
Foto Jason Langer
Viola Fischerová nasce a Brno nel 1935. Figlia del filosofo Josef Ludvík Fischer, cresce in un ambiente di intellettuali e sin dagli anni dell’università frequenta scrittori e artisti tra cui ama ricordare ad esempio Vera Linhartová, Václav Havel, Jan Zábrana, Jan Vladislav, Mikuláš Medek (vedi l’intervista concessa a Michael Špirit, in «Revolver Revue» 28, 1995). La sua prima raccolta di versi, Propadání (Sprofondando), completata sul finire degli anni Cinquanta, non viene accettata nelle case editrici sottoposte alla censura del regime totalitario; alcune di quelle poesie sono uscite nel 1995 in «Revolver Revue».
Dopo il primo vano tentativo di pubblicare, la Fischerová smette per lungo tempo di comporre poesie; entra tuttavia proprio come poetessa nella coscienza dei lettori per alcuni suoi versi che Bohumil Hrabal – negli anni Sessanta già molto popolare – pone in epigrafe alla raccolta di racconti Inserzione per una casa in cui non voglio più abitare (1965): «La latteria potrebbe vendere anche quando è buio / Cominciare a vivere da sola è più di una nascita / Si può intendere la mancanza di fede / come attenzione indiscriminata / Del resto metto un’inserzione per una casa / in cui non voglio più abitare». Questi versi contenevano il concetto di «attenzione indiscriminata» che sarebbe stato tanto produttivo nella poetica di Hrabal: se per la Fischerová era questo un modo per definire diffidenza e indifferenza, per il grande scrittore ceco aveva invece un significato positivo, indicava la capacità di osservare la realtà senza pregiudizi, prestandole un’attenzione incondizionata.
Laureata in letteratura ceca e polacca, negli anni Sessanta la Fischerová lavora soprattutto alla redazione culturale della radio cecoslovacca, curando programmi dedicati alla letteratura e scrivendo tra l’altro adattamenti radiofonici di opere letterarie. Nell’autunno 1968, dopo l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del patto di Varsavia, come altri intellettuali che avevano creduto nella possibilità di riformare il cosiddetto socialismo reale sceglie l’esilio insieme al marito Pavel Buksa (noto come scrittore con lo pseudonimo di Karel Michal) e si stabilisce a Basilea. Qui alterna varie occupazioni mentre studia per prendere una seconda laurea in germanistica e storia. Negli anni Ottanta si trasferisce in Germania, a Monaco, dove ricomincia a scrivere versi, affiancando nuovamente la poesia alla pubblicistica: collabora infatti con periodici e case editrici del dissenso e dell’esilio, e inoltre con la redazione di Radio Free Europe. È rientrata nel suo paese dopo i cambiamenti politici e istituzionali seguiti alla cosiddetta ‘rivoluzione di velluto’ del novembre 1989 e dopo la morte del secondo marito, lo scrittore Josef Jedlicka. Attualmente vive a Praga.
La costante tensione della riflessione esistenziale accomuna le poesie qui presentate in traduzione italiana, scritte a distanza di anni; sono pervase dal tema dell’assenza, del lutto e della perdita, condizioni psicologiche e materiali di cui si indagano le conseguenze nell’esistenza quotidiana di chi le subisce. Le cose di ogni giorno, con la loro implacabile presenza, si manifestano come segni dolorosi: così ad esempio la porta di casa, solitamente varco e soglia della sicurezza, non è altro che l’«ingresso in una ferita aperta»; i simboli più ovvi della gioia familiare – come ad esempio la vigilia di Natale – si capovolgono a significare la più pura assenza: del resto, nel percorso verso una vicinanza discosta, eppure ormai matura, cresciuta, autonoma, l’io lirico guadagna «una visione più chiara / dell’altra faccia / opposta delle cose». La faccia opposta delle cose non ne rappresenta il contrario ma il completamento, così come l’affinarsi della percezione non si realizza nei versi per ossimori: grazie ai frequenti accostamenti inusuali, la prospettiva si fa dinamica e si approfondisce, permettendo di scoprire altre dimensioni dell’esistenza.
Un’altra componente importante e produttiva nella poesia di Viola Fischerová è la memoria: i ricordi sono narrati attraverso la rievocazione lirica di eventi, ma soprattutto attraverso le sensazioni, le percezioni e i sentimenti riproposti nei versi con tale efficacia che a ogni lettura sembra di poter sperimentare nuovamente la loro intensità. Il lirismo dell’evocazione non ha nulla di astratto, le scene della vita spirituale si svolgono anzi in uno spazio ben individuato all’interno di coordinate fisiche, in luoghi descritti dalla loro componente emotiva, quasi avessero un carattere umano («La porta di casa / ingresso in una ferita aperta»; «Di notte mi dispiace / per quella via»;
«Ma chi mangerebbe / da piatti passati / e si ubriacherebbe / da bicchieri di prima» ecc.).
Il verso libero, mosso e scandito da pause diverse seppure distribuite con regolarità, risulta attraversato soprattutto da allitterazioni. La leggerezza della misurata tessitura fonica rivela una padronanza sicura della lingua; questa poesia dall’intonazione pacata e dall’espressione matura rifugge dai facili virtuosismi. L’andamento dei versi è dialogico: si percepisce molto forte la presenza di un interlocutore esplicito, un ‘tu’ cui l’io lirico si rivolge, che potrebbe talora identificarsi con una persona cara scomparsa, a volte è un dialogo con se stessi, altre volte sembra scandire le battute di una conversazione tra amici o, ancora, impersona un dio cui ci si appella. Pochissime poesie hanno un titolo, mentre sono individuate dall’incipit: si presentano così come tasselli di un unico discorso sempre ripreso.
(Annalisa Cosentino)
Dalle raccolte Zádušní básne za Pavla Buksu (Poesie in morte di Pavel Buksa; scritta tra il 1985 e il 1986, ma pubblicata a Brno solo nel 1993); Babí hodina (L’ora del tramonto; 1994), Odrostlá blízkost (Discosta vicinanza; 1996), Matešná samota (Solitudine madre; 2002), Nyní (Adesso; 2004)

Viola Fischerová
(Traduzione di Annalisa Cosentino)
Domovní dveše
vchod do otevšené rány
nuova poesia ceca
Schody se lesknou Ani kapka krve ani pešícko
Celý náš život trval 16 let
a odehrál se ve tšech pokojích
***
V noci mi bývá líto té ulice
Není v ní jediné okno o nemž chci vedet kdo za ním bdí
***
Bože mnj
nemeli jsme nikdy jistotu že žít je samozšejmé
a nárok na to slušný Nebyli jsme vlažní Jestliže jsme první vyklízeli pole nehnala nás bázen ale stud
Tedy pýcha
První hších
***
Taky na mne nemyslíváš kolik dní?
Taky sis našel jiný život?
Co ale když se stmívá než se rozední
Dnes po celý vecer tkvely na cerné vode dve labute
a ani se nehnuly
***
A nekdy k ní pšichází
její nenarozený
Má plavé vlasy její nelásky
a stejný úsmev a zuby
Znstává nikdy však nepromluví
*
La porta di casa
ingresso in una ferita aperta Le scale brillano
Né una goccia di sangue né una piccola piuma Tutta la nostra vita
è durata sedici anni
e si è svolta in tre camere
***
Di notte mi dispiace per quella via
Non c’è neppure una finestra di cui vorrei sapere
chi vi veglia
***
Dio mio
non abbiamo mai avuto la certezza che vivere sia ovvio
e opportuno averne il diritto Non siamo stati tiepidi
Se abbiamo per primi sgombrato il campo
non ci ha spinto il timore ma il pudore
Quindi l’orgoglio Il primo peccato
***
Anche tu non pensi a me da quanti giorni?
Anche tu hai trovato un’altra vita?
E se facesse buio prima di albeggiare
Tutta la sera oggi fissi sull’acqua nera due cigni
senza muoversi
***
E talvolta le si avvicina il figlio non nato
Ha i capelli biondi del suo nonamore e lo stesso sorriso gli stessi denti Rimane ma non parla mai

Viola Fischerová
A ona se nedoví
v cím klinu a nárucí vzešlo co melo vzejít z ní
díte jemuž upšela bornvku a nedala ani míc
který ostatne nesla pšed sebou nikoliv v sobe
***
Tvoje vánoce pokrývají
prázdný stnl
se dvema svíckami
Ale kdo by se najedl
z minulých talíšn
a opil z dšívejších sklenic
Ani psovi tu nevoní
bez veceše kosti
Sousedi zpívají koledy za chvíli se nám narodí
A do mesícn umše
***
Babicce Ludvice odbíjely babí cas ctvrthodiny z veže kostela
O holi v pokoji
mezi rádiem zrcadlem stolem a postelí
nabízela paní lesní krásnou fotografii
kdy mela ješte ze všech
«nejtencí pas a nejjemnejší plet»
Babicka Ludvika rodila ctyšikrát byla frigidní
a umšela v slzách
nad láskou
Fabricia Del Donga po poledni
mezi tšetí a ctvrtou
***
A to jsem já? Nehladová nesytá bez šatn ne nahá sama pod kšídly cerné labuti
s kterou jsi jedno
E lei non saprà
in quale grembo e abbraccio sia venuto quel che doveva venire da lei
il figlio a cui ha negato un mirtillo e non ha dato neppure la palla
che del resto ha portato davanti a sé non certo dentro di sé
*
nuova poesia ceca
Il tuo natale ricopre un tavolo vuoto con due candele
Ma chi mangerebbe da piatti passati
e si ubriacherebbe da bicchieri di prima
Neppure al cane piacciono queste ossa senza cena
I vicini intonano canti natalizi tra poco nascerà per noi
E tra qualche mese morirà
***
Per la nonna Ludvika
ha battuto le ore del tramonto ogni quarto d’ora l’orologio del campanile
Con il bastone nella stanza tra la radio lo specchio
il tavolo e il letto
la signora del boscaiolo mostrava una bella fotografia
di quando ancora aveva tra tutte
«la vita più sottile e la pelle più fina»
La nonna Ludvika
ha partorito quattro volte era frigida
ed è morta in lacrime sull’amore
di Fabrizio Del Dongo nel pomeriggio
tra le tre e le quattro
***
E questa sono io? Senza fame non sazia senza vestiti non nuda sola sotto le ali
di un cigno nero con cui sei
una cosa sola
***
Antonínu Brouskovi
Ráno pozdravit starou jablon proti oknu Nebýváš sám máš-li kocku a psa
u nohou splav jenž zní
a stále pšetéká
jas západu v korunách když z vecera jdu
nuova poesia ceca
na hšbitov k hrobu jako domn
***
Ta plavá mluvila
ale ebenová krása té druhé
byla k zbláznení
Jak dlouho hledely samy dve do sebe
kam vešly uchem jehly
***
Ty která jsi mezi nebem a zemí chceš tancit
každé ráno po svých mrtvých nohách
A my te znova prosíme aby sis lehla aby sis konecne lehla
***
Rnže neumše když se utrhne
ve váze ochabuje a dýchá
Tu co jsem ti dala do hrobu však udusila hlína
Dve mrtvé jedna živá
Té první jsem smrt vyprosila Druhé dala
***
Pane dal jsi mi mnj osud
Nerozumím tomu
co se neodvažuji chápat
Jsem jen co mám Tebe v sobe slepe se k Tobe upínám
*
Ad Antonín Brousek
La mattina salutare il vecchio melo davanti alla finestra Non sei solo se hai un gatto e un cane
ai piedi la chiusa che scroscia e trabocca di continuo
il fulgore del tramonto tra le fronde quando di sera vado
al cimitero alla tomba come a casa
***
La bionda parlava
ma la bellezza di ebano dell’altra era da impazzire
Per quanto tempo hanno guardato in due dentro se stesse
dove sono entrate per la cruna dell’ago
***
Tu che sei tra cielo e terra vuoi danzare
ogni mattina sulle tue gambe morte
E noi nuovamente ti preghiamo di giacere di giacere finalmente
***
La rosa non muore quando si coglie nel vaso infiacchisce e respira
Quella che ti misi nella tomba però fu soffocata dalla terra
Due morte una viva
Per la prima implorai la morte Alla seconda la diedi
***
Signore mi hai dato il mio destino Non comprendo
quel che non ho il coraggio di capire
Sono soltanto ciò che ho Te in me stessa ciecamente a Te
mi avvinghio
***
Obcas mi Pane na vtešinu otvíráš dveše k tomu
co zahlédám
Živá jablka na holém podzimním stromu
veselé zjevení ješabin v aleji
moje dávné sny a život k nim
a vecný opak ztráty v níž se nacházím
***
Tak náhle zacínáš nosit svou jinou tváš
Ten kdo te pozná Jsou tši staší muži kteší vidí v co veší
Hezkou radostnou holku kterou jsi nebyla
***
Netrvej na sobe
jaká jsi byla
Ty cáry kolem úst
nejsou špína
cosi se bortí a cosi jeví
Tvá hošká urputnost kde chybely slzy
***
Nyní
jenom když usínáš
se ješte choulíš
a za dne kocka
a v noci sny ti zjevují
po cem si šlapeš
co nevíš
a po cem toužíš
*
A volte Signore per un secondo mi lasci la porta aperta su quello che scorgo
Mele vive su un nudo albero d’autunno sorbe allegre comparire nel viale
i miei antichi sogni con la vita
nuova poesia ceca
e l’eterno opposto della perdita in cui mi trovo
***
Così all’improvviso cominci a portare l’altro tuo volto
Chi ti riconosce sono tre anziani
che vedono ciò in cui credono
La bella ragazza allegra che non sei stata
***
Non insistere su quella che eri
Quelle linee intorno alla bocca non sono sporcizia
qualcosa si sfascia e qualcosa appare
La tua amara caparbietà dove mancavano le lacrime
***
Adesso
solo quando ti addormenti ti raggomitoli ancora
e di giorno un gatto e di notte i sogni
ti rivelano
quel che calpesti quel che non sai
e quel che desideri
***
Matce
A mia madre
Matku jako mouku rozsypali do trávy a zalili
Sama jsi chtela to testo
ze sebe a hlíny
Mia madre come farina spargono tra l’erba
e annaffiano
Tu stessa volevi quell’impasto di te e d’argilla
rozpadnout se smísit
a znovu krmit
Na té louce mami
mám tši bratry smrky
A taky se k nim nesmím
nikdy pšiblížit
***
nuova poesia ceca
Šasto je lákáme ty skvelé zmizelé kteší nás milovali
Ackoli v prnrvách pameti uvíznem vždycky v spleti vin našich i jejich
***
Nyní
jasnejší zšení
té jiné odvrácené
strany vecí
když díte
se nikdy dost rychle
neotocí
aby zahlédlo o cem ví víc než tuší
disfarti mescolarti
e nutrire ancora
Su quel prato mamma ho tre fratelli abeti
E neanche a loro posso avvicinarmi mai
***
Li allettiamo spesso
gli splendidi scomparsi che ci hanno amato
Benché nelle brecce della memoria
ci impigliamo in un groviglio di colpe nostre e loro
***
Adesso
una visione più chiara dell’altra faccia opposta delle cose
quando un bimbo non si gira mai abbastanza svelto
per scorgere
ciò che conosce meglio di quanto non sappia
Gino Rago
L’esilio è un fatto linguistico
Era d’inverno. Il villaggio dormiva più del solito,
ombre corte dai monti e dalla neve.
Una donna sognava di diventare un’altra persona.
Bisognava lasciare il villaggio, abbandonare la casa.
Sfidare il lago, attraversarlo dimenticando le sponde,
concentrandosi unicamente sull’altra sponda,
la più vicina. Agota diventò un’altra persona
ma non abbandonò il villaggio né sua madre.
Aveva intrapreso il viaggio in un’altra lingua.
La nuova lingua accolse la donna
come la nonna che ti attende e che ritrovi al di là dell’oceano.
La condizione che chiamiamo esilio è solo un fatto di lingua
[si può essere in esilio anche nel proprio villaggio,
nella lingua della madre, fra le ossa dei padri ]?
Agota ora scrive nuovi versi. L’esilio è in ogni lingua
che ti nega la parola esatta.
GR
Botta e risposta fra Gino Rago e Letizia Leone
5 poeti contemporanei si misurano con
MIGRAZIONI, DISLOCAZIONI, ERRANZE LINGUISTICHE: LA CONDIZIONE CHE CHIAMIAMO ESILIO.
[TESTI DI EDITH DZIEDUSZYCKA, STEVEN GRIECO-RATHGEB, GËZIM HAJDARI, GIORGIO LINGUAGLOSSA, GINO RAGO].
(Da AA.VV. Alla luce d’una candela, in riva all’oceano, a cura di L. Leone, L’Erudita Ed., Roma 2018)
A – Dalla nota dotta e magnificamente articolata di Letizia Leone apprendiamo:
“[…]Di fronte a smarrimento delle radici ed erranza un poeta come Brodskij eleva l’esilio a condizione metafisica di «resistenza attiva». E se l’«abitare» è la parola chiave mancante per chi è costretto ad abbandonare la casa, il proprio paese o l’idea stessa di patria, a questo sorta di sradicamento lo scrittore da esule privilegiato, grazie al suo mondo interiore, può opporre lo spazio del linguaggio. «La tua capsula è il tuo linguaggio» ribadisce Brodskij, «per uno che fa il mio mestiere la condizione che chiamiamo esilio è, prima di tutto, un evento linguistico: uno scrittore esule è scagliato, o si ritira, dentro la sua madrelingua. Quella che era per così dire la sua spada, diventa il suo scudo, la sua capsula[…]”
B – Gino Rago
L’esilio è un fatto linguistico
Era d’inverno. Il villaggio dormiva più del solito,
ombre corte dai monti e dalla neve.
Una donna sognava di diventare un’altra persona.
Bisognava lasciare il villaggio, abbandonare la casa.
Sfidare il lago, attraversarlo dimenticando le sponde,
concentrandosi unicamente sull’altra sponda,
la più vicina. Agota diventò un’altra persona
ma non abbandonò il villaggio né sua madre.
Aveva intrapreso il viaggio in un’altra lingua.
La nuova lingua accolse la donna
come la nonna che ti attende e che ritrovi al di là dell’oceano.
La condizione che chiamiamo esilio è solo un fatto di lingua
[si può essere in esilio anche nel proprio villaggio,
nella lingua della madre, fra le ossa dei padri ]?
Agota ora scrive nuovi versi. L’esilio è in ogni lingua
che ti nega la parola esatta.
[TESTI DI EDITH DZIEDUSZYCKA, STEVEN GRIECO-RATHGEB, GËZIM HAJDARI, GIORGIO LINGUAGLOSSA, GINO RAGO].
1-Edith Dzieduszycka
I senza nomi
In giacche d’ombra
e visiere di fango
arrancano
letali
i senza nomi
Sul ciglio del sentiero
su scogli e strapiombi
senza meta
a blocchi aggrovigliati
Le loro armature sono di pelle nuda.
Hanno perso la voce
la lingua
forse la voglia
Dai rovi
sornione s’alza
la brigata dei corvi iene sciacalli
L’orizzonte è fuggito
È andato lontano
dietro
più dietro ancora
Una mantella cupa
lo ricopre.
2-Steven Grieco-Rathgeb
I sottili lineamenti
I sottili lineamenti tribali, le mille piste
che si biforcano nel deserto:
la fine trama di logore sete,
il rosso e l’oro di vesti principesche:
tutto abbiamo visto vanificarsi, svanire
come un raggio di luce nei terreni incolti;
il volto del mondo perdere i suoi connotati,
gli stivali chiodati del Male assoluto
i pesanti cingoli nel fango
portare in offerta distanze ravvicinate.
E dalle fessure dei nostri muri disumani
spiamo quelle catapecchie a perdita d’occhio,
i mille fuochi sporchi per le v\ie:
gli arruffati capelli irti di polvere e ira
riavviati dalle mani materne,
i capelli sottili come seta
riavviati dalle ruvide mani materne.
3-Gëzim Hajdari
Dove vanno questi uomini insanguinati
giunti all’alba? Hanno occhi sbarrati dal terrore.
Dicono che provengono dal Delta del Niger
e non vogliono tornare indietro.
Che ne sarà dei loro destini?
Fuggono lungo il confine
insieme alle bestie impazzite
in balia delle dimore ignote
e delle voci dei defunti.
(da “Delta del tuo fiume”, Edizioni Ensemble, Roma, 2015.)
4-Giorgio Linguaglossa
In nomine lucis
Di notte viaggiano i vagoni merci carichi di morti.
Di giorno grandi specchi ustori semoventi montati su camion
danno la caccia agli uomini che hanno ingoiato la luce.
Fuggono la luce, si giustificano, si sbracciano.
Dicono di aver bevuto luce a sazietà.
Si riparano sotto le tegole,
sotto le mensole, nelle bettole del dormiveglia,
si infilano sotto le saracinesche abbassate,
si nascondono tra le masserizie
e i rifiuti, lungo gli argini del fiume del dolore,
sotto gli alberi spogli.
[…]
Scavano fosse nella terra e ci mettono la testa.
Dicono di aver bevuto a sazietà.
Gridano: «Eloì, Eloì lema sabactani!».
E bestemmiano. Bestemmiano il nome di Dio…
– Tigri fosforescenti con passo elegante
ci ringhiano contro, divaricando orribilmente le fauci…
– Dicono di aver bevuto tanta luce.
[…]
La notte, durante il coprifuoco, gendarmi
con berretti a visiera di feltro verde
in tuta bianca portano a spasso frotte di lupi al guinzaglio.
Rifiutano la luce.
[…]
La notte, gemella dell’oscurità, partorisce il buio.
Il buio partorisce un uovo
dal quale escono i pipistrelli ciechi
che sbattono contro i fili dell’alta tensione
e copulano con gli angeli gobbi
caduti dal cielo azzurro…
5-Gino Rago
Noi siamo qui per Ecuba
Paride amò nel talamo di Troia
Senza mai saperlo
Forse un’idea [una chioma di cenere.
Una nuvola di nulla. Un cirro. Una forma senza carne].
Noi siamo qui per Ecuba.
Tutto le fu tolto per una bolla d’aria.
Senza senno il massacro sull’acropoli
per la spartana fuggiasca, una sposa rapita.
Sbarcò da Priamo come il simulacro
della bella regnante di Sparta
[a suo dire mossa dall’Olimpo].
Come fuoco nel sangue o fremito nei lombi
Elena non è mai giunta a Troia.
Una città mangiata dalle fiamme.
Noi siamo qui per la saggia compagna del suo Re.
Ora sconfitta va verso la nave
[lo sguardo nell’occhio dell’acheo].
Quasi a sfida delle avverse dee
Nel disastro aduna sulle schiave
La gloria d’Ilio, eterna come il mare.
La donna. Ormai bottino di guerra.
La madre. Sulle ceneri.
La Regina. Sul baratro.
Noi siamo qui per Ecuba.
L’unica a sentire che Ilio è la sua anima.
Giammai sarà inghiottita dall’oblio.
Per tutto il tempo viva
[Di cetra in cetra da Oriente a Occidente
Quel sangue prillerà nel canto dei poeti,
Arrosserà per sempre il porfido del mondo].
L’unghia dell’aurora è già sull’orizzonte.
Perentoria schiocca la frusta di Odisseo
Alla sua vela: «Si vada verso l’Isola…»
L’inno dei forti piega le Troiane.
Si scolla dalla costa.
E sulla morte resta il gocciolio dell’onda.
“Croccante e pralinato”.così recita la busta di carta bianca con cui mi sono stati consegnati ieri, al mercato,i cubetti di liquirizia che avevo acquistati.La busta può inserirsi a pieno titolo nei nostri dibattiiti linguistici,giustamente attenti anche al linguaggio parlato:che, nel caso in esame, rivendica il diritto di ognuno al libero uso del gergo.Questo è il gergo inimitabile dei cuochi,in cui, oggi, trionfa il “croccante”,parole bellissima, quasi onomatopeica, La si può riferire a tutto, anche al brodo, se ci si sono immerse dentro le famose “bignè”.
«… se è necessario definire l'”io”, che dire del “voi”? Noi ce la caviamo, noi grammatici, qualificando quel voi come espletivo. A dir la verità, è una scappatoia bella e buona: sappiamo benissimo che nessuna parola è espletiva. Una parola si dice che è espletiva per sbarazzarcene, perché non si dispone di una teoria che ne giustifichi l’entrata in scena. Questa storia di aver sempre bisogno di un interlocutore. La tragedia del “voi”. Faccio finta che ci sia un altro ad ascoltarmi. Parlo contro il muro. O magari sono in anticipo, magari ci sarà un “voi”? Il corrispondente. Il tale a cui scrivo. A cosa fa pensare? Mi assomiglia – e allora diciamo pure che non esiste, che mi parlo allo specchio. Eppure se dico “voi” è perché ho bisogno di un “voi”. Per pensare. Per ricordarmi. Per parlare. Non c’è niente di più atroce della verità, per me, questa morte di me stesso che mi tocca confessare a me stesso: ed è proprio questo il segreto della mia vita, ciò che nascondo come in un romanzo inglese, il figlio mostruoso che nessuno ha mai visto e che una finestra di troppo nella facciata del castello lascia alla fine intravedere. Il segreto del castello è che “voi” non esiste. Questo “voi” sollecitato dallo scrivere. Che mi assomiglia e no. Che mi assomiglia abbastanza per capirmi a mezze parole, che non mi assomiglia perché, per esempio, lui è più giovane e poi è in preda a drammi diversi, sa cose che non so mentre le cose che so io le ignora, questo “voi” nel quale le mie parole risuonano come i passi d’uno straniero nei corridoi di casa, questo “voi” il cui orecchio afferra una parola su quattro che dico e le altre le sogna, le inventa, reinventa il nesso dei miei sussurri, dei miei gridi… questo “voi” che io invento contro l’oblio.».
da Louis Aragon, Blanche ou l’oubli, Bianca o l’oblio, trad. di Giovanni Raboni, Gallimard, 1967, Mondadori, 1969
Tutta la nostra vita
è durata sedici anni
e si è svolta in tre camere
Mi sembra che come ministro dell’Economia la Fischerova sarebbe stata un ottimo ministro! Ne avremmo bisogno qui in Italia dove i “poeti” abbondano e abbondano di parole lussuose in confezioni “Croccanti e pralinate”, come scrive la Anna Ventura…
In tempi di Flat tax, da noi ci sono i poeti della Flat word, quelli che impiegano le parole piatte…
“Le parole piatte”, che bella definizione.In tempi di sconsiderato esibizionismo,di sconsiderata ricerca di un “nuovo” che, per essere tale,deve essere anche portatore di idee nuove,di nuovi metodi di approccio alla realtà,torniamo, per qualche volta, anche alle “parole piatte”,quelle del normale linguaggio domestico,dove il pane è il pane e il vino è il vino;dove il gesto,talvolta, sostituisce la parola.Si dice che Pound,negli ultimi tempi,si rifiutasse di parlare; preferiva il rumore dell’acqua,i voli del vento,lo stormire delle foglie.In fatto di parole,”aveva già dato”
cara Anna Ventura,
hai ragione da vendere!, occorre un gran coraggio per adottare le “parole piatte”, in tempi di liberalizzazione delle droghe leggere e di aggravamento delle pene per le droghe pesanti… in tempi di pensiero totalitario…
Davvero, sarebbe un bel Progetto di poesia! – Lo dico ai più giovani, se ci leggono. Fatelo vostro! – ma occorre coraggio, il coraggio di non essere narcisi in vetrina e di essere spietati verso se stessi…
Proprio ieri dicevo a cena a casa di Edith Dzieduszycka che tra un paio di anni farò la seconda edizione aggiornata e riveduta della mia Storia della poesia italiana. Dalla lirica al discorso poetico (Edilazio, 2014). Taglierò via, sfronderò il di più, ridurrò il libro della metà e mi fermerò al 1995, anno di pubblicazione di Composita solvantur di Franco Fortini, sulla base della presa d’atto che tutto quello che è venuto dopo quel libro è roba minore, non vale la pena di soffermarcisi più di tanto. In quel mio libro avevo ecceduto in generosità. Invece bisogna essere severi, molto severi. Il critico ha l’obbligo di essere severo, in specie oggi con le parole drogate della politica…
Sono parole intrise di una umanità profondamente sofferta; e sono autentiche, perché scavate nella ferita dell’anima, non agghindate e non adulterate da facili narcisismi formalistici, restie a venire a patti con il patetismo dell’autoreferenzialità. La vena analogica, fertile in certa poesia ceca, è qui messa al servizio di una analisi esistenziale cruda, spietata, intransigente, e non dissipata nei gratuiti, seppur affascinanti, funambolismi di tanti epigoni dell’automatismo surrealista. Da molte immagini trasuda un gelo terribile, che investe senza lasciare scampo, e che mette di fronte a una condizione ormai per sempre irrelata dell’io rispetto agli uomini e alle cose: l’individuo si è fatto irreversibilmente ‘straniero’ sulla terra, le cui molte attrattive e lusinghe hanno cessato di parlargli, di solleticare le corde del suo sangue – ed egli percorre l’esistenza come se attraversasse una galleria di ombre, in una indifferenza indurita che è gemella precoce della morte, mentre l’assenza di un qualunque senso espande la sua macchia cancerosa sotto la superficie stinta dei fenomeni.