Roberto Maggiani, Poesie scelte da Angoli interni, Passigli, 2018, pp. 138 € 16.50 con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa. La pratica della poesia come percorso eidetico

Foto Zazie nel Metrò

In tutto l’Occidente/ pare non esserci un sole più luminoso

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 Roberto Maggiani è nato a Carrara nel 1968, laureato in Fisica all’Università di Pisa, ha conseguito un Master di secondo livello in scienza e tecnologia spaziale, vive a Roma, dove insegna. Ha fondato, insieme a Giuliano Brenna, la rivista letteraria libera on line LaRecherche.it, di cui è coordinatore di Redazione, e per la quale cura la Collana di e-book “Libri liberi”; è Presidente dell’omonima Associazione culturale. Ha pubblicato varie raccolte di versi, tra le quali: Cielo indiviso, Manni Editori; Scienza aleatoria, LietoColle; La bellezza non si somma, italic. Suoi testi e traduzioni dal portoghese sono pubblicati su varie riviste letterarie e antologie. È giurato e Presidente del Premio Letterario Nazionale “Il Giardino di Babuk – Proust en Italie”
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Come accade una parola «nuova»? Da dove cade? E verso dove cade? E perché cade?

di Giorgio Linguaglossa

Parlavo qualche tempo fa con Marie Laure Colasson intorno a quella nuova parola, a quel nuovo concetto: «dis-fania», proprio della «nuova ontologia estetica»; chiedevo: Che cos’è una «disfania»? – Ecco il punto. Come accade una parola «nuova»? Da dove cade? E verso dove cade? E perché cade? – Una parola «nuova» indica una cosa «nuova», una cosa che prima non esisteva? E se non esisteva è perché nessuno aveva sentito il bisogno che esistesse, nessuno l’aveva cercata, e magari trovata? – In verità, una parola «nuova» viene incontro ad un «nuovo» bisogno, a una «nuova» esigenza. Da Gadamer in poi noi utilizziamo, in modo inconsapevole e irriflesso, un concetto di linguaggio inteso fondamentalmente come dialogo, quale «orizzonte di un’ontologia ermeneutica»; ciò implica che il «nuovo», se è nuovo, non può non inserirsi nell’«orizzonte di un’ontologia ermeneutica» che ricomprenda il «vecchio» in quanto presupposto del «nuovo». Secondo questa concezione ermeneutica non c’è «nuovo» se non c’è il «vecchio», il «nuovo» e il «vecchio» sono le due facce di una stessa moneta. È la forza del «vecchio» che spinge verso il «nuovo», il «nuovo» è una forza oggettiva, che spinge e preme verso il futuro. È il treno ermeneutico che non si può arrestare.

Detto questo, possiamo sostenere che la poesia di oggi indica qualcosa di «nuovo»?, che qualcosa di «nuovo» è avvenuto, magari a nostra e sua insaputa, mentre eravamo distratti, non avevamo fatto caso a certi segnali, a certi accenni, a certi indizi? – Il mondo nel frattempo è mutato e la «nuova» poesia avverte che qualcosa è cambiato, che occorrono parole diverse, nuove, non usurate.

La «nuova» poesia» indica un atto poeticamente attivo di dis-missione: una piegatura verso la dis-proprietà, una dis-appropriazione, una de-angolazione, il lasciar andare a fondo ciò che deve cadere, ciò che fino a un minuto fa ci sembrava importante. E all’improvviso ci accorgiamo che tutte quelle «cose» che credevamo importanti e determinanti per la nostra sicurezza, per i nostri valori di cui non potevamo fare a meno, adesso non sono più così importanti, perché è cambiato il metro dei valori, la scala gerarchica entro cui quelle «cose» trovavano il loro posto.

Foto Descending Man, Photo by Jason Langer

Semplicemente, quelle «cose» hanno traslocato, hanno cambiato domicilio, e noi non siamo più con loro, presso di loro

Semplicemente, quelle «cose» hanno traslocato, hanno cambiato domicilio, e noi non siamo più con loro, presso di loro; perché anche noi nel frattempo abbiamo cambiato domicilio, in quanto noi siamo sempre alla ricerca di un domicilio più accogliente, di un posto dove le parole possano attecchire e albergare, perché il vecchio domicilio è stato dismesso, quel domicilio dal quale siamo stati sfrattati e siamo stati costretti a sgomberarlo e a gettare nella discarica le vecchie masserizie, le vecchie inutili suppellettili, le parole usurate… La dis-appropriazione implica la rinuncia a qualcosa che non ci appartiene più, che non è più di nostra proprietà, che qualcosa ci è diventata estranea e non la riconosciamo più. Mediante l’atto mentale della dis-appropriazione possiamo percepire meglio gli «angoli interni» delle cose, diventiamo più leggeri, gettiamo a mare l’ingombrante zavorra delle «cose» per noi non più utili e le lasciamo andare a fondo… e torniamo a respirare, ci scopriamo più leggeri…

In fin dei conti, la dis-appropriazione è affine al dis-allontanamento, è il percorso inverso, e questo scoprimento degli «angoli interni», indica un allontanamento da ciò che siamo stati fino ad un momento prima e un avvicinamento a ciò che siamo adesso, a ciò che stiamo per diventare, adesso nel momento in cui vi sto parlando. Questa de-angolazione prospettica è essenziale alla «nuova» poesia, altrimenti si rischia di ricadere nella impostazione elegiaca. La poesia ha bisogno di un modus dis-propriante, dis-allontanante, de-angolante, ci dice che una nuova sensibilità è finalmente matura per gettare nella discarica le parole strumentali che fino a un momento fa credevamo appropriate.

La pratica della poesia come percorso eidetico

La poesia di questi ultimi decenni in Italia sembra ancora attestata sul concetto di una «ragione strumentale (instrumentelle Vernunft, afferma Gadamer)», di una «razionalità rispetto allo scopo (Zweckrationalität)», di un «pensiero calcolante (rechnendes Denken)», per dirlo ancora con Gadamer, con il che la poesia assume dalla ragione strumentale proprio quelle caratteristiche che dovrebbe invece espungere dalla propria pratica. Se la poesia è «pratica» è anche «incontro», e, come ogni «incontro» c’è del residuo casuale, un residuo che cade fuori della «pratica». La frequentazione di una pratica di eventi, è essa stessa avventura, personificazione di un evento, individualizzazione di un evento in un attimo dello spazio-tempo.

La difficoltà per la poesia italiana di oggi e degli ultimi decenni è che è venuta a mancare una «visione d’insieme», un Progetto, una «casa comune» come diceva Renato Serra proprio cento anni or sono, un critico oggi dimenticato. Mi chiedo, e vi chiedo: quali sono stati gli sviluppi, i sentieri interrotti, i nodi della poesia italiana dagli anni sessanta ai giorni nostri?  In questi decenni si è andati avanti per inerzia, per spinte corporali, per suggestioni, per imitazione, per epigonismi, per mimetizzazioni, per opportunismi. Non c’è più da tempo immemore una poetica critica, nessuno parla più di poetica come di una «casa comune», ciascuno pensa di essere così bravo da poter fare da solo e mettersi in vetrina. In queste condizioni i più giovani sono i più svantaggiati, perché mancano di memoria storica, non hanno, per ragioni biografiche, la memoria storica dei problemi estetici e non che sono rimasti irrisolti. Ricordo che trenta anni fa un noto critico di Roma affermava che fare poesia corrispondeva ad «un bisogno corporale», era qualcosa di analogo al «bisogno corporale». Certo è che con queste categorie non si va da nessuna parte, o meglio, si va a finire nel brodino caldo.

«Una difficoltà in filosofia è che manchiamo di una visione d’insieme. Ci imbattiamo nello stesso tipo di difficoltà che avremmo con la geografia di un territorio del quale non possediamo mappe, o solo una mappa di singoli posti. Il territorio del quale stiamo parlando è il linguaggio e la geografia è la grammatica. Possiamo percorrere il territorio senza grosse difficoltà, ma quando ne dobbiamo fare una mappa, ci sbagliamo. Una mappa mostrerà percorsi diversi che attraversano gli stessi luoghi; ne possiamo prendere uno alla volta, ma non due contemporaneamente, proprio come in filosofia dobbiamo occuparci dei problemi uno alla volta, sebbene in effetti ogni problema rimandi a molti altri. Dobbiamo attendere sino a che non siamo tornati al punto di partenza prima di poter discutere il problema che abbiamo affrontato in precedenza o procedere verso un altro. In filosofia le questioni non sono abbastanza semplici da poter dire “ne abbiamo un’idea sommaria”, perché non conosciamo il territorio se non attraverso la conoscenza delle connessioni fra i percorsi. Così consiglio la ripetizione come un modo di indagare le connessioni»

(L. Wittgenstein, [dichiarazione sul proprio metodo filosofico, rilasciata nel 1933], in Wittgenstein. Una biografia per immagini [2012], a cura di M. Nedo, trad. di A. Bernardi e M. Jacobsson, Roma, Carocci, 2013, p. 11).[citato in un libro di Alessandro Gaudio ancora inedito].

Scrive un giovane critico, Alessandro Gaudio:

  «Un dettaglio oscuro, esente da qualsiasi vanità intellettuale, uno scrupolo, etico oltre che estetico, che impedisca di sprofondare nella sabbia del proprio tempo e consenta per un attimo di capire, attraverso la letteratura, la filosofia, la psicoanalisi, l’antropologia, la storia dell’arte e la fotografia, ma anche la fisica e la matematica, l’ordine delle cose e il progetto cui esso si ispira. Come uno specchio rotto che, riflettendo una realtà atroce e irrilevante, fornisca sorprendentemente uno spunto o una scorciatoia per immaginare e per ridefinire teoricamente (e, spesso, dialetticamente) i rapporti tra le diverse discipline e che, comunque, si guarda bene dal trasfigurare il reale. Un battito di ciglia, quello con il quale si chiude un’epoca, un indizio dello sfacelo, della tacita rovina, un relitto della nostra civiltà offesa. Oppure un piccolo specchio d’acqua, un sogno, un miraggio, una piccola aberrazione decimale che accresca in noi la saggezza o la follia, ma comunque l’espressione di una quotidianità o di una strana mania: «Si tratta − spiegava Adorno nel 1947, concludendo i suoi Minima moralia − di stabilire prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe, come apparirà un giorno, deformato e manchevole, nella luce messianica». Tuttavia, pur prediligendo il frammento, non lo si riduce a esercizio di stile, disinteressato o impropriamente assolutizzato e chiuso, a «fortezza costruita con gli stuzzicadenti», diceva Leonardo Sinisgalli, il poeta delle ‘due culture’ (quella scientifica e quella umanistica, ovviamente).»

Foto Sadness fear

Angoli interni

1

In tutto l’Occidente
pare non esserci un sole più luminoso
le cui dita tocchino i tetti e le strade
come qui a Lisbona –
molli carezze e rintocchi sulle campane.

Dal piazzale Sophia de Mello
si può sfiorare São Jorge con una mano –
poco oltre
il Tejo esita placido sotto il ponte 25 de Abril.

Nonostante la bellezza mi circondi
provo un sottile disagio.

2

Seguo le linee degli sguardi:
lei guarda me io guardo lui
lui guarda un’altra –
un triangolo perfetto
se non fosse per la somma sbagliata
degli angoli interni.

La fabbrica dei viventi

1

Dalle molecole alle cellule
aumenta la complessità
in riduzione di entropia
fino a comporre –
con antichissime istruzioni
dalla fabbrica dei viventi –
un uomo.

2

Sono nato anch’io
in uno spazio espanso
all’apice dell’evoluzione –
nascosto nelle “possibilità” dell’esistenza
ho attraversato ere di totale silenzio
finché qualcosa o qualcuno
mi ha scontornato dalla materia:
somma di termini
non uguale al risultato atteso.

3

Quante forme ha la vita
e quanti tempi?
Ogni cellula che perdo
mi lascia qua intero.

4

Che cosa facevo
prima di essere vivificato?
Non riesco a ricordarlo.
È assurdo pensare l’Universo
senza la mia esistenza –
presunzione della vita cosciente.

Combinazioni

1

La vita è materia
con dentro un pensiero:
cura e osserva sé stessa
si organizza e spera –
materia che mangia materia.

2

Molecole del mio gatto
prima di legarvi nella sua carne
dove stavate – cosa eravate –
foglia o intestino di cane?

3

Tra le possibili
combinazioni del reale
avverrà mai
quella che in un attimo
mostri l’idea risolutiva
la combinazione perfetta
e discriminante
rispetto a quelle maggioritarie?

4

Le leggi del Cosmo
non hanno eccezioni –
tutto è calcolato e imperfetto
come nell’amore.

Se chiami ti rispondo
ma non sperare che io ti salvi.

.

Stomatoliti

1

Il significato del mondo
vagava nel grigiore delle ere
tra l’indifferenza molecolare –
finché prese dimora
in un cervello senziente
e si manifestò
nella prima parola.

2

Ricordarsi ciò che andò perso –
a fatica ritrovarlo –
risalire le pendici del monte
dal quale cademmo
sul terreno della preistoria
pelosi e con il cranio piccolo.
A fatica ricomporre la conoscenza.
Siamo gli ultimi trenta secondi
di un’evoluzione di ventiquattro ore:
ringrazio per l’ossigeno i cianobatteri
delle stromatoliti.

La minestra

1

Come uno chef
raccoglie affétta e rimescola
nature animali e vegetali
nello spazio di una cucina
così un poeta raccoglie
tutto il Cosmo in un solo verso.

2

Dio ha una verità
che ripete di continuo:
la comunica negli alberi in fiore –
tra i versi di qualche poesia –
o mentre affétto la carne
e rimescolo la minestra
per questa mia biologia.
Ma sempre la dimentico.

3

Certi pensieri se ne vanno via da tutti.
Uccelli notturni dalle grandi ali
cantano nel buio –
solo due tra noi ne hanno memoria.
Àua àua.

.

La mela

1

Vado da Scienza e Poesia
con una mela tra le mani divisa a metà –
è la mia offerta alla loro unione.

2

Taglio mele rosse
per mostrare la relazione
tra le branche del sapere
ma se occorre
sono un cacciatore-raccoglitore
armato di lancia e frecce.
È ciò che sento nel mio essere:
la presenza di un uomo paleolitico
ora in sosta su questa sedia
a raccontare come si possa
interrogare il reale e arrivare al dunque
tra il come della scienza
e il perché della fede
nell’aria di un poema.

3

In piedi sul ponte della poesia
rivelo a Dio ciò che sono
e lui non vede
poiché sono libero
di nascondergli il pensiero –
quello che del mondo conosco
e solo a me appartiene.
Nel mio segreto Egli vive un abbandono:
“Eloì Eloì lama sabactanì.”
D’altronde le mele
da sempre rivelano qualcosa
e portano con sé
un senso di smarrimento –
la voglia di nascondersi –
così fu a partire
dalla più antica che Eva offrì a Adamo
fino al pomo di Eris
lanciato sul tavolo degli dèi
o a quella che cadde sotto lo sguardo di Newton
e poi divenne in Gravitation
universo curvo per tragitti di formica
fino al mio pomo diviso a metà
che qui-ora espongo.

Stelle

Da tutta la vita osservo le stelle:
luci rarefatte e superflue
nelle notti di città.
Delle prime osservazioni
ricordo l’odore del fico
e del geranio
dell’erba umida e dell’aria tagliata
dal freddo terso della notte –
mentre lassù vedevo
piccole luminescenze nel vuoto
in apparenza vicine tra loro –
piuttosto erano
fiamme pulsanti
stufe per alieni nel gelo cosmico.

Come muore una stella?
Come un uomo –
in grandezza o piccolezza –
espandendosi un poco
o esplodendo brutalmente
lasciando residui quiescenti
in spegnimento
o dinamiche sfere rotanti
superdense come fari
o buchi di immensa solitudine.

Supernova

Una vecchia stella logora
implode
rimbalza ed esplode –
l’onda d’urto dilaga
attraversa l’Universo –
non trova una sponda.

Nel cielo della Terra
è improvvisa apparizione
di una nuova stella –
un fiume di luce
che destina i regni.

Buco nero

È una terra dove il terrore
s’inventa in piena luce
ma nessuno lo subisce
perché è un mondo separato
diviso in sé stesso.
Cresce e il suo incremento di superficie
per un bit d’informazione assorbita
è calcolabile.

Il saldatore di stelle

Conosco un ragazzo di proporzioni enormi
lo chiamano il saldatore di stelle.
Ha una maglietta rosa attillata
e armeggia nella penombra vicino alla mappa stellare
attaccata alla parete da una suora con il velo grigio.

Si avvicina Natale e Cosmin salda stelle
nel cielo del presepe –
ha un circuito tra le mani grosse quanto la galassia
e cerca di saldare i contatti in miniatura
di un cerchio di led.

Ha occhi brillanti come stelle
nelle notti d’inverno – quando sembrano
gocce di stagno sul metallo della notte lunare
e c’è una tale elettricità nell’aria
che – come i led di Cosmin – s’accendono
al comando di una grossa mano.

Il mondo di Cosmin è una ragazza
con i capelli lunghi che entra e esce
come una cometa dalla mappa galattica
nel punto in cui è scritto “Noi siamo qui”
e dice: “Ti amo”.

Il fazzoletto

Potrei prendere questo mare
per i quattro angoli
come se fosse un fazzoletto
piegarlo
con le navi dentro come sassolini
e riaprirlo dove mi pare –
o scrollare via le navi
soffiarmi il naso e metterlo a lavare.

57 commenti

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57 risposte a “Roberto Maggiani, Poesie scelte da Angoli interni, Passigli, 2018, pp. 138 € 16.50 con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa. La pratica della poesia come percorso eidetico

  1. Una persona mi ha chiesto il significato di «eidetico», in particolare che cosa significhi l’espressione «percorso eidetico». Riporto qui la spiegazione del Treccani:

    “eidètico agg. [dal gr. εἰδητικός, der. di εἴδησις «conoscenza», dalla radice εἰδ- «vedere»] (pl. m. -ci). – Nel linguaggio filos., che concerne la conoscenza o (con accostamento diretto al verbo originario) la visività. In partic., nella fenomenologia di E. Husserl (1859-1938), intuizione e., l’intuizione intellettuale delle essenze delle cose; riduzione e., l’atto di ricondurre alle loro pure essenze obiettive i fenomeni presenti nella coscienza. Per immagine e., v. eidetismo.”

    Per percorso eidetico non intendevo certo l’husserliana «intuizione intellettuale delle essenze delle cose», quanto una pratica, una attività operazionale, un impianto, o un espianto di cose; percorso eidetico come percorso ad ostacoli, percorso pieno di cose che vanno aggirate e superate… in fin dei conti il discorso poetico è la registrazione magnetica e sonora di un percorso di cose, fatto sulle cose e attraverso le cose, nulla di mistico dunque, sgombriamo subito il campo, la poesia è un percorso eidetico in questo senso. Un esempio? Due versi di Tomas Tranströmer:

    Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
    giù nel profondo dove l’Atlantico è nero.

    Come ho ripetuto più volte con questi versi Tranströmer ha messo il punto fine alla poesia di descrizione e di rappresentazione mimetica del reale. La poesia del Dopo Traströmer sarà necessariamente molto diversa da quella del Prima di Traströmer, chi non l’ha capito continuerà a fare descrittivismi e impressionismi. La nuova ontologia estetica riprende da qui. È molto semplice.

    Fare poesia oggi significa individuare il corrispettivo eidetico di una situazione emotiva fondamentale. Portiamo un altro esempio, un verso di Donatella Costantina Giancaspero:

    Un nido di vespe nel lampadario.

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  2. Ringrazio l’amico Giorgio Linguaglossa per il tempo e lo spazio dedicatomi; fin dai tempi del mio Scienza aleatoria, Lietocolle (2010), ha saputo pungolarmi nella scrittura. Mi piace la sua concezione eidetica della poesia, tuttavia riconosco di avere più una vena empirica, fondata comunque su una mia personale percezione visiva… ma non è detto che nel percorso della mia scrittura non arrivi a toccare il gusto e il pensiero dell’amico critico, perché sempre di gusto e di pensiero stiamo parlando, per quanto il modo di esprimerli in un linguaggio molto ricercato li rendano alti. Concludo dicendo che
    Potrei prendere questo mare
    per i quattro angoli
    come se fosse un fazzoletto

    Un abbraccio e buona lettura a tutti, Angoli interni sarà in libreria dal 26 luglio 2018…
    http://www.robertomaggiani.it/angoli_interni.asp

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  3. Roberto Maggiani, Poesie scelte da Angoli interni, Passigli, 2018, pp. 138 € 16.50 con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa. La pratica della poesia come percorso eidetico


    E mettici i resti della sostanza, che
    avanza. Nelle suppellettili e nelle credenze.
    Nei cucchiaini.
    Nei buchi neri, nelle topaie.
    Negli avanzi sotterranei,
    nelle tranvie,
    nelle metropolitane.

    In fondo al mare,
    per questo avanzano le parole.

    Negli specchi muti delle sorgenti.
    E nelle luci, più minuscole,
    nei corridoi di ceramica
    e nelle tazze
    che sfarfallano.

    Grazie OMBRA.

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  4. Complimenti Mauro Pierno,

    questa è una composizione che sfarfalla un po’ da tutte le parti, scombiccherata com’è giusto che una poesia di oggi deve essere, ricca di humour e povera, poverissima di mimesis. Tuttavia, questo tuo sotto vuoto parla più chiaramente di tutte le poesie che vogliono esibire il «pieno», pieno di senso, pieno di significato, pieno di «io», pieno di «voi», di «loro»… come il pieno di benzina del serbatoio (con il combustibile che costa sempre di più), con la guerra dei dazi che sostituisce in modo incruento la guerra dei tank e delle bombe atomiche. Il fatto è che oggi la guerra (dei dazi) tra le superpotenze la si fa in vetrina, avviene nei monitor asettici dei nostri palazzi, negli appartamenti dei nostri condomini… e non è che la nuova guerra dei dazi sia meno cruenta di quella vecchia maniera, i morti li fa, eccome, e li farà sempre più numerosi, ma saranno i morti di fame, quelli contano niente, non fanno numero, siamo già troppi sul mappamondo del mondo. Forse dobbiamo dire grazie a quel mastino ignorante e zotico di Trump e dei suoi accoliti se pensiamo che il presidente americano ci ha messo davanti alla nuda e cruda realtà della bancarotta del realismo mimetico, forse l’unico modo di fare poesia oggi è questa tua: sottrarre senso al senso e al non-senso, sottrarsi, non stare al gioco… tutto sommato dobbiamo essere grati ai nostri piccoli e insulsi trumpini, Salvini e Di Maio e i loro accoliti, abbiamo molto da imparare da questa invasione dei nuovi barbari… ma i prodromi si erano già visti con quel figuro di Renzi e dei suoi accoliti…

    Ardengo Soffici:

    L’imbecillità è la legge mostruosa del Tutto-Nulla. […]
    Il cuore ha chiuso gli sportelli, come le banche,
    per una moratoria di tristezza.

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  5. caro Giorgio,
    ieri sera ho seguito la puntata di Mieli sulle bombe atomiche americane sganciate su Hiroshima e Nagasaki. La sequenza delle immagini, davvero sconvolgente, mi ha amareggiato moltissimo. La carne, il corpo, l’anima di persone, senza più un volto, da poter dire “questo è un uomo” una donna, un bambino, non erano più ravvisabili. Auschwitz non ha nulla di tutto questo obbrobrio, anche se è stato un genocidio terribile. Dopo anni di silenzio in cui l’America ci ha sottratti alla verità, ora conosciamo veramente l’inferno di Zio Sam. Mi chiedo era giusto finire la guerra con queste bombe? E perché non vi è stato un Tribunale Internazionale a condannare questa macelleria?

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  6. donatellacostantina

    caro Mario,
    la storia e i tribunali li fanno i vincitori, e i vincitori sono stati gli americani, purtroppo il presidente americano che successe a Roosvelt, Truman, era un vero cow boy maccartista e mangia comunisti e non si rese neanche conto di quello che poteva significare sganciare due bombe atomiche. Se fossero stati, lui e i suoi consiglieri di stato, un po’ più intelligenti e colti avrebbero sganciato una bomba atomica in un luogo deserto a scopo dimostrativo, ma purtroppo i presidenti li decidono gli elettori dei paesi democratici, e si sa che la democrazia è un sistema imperfetto, sempre preferibile alle dittature che sono ancora più imperfette… quando poi si verifica il passaggio da una democrazia a una autarchia, il limen non è facilmente identificabile…

    Faccio anch’io i miei complimenti alla poesia di Mauro Pierno…

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  7. Questo posto mi pare strano. Scusate, ma che senso ha parlare di Hiroshima e Nagasaki, di Roosvelt e Truman, eccetera, in coda a una ermeneutica a un libro come il mio? Abbiate pazienza ma la cosa mi pare poco seria e sconveniente, ci sono altri posti in cui si può parlare di questi argomenti così importanti. Inoltre, cara Donatella, il soggetto non è tanto la poesia di Mauro Pierno quanto la mia poesia, ti piaccia oppure no. Mah!

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    • caro Roberto Maggiani,
      parlare delle bombe di Horishima e di Nagasaki, di Roosvelt e di Truman è importante, è un modo per parlare di poesia; la poesia moderna, come diceva Adorno, è quella che si scrive dopo Auschwitz e l’Olocausto… e l’oblio della memoria… e poi le colonne dell’Ombra sono un luogo di libertà, gli interlocutori sanno benissimo che si può parlare di poesia anche in maniera indiretta, parlando di altro. Il che può essere un modo intelligente per occuparsi dei testi proposti.

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      • Caro Giorgio sembra quasi che non mi conosci puoi semplicemente nominarmi come Roberto senza il cognome…

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        • donatellacostantina

          Per quanto mi riguarda, dico che nel mio intervento intendevo semplicemente tentare una risposta agli interrogativi posti da Mario Gabriele su una tragedia storica, quella di Horishima e Nagasaki (l’ “obbrobrio”, come la definisce il nostro interlocutore), che ha stravolto ogni concetto di “umanità” e marchiato di eterna infamia la nostra appartenenza al genere umano. E, da quel momento in poi, come già dopo Auschwitz, ovvero dopo l’Olocausto, dopo, in definitiva, quell’ “inferno reale” realizzato dalla malvagità dell’Uomo, siamo certi di poter affermare, con le parole di Th. W. Adorno (Dialettica negativa, 1966), che «nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile. Il rapporto delle cose non può stabilirsi che in un terreno vago, in una specie di no man’s land filosofica»; intendendo, in tal modo, assumere quella tragedia storica come simbolo universale della messa in scacco dell’idea di un «senso di ciò che è». In questa condizione, il dovere del filosofo (e del poeta, diremmo noi) è quello di farsi carico della realtà. Cito uno stralcio dall’articolo di Giacomo Fonzi, Auschwitz, o della colpa universale (10 febbraio 2012, su Parola di filosofo a cura di Mario Carparelli):

          La filosofia [e la poesia, diremmo noi] non deve concedersi l’ennesima fuga dalla “carogna”, dalla “puzza” e dalla “putrefazione” bensì deve porsi in relazione negativa, drastica finanche sofferta con l’estremo reale. La filosofia [e la poesia, diremmo noi] deve riuscire a mantenere una certa distanza dalla “realtà miserrima”, una distanza che possa garantirgli la profondità ma, al momento opportuno, deve colmare quella distanza e stazionare nella dimensione del semplicemente esistente. Soltanto così essa perderà quel carattere eufemistico, falsamente ed inutilmente consolatorio e, perciò, ideologico che, per Adorno, è andata assumendo (o meglio, mantenendo). Soltanto così la filosofia potrà aiutare a «prendere coscienza del momento di falsità proprio là dove questa falsità si fraintende come verità, dove lo spirito maligno si fraintende come spirito».

          Nel mondo che ha potuto produrre Auschwitz la metafisica e le sue “grandi parole” hanno perso ogni possibile legame con l’esperienza, rispetto alla quale sono divenute del tutto incommensurabili. «La metafisica è paralizzata, perché quel che accade ha spezzato al pensiero metafisico speculativo la base della sua compatibilità con l’esperienza»; Auschwitz rappresenta il fallimento della cultura, è l’emblema della caduta nella barbarie, è il simbolo di quell’indifferenza nei confronti della vita di ogni uomo verso cui la storia si muove; Auschwitz rappresenta la logica fatale dell’identità che ha annientato e soffocato ciò che è altro da essa, la non-identità.

          Mario Gabriele, citando la trasmissione di Paolo Mieli sull’orrore di Hiroshima e Nagasaki, probabilmente, in modo implicito, intendeva indirizzare la nostra riflessione proprio su questi temi. Oltre alle domande esplicitamente poste, sottintendeva altri interrogativi, gettando, così, sassolini nell’acqua… se mai qualcuno potesse cogliere le onde concentriche che questi producono…

          Perché le nostre argomentazioni, qui, su L’Ombra delle Parole, sono anche questo: sono sassi gettati sulla superficie delle parole che generano infinite altre parole, in onde concentriche a vasto raggio.

          L’Ombra non è un social, ma una rivista internazionale, con una media di duemila visualizzazioni al giorno; è un luogo di incontro, a volte di scontro, comunque di discussione, di confronto intelligente, civile e positivo; è una palestra, o, se preferite, un laboratorio di ricerca per studiare, esercitarsi, proporsi, mettersi in discussione, perfezionarsi, sforzarsi di comprendere ciò che a una prima lettura risulta difficile… E, anche se in molti siamo amici tra noi, spesso ci rivolgiamo l’un l’altro chiamandoci con nome e cognome, proprio perché L’Ombra non è un social; non è una generica piattaforma dell’ego, che accoglie e riverbera il più banale e acritico consenso.
          Qui si guarda da un’altra prospettiva… Con un occhio, o magari tutti e due, un tantinello strabici.

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          • cara Donatella,
            alle ore 4 e 21, ora decisamente figlia dell’insonnia, hai redatto questo post, così profondamente chiarificatore nella sua esposizione, dando un supporto a ciò che intendevo suscitare parlando di Hiroshima e Nagasaki nonché di Auschwitz. A quanto si rileva sembra essere stata una discussione fuori tempo e fuori luogo da parte nostra, non pertinente al tema dell’esame estetico di alcuni documenti poetici,presentati sul Blog da un interlocutore un po’ sbilanciato nella censura. Per questo ho fede nell’Ombra delle parole, punto di incontro di molte idee,e proposte che sono il diagramma di una identità culturale che non è insubordinazione agli statuti immodificabili, ma accesso ad una ricostruzione del linguaggio ormai non più prorogabile.

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            • Gentile Mario M. Gabriele, può dire che ho la tendenza del professore di scuola che tende a rimanere nel tema ma non certo che tendo alla censura. Se in una pagina si offre una traccia, ed è quella del mio libro in uscita, la mia tendenza è quella di rimanere nell’ambito, cioè nel tema. Ma accetto che qui si faccia così, dico A e rispondi Z per poi cercare una sintesi… chiamiamolo una sorta di Brain storming dal quale poi si cerca di raccogliere unitariamente il contributo di tutti… non sto criticando… in fondo questa modalità mi piace, ma non mi piace il suo giudizio sul mio pensiero, cosa significa quel lieve morso inappropriato che lei mi rivolge sul braccio: “un interlocutore un po’ sbilanciato nella censura”? Mi conosce o lo desume dai miei interventi?

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          • Mi pare, molto semplicemente, cara Donatella, che oltre a intervenire su altri temi e ad apprezzare la poesia di Mauro Pierno, l’educazione vorrebbe che si facesse un commento anche all’oggetto dell’articolo… un commento anche negativo andrebbe bene… diciamola in un altro modo: ti invito a casa mia e ti considero un minimo anche se preferirei parlare con i miei amici dei miei temi.

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            • Giuseppe Talia

              Gentile Maggiani, credo che la rivista l’Ombra delle Parole che ha ospitato i suoi versi sia paragonabile ad una adhocrazia. Contrariamente alla burocrazia di molte altre riviste, qui sussiste uno spazio libero di espressione e chi interviene (in particola modo la redazione) lo fa nelle righe e anche nelle contro rime. Uno spazio così “libero” non lo si trova facilmente in altri blog o riviste o cricchette e crocchette. Il sapersi confrontare con uno spazio libero presuppone che il proponente sappia anche interagire con l’ambiente, riconoscerne la politica, l’estetica, la cooperazione, (non la religione) il management diffuso e circolare , solo per esemplificare con la sociologia del management.
              Se i commenti non sono starti pertinenti alla sua idea di ermeneutica (crede che non lo siano? Ha letto bene?) allora ci dispiace enormemente, ma in uno spazio “libero” ci sta anche questo.
              Per parte mia credo di aver condotto analisi sui suoi testi proposti . E solo Giorgio sa quanto alle volte tutto mi sfugga di mano.

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            • donatellacostantina

              «quel che accade ha spezzato al pensiero metafisico speculativo la base della sua compatibilità con l’esperienza» (Th. W. Adorno)

              Gentile Roberto Maggiani,
              da quando sono ne L’Ombra, è in assoluto la prima volta che mi trovo in una situazione così incresciosa. E mi sorprende moltissimo! Mi sorprende ricevere tale genere di rimprovero: «l’educazione vorrebbe che…». Ehi, ehi, andiamoci piano con «l’educazione»! Mi pare di essere una persona attenta e corretta, e più di un esempio può testimoniarlo. Ma veniamo ai fatti:

              1. l’«invito in casa» (per riprendere le Sue parole) l’ha stabilito il nostro direttore, Giorgio Linguaglossa;

              2. questa «casa» (ovvero la rivista) è di tutti, è libera, è di chiunque voglia intervenire, apportando con onestà il proprio contributo;

              3. i commenti, a volte, possono sembrare slegati dall’articolo proposto; e qui sottolineo “possono sembrare”, perché niente, in realtà, è «fuori tema», o nasce per caso (come andrò a dimostrare proprio riguardo all’intervento di Mario Gabriele e alla mia conseguente risposta. Vedrà quanto invece sia inerente a questo articolo il senso – attenzione, ho detto “senso” – di quelli che Lei definisce genericamente «altri temi»);

              4. questa «casa» non è «mia»: semmai, se proprio di qualcuno dev’essere questa casa, vivaddio!, sarà della Poesia. E qui, ne L’Ombra delle Parole, tutti hanno considerazione per tutti, almeno «un minimo», anche attraverso il silenzio, se vuole, qualora si preferisca astenersi da ogni commento diretto. Una libera scelta anche questa. E va rispettata;

              5. ne L’Ombra, il fatto di «parlare con i miei amici dei miei temi» non esiste proprio, perché il web offre altre piattaforme preposte a questo: Facebook, in primis. Viceversa, nella rivista, i cosiddetti «temi» riguardano tutti, coinvolgono tutti, perché affrontano problematiche estetiche, storiche, filosofiche… In pratica, tutto ciò che può riguardare la nostra comune ricerca finalizzata a una Nuova Ontologia.

              Chiariti questi punti, dirò che mi sono sentita in dovere di rispondere all’interlocutore Mario Gabriele (badi bene, ho detto “interlocutore”, perché qui siamo tutti interlocutori, prima ancora di essere amici), insomma, ho sentito la necessità di intervenire, poiché ho compreso il “senso” implicito del suo commento. E, nella mia risposta, ho inteso esplicitare questo “senso”, riproponendo la posizione di Th. W. Adorno nella sua Dialettica negativa (1966), a proposito della Poesia e dell’Arte in generale, dopo Auschwitz, dopo l’Olocausto. Il filosofo dichiara:

              «nessuna poesia, nessuna forma d’arte, nessuna affermazione creatrice è più possibile. Il rapporto delle cose non può stabilirsi che in un terreno vago, in una specie di no man’s land filosofica».

              Con queste parole, Adorno assume quella tragedia storica come simbolo universale della messa in scacco dell’idea di un «senso di ciò che è».

              In questa condizione, il dovere del filosofo e, nondimeno, del poeta, è quello di farsi carico della realtà.

              Sì, farsi carico della realtà. Quale realtà? Questa realtà. Questa nostra, del XXI secolo. Hic et Nunc il poeta deve farsi carico della propria epoca.
              Molti cambiamenti epocali, e drammatici, si sono verificati nell’ultimo (quasi) ventennio. In particolare dopo le stragi delle Torri Gemelle. The day after l’11 settembre 2001, il mondo non è più, irreversibilmente, lo stesso di prima.
              Dopo Auschwitz, dopo Horishima e Nagasaki (di cui si avvicina l’anniversario), la strage delle Torri Gemelle rappresenta la tragedia del XXI secolo che segna l’inizio della terza guerra mondiale “a pezzi” (l’ha detto Qualcuno…).

              E l’Uomo? Che cosa è diventato l’Uomo? E la metafisica? «La metafisica è paralizzata, perché quel che accade ha spezzato al pensiero metafisico speculativo la base della sua compatibilità con l’esperienza», scriveva Adorno dopo Auschwitz.
              E la poesia? Parafrasando Adorno potremmo dire: “quel che accade ha spezzato alla poesia la base della sua compatibilità con l’esperienza”.
              A questo fanno eco le parole di Giorgio Linguaglossa nella sua Ermeneutica alle poesie di Roberto Maggiani: “Il mondo nel frattempo è mutato e la «nuova» poesia avverte che qualcosa è cambiato, che occorrono parole diverse, nuove, non usurate”.

              Ecco il punto: dove sono le «parole diverse, nuove, non usurate», nella poesia di Roberto Maggiani? La sua poesia «è da tempo impegnata alla riunificazione del discorso umanistico e del discorso scientifico» (Linguaglossa): sì, vero!, ma non è più questo che oggi occorre alla poesia: «oggi la poesia ha bisogno di un modus dis-propriante, dis-allontanante, de-angolante…» (cit.).

              Le parole appartenute all’ontologia estetica del Novecento risultano inadeguate al dire del XXI secolo. E già l’ultima parte del Novecento ha preparato la Storia al nostro cambiamento epocale. Ovvero, il «vecchio» ha spinto al «nuovo». Ora la Storia ci rovescia addosso i più tragici avvenimenti.
              L’Occidente (in senso lato) è devastato. “In tutto l’Occidente”, il sole, quello che Roberto Maggiani vede “più luminoso”, “le cui dita tocchino i tetti e le strade/ come qui a Lisbona”, è morto. A Lisbona come in tutto il resto del mondo. Quella che gli appare, così elegiaca, è una visione di superficie, appunto apparente. C’è qualcosa aldilà dei tetti, delle strade e perfino oltre le molecole, che la sua poetica non vede, non coglie. Forse sarebbe stato meglio soffermarsi su quel “sottile disagio” finale. E che il disagio, da sottile, fosse diventato “spesso”, “duro”. Invece, la poesia mette il punto e chiude. Trasvola proprio su quell’unica cosa importante: il disagio. Disagio di oggi, della nostra epoca. Disagio di vivere. Disagio che è dramma attuale dell’Uomo, al centro di un nuovo Esistenzialismo, che pone inquietanti interrogativi sulla condizione etico-civile dell’individuo. Tutti noi dobbiamo prendere atto di questo. Ma più di tutti deve farlo il poeta, perché senza tale consapevolezza non possiamo parlare di Poesia.
              Il primo passo verso tale coscienza consiste nel farsi carico della realtà in cui siamo, salutando il Novecento. Senza rimpianto.

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              • Gentile Donatella, mi sono accorto adesso che questa sua risposta, oltre ad essere diventata un post principale, è anche in coda all’articolo, pertanto riporto anche qui la risposta che le ho dato nel post creato ad hoc da questa sua risposta, scusi il gioco di parole… lo faccio affinché chi legge questa pagina abbia la completezza del pensiero. Ecco qui:

                Cara Donatella,
                non capisco la necessità di risuonare in tal modo la sua risposta, poteva farlo benissimo nel contesto della pagina in cui le ho fatto il commento. Ma va bene, probabilmente c’è la necessità di affermare qualcosa di importante per lei e per il sito che ci ospita. In verità, a questo punto, ho la sensazione che, probabilmente, le mie poesie siano state prese a pretesto per affermare un pensiero su certa poesia contemporanea, al mio posto poteva esserci chiunque altro. In ogni caso non andrò per le lunghe, la ringrazio per il tempo che mi ha dedicato. Obietto soltanto su questo passaggio:

                “A questo fanno eco le parole di Giorgio Linguaglossa nella sua «Ermeneutica» alle poesie di Roberto Maggiani: “Il mondo nel frattempo è mutato e la «nuova» poesia avverte che qualcosa è cambiato, che occorrono parole diverse, nuove, non usurate”.
                Ecco il punto: dove sono le «parole diverse, nuove, non usurate», nella poesia di Roberto Maggiani? La sua poesia «è da tempo impegnata alla riunificazione del discorso umanistico e del discorso scientifico» (Linguaglossa): sì, vero!, ma non è più questo che oggi occorre alla poesia: «oggi la poesia ha bisogno di un modus dis-propriante, dis-allontanante, de-angolante…» (cit.).”

                Quel “ma non è più questo che oggi occorre alla poesia”, affermato in modo assoluto lo trovo assolutamente inopportuno e, scusami, un poco presuntuoso. Avrei scritto piuttosto così: “a mio avviso non è più questo che oggi occorre alla poesia”.

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  8. Maria Musik

    Mi scuso perché sono inappropriata… una sempliciotta che si ritrova, assai spaesata, al cospetto del sacerdote in cima alla Ziggurat prima e sulla torre di Babele poi.
    Ho faticato non poco a comprendere l’ermeneutica ma i commenti a seguire … di cosa si sta parlando? Della poesia? Della poesia di Maggiani che ancora non abbiamo letta, se non per questi assaggi? Di cosa?
    Ma le parole, in generale, non dovrebbero servire ad essere comprese? O a ogni uscita di una sillloge dobbiamo approfittarne per parlare d’altro?
    Nel mentre, aspetto il libro che, forse, sarebbe meglio leggere prima di commentare… cosa che credo solo Linguaglossa abbia potuto fare.

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    • Alfonso Cataldi

      Gentile Maria Musik,
      basterebbe leggere qualche articolo tra le decine e decine che precedono questo, per comprendere le consuetudini della rivista e le dinamiche dei commenti. Qui, tra i commenti, spesso nascono nuovi articoli, nuove poesie, è un assoluto luogo di libertà, di strabismo, come dice Mauro Pierno, vitale per la nuova ontologia estetica.

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    • Grazie per l’invito alla lettura, in fondo l’unico che può esprimersi veramente sulla poesia di un poeta è il lettore nella sua individualità unica e irripetibile… ne parlai in “Quanti di poesia”, Edizioni L’Arca Felice, una antologia di poesia in cui enunciavo del principio di indeterminazione poetico… sviluppato meglio nel mio saggio breve “Poesia e scienza: una relazione necessaria?”

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  9. Benvenuti, a tutto! Davvero.
    Allo STRABISMO DELL’OMBRA.

    Grazie. A tutti. Un abbraccio.

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  10. gino rago

    Un grande narratore, Varlam Šalamov, dedica “Cherry-brandy” al più importante poeta europeo del Novecento, Osip Mandel’štam [1891-1938], per onorarne la memoria.

    Il titolo del racconto di Šalamov, “Cherry-brandy”, è quello di una poesia di Mandel’štam, scritta nel marzo 1931, nel corso di un incontro conviviale al Museo Zoologico di Mosca.

    “Cherry-brandy”, negli scherzi tra amici, significava “sciocchezzuola” , come l’autore del racconto Varlam Šalamov, tornando dal ‘campo di lavoro’, apprese dalla testimonianza di Nadežda, la vedova di Mandel’štam.

    Qualità di scrittura e temi dovrebbero, è il mio pensiero, appartenere in maniera organica, permanente, a chiunque, giovane o anche meno giovane, si misuri con il linguaggio della poesia, forse l’unica patria del poeta…

    “[…]Ma se pure non gli fosse stato dato – come ormai appariva evidente- di essere immortale in quanto persona fisica, elemento individuale, si era comunque meritato l’immortalità come artista[…]”

    Gino Rago
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    Varlam Šalamov

    Cherry-brandy

    Il poeta stava morendo. Le sue grandi mani, rese gonfie dalla fame, con le bianche dita esangui e le unghie sporche, lunghe, cilindriche, erano appoggiate sul petto e non cercavano più riparo dal freddo. Prima se le ficcava in seno, sul corpo nudo, ma adesso neanche lì c’era abbastanza calore. Le manopole gliele avevano rubate da tempo; per rubare era sufficiente la sfrontatezza, lo facevano in pieno giorno. Un sole elettrico smorto, lordato dalle mosche e ingabbiato in una griglia circolare, era fissato al soffitto in alto. La luce cadeva sui piedi del poeta: egli era disteso, come in un cassetto, nell’oscura profondità di un giaciglio al piano inferiore dell’ininterrotta teoria di tavolacci a castello. Di tanto in tanto le dita si muovevano, schioccavano come nacchere, tastavano un bottone, un’asola, un buco della giubba imbottita, toglievano granelli di sporcizia e si fermavano di nuovo. Il poeta moriva da così tanto tempo che aveva smesso di capire che stava morendo. Talvolta sopraggiungeva qualche pensiero semplice e forte che si apriva un varco a fatica dolorosamente, in modo quasi percettibile, attraverso il cervello – gli avevano rubato il pane che si era messo sotto la testa.

    E questo pensiero era così spaventosamente bruciante da far sì che lui fosse pronto a litigare, insultare, battersi, cercare, perorare le proprie ragioni. Ma non aveva le forze per farlo e il pensiero del pane si affievoliva…e immediatamente cominciava a pensare a qualche altra cosa, al fatto che lui e gli altri dovevano essere trasportati al di là del mare, ma che per qualche motivo il piroscafo era in ritardo ed era un bene trovarsi lì. E con la stessa levità e mutevolezza rivolgevo il pensiero al grosso neo sulla faccia del “piantone” della baracca. Passava la maggior parte del giorno e della notte ripensando agli avvenimenti che gli riempivano la vita laggiù. Le visioni che gli passavano davanti agli occhi non appartenevano all’infanzia, alla giovinezza, ai suoi successi.

    Per tutta la vita si era affrettato verso qualcosa. Ed era magnifico non doversi affrettare, poter pensare lentamente. E senza affrettarsi pensava alla straordinaria uniformità dei movimenti che precedono la morte, a ciò che i medici avevano capito e descritto prima degli artisti e dei poeti. La facies ippocratica – la maschera dell’uomo prima della morte- è nota a qualsiasi studente della facoltà di medicina. Questa misteriosa uniformità dei movimenti prima della morte aveva dato a freud lo spunto per le ipotesi più ardite. L’uniformità, la ripetitività – ecco il terreno obbligato della scienza. Ciò che nella morte è irripetibile, l’hanno cercato non i medici ma i poeti. Era piacevole constatare di essere ancora in grado di pensare. Alla nausea provocata dalla fame si era abituato da molto tempo. Ed era tutto sullo stesso piano: ippocrate, il piantone con il grosso neo e la propria unghia sporca.

    La vita entrava in lui e poi ne usciva, e lui stava morendo. Ma la vita tornava a manifestarsi, gli occhi si aprivano, riapparivano i pensieri. Solo i desideri non riapparivano. Viveva da molto tempo in un mondo in cui spesso si doveva far tornare in vita qualcuno con la respirazione artificiale, il glucosio, la canfora, la caffeina. Il morto ritornava a vivere. E perché no?egli credeva nell’immortalità, nella vera immortalità dell’uomo. Gli veniva spesso da pensare che dal punto di vista biologico non c’era semplicemente nessun motivo perché l’uomo non potesse vivere in eterno…la vecchiaia non era altro che una malattia curabile, e se non fosse stato per quel tragico equivoco, non ancora chiarito fino a quel momento, egli sarebbe potuto vivere in eterno. O almeno fino a quando non si fosse stancato. Ma lui non si era affatto stancato di vivere.

    Perfino adesso, in quella baracca di transito, in quella tranzitka, come la chiamavano affettuosamente gli abitanti di quaggiù. Essa era la soglia dell’orrore, ma non ancora l’orrore. Al contrario. Lì viveva lo spirito della libertà, e tutti lo avvertivano. Davanti c’era il lager, alle spalle la prigione. Era un “mondo in cammino”, e il poeta lo capiva.
    C’era anche un’altra strada per l’immortalità, quella di Tjutcev:

    beato colui che visitò un tal mondo
    nel suo più fatidico momento.

    Ma se pure non gli fosse stato dato – come ormai appariva evidente- di essere immortale in quanto persona fisica, elemento individuale, si era comunque meritato l’immortalità come artista.

    L’avevano definito prima poeta russo del XX secolo e spesso gli capitava di pensare che era proprio vero. Egli credeva nell’immortalità dei propri versi. Non aveva discepoli, ma i poeti possono forse tollerare di averne? Aveva scritto anche della prosa, mediocre, aveva scritto degli articoli. Ma solo nei versi aveva trovato qualcosa di nuovo per la poesia, qualcosa di importante, come aveva sempre ritenuto. Tutta la sua vita passata era stata letteratura, libro, favola, sogno, e solo l’oggi era la vita vera.

    Pensava a tutto questo senza animosità, in segreto, in qualche luogo interiore. Le sue riflessioni erano scevre di passione. Da tempo era preda dell’indifferenza. Che sciocchezze, tutte quante, che vano agitarsi a paragone della triste pesantezza della vita! Si meravigliò di se stesso – come poteva starsene lì a pensare ai versi quando tutto era stato ormai deciso, e lui lo sapeva perfettamente, meglio di chiunque altro? A chi mai poteva servire la sua presenza lì, e di chi era pari? Perché era stato necessario che comprendesse tutto questo? Lui aveva aspettato…e compreso.
    Nei momenti in cui la vita tornava a fluire nel suo corpo e i suoi occhi torbidi e socchiusi riprendevano all’improvviso a vedere, le palpebre a contrarsi e le dita a muoversi, tornavano anche i pensieri, e non gli veniva mai in mente che potevano essere gli ultimi.

    La vita entrava per conto suo dentro di lui, come una dispotica padrona: lui non la chiamava, ma lei gli pervadeva egualmente il corpo, il cervello, entrava come poesia, ispirazione. E, per la prima volta, il significato di questa parola gli si rivelò in tutta la sua pienezza. La poesia era la forza vivificante di cui lui viveva. Precisamente così. Lui non viveva per la poesia, viveva della poesia.

    E adesso era evidente, chiaro in modo tangibile che proprio l’ispirazione era la vita; prima della morte gli era dato di comprendere che la vita era l’ispirazione, precisamente l’ispirazione.
    Ed era felice che gli fosse stato dato di conoscere quest’ultima verità.
    Ogni cosa, il mondo intero era poesia: il lavoro, lo scalpitio di un cavallo, una casa, un uccello, una roccia, l’amore – tutta la vita entrava con levità nei versi e vi si accomodava. E non poteva che essere così, poiché la poesia è parola.

    Anche adesso le strofe si componevano con facilità, una dopo l’altra, benché da molto tempo non trascrivesse i suoi versi, e neppure fosse più in grado di farlo, le parole gli venivano egualmente con facilità, secondo un ritmo in qualche modo prestabilito e ogni volta sorprendente. Era la rima lo strumento di ricerca, il rivelatore magnetico di parole e concetti. Ogni parola era un frammento del mondo, reagiva alla rima, e insieme ad essa il mondo intero balenava con la rapidità di un apparecchio elettronico. Ogni cosa gridava “prendimi”, “no, prendi me”. Non c’era bisogno di cercare niente. Bastava scartare ciò che non serviva.

    Era come se in lui ci fossero due uomini: quello che componeva e che aveva lanciato la sua trottola a tutta velocità, e un altro che sceglieva e di tanto in tanto fermava il congegno ormai fuori controllo. E quando si rese conto di essere questi due uomini insieme, il poeta comprese anche che in quel momento stava componendo vera poesia. E che importanza poteva avere che non trascriveva i versi? Trascrivere, pubblicare – tutto ciò era solo vanità delle vanità. Le cose che nascono in modo interessato non sono le migliori. Il meglio è ciò che non viene scritto, che è stato creato ed è scomparso, svanito senza lasciar traccia, e solo la gioia creativa che si avverte e non può essere confusa con nient’altro sta a dimostrare che è stata creata una poesia, che è stato creato il bello. Ma lui non si stava forse sbagliando? La felicità creativa era davvero infallibile?

    Ricordò gli ultimi versi di Blok, mediocri e poeticamente fiacchi, e come Blok apparentemente non se ne rendesse conto…
    Il poeta si impose una pausa. Qui era più facile che in qualsiasi altro posto, a Leningrado o a Mosca.
    E a questo punto si rese conto che da molto tempo non pensava più a niente. La vita lo lasciava di nuovo.

    Restò a giacere, immoto, per molte ore, e all’improvviso notò non lontano da sé qualcosa che assomigliava a un bersaglio da tiro a segno o ad una carta geologica. La carta era muta ed egli si sforzò invano di riconoscere ciò che vi era raffigurato. Passò non poco tempo prima che riuscisse a capire che si trattava soltanto delle sue dita. Sulle estremità c’erano ancora le tracce marroni delle sigarette di machorka che aveva fumato, succhiato fino in fondo –sui cuscinetti spiccava nettamente, simile al tracciato curvilineo di un rilievo montano, il disegno dattiloscopico. Identico su tutte e dieci le dita: piccoli cerchi concentrici come la sezione di un albero.

    Si ricordò di quella volta, quand’era bambino, che era stato fermato per strada dal cinese della lavanderia situata nella cantina della casa dov’era cresciuto. Il cinese gli aveva preso prima una mano, poi l’altra, le aveva voltate a palme in su e con tono concitato s’era messo a gridare qualcosa nella sua lingua. A quanto si seppe poi, aveva detto che il bambino era fortunato e aveva sulla mano il segno certo della buona fortuna. Il poeta aveva spesso ripensato a questo segno della buona fortuna, specie quando era stato pubblicato il suo primo piccolo libro. Adesso ricordava il cinese senza rancore né ironia –gli era del tutto indifferente.

    Non era ancora morto – la cosa più importante. A proposito, che cosa voleva dire “morire come un poeta”? Ci doveva essere qualche cosa di infantilmente ingenuo in quella morte. O qualcosa di premeditato, di teatrale, come per Esenin, per Majakovskij. “è morto come un attore”: questo ancora poteva capirlo. Ma morire come un poeta?

    Sì, poteva indovinare qualcosa di ciò che l’aspettava. Durante il trasferimento aveva avuto il tempo di comprendere e indovinare molte cose. E gioiva, gioiva quietamente della propria estenuazione e sperava di morire. Ricordò una discussione di tanto tempo prima, in carcere: se era peggio, più terribile il lager o la prigione? Nessuno in realtà ne sapeva niente, le argomentazioni erano campate per aria. E ricordò il sorriso crudele di quell’uomo che era stato portato in cella da un lager. Quel sorriso gli si era impresso per sempre nella memoria, e in modo tale da fargliene temere il ricordo.

    Ah, come li avrebbe gabbati per bene, quelli che l’avevano portato lì, se adesso fosse morto!di qualcosa come dieci anni li avrebbe gabbati! Tempo prima era stato condannato al confino e sapeva di essere stato iscritto nelle liste speciali per sempre. Per sempre?! La scala dei valori era cambiata e le parole non avevano più lo stesso significato di prima.
    Improvvisamente gli venne voglia di mangiare, ma non aveva la forza di muoversi. Si ricordò, lentamente e con fatica, di aver dato la sua razione di minestra al vicino e che dal giorno prima aveva mandato giù solo una caraffa d’acqua calda. Oltre al pane, naturalmente. Ma il pane l’avevano distribuito molto, molto tempo prima. E quello di ieri glielo avevano rubato. Qualcuno aveva ancora la forza per rubare.

    Se ne restò disteso così, leggero e senza più pensieri, finché non si fece mattina. La luce elettrica diventò un po’ più gialla e come ogni giorno portarono il pane su grandi vassoi di compensato.
    Ma lui non si agitava più, non cercava con occhi avidi il pezzo con la crosta, non piangeva se la crosta toccava a un altro, non si ficcava in bocca con dita tremanti il pezzetto di pane, quel pane che si scioglieva all’istante mentre gli si dilatavano le narici e con tutto il suo essere assaporava il gusto e l’odore del pane fresco di segale. Nella bocca il pane non c’era già più anche se non aveva avuto neppure il tempo di deglutire o di muovere le mascelle. Il boccone si era sciolto, era scomparso e in questo c’era qualcosa di prodigioso – uno dei tanto prodigi di quel luogo.

    No, ormai non si agitava più. Ma quando gli misero tra le mani la sua razione per le ventiquattr’ore, la strinse forte con le dita esangui premendosi il pane contro le labbra. Morse il pane con i denti indeboliti dallo scorbuto, le gengive sanguinavano, i denti traballavano, ma lui non sentiva nessun dolore. Con tutte le sue forze si premeva il pane contro la bocca, lo spingeva dentro, lo succhiava, ne strappava dei bocconi e rosicchiava…

    I vicini cercarono di fermarlo:
    – non mangiartelo tutto, conservane per dopo, per dopo…
    e il poeta capì. Spalancò gli occhi senza allentare la stretta delle sudice dita bluastre sul pane insanguinato
    – dopo quando?- articolò in modo chiaro e distinto. E chiuse gli occhi.
    Verso sera morì.

    Ma venne depennato dai registri soltanto due giorni dopo: per due giorni gli ingegnosi vicini riuscirono a farsi dare la razione del morto; durante la distribuzione giornaliera del pane, il morto alzava il braccio come una marionetta. E fu così che il poeta morì due giorni prima della data della sua morte – un dettaglio di non poco conto per i suoi futuri biografi.
    ————————————————-
    gino rago

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  11. Grazie, Gino Rago

    per questa citazione che ci riporta ad uno dei poeti che ha contribuito a creare la poesia europea del novecento.: Mandel’stam. Trenta anni fa quando iniziai a scrivere della metafora tridimensionale presente nella poesia di Mandel’stam incontrai il deserto dell’attenzione, anche adesso parlare di tali questioni è come parlare al vento, i più giovani di noi vogliono costruire una poesia che sia immediatamente riconoscibile fin dall’inizio come comunicazione… e così la poesia muore.
    Io vorrei sollecitare Roberto Maggiani a proseguire nella strada che lui ogni tanto indaga ma, ho l’impressione in modo non sistematico, non con la forza e la convinzione di proseguire in quella direzione, quella indicata da questi versi messi in rilievo anche da Mauro Pierno:

    “Potrei prendere questo mare
    per i quattro angoli
    come se fosse un fazzoletto”.

    Penso che sia quella la strada nella quale proseguire nella ricerca.
    Riporto il passo finale di Berardinelli tratto dalla introduzione ad un suo libro di saggi critici:

    «Molta giovane letteratura dopo il 1990 non si può neppure dire che sia postmoderna né che nasca dalla coscienza storica del passato novecentesco. invece di scavalcare il Novecento, lo si ignora. Mentre la poesia resta a fare i conti con un pubblico che non legge e semmai ascolta, gran parte della nuova narrativa tende a entrare volentieri nel territorio un tempo proibito e disprezzato dell’intrattenimento. Non è vero che il romanzo sia tornato al naturalismo e al realismo. È che le strutture formai dominanti sono quelle del best seller, leggendo il quale i lettori devono avere l’impressione di capire fin dalle prime pagine “che cosa vuole dire l’autore” e perché lo dice.
    Dopo aver diffidato per circa un secolo della comunicazione, oggi la letteratura vorrebbe essere comunicazione di cose già comunicate. Questo senza dubbio vogliono gli editori. E questo spinge la letteratura verso la sua mutazione».1]

    1] Alfonso Berardinelli Casi critici. Dal postmoderno alla mutazione,, Quodlibet, 2007, Introduzione p. 12

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    • Grazie Giorgio, siccome ti conosco continuo a chiamarti solo per nome, come mi piacerebbe facessi anche tu con me… la mia ricerca poetica è sincera e passa da una nota di empirismo molto marcata, apprezzo i tuoi suggerimenti, e molto, ma chissà per me potrebbe essere un’altra la strada… questo non lo so ancora. Una cosa è certa terrò conto della tua ermeneutica… ma non farò nulla per assecondarti… come per ogni poeta (pensa che presunzione chiamarsi poeta ma dopo venti anni di scrittura inizio a sdoganare questa parola anche nei miei confronti) c’è un’idea nel percorso che sto facendo. Certamente io e te abbiamo una divergenza notevole nel considerare i poeti contemporanei, io ad esempio apprezzo molto la poesia di Valerio Magrelli, di Patrzia Cavalli, di Franco Buffoni e altri…

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  12. Mi piace l’idea di uno “strabismo dell’ombra”; ci salva dal pericolo dell’omologazione, della “scuola” stretta rigidamente intorno ai suoi “maestri”,che non accettano derragliamenti inopportuni.La “scuola”, se nasce, deve nascere da sola, da uno spontaneo confluire di idee e di propositi, espressi con chiarezza e onestà intellettuale; n è si esclude qualche ripensamento, o cambiamento .Non abbiamo nessuna Bibbia, se non quella dell’amore alla conoscenza.

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  13. Egregio Sig. Roberto Maggiani,
    a seguito del suo intervento un po’ controverso, ho voluto conoscere più a fondo, i suoi testi pubblicati sui vari blog. E mi sono soffermato su uno in particolare, mentre sgridavo il mio chiwawa che voleva uscire per fare la pipì. E’ proprio da questa necessità che mi sono imbattuto in un suo verso dal titolo In Treno dove lei, a seguito di necessità urologiche, così si esprime:”Avrei pisciato per almeno un chilometro” dimostrando la funzionalità della sua prostata, grande come quella di un elefante, e senza problemi di PSA. Mi creda, quando uno entra nell’Ombra delle parole, e l’Amministratore e il comitato di redazione optano per la pubblicazione dei versi, credo che ognuno debba essere riconoscente, accettando critiche positive e negative, senza negare ad altri, tematiche di diversa oggettivazione, come quelle su Hiroshima e Truman,qui formulate, e per fortuna senza pagare più la tassa sulla democrazia quando si vuole esprimere un concetto. Con i più cordiali saluti, e senza ripicche.

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  14. Carissima Ombra leggo sempre con interesse anche se commento poco per mancanza di tempo, la mia presenza si farà sentire, però mancando di una ritmicità. Le riflessioni critiche le concedo alla poesia sia che piace o no, un modo di rammentare le parole, come altro.
    Vi omaggio con due poesie, precisando che “Uomo” è da intendersi come Homo Sapiens. Nessun rifferimento a persone e soprattutto qui presenti. Buona lettura! Lidia Popa

    1.
    Impotenza dell’assoluto,
    farabutto della contradizione e simultaneità.
    Il cielo rovesciato da pensieri sensuali,
    lo sguardo da nostalgie e lontananze
    inseparabili dall’ossessione
    L’Uomo sospinto con forza verso l’alba della creazione.
    L’anima mutevole tormentata dai crepuscoli e dalle passioni.
    L’infelicità con indulgenza stanca legge i filosofi
    prigionieri delle formule.
    Miseri argomenti, convinte interiezioni,
    un’ossessione qualunque è la sua identità impossibile.
    Dietro si agita il reale dal niente rosso di noia.
    L’Uomo ha inventato la parola per non guardare in faccia
    un’intimità insopportabile, nascosta dietro un universo.
    Nel tentativo di fuga si salva nella realtà.
    Un assopimento della lucidità inganna l’occhio della conoscenza.
    Vacilla l’edificio dei valori, la realtà è muta.
    L’amore è come l’esercizio sensuale dall’intelligenza.
    La società flagella l’amor proprio con ironia.
    Un pretesto, inanità che prova il piacere del destino ideale.
    Respirare in un cimitero astratto non affine con l’universo.
    Vergogna del sublime, curiosa prova di vita
    superflua come l’affermazione o la negazione.
    © Lidia Popa

    2.
    Nell’esacerbazione della lucidità
    esiste il rischio del gioco.
    Disprezzare la propria esistenza,
    opportunità di fortuna e sfortuna.
    L’indiscrezione assoluta della conoscenza
    ambizione smisurata, la sete di conquista.
    Il vizio, il terrore, il sangue, la diserzione.
    Il gesto dell’Uomo di promuovere la propria unicità.
    L’anima al valore di un principio.
    Riflessi di una dottrina, effervescenza di uno sputo.
    Mordere la propria carne, vivere con intensità,
    non ritrovare la propria identità.
    Suicida dell’ideale, l’Uomo programma il giorno.
    Legge, scrive, sbadiglia, guarda davanti a sé.
    Gli ideali si affievoliscono e con essi le ossessioni.
    Incapace di stare con sé stesso,
    l’Uomo riempie un’ora o un letto in una stanza.
    Si intenerisce di un crepuscolo, e la menzogna continua.
    La notte una complice nell’esistenza.
    Un’adeguata coltre di imposture copre l’intuito,
    con l’attenuante turbamento di stanchezza.
    Con gli occhi su una creatura di ghiaccio o un moribondo,
    Metéco (Meteikos) paga le imposte alla reggia di città.
    © Lidia Popa
    metéco o meteikos dal greco – lo straniero stabilitosi nel territorio di uno stato, guardato con ostilità (definizione dal dizionario).

    Una domanda se mi è concessa: Come è meglio scrivere la parola in greco o italiano? Usare parole di una lingua straniera obliga a cercare in dizionario. Per me non rappresenta un problema forse per il lettore si, perché vedo poco riscontro fuori da questo contesto.

    Grazie Ombra.

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  15. L’ha ribloggato su RIDONDANZEe ha commentato:
    Roberto Maggiani su 21 luglio 2018 alle 13:09
    Ringrazio l’amico Giorgio Linguaglossa per il tempo e lo spazio dedicatomi; fin dai tempi del mio Scienza aleatoria, Lietocolle (2010), ha saputo pungolarmi nella scrittura. Mi piace la sua concezione eidetica della poesia, tuttavia riconosco di avere più una vena empirica, fondata comunque su una mia personale percezione visiva… ma non è detto che nel percorso della mia scrittura non arrivi a toccare il gusto e il pensiero dell’amico critico, perché sempre di gusto e di pensiero stiamo parlando, per quanto il modo di esprimerli in un linguaggio molto ricercato li rendano alti. Concludo dicendo che
    Potrei prendere questo mare
    per i quattro angoli
    come se fosse un fazzoletto

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  16. gino rago

    Bozza di interpretazione di 4 poeti e 4 poesie

    1- Roberto Maggiani
    Stelle

    Da tutta la vita osservo le stelle:
    luci rarefatte e superflue
    nelle notti di città.
    Delle prime osservazioni
    ricordo l’odore del fico
    e del geranio
    dell’erba umida e dell’aria tagliata
    dal freddo terso della notte –
    mentre lassù vedevo
    piccole luminescenze nel vuoto
    in apparenza vicine tra loro –
    piuttosto erano
    fiamme pulsanti
    stufe per alieni nel gelo cosmico.
    Come muore una stella?
    Come un uomo –
    in grandezza o piccolezza –
    espandendosi un poco
    o esplodendo brutalmente
    lasciando residui quiescenti
    in spegnimento
    o dinamiche sfere rotanti
    superdense come fari
    o buchi di immensa solitudine.

    2- Charles Simic
    SCOLARI CON LA TESTA GRIGIA

    I vecchi fanno brutti sogni,
    Per questo dormono poco.
    Camminano scalzi
    Senza accendere la luce,
    O si alzano appoggiandosi
    Ai loro tetri mobili,
    Ascoltando il battito dei loro cuori.
    L’unica finestra, all’altro lato della stanza
    È nera come una lavagna.
    Ogni anziano è solo
    In questa classe, mentre sforza lo sguardo
    Su quella sottile linea di gesso
    Che divide l’essere-qui
    Dal non-essere-più-qui.
    Non importa. Era un bicchier d’acqua
    Stavano per arrivare,
    Ma non ancora.
    Restano in ascolto dei topi nel muro,
    Di un’auto che passa per la via,
    Dei padri morti che si trascinano davanti a loro

    Quando vanno in cucina

    3- Ewa Lipska
    La memoria

    Cara signora Schubert, lei scrive che la memoria si dimentica di noi. Sì, è vero. In sua assenza ho ritirato le nostre carte valori, ho venduto le obbligazioni e la pelliccia di volpe nera con cui abbiamo superato la tempesta. Non so perché si tiene alla larga dai luoghi dei nostri incontri agognati e non riconosce gli indirizzi dove ha abitato. Qualcuno l’ha vista mentre, attorniata da monumenti di pietra, ci spargeva in giro per distrazione.

    4- Tomas Tranströmer
    SILENZIO

    Passa oltre, sono sepolti…
    Una nuvola scivola sul disco del sole.

    La fame è un edificio elevato
    che si sposta nella notte

    nella camera da letto si apre la colonna
    scura della tromba di un ascensore verso le viscere.

    Fiori nel fosso. Fanfara e silenzio.
    Passa oltre, sono sepolti…

    Le posate d’argento sopravvivono in grandi sciami
    giù nel profondo dove l’Atlantico è nero

    Interpretiamo i 4 testi scelti dei 4 poeti messi a confronto [Roberto Maggiani, Charles Simic, Ewa Lipska, Tomas Tranströmer].
    Da Roland Barthes ne Il grado zero della scrittura, abbiamo da tempo appreso che lo studioso utilizza le lettere A, B e C per rappresentare alcuni attributi del linguaggio, che Barthes intende come decorativi, e che stanno a significare, rispettivamente, A il metro, B il ritmo e C il “rituale delle immagini”, vale a dire la sonorità e la forza di queste ultime, e possiamo insieme tentare di stabilire una sorta di equivalenze:

    poesia = prosa +A+B+C A= metro; B= ritmo; C= ‘rituale delle immagini’ ovvero forza delle immagini e la loro sonorità
    Poesia= Prosa+ metro+ ritmo+ rituale delle immagini

    Prosa = Poesia -A-B-C

    Sempre rimbalzando fra senso e suono, tra forma e contenuto, possiamo pronunciarci anche su due grandi generi contemporanei: la poesia in prosa e la prosa poetica.
    Utilizzando lo schema barthesiano siamo in grado di tentare la differenza tra le due categorie nel modo seguente:

    poesia in prosa = prosa -A+B+C

    prosa poetica = poesia -A-B+C

    La poesia in prosa, insomma, come la prosa poetica, non ha metro ma, al contrario di quest’ultima, ha ritmo (B) e una particolare densità (C) che endiadicamente, per dirla con Giorgio Linguaglossa, si sostengono a vicenda.
    Prosa poetica, d’altissimo valore, di certo è ‘La memoria’ di Ewa Lipska, per esempio.
    Mentre i testi di Charles Simic e di Tomas Tranströmer sono, accanto alla esattezza esemplare della parola, disseminati di metafore cinetiche, immagini metaforiche, ecc. Il testo di Roberto Maggiani tende verso questi alti esiti estetici ma sento che un grande lavoro attende questo poeta verso la verità del mondo che non coincide con il ruotare intorno agli stati d’animo e alle dinamiche piccole dell’Io. Salamov nell’omaggio a Mandels’tam a un certo punto di Cherry-brandy ci dà l’illuminazione che i poeti della NOE hanno da tempo fatta propria [e lo testimoniano i loro versi]:

    “La vita entrava per conto suo dentro di lui [Mandels’tam], come una dispotica padrona: lui non la chiamava, ma lei gli pervadeva egualmente il corpo, il cervello, entrava come poesia, ispirazione. E, per la prima volta, il significato di questa parola gli si rivelò in tutta la sua pienezza. La poesia era la forza vivificante di cui lui viveva. Precisamente così. Lui non viveva per la poesia, viveva della poesia”
    … Viveva della poesia… E qui c’è tutto il destino del poeta.

    Gino Rago

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    • Alfonso Cataldi

      Versi nati inizialmente grazie all’ispirazione di Gino Rago, con il quale ho provato a contaminarmi, qui cercano una propria strada.

      to be continued
      la suzione mani avanti
      non-ti-mollo
      scopre all’alba un contadino curvo
      a Sambacanou
      soggiogato a sentimenti inaspettati
      del suo terreno ostile.

      La compagnia di Piero, un’ora al giorno,
      non serve più
      il ricovero degli animali
      -un rompicapo al seno-
      è scampato a un naufragio notturno
      un sogno provvidenziale ha bruciato foglie e rami secchi.

      La piscina al molo shopping 8.44 ha il fondo scuro
      una bambina timorosa tutta l’estate
      butta via i braccioli, sorprendendo la madre
      si avvicina al bordo
      chiede notizie dal mondo reale.

      Aboubakar sta raccontando la riconsegna
      di un investimento infranto
      nella regione di Kayes

      lungo il tragitto mostra il ricordo
      di un pallone calciato
      a una latitudine che taglia le radici.

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      • Per una topologia della poesia

        Il linguaggio di Celan sorge quando il linguaggio di Heidegger muore,
        volendo dire che il linguaggio della poesia – della ‘nuova’ poesia –
        può sorgere soltanto con il morire del linguaggio tradizionale
        che la filosofia ha fatto suo, o – forse – che si è impadronito della filosofia.

        (Vincenzo Vitiello)

        L’enigma non può essere sciolto con un atto di padronanza categoriale
        ma può solo essere percorso.

        (Pier Aldo Rovatti)

        «La storia è un libro di ricette. I dittatori sono i cuochi. I filosofi quelli che scrivono il menu. I preti sono i camerieri. I militari i buttafuori. Il canto che sentite sono i poeti che lavano i piatti in cucina».

        (Charles Simic )

        Qualcuno mi ha fatto presente che parlare di ontologia dopo la bancarotta dell’ontologia è un controsenso, ma io ribatterei a questo pensiero dicendo che l’ontologia per essere viva deve passare attraverso una serrata critica all’ontologia, altrimenti è apologia dell’ontologia che non si dice… questo libro vuole essere una serrata critica ai postulati immodificabili della vecchia ontologia estetica divenuti dogmi correnti.

        Ci sono dei pensieri che hanno una carica elettrica, uno di questi è il pensiero dell’essere, «concetto omnibus» diceva Ortega y Gasset negli anni trenta rivolgendosi contro Heidegger… ma proviamo a scendere dall’omnibus e a camminare sui pensieri come su cocci aguzzi di vetro: a chi voglia gettare uno sguardo su queste considerazioni, verrà chiaro che eseguo sempre lo stesso spartito: la critica dell’ontologia. E questo tema dello specchio rientra appunto nella critica dell’ontologia acritica e apologetica della poesia positiva.

        Ogni nuova ontologia estetica richiede la circoscrizione di una nuova topologia estetica.

        Come nasce una poesia? Dal presente. Qualcosa si fa avanti e chiede di entrare nel presente. Qualcosa ci porta a ridosso di quell’orizzonte degli eventi, che è il presente, che è la poesia stessa nel suo farsi, nel suo sorgere e nel suo sottrarsi alle parole d’ordinanza, alle parole ordinative e ultimative, quelle di cui ci serviamo ogni giorno nel commercio degli affari correnti.

        Chiediamoci: che cos’è la nostra attualità? Che cos’è il presente? Qual è il luogo delle nostre esperienze? Che cos’è l’esperienza? Qui non si tratta tanto di una analitica della verità, né di una anaclitica della verità, ma di una ontologia del presente, di una ontologia di noi stessi in quanto abitanti del presente. E come facciamo a conoscere noi stessi se non ricorrendo ad uno specchio che ci rimanda la nostra immagine?

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      • Latitudini circospette,
        questa la geografia sintonizzata.
        Delle frequenze, delle libertà. Sepolte
        a parte. Il gioco della campana
        per adulti avvezzi a versi.

        “In lubrici fischi grotteschi
        e tintinnare di angeliche campanelle
        e gridi e voci di prostitute
        e pantomime d’Ofelia
        stillate dall’umile pianto delle lampade elettriche.”

        Grazie Cataldi. OMBRA OLE’!

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    • Grazie Gino Rago, ho apprezzato il suo confronto tra i 4 testi e quanto dice su di me… il suo dire apre spazi di lavoro, non mi chiude in un giudizio sommario. Se avrà occasione di leggere il libro mi farà piacere, se vuole gliene posso inviare una copia, eventualmente mi scriva in privato: roberto.maggiani@larecherche.it

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  17. Giuseppe Talia

    “Nonostante la bellezza mi circondi
    provo un sottile disagio.”

    Dove ho già letto, mi domando, questo verso? O almeno, l’ermeneutica di questo verso chi e cosa mi ricorda? Kant! De Sade! Stendhal! Hölderlin! Lacan! Ma anche un libro di psicologia, Il Disagio della Bellezza, non ricordo l’autore.
    Ecco, la bellezza, la perfezione, tutte le stanze “interne” (ci abita qualcuno in queste stanze?), compreso gli angoli così ben congegnati, affrescati di tutto punto, mi mettono a disagio.

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  18. guglielmo aprile

    Tornando al soggetto di partenza del post, mi sembra comunque una poesia lontana da ripiegamenti ombelicali di stampo minimalista. La storia del pianeta e l’evoluzione delle forme di vita che lo popolano, quali con sempre maggiore chiarezza ci vengono ricostruite dal’indagine scientifica, offrono occasione di vertigine sincera (basti pensare ai tempi incommensurabili alla mente umana in cui si sono andati svolgendo i processi di trasformazione della materia, dallo stato inorganico alla complessità della coscienza), che diventa fertile spunto alla meraviglia poetica; dal proprio punto di vista (legittimo ma, data la portata della questione, universalmente irrisolto), l’Autore interpreta in chiave finalistica il dato naturalistico iniziale, riconoscendo nell’uomo il vertice e il punto d’arrivo di questo lunghissimo sviluppo temporale, nello sforzo di coniugare visione lucreziana della natura e fede in un disegno divino sotteso alle stagioni del cosmo.

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  19. Giuseppe Talia

    Dal poco o molto che ho potuto capire, in questi ultimi anni vi è tutta una generazione di poeti che io definisco “lieto-collisti”, con una dizione chiara e con stanze vuote, vuote almeno di identità personale. E’ una generazione che è cresciuta a pane e minimalismo e che sulle tracce della riduzione minimale tipica della corrente, cerca di innestare temi di più ampio respiro. Appartengono a questa corrente poeti come Maggiani, Di Dio e Fresa, quest’ultimo forse con un taglio molto più cucchiano, ma interessante quando riscrive con veste nuova.
    Maggiani, è vero che tenta, come afferma Aprile, di “coniugare visione lucreziana della natura e fede”, ma la domanda è: perché tentare una operazione che è stata già pensata e ripensata? Perché continuare ancora con lo stampo “lieto-collista” dove non vi è alcuna tellurizzazione?

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  20. Gentile Giuseppe, la ringrazio per la riflessione, se può mi spieghi meglio cosa intende per “lieto-collista”, non mi è chiaro… non amo molto le catalogazioni delle persone, troppo tagliano della novità che ciascuna porta con sé… io scrivo da più di venti anni, mi sono molto confrontato con i poeti contemporanei a partire da Mariella Bettarini, Zanzotto, Magrelli, Cavalli, Buffoni, eccetera (con qualcuno per conoscenza diretta); amo la scienza, sono Fisico, ho scritto sul rapporto tra poesia e scienza, “Poesia e scienza: una relazione necessaria?” CFR 2011, da sempre indago questo terreno in modo serio e sentito, soprattutto con una certa competenza. Spesso trovando fossati e cadendoci dentro ma non sempre e quelle poche volte che non ci sono caduto dentro ho detto qualcosa che non era stato detto, non sono presuntuoso mi creda. La invito a leggere “Angoli interni” e ad affrontare il tema con nuovi occhi… io non sono… ciascuno di noi non è… gli altri… il mio pensiero è il mio e non è stato ancora pensato né ripensato… la tecnologia e la scienza stanno aprendo adesso nuove visioni sulla realtà che solo cinquanta anni fa aerano impensabili e alcune anche solo cinque anni fa lo erano, la poesia ha anche lì la sua novità vera e pulsante. Grazie.

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  21. Ho cercato di leggervi tutti e continuerà a farlo e dove ho potuto e ritenuto ho risposto, per formazione mi piace il confronto e per difetto che quel confronto possa avere un senso, mi piacerebbe che tutti voi poteste leggere il mio libro in uscita il 26 lugli, giovedì, poi ne possiamo ancora parlare. Vi lascio, per ora, con un video che spero vi strappi una risata: https://www.youtube.com/watch?v=Q_CMOKwsF-A
    Cosa non si fa per promuovere un libro =)

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  22. Giuseppe Talia

    Anche io Le lascio un paio di tracce YouTube. Ma non dei miei libri.
    https://www.youtube.com/channel/UC8Ff9ZqlLmB4epgYcQWdvtg

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  23. Giuseppe Talia

    Berardinelli dice che non risponderà mai a nessun poeta contemporaneo che non dimostri di aver letto almeno tre dei suoi libri.
    Io no sono così tranchant e Le dico, legga almeno uno dei miei libri, ne trova in giro Thalia in versione americana e uno in versione italiana.
    Io, della sua vasta produzione, ne ho letto alcuni, compreso il Lieto-collista.
    🙂

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  24. Indagine intorno a 3 poesie di 3 Autori diversi
    Leggiamo due composizioni di due autori che hanno postato ieri:

    Roberto Maggiani, Poesie scelte da Angoli interni, Passigli, 2018, pp. 138 € 16.50 con una Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa. La pratica della poesia come percorso eidetico


    Mauro Pierno
    22 luglio 2018 alle 19.45

    Latitudini circospette,
    questa la geografia sintonizzata.
    Delle frequenze, delle libertà. Sepolte
    a parte. Il gioco della campana
    per adulti avvezzi a versi.

    “In lubrici fischi grotteschi
    e tintinnare di angeliche campanelle
    e gridi e voci di prostitute
    e pantomime d’Ofelia
    stillate dall’umile pianto delle lampade elettriche.”

    Alfonso Cataldi
    22 luglio 2018 alle 13:04
    Versi nati inizialmente grazie all’ispirazione di Gino Rago, con il quale ho provato a contaminarmi, qui cercano una propria strada.

    to be continued
    la suzione mani avanti
    non-ti-mollo
    scopre all’alba un contadino curvo
    a Sambacanou
    soggiogato a sentimenti inaspettati
    del suo terreno ostile.

    La compagnia di Piero, un’ora al giorno,
    non serve più
    il ricovero degli animali
    -un rompicapo al seno-
    è scampato a un naufragio notturno
    un sogno provvidenziale ha bruciato foglie e rami secchi.

    La piscina al molo shopping 8.44 ha il fondo scuro
    una bambina timorosa tutta l’estate
    butta via i braccioli, sorprendendo la madre
    si avvicina al bordo
    chiede notizie dal mondo reale.

    Aboubakar sta raccontando la riconsegna
    di un investimento infranto
    nella regione di Kayes

    lungo il tragitto mostra il ricordo
    di un pallone calciato
    a una latitudine che taglia le radici.

    È chiaro che queste poesie, come riconoscono gli stessi Autori, nascono per «contaminazione» diretta con e da poesie di altri Autori; il verso libero è scansionato da spazi interstrofici, lo shifter e la deviazione dalla norma, lo straniamento delle immagini giustapposte sono i fattori base della costruzione dei testi. E questo è una originalità tipica delle composizioni nate sotto la stella della «nuova ontologia estetica». Qui i Fattore Tempo e il Fattore Spazio vengono impiegati dai due autori in modo personale, secondo la propria soggettività ed esperienza culturale. Una poesia che non faccia i conti con i Fattori Tempo e Spazio, come abbiamo più volte ripetuto in queste colonne, fa una rispettabilissima poesia «normale», cioè impiega una sintassi «normale», cioè unidirezionale e una fonometria e fonologia «normali», cioè ampiamente centrifugate nel novecento e in queste ultime decadi-endiadi sempre eguali a se stesse.

    La poesia di Roberto Maggiani appartiene alla ontologia estetica del novecento, non c’è dubbio, segue l’ordine sintattico del discorso secondo lo scorrimento temporale. Se leggiamo una poesia del suo libro ci accorgiamo di questo fatto:

    Tu vivi sulla terra come in Paradiso
    per questo soffri degli stupidi egoismi
    che facilmente
    accerchiano il tuo amore –
    privo di orpelli e giustificazioni.
    Siedi davanti agli occhi
    risorti dalla croce
    ed esprimi nei tuoi gesti
    un magnificat silenzioso.

    (p.72)

    La poesia di Maggiani (tecnicamente parlando) parla con voce unica, in un tempo unico e uno spazio unico: una voce centrale esprime le proprie opinioni su una persona della propria esperienza personale, utilizza la forma-poesia come una narrazione di pensieri ed opinioni. Legittimo. È una forma retorica impiegata dalla totalità della poesia italiana del novecento e di queste ultime decadi-endiadi. Nulla da eccepire. La poesia che noi stiamo tentando di investigare invece (vedi gli esempi forniti da Gino Rago: Tranströmer, Simic, Ewa Lipska in un commento qui sopra) è fondata su una percezione diplopica, triplopica, distrofica, distratta, da una multipercezione; le poesie della nuova ontologia estetica fanno proprio l’assunto che la percezione di oggi nella nostra civiltà si basa su una multipercezione: prende atto di un fatto evidente, della molteplicità di input informativi che ci aggredisce ogni giorno in ogni istante della nostra giornata.

    Scrive Livio Sbardella in Oralità da Omero ai mass media, Carocci, 2006 p. 123:

    «La radio, come non manca di notare lo stesso Macluhan, è un medium che agisce al meglio nella privacy, che induce cioè l’ascoltatore a isolarsi per goderne a pieno; e la tendenza al rapporto individuale con questo medium si è andata accentuando dal momento in cui la diffusione pervasiva del mezzo televisivo ha sottratto alla radio quegli spazi di fruizione collettiva che pure, all’inizio, aveva. È vero che più persone isolate ascoltando la stessa trasmissione radiofonica nello stesso momento condividono nel tempo il contratto emotivo con una stessa voce o con uno stesso suono, ma manca del tutto la componente della condivisione spaziale. Il confronto con le culture antiche e con quelle moderne dei gruppi umani che hanno conservato una modalità di comunicazione a oralità integrale o prevalente, insegna che l’universo orale, per esistere, ha sempre bisogno di uno spazio- tempo rappresentato dalla performance, quel qui e ora unico e irripetibile, in tutte le sue circostanze specifiche, nel quale un insieme di persone condivide le emozioni suscitate dalla voce di un oratore/esecutore: la radio fruita nella privacy sottrae a questo universo una sua dimensione essenziale, che è quella dello spazio comune.»

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  25. prima versione in distici

    Hiroshima

    Hiroshima è venuta in città. Con i giocattoli troppo lunghi
    per una strada accesa di pochi passi. L’abbiamo trovata dietro

    i numerosi palazzi sibilanti .Sotto i petardi pop pop di una
    mattina lasciata al buio. Non c’erano che ginepri e pietre di carta.

    Bastoni nervosi attratti dai piedi -Chihuahua. Hiroshima per un po’
    ha sanguinato. Indifferente. Riparata dal grande cerotto della razza.

    Lei guardò l’ora. Tutte le finestre. Gli argini e le botteghe chiuse dalle
    saracinesche . Ci disse: good morning . Almeno quattro o cinque volte

    ad occhi chiusi. Dall’ultimo balzo teatrale.
    Non solare. Molto americano.

    (Dopo il comma bis dell’Art. 999: terra arrugginita
    si prega di non inserire vasi di fiori. Altezze continentali.
    Nessuna parola scroscia in vita. Esse bruciano
    sugli specchi. Qualsiasi rifrazione dipinta in mezzo
    alle cose sepolte)

    seconda versione

    Hiroshima

    Hiroshima è venuta in città. Con i giocattoli
    troppo lunghi per una strada accesa di pochi
    passi. L’abbiamo trovata dietro i numerosi
    palazzi sibilanti .Sotto i petardi pop pop di
    una mattina lasciata al buio. Non c’erano
    che ginepri e pietre di carta. Bastoni nervosi
    attratti dai piedi -Chihuahua.

    Hiroshima per un po’ ha sanguinato. Indifferente.
    Riparata dal grande cerotto della razza. Lei guardò
    l’ora. Tutte le finestre. Gli argini e le botteghe chiuse
    dalle saracinesche. Ci disse: good morning . Almeno
    quattro o cinque volte ad occhi chiusi. Dall’ultimo balzo
    teatrale. Non solare. Molto americano.

    (Dopo il comma bis dell’Art. 999: terra arrugginita
    si prega di non inserire vasi di fiori. Altezze continentali.
    Nessuna parola scroscia in vita. Esse bruciano
    sugli specchi. Qualsiasi rifrazione dipinta in mezzo
    alle cose sepolte).

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    • Questa ultima è più compatta.
      (Fortissima!)
      e poi…

      Meno naturalistica ma la poesia dell’Ombra è
      Baudeleriana.La sparo forse.
      Un verminaio che è diventato putredine.
      Basta soltanto sfiorarla la Musa che trasuda
      maleodorante salvezza. Il nostro sangue marcio.

      Grazie Ombra, grazie Dono

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  26. rosana daniela

    la poesia è una vena del cuore che scorre per istinto, non per induzione!!!
    il piacere di scrivere non si compra nè si vende…si assapora semplicemente!!!
    ogni speculazione inquina la purezza !!!

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