
foto di Jason Langer, Carrousel, 2004
Helene Paraskeva è nata ad Atene e vive a Roma. Ha studiato in Grecia, in Italia e nel Regno Unito. Ha pubblicato i racconti Il Tragediometro e altre storie, Faraeditore, 2003; Nell’uovo cosmico, romanzo fanta-thriller, Faraeditore, 2006, Meltèmi, LietoColle, 2009, Global Issues in English Literature (Clitt, 2003) un testo interculturale in lingua inglese per il Liceo di Scienze Sociali; Lucciole Imperatrici, Lietocolle, 2013, secondo L’Odor del gelsomino egeo silloge poetica, La vita Felice, 2014; Ha collaborato con racconti e poesie con numerose riviste e antologie cartacee ed elettroniche. Ha collaborato con il settimanale Internazionale con articoli pubblicati alla rubrica Italieni (Dal 2009-2011). In lingua neogreca ha pubblicato: Γλέντι Τρελό (La festa pazza) (2015, Ρώμη) Raccolta di poesie; Αποξένωση (Alienazione) (2015, Ρώμη) dramma storico; Θαλασσινά Παράθυρα (2016, Βεργίνα) raccolta di poesie.
Ermeneutica di Giorgio Linguaglossa
Scrive Massimo Donà all’ultima pagina del suo impervio lavoro L’aporia del fondamento, Mimesis, 2008, p. 532:
«Interrogarsi intorno alla questione del ‘linguaggio’, non significa affatto porsi un problema metodologico e dunque preliminare rispetto alla vera e propria ricerca metafisica od ontologica che dir si voglia – quasi ci si dovesse interrogare dapprima sulle condizioni di dicibilità. E solo in un secondo tempo (e quasi indipendentemente dagli esiti di questa indagine preliminare) porsi il problema della “verità” o del “fondamento”… magari dimentichi del fatto che i risultati della prima parte della nostra ricerca dovrebbero valere anche per quel linguaggio che, solamente, consente di esprimersi in termini di fondamento, verità, ontologia, identità e differenza.
Insomma, decidere del significato e della realtà del linguaggio è già un decidersi intorno all’essere di ciò che è, e, per quanto detto sino a questo punto, intorno al rapporto linguaggio-mondo – e ciò è vero per il semplice fatto, appena ricordato, che la verità può essere detta solo nella misura in cui e nei limiti in cui il linguaggio “dica” davvero qualcosa (la verità non può esser tale se non anche in relazione a quella determinazione che chiamiamo ‘linguaggio’ – il linguaggio, infatti, se è, è, come tutto, secondo verità) […]
Insomma, decidere del significato e della realtà del linguaggio è già un decidersi intorno all’essere e ciò che è, e… ciò è vero per il semplice fatto… che la verità può essere detta solo nella misura in cui e nei limiti in cui il linguaggio ‘dica’ davvero qualcosa (la verità non può esser tale se non anche in relazione a quella determinazione che chiamiamo ‘linguaggio’ – il linguaggio se è, è, come tutto, secondo verità)».
Helena Paraskeva fa parte di quella fitta schiera di poeti italofoni, cioè di coloro che scrivono nella lingua di adozione, infatti la lingua-madre della Paraskeva è il greco. Sarebbe interessante uno studio sul passaggio dalla poesia in greco a quella in italiano, ne verrebbero delle sorprese. In realtà, ogni tradizione letteraria si riduce ad una sommatoria di questioni di linguaggio, ha una propria gamma di retorizzazioni e di tematizzazioni; una tradizione è anche una gabbia che non ti consente di uscire allo scoperto, di deragliare da un linguaggio. Ogni tradizione è anche una prigione (linguistica e stilistica) dalla quale non è possibile evadere.
Ma, appunto, in tale distacco dalla tradizione della poesia in lingua greca si può misurare la qualità delle smagliature semantiche («Di tristi vincoli di fame») e delle novità di impostazione sintattica: un certo uso della perifrasi («Dobbiamo diventare vivi/ Vivere da vivi») che la Paraskeva introduce nella nostra tradizione poetica. Direi che la poetessa italofona anche quando assume un tono ironico o giocoso non è mai fedele a se stessa, c’è sempre uno scarto di tono, di umore che impedisce alla dizione poetica di scadere nel gioco eufonico, di scivolare nella poesia da battuta di spirito di cui molto spesso la poesia italiana abbonda; c’è sempre un espediente, un guizzo che colloca la sua poesia su un registro più alto. Oggi forse non è più valido l’assioma del poeta che scrive in una lingua più pura di quella in uso nella tribù, oggi forse la poesia più valida è quella che fa uso, senza rammarico, della lingua della tribù, che agisce nella sottile linea di demarcazione del tabù della nominazione. Personalmente, sono sempre più scettico quando mi trovo davanti pagine e pagine di poesia dell’io e delle sue presunte adiacenze, quando leggo delle ulcerazioni del cuore e dell’anima, ci vedo un senso di programma e di stupidosità letteraria che mi induce in sospetto. Per fortuna, Helene Paraskeva sembra esente da questa nequizia. Sia detto per inciso: qui non c’è nessuna delizia nella ascosità dell’indicibile, la poesia è il detto, il dictum, il segreto di una poesia sta tutto intero nella sua dicibilità…
«Non si può pensare di guardare dall’alto il mondo del linguaggio, giacché non c’è un punto di vista esterno all’esperienza linguistica del mondo, dal quale tale esperienza possa essere guardata oggettivamente».1]
La poesia odierna scaturisce dalla presa d’atto di una situazione di crisi o disagio nella quale si troverebbero oggi il nostro mondo, la nostra cultura, la nostra civiltà. Una crisi che, data la sua profondità e complessità, si è per così dire ramificata in molteplici direzioni, andando ad investire pressoché tutti gli ambiti dell’esistenza umana: dalla sfera estetico-artistica a quella socio-politica, dall’ambito dell’educazione a quello della pratica dialogica intersoggettiva, dal rapporto con la propria tradizione linguistica sino a quello con il proprio stesso corpo.
Le due categorie con cui nel corso del novecento si è data la crisi sono: la “crisi della modernità” e la “crisi della ragione”, entro queste categorie va inquadrata la poesia europea del secondo novecento, le sue possibilità di riscossa possono essere definite soltanto sulla pre-comprensione della profondità della crisi e delle possibili vie di uscita da essa. Innanzitutto, con Gadamer diciamo che la poesia non ha carattere denotativo, non serve a nulla, non salva nulla da nulla, non comunica alcun oggetto, non descrive alcun soggetto, non è presenza di alcunché ma assenza, però, paradossalmente, questo nulla di nulla permette di cogliere un senso. Come è possibile? Allora, dobbiamo liberare la poesia dal concetto strumentale di utilitarietà, la poesia non è un utilizzabile, non è un manufatto «reale» ma abita il reale, la differenza è cospicua. In questo modo scartiamo tutte le concezioni dell’arte come mimesis della realtà. Poesia e dialogo sono «strutture ermeneutiche», devono essere continuamente interpretate, abbisognano di una continua interpretazione per esistere, senza una attività ermeneutica la poesia cessa semplicemente di esistere. Non esiste parola che non debba essere interpretata, noi siamo dei decodificatori che devono decodificare la pluralità dei linguaggi.
Nel linguaggio ha luogo l’ontologia ed esso ha carattere speculativo, per cui l’interpretazione ci permette di cogliere il senso come una totalità infinita, le cose non hanno senso se non perché noi ne abbiamo dipanato la loro proprietà segreta, ovvero il loro senso di essere e modo di esistere nel linguaggio. Le cose hanno senso soltanto nel linguaggio. La poesia della Paraskeva abita il linguaggio come un estraneo una casa ammobiliata, sta sempre in bilico, in attenzione. E questo è senz’altro un buon segnale della sua presenza.
1] H.G. Gadamer, Verità ed errore, Tubingen, 1965, trad. it. Bompiani, 2001, p. 329
Poesie inedite di Helene Paraskeva
Peccato non poter riposare
sotto l’ombra delle parole
ricercate come le tue.
Sotto un ulivo, forse sì,
che non dice mai di no.
Ma sotto il fico non si può.
Peccato sotto le tue finestre
passare senza vederti
e sperare che dietro le griglie
a volte guardi sognando
che qualche sasso rifiutato
ti spaccasse i vetri.
Solo per essere accolto.
avventure impure
Di tristi vincoli di fame
povertà, miseria, vergogna
ne raccontiamo tanti.
Obliamoci un po’!
Nel bosco con brio
fuggiamo e come le baccanti
con petali, falene, bruma e brina
commettiamo belli e impuri atti!
Tuffiamoci ancora nell’oceano
degli innocenti mostri!
Come salmoni pieni di speranza
risaliamo i fiumi!
Nel mare aperto mescoliamoci
con sirene, delfini, trilli e canti.
*
Insonnia
Svegli.
Fino allo scioglimento
degli abbagli in bianco-nero.
Fino all’infinito vortice
delle trasmissioni-infezioni a colori.
Svegli.
fino alla fusione
degli incubi più oppressivi
in promozione video clip
nei cofanetti blu maligni.
Gorgona
Ho visto cavalcare
cieca e sorda la furia
e i confini umani valicare.
la caduta hο udito
delle teste inghirlandate,
l’amara ho gustato
di deportazione Nemesi
e l’urlo di sterminio.
Ti vedo, eroe mio!
allo specchio, specchio!
Le tue parole spade
d’ingordigia e desiderio.
Tieni la mia testa!
Non la gettare, Eroe mio!
con i serpenti ancora vivi!
Non la gettare
nella ciotola di Cerbero!
Vieni!
Dobbiamo diventare vivi
Vivere da vivi.
Tu brandisci la frusta
Offri anche la carota
Vivremo da vivi!
Sarà un mondo equilibrato
dove i misteriosi irosi vivi
sfuggono surreali, inconsistenti.
Rintracceremo eroi metodici,
diventeremo eroi meticolosi,
E poi saremo,
step by step,
Vivi.
Calibano e il piano marshall
A scuola, la mattina,
Nick mangiava una mela perché…
E la mattina dopo consumava
carne e pane fresco.
Ogni mattina Nick mangiava
con orgoglio la merenda
di panecarne o melaperché
sicuro di essere dalla parte giusta
del piano Marshall.
Non era il pane fresco
né il panecarne, né la melaperché.
Era quell’orgoglio,
quella sicurezza,
quella supponenza
che Calibano, il mostro umano,
avrebbe con piacere divorato.
Maestra elementare
Polvere di scorie lunari
alza il passo del cosmonauta
e batte sull’orlo del masso astrale.
Ignaro lui scivola nel fosso ma
sul patio della grotta affittata
esce Giunone corrugata
e aggiustandosi il ciuffo di muffa
esorta l’astronauta traballante:
“Camminare vuoi nel vuoto?
Dal seminato uscire vuoi
senza futuro, condizionale
o congiuntivo?
Per sopravvivere nella severa
prima elementare
esprimiti semplicemente
nel rigoroso presente indicativo!”