cambiamenti epocali e alle ripercussioni di essi nell’ambito della struttura del testo poetico e delle sue stilizzazioni, con conseguente esaurimento del genere lirico e della sovrapposizione tra la lingua letteraria e la lingua di relazione, che si riflette nella indistinzione tra la prosa e la poesia. Vengono messi nel salvagente gli autori della precedente generazione (Luzi, Caproni, Zanzotto, Giudici, Sereni) con una piccola concessione alla poesia dialettale, Loi, Baldini. Possiamo comprendere lo sconforto del curatore il quale si trova a dover rendere conto della esplosione di un genere indifferenziato stilisticamente come la poesia post-lirica con conseguente difficoltà a tracciare un quadro riepilogativo della situazione e a nulla serve tentare di giustificare questa condizione con l’argomento secondo cui tutta la poesia contemporanea viene considerata «postuma», con il risultato di«una cartografia imperfetta è allora preferibile uno scorcio o veduta parziale» (Testa XXVI).
Di conseguenza, risulta non chiaro quale sia per Testa la linea di sviluppo che la poesia italiana ha seguito dal 1985 al 2005. Ritengo positivo ma non sufficiente l’intendimento di ridimensionare il peso di alcuni autori: Benedetti, Buffoni, Dal Bianco quando invece sarebbe occorso più coraggio nelle esclusioni e nella indicazione delle linee di forza del quadro poetico.
A quindici anni dalla apparizione della antologia Dopo la lirica risulta ancora inspiegato che cosa sia avvenuto nella poesia italiana degli ultimi due lustri, Testa si limita ad indicare le categorie del post-moderno, della postumità della poesia, della poesia post-montaliana, questioni stilistiche peraltro abbastanza confuse, l’unico punto messo a segno appare l’aver individuato il discrimine tra il genere lirico ormai esaurito e il sorgere di una poesia post-lirica. L’ipotesi che guida lo studioso è valida ma ancora vaga e ondivaga in quanto mancante di ulteriori elementi da aggiungere alla «mappa» dei 43 autori per completare il quadro, sarebbe occorso una diversa campionatura e uno studio più approfondito sugli autori della militanza poetica che testa non ha compiuto, probabilmente per l’enorme congerie di autori e di testi che galleggiano nel mare del villaggio globale del poetico italiano.
Parola plurale di Andrea Cortellessa tenta di fare il punto della situazione comprendendo alcuni autori già selezionati ne Il Pubblico della poesia di Berardinelli e Cordelli del 1975 nella Parola innamorata. Il modello è sempre quello de Poeti italiani del Novecento di Vincenzo Mengaldo .
Si procede per inflazione dei numeri: gli autori confluiti nella Parola plurale sono 64, numero pari a quello dell’antologia di Berardinelli e Cordelli. Il primo capitolo, inoltre, non solo riprende gli autori antologizzati nel 1975, ma già nel titolo rimanda esplicitamente a quel precedente: Effetti di deriva, cioè il saggio di Berardinelli, è qui diventato Deriva di effetti. I curatori di questa antologia danno molto rilievo alla frattura posta al centro della riflessione e dell’operazione antologica di Berardinelli e Cordelli, dei quali riprendono le date di rottura: 1968, 1971 e 1975. Nel Sessantotto si esaurisce l’esperienza della Neoavanguardia «l’ultimo tentativo compiuto dal Moderno di rinnovare l’Idea di Forma senza allontanarsene del tutto» (Alfano. 20). Il 1971 conclude l’evoluzione del genere lirico con le raccolte di Montale e Pasolini (Satura e Trasumanar e organizzar), e apre un altro periodo con Invettive e licenze di Dario Bellezza. L’idea di fondo di Parola plurale è mettere il punto fine al periodo inaugurato dalla antologia di Berardinelli e Cordelli del 1975 per ripartire dalla idea di una selezione degli autori in base ad un codice o modello «plurale», nonché di riposizionare il genere antologia mediante la introduzione di un elemento di collegialità.
L’organizzazione «policentrica» di mengaldiana memoria, rinvigorita da una solida struttura saggistica che inquadra i testi si scontra con il problema oggettivo della omogeneizzazione dei criteri e dei giudizi di gusto dei singoli curatori che affiancano Cortellessa, e quindi della selezione e della organizzazione di una antologia “plurale” dove ogni inclusione ed ogni esclusione viene appesa al giudizio di gusto dei singoli curatori , in tal modo, in mancanza di un comune orizzonte di ricerca, la “collegialità” del lavoro finisce inevitabilmente per coincidere con la gratuità delle singole inclusioni.
Il problema della «mappa» in mancanza di un progetto che rientri in un preciso orizzonte degli eventi, finisce per periclitare in una gratuita pluralità di gusti e di posizioni individuali prive di una omogeneizzazione che può nascere soltanto da una attiva militanza nel territorio poetico.
Così spiega un curatore la sua idea: «La risposta […] sta nel dismettere l’idea di mappa – ove questa di necessità comporti raggruppamenti e sigle […]. Non si progetti un’ennesima mappa dall’alto, non si operi più sulla base di astrazioni, di modelli cartografici desunti da quelli passati (‘generazioni’, ‘gruppi’, ‘linee’…); ma lo si percorra in lungo e in largo – questo territorio. (Alfano et al. 9)
Dei 64 poeti, circa una ventina obbediscono ad una linea neo o post-sperimentale, tutti gli altri appaiono posteggiati in una sorta di narratività allo stadio zero della scrittura. Accade così che Parola plurale, sicuramente uno dei cataloghi più aggiornati sotto il criterio bibliografico alla fine non riesce ad evitare una sorta di genericità e di inesplicabilità della situazione della poesia italiana contemporanea che non vada oltre il facile truismo della mancanza di un canone o modello. E anche puntare il dito sulla de-ideologizzazione della scrittura poetica, non solo non è un criterio sufficiente ma, a mio avviso, non fa altro che aggravare il problema di non aver saputo o potuto centrare l’obiettivo di una antologia della poesia contemporanea italiana.
A mio avviso, la mancanza di una militanza sul terreno del poetico rende enormemente difficoltoso se non impossibile tracciare alcun confine della «mappa» per il semplice fatto che non si ha adeguata cognizione del territorio reale cui la «mappa» dovrebbe corrispondere.
E siamo giunti a Come è finita la guerra di troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2017), a cura di chi scrive, che include soltanto 14 autori, con una netta inversione di tendenza rispetto alla esplosione demografica delle antologie precedenti. E siamo a ridosso della Proposta della nuova ontologia estetica che data dal 2017, una piattaforma di poetica sicuramente militante.
Il cuneo analitico e critico, da te riportato sulle antologie poetiche, passate e presenti, ha messo in rilievo gli orizzonti ristretti e panoramici della poesia con variabili formali che caratterizzano più specificamente l’ideologia selettiva degli antologisti. Torno al concetto espresso da Montale quando disse che una vera storia sulla poesia non esiste, perchè a tracciarla concorrono elementi diversi di valutazione.da parte del curatore salvo che non sia uno di quelli citati da Roberto Bertoldo in Nullismo e Letteratura, quando scrive che:La pudicizia, rispetto alla propria opera, è la più bella dote di uno scrittore. E’ altresì il segno che quando si scrive sa di non mentire a se steso” Su questo indirizzo, caro Giorgio, credo, si proporrà in futuro l’antologia NOE, vero punto di forza e di distacco dalle precedenti e da quelle più recenti. Auguri.
leggasi a -se stesso-.
L’evento linguistico come fulcro della poesia della Nuova Ontologia Estetica
La problematica dell’evento emerge e si impone nella nuova ontologia estetica a partire dal ripensamento del concetto di evento presente nel pensiero heideggeriano a partire dalla metà degli anni Trenta, nel quadro di una riconfigurazione complessiva del suo pensiero: si tratta ora non più solo di analizzare l’essere, la temporalità e la storicità dell’esserci per guadagnare a partire da qui il senso dell’essere in generale (come avveniva in Essere e tempo), ma di pensare la temporalità e la storicità dell’essere stesso nella sua verità e di ricomprendere l’esserci in questo quadro. Il termine Ereignis risponde quindi alla volontà di pensare l’essere stesso a partire dal nesso disvelatezza/nascondimento e in senso temporale-
storico.
Pensare l’essere come evento era tuttavia una direzione pre-delineata dall’impostazione stessa che Heidegger aveva dato alla Seinsfrage
fin dall’inizio e rappresenta la risposta più coerente e radicale a quella questione: se l’essere non è un ente e deve essere compreso in questa sua differenza, se bisogna abbandona-re i concetti metafisici di causa e fondamento, l’essere si rivelerà allora come evento, come il suo proprio accadere nel quale giungono a manifestazione gli enti. L’essere non è un ente né il fondamento degli enti, ma l’evento del loro venire alla presenza.
Evento dinamico o movimento, perché l’«essenza» degli enti (intesa non più come sostantivo, ma come verbo), non è qualcosa di statico e dato, ma il dispiegarsi temporale e manifestativo del loro essere. D’altra parte, comprendere l’essere a partire dalla temporalità originaria, secondo quello che è fin dall’inizio il progetto heideggeriano, significa evidentemente pensare l’essere in un senso dinamico e in una prospettiva evenemenziale:
al di là del significato dell’essere come presenza stabile, che ha dominato l’ontologia tradizionale, bisogna pensare l’evento di questa presenza stessa, riconducendola al pieno dispiegamento della temporalità, che «non è, ma si temporalizza».
D’altra parte, il fatto che il tema dell’ Ereignis sorga inizialmente nell’ambito e in vista della questione dell’essere prescrive a sua volta la prospettiva e i limiti in cui il problema dell’evento compare nel pensiero di Heidegger. Bisogna infatti ricordare che Heidegger non assume il termine Ereignis nel suo significato comune e non si riferisce quindi ai singoli eventi sporadici che avvengono nel corso della temporalità dell’esserci, ma come figura manifestativa che viene alla presenza, esponente linguistico, parola, logos e logos poetico.
In tal senso, la nuova poesia invoca una nuova sensibilità per il concetto di evento linguistico che accede alla presenza, alla manifestatività dell’esserci.
. Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, HGA; trad. it. di P. Chiodi, a cura di F.
Volpi, Essere e tempo , Longanesi, Milano p. 321
Grazie a Mario Gabriele e Giorgio Linguaglossa, ripercorrere la storia recente della poesia italiana attraverso la codificazione autoriale e autorevole delle antologie mette bene in luce la temperie culturale che circonda tali operazioni critiche… e anche spesso la difficoltà dei curatori, il loro disorientamento, senza più canoni o modelli, se non una disseminazione di individualità spesso epigoniche ma stabilizzate, per lo più, dentro un sistema accademico o di visibilità editoriale che affolla le antologie di poeti, quasi si trattasse di un albo professionale. Forse manca la ricerca e la scoperta di personalità marginali ma importanti, ricerca che una volta era alla base del lavoro del critico letterario. Figura obsoleta? viene da chiedersi.
Scrive Linguaglossa: “E siamo giunti a Come è finita la guerra di troia non ricordo (Progetto Cultura, Roma, 2017), a cura di chi scrive, che include soltanto 14 autori, con una netta inversione di tendenza rispetto alla esplosione demografica delle antologie precedenti. E siamo a ridosso della Proposta della nuova ontologia estetica che data dal 2017, una piattaforma di poetica sicuramente militante.” Una delle novità più importanti mi pare proprio questo esercizio di pensiero poetico intorno ad una interrogazione di senso, a una riformulazione ontologica del discorso poetico, pur nell’autonomia e nella diversità delle personalità poetiche coinvolte.
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https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/09/25/mario-m-gabriele-sulle-antologie-di-poesia-del-secondo-novecento-retrospettiva-storica-da-lirici-nuovi-di-luciano-anceschi-1954-a-how-the-trojan-war-ended-i-dont-remember-2019/comment-page-1/#comment-59298
E allora? Non resta che tornare alle Antologie militanti.
Diciamo la verità, amara ma necessaria:
tutte le antologie uscite finora negli ultimi trenta anni sono dei campionari di merci a scadenza breve, cataloghi tutt’alpiù con gli indici degli autori sempre più inflazionati. Non ci sono criteri di fondo che reggano insieme tutti questi cataloghi, non c’è alcuna ragione di fondo tranne quella della visibilità e del balcone sul villaggio globale.
A questo punto non rimane che una sola via: tornare alle Antologie rigorosamente di ricerca, che individuano una direzione di ricerca e che la perseguono, e restringere al massimo il numero degli autori inclusi.
Non c’è più un orizzonte di attesa per la poesia. La poesia è rimasta senza orizzonte oltre che senza un pubblico. Ancora ai miei tempi, durante gli anni sessanta e primissimi settanta, c’era ancora un pubblico della poesia, anche se in via di assottigliamento. Voglio dire un pubblico che si aspettava qualcosa dalla poesia, che cosa non lo sapeva, doveva essere la poesia a dirglielo. Oggi non c’è più un orizzonte di attesa, e quindi l’autore di poesia osserva il linguaggio come uno spettatore che osservi un paesaggio senza orizzonte. Voglio dire che quel guardare non è più un guardare, è un vedere, è un vedere le cose piatte e diafane. Così, la poesia è rimasta oltre che priva di un orizzonte anche del linguaggio, non ha più un linguaggio, e questo fa sì che la poesia della NOE abbia in sé qualcosa della improvvisazione e della indeterminazione e anche qualcosa di notevolmente superiore: la consapevolezza della futilità di tutte le questioni estetiche dell’estetica classica delle avanguardie e post-avanguardie del novecento, perché quelle lì volevano rottamare ancora qualcosa, quel qualcosa che oggi non c’è più da un bel pezzo.
Come abbiamo appreso da Marx, l’occultamento e il travestimento sono modalità che si presentano nella modernità delle società vetrinizzate. Direi che queste sono anche delle categorie che si offrono alla poetica e all’estetica. Nel tuo procedere poetico, occultamento e travestimento costituiscono un elemento fondante, nel senso che fondano delle maschere che fuoriescono dal nulla del fondale e che ritornano nel nulla del fondo, che si inabissano nello sfondo.
«La poésie doit etre faite par tous. Non par un. Questa frase del poeta franco-uruguaiano Isidore Lucien Ducasse, più conosciuto con lo pseudonimo di conte di Lautréamont, sintetizza molto bene la scomparsa dell’azione letteraria nell’età della comunicazione in cui tutti scrivono, ma nessuno legge, tutti parlano, ma nessuno ascolta».1
1 M. Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, 2009 p. 59
Penso che il miglior modo per rappresentare in poesia, nelle arti figurative e nel romanzo il mondo di oggi sia quello di darsi una piattaforma categoriale entro la quale costruire la gabbia della nuova poesia. In questa direzione di ricerca il distico, il polittico, la scansione temporale e spaziale, l’interferenza, l’entanglement, la sovrapposizione dei tempi e degli spazi, la peritropè, l’estraneazione, la disfania, la diafania, l’atopismo, l’esistenzialismo… tutte queste categorie devono essere integralmente rimeditate, altrimenti si continua a fare la poesia epigonica e agonica degli ultimi decenni…
Sopravvivere a un attacco di scafandri e radioonde
Chiedersi che cosa significhi un verso siffatto è come quella bambina che nel museo di Picasso a Barcellona, di fronte a un quadro del busto di una signora con un occhio sopra e uno sotto il mento e il naso al posto delle orecchie etc. di Picasso, si chiedeva: «mamma ma l’autore del quadro è diventato pazzo?».
È esattamente così. Porsi davanti ad una poesia della nuova ontologia estetica ricercandone un senso e un significato già noto e consolidato, equivale a porsi davanti ad un quadro di Picasso ricercando in esso la sintassi pittorica di Tiziano o di Rembrandt o di Vermeer. Nei tuoi versi o in quelli di Marina Petrillo e degli altri poeti nuovi non c’è nulla che possa rimandare alla poesia di un Pasolini, di un Fortini e neanche di un Sanguineti, è cambiato il «modo», oltre che il mondo, cioè il linguaggio, e questo nuovo linguaggio richiede nuove categorie di pensiero, richiede un nuovo «modus».
Recentemente, un autore mi ha scritto in una email che io elogio ed esalto poeti mediocri mentre denigro e devaluto poeti veri. Il suo punto di vista è comprensibile, comprendo la sua obiezione. Ma il mio sforzo di ricerca ermeneutica è proprio quello di cercare nuove categorie di interpretazione di un fenomeno nuovo qual è la nuova poesia italiana; la poesia della nobile tradizione che arriva fino a Composita solvantur (1995) di Fortini non mi interessa più di tanto, il mio interesse si concentra sulla «nuova poesia». Penso che ciò sia legittimo. Quella è ormai la tradizione del novecento e il miglior modo per rivitalizzarla e farla rivivere è fare della archeologia, recuperare e riposizionare all’interno della nuova poesia quella tradizione; non avrebbe senso continuare a versificare come hanno versificato i poeti della tradizione recente e meno recente.
Quanto alla questione della «ontologia» qualcuno mi ha rivolto la critica secondo cui noi continuiamo a pensare l’ontologia come discorso sulla «sostanza». Ebbene, mi permetto di ribaltare questa critica nel suo contrario: sono proprio i conservatori del linguaggio poetico a pensare e a scrivere secondo il concetto di una ontologia come «sostanza», io infatti ho parlato a più riprese di «ontologia meta stabile», proprio per segnalare che l’ontologia di cui trattiamo non è quella «sostanza» stabile che costituisce il mondo, quanto una «esigenza», un modus…
E allora? Non resta che tornare alle Antologie militanti.
caro Giorgio,
una volta chiarita la matrice originaria delle antologie novecentesche, come prodotto di consumo nell’era dei mass-media e del capitalismo economico e politico,fonte di profitto e mezzo di controllo della cultura, appare chiaro e necessario destrutturare ciò che si è prodotto nel campo della poesia del 900, sostituendo tutto il format con un nuovo post-modernismo di tipo linguistico, per riprendere, rilanciare, e attualizzare un programma poetico, configurabile nella sigla NOE. Una attività poetica come questa che stiamo affrontando può lasciare interdetti gli appassionati dell’IO e dell’Elegia.Il fatto è che la poesia tradizionale si è ficcata nella mente dei lettori, come unica e vera dimora. Bisogna ricostruire luoghi e parole, fare da ponte verso il terzo Millennio, perchè si formano nuove generazioni di lettori abituati alla tecnologia industriale e alla lessicologia. Non possiamo lasciarli come tante tribù isolate. La nuova ontologia è il presente, è un passaggio verso il futuro, in quanto da qualunque angolo la si possa giudicare è sempre poesia che segnala altre direzioni, navigando nel mare magnum del linguaggio che non porta con sè la tecnica dl depistamento.
caro Mario,
la situazione del comparto poesia in Italia la si può descrivere così: siamo in una situazione storica di de-strutturazione permanente della poesia caratterizzata da assenza assoluta di seria ricerca. È come se la scienza si fermasse per carenza assoluta della attività dei ricercatori. Come la scienza e ogni altro campo dell’attività umana anche la poesia si muove e si rinnova se c’è ricerca, se ci sono ricercatori, altrimenti si ferma e sopravvive a se stessa nell’immobilità, ed è destinata alla estinzione.
Questa de-strutturazione permanente è ormai diventata una situazione consolidata, durerà per un tempo molto lungo, almeno per tutto il tempo in cui la poesia rimarrà ostaggio di ristrette élites che ne detengono la rappresentanza, non c’è da farsi illusioni.
Si celebrano riti, si moltiplicano le lezioncine accademiche, gli incontri al polistirolo, i discorsi usufruttuari delle rendite di posizione, perifrasi del nulla e del vuoto utili affinché nulla cambi.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/09/25/mario-m-gabriele-sulle-antologie-di-poesia-del-secondo-novecento-retrospettiva-storica-da-lirici-nuovi-di-luciano-anceschi-1954-a-how-the-trojan-war-ended-i-dont-remember-2019/comment-page-1/#comment-59305
La condizione ontologica di secondarietà del linguaggio poetico
Riporto una mia riflessione scritta in margine a una poesia di Mario Gabriele:
Il fatto che la scrittura sia radicalmente seconda, ripetizione della lettera, e non voce originaria che accade in prossimità del senso, occultamento dell’origine più che suo svelamento, innesta costitutivamente nella sua struttura di significazione la differenza, la negatività e la morte; d’altra parte solo quest’assenza apre lo spazio alla libertà del poeta, alla possibilità di un’operazione di inscrizione e di interrogazione che deve «assumere le parole su di sé» e affidarsi al movimento delle tracce, trasformandolo «nell’uomo che scruta perché non si riesce più ad udire la voce nell’immediata vicinanza del giardino» (Derrida).
Il mito di una esperienza originaria che sarebbe avvenuta con l’acquisizione del linguaggio primordiale, la «lingua matria», come è stata definita, il dialetto, è, lasciatemi dirlo, un mito peregrino che, come tutti i miti, è soggetto alla de-mitizzazione. Non c’è nessun linguaggio che nasce da una immediatezza primordiale. In specie il linguaggio poetico è lontanissimo da ogni immediatezza o «lingua matria» o lingua-dialetto che dir si voglia. Sgombrato il campo da questi equivoci, possiamo affermare che il linguaggio poetico è una struttura seconda, affetta da secondarietà, irrimediabilmente secondogenita che, però accenna, allude, richiama il mito del linguaggio primordiale.
L’esperienza della verità può dunque configurarsi soltanto entro le coordinate di una secondarietà secondogenita assolutamente ineliminabile.
Perduta la speranza di un’esperienza immediata della verità, il poeta si deve affidare al lavoro «fuori del giardino», alla traversata infinita in un deserto senza strade prefissate, senza un fine prestabilito, la cui unica eventualità è la possibilità di scorgere miraggi. Partecipe di un movimento animato da un assenza, il poeta non solo si troverà così a scrivere in un’assenza, ma a diventare soggetto all’assenza, che «tenta di produrre se stessa nel libro e si perde dicendosi; essa sa di perdersi e di essere perduta e in questa misura resta intatta e inaccessibile». Assenza di luogo quindi, e, soprattutto, assenza dello scrittore.
Per Derrida «Scrivere, significa ritrarsi… dalla scrittura. Arenarsi lontano dal proprio linguaggio, emanciparsi o sconcertarlo, lasciarlo procedere solo e privo di ogni scorta. Lasciare la parola… lasciarla parlare da sola, il che essa può fare solo nello scritto». (Grammatologia)
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Sul problema dei cambi generazionali in letteratura, scrive Jurij Tynjanov:
«Quando la vita entra nella letteratura, diventa letteratura essa stessa, e come tale deve essere valutata.È interessante osservare l’importanza della vita degli artisti nei periodi di radicali svolte, di rivoluzione letteraria, quando la linea di letteratura comunemente riconosciuta, dominante, si disperde e si esaurisce, e la direzione nuova non si è ancora trovata. In tali periodi la stessa vita degli artisti diventa letteratura, occupa il posto della letteratura. Come fatti letterari, al genere alto di Lomonosov subentrarono con Karamzin le minuzie della vita quotidiana dei letterati: la corrispondenza con gli amici, lo scherzo d’occasione. Ma l’essenza del fenomeno consiste qui proprio in questo elevare elementi di vita quotidiana al rango di fatto letterario: mentre all’epoca dei generi alti quella stessa corrispondenza privata non era che un fatto di vita pratica senza alcun rapporto diretto con la letteratura.»1
Non c’è dubbio che l’avvento nella poesia italiana degli anni settanta di un cambiamento netto con connessa «discesa culturale», abbia coinciso con l’emersione di autori «nuovi», appartenenti alla nuova generazione, che avevano fatto della vita quotidiana un fatto artistico (penso a Helle Busacca, con I quanti del suicidio, del 1972, ad Anna Ventura con Brillanti di bottiglia del 1978, a Cucchi con Il disperso, nel 1975, fino a Giorgia Stecher con Altre foto per Album del 1996… e poi al fiume del minimalismo con Magrelli e il magrellismo… giunto con varie ramificazioni ai giorni nostri come fatto letterario alla moda, poesia comunicazionale).
Oggi con la Nuova Ontologia Estetica abbiamo un elemento di forte discontinuità con il minimalismo e il post-minimalismo: la vita quotidiana non entra più come storia da raccontare nella nuova poesia, l’io non è più l’epicentro della narratività, alla de-ideologizzazione dell minimalismo e del post-minimalismo è subentrata una intensa problematizzazione delle tematiche che un tempo si consideravano «metafisiche», e un vero e proprio cambio di paradigma poggiato su un ampio zoccolo filosofico, sulla ontologia positiva.
Penso che si debba leggere in questa prospettiva il lavoro, probabilmente ancora insufficiente, di una antologia come How The Trojan War Ended I Don’t Remember, che cerca il filo conduttore per una nuova poesia, una poesia che abbandoni le istanze e la prospettiva del minimalismo che ha dominato gli ultimi cinque decenni della poesia italiana ed europea. Non si tratta di un catalogo di autori disparati ma di una ben precisa direzione di ricerca.
Già circa cento anni fa, Tynjanov pensava intorno al «linguaggio poetico» e si chiedeva cosa fosse:
«Il problema del linguaggio e dello stile poetico va considerato a parte. Questo campo di studio è separato dallo studio del verso, tanto da far pensare che lo stesso linguaggio e lo stile della poesia non siano legati col verso e non ne dipendano.
Il problema “del linguaggio poetico”, posto non molto tempo addietro, si trova ora ad un punto di crisi, senza dubbio per la vastità e l’indeterminatezza che l’estensione e il contenuto di questo concetto, fondato su una base psicolinguistica, presentano. Il termine “poesia”, nella nostra accezione linguistica e scientifica, ha perso attualmente ogni concreta estensione e contenuto, per assumere una connotazione valutativa».2
«Come nel teatro medievale per la scena che rappresentasse un bosco era sufficiente un cartello con la scritta “bosco”, così in poesia può bastare, in luogo di un qualsiasi elemento, la semplice indicazione del medesimo».3
«Il metro, come regolare sistema di accenti, può anche non esservi… Il principio del metro consiste nel raggruppamento del materiale del discorso in base agli accenti».4
1] J. Tynjanov, Problema stichotvornogo jazyka (1923) – trad it. Il problema del linguaggio poetico, Il Saggiatore, Milano, 1968, p. 55
2] Ibidem, Prefazione
3] Ibidem p. 33
4] Ibidem p. 35
la parola?
“lasciarla parlare da sola”… non parlare, ma “cantare”.
La parola ha (possiede) un suo canto interiore che il poeta non sa.
Far poesia è anche andare alla ricerca di questo canto.
Quando il poeta è presso la soglia di questo canto si apre un “portale di scoperta”, come scriveva Joyce, non intendendo lui che si trattava soltanto di poesia, ma di ben altro e cioè di un appressamento al suono (canto) e poi scoprire se mai un senso.
Quando il canto della parola e il canto del poeta coincidono, o si incontrano o comunque entrano in sintonia… simbiosi o osmosi sono la premessa di una rinascenza , ma anche di una distruzione.
Derrida non era un poeta, ma un segugio che si aggirava intorno alle torri della poesia, annusando se per caso o per ricerca continua ci fossero
dei pertugi di dove infilarsi; qualche volta ci riusciva, spesso no.
Quando ci riusciva si trovava di fronte ad altre torri e doveva ricominciare daccapo; Derrida era convinto alla fine che si sarebbe trovato di fronte ad una ultima torre, cioè di fronte al mistero della poesia (diceva di mistero e non s’accorgeva di ritornare indietro disordinatamente: una fuga disastrosa la sua ricerca).
Ma invece di una ultima torre, gli mancò di pensare (riflettere), che si sarebbe trovato di fronte innumerevoli torri, infinite torri, e ogni torre era un frammento e ogni conquista di un frammento una conseguente frantumazione, infinite frantumazioni… Derrida si smarrì perché non era un poeta, ma un segugio che non sapeva più quale pista (in-)seguire.
a. s.