PAOLO RUFFILLI, MONTALE UNO E DUE? – La crisi della civiltà borghese occidentale

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Eugenio Montale e La crisi della civiltà borghese occidentale

Fu all’uscita di Satura, nel 1971, nonostante ci fossero state già alcune sparse anticipazioni, che da più parti della critica si levò l’interrogativo nei confronti delle “novità” dell’ultima poesia di Eugenio Montale. E non mancarono, a caldo, le dichiarazioni di involuzione, di tramonto di una vocazione, di inconsapevole slittamento verso l’impasse delle forme prosastiche della poesia contemporanea. Non pochi tra i critici militanti si trovarono nell’impaccio di dover dare sistemazione a una produzione di cui non si aspettavano questi “altri” esiti e molti elusero il compito ripiegando sull’elogio retrodatato del poeta ormai codificato e definitivamente catalogato sotto l’etichetta delle sue precedenti tre raccolte di versi.

Da Ossi di seppia (1925 e 1928) a Le occasioni (1939) a La bufera e altro (1956, comprendente i testi della raccolta Finisterre del 1943) si disegna il campo poetico montaliano del “male di vivere”, dell’incomprensione del mondo e di ogni suo senso possibile, dei “fantasmi” che nonostante tutto ci salvano dal vuoto riconciliandoci sentimentalmente con la vita, e si decide definitivamente la catalogazione critica dell’esperienza di Montale nei termini di un “realismo dell’oggetto” da cui con perplessità gli addetti ai lavori hanno guardato alle prove successive del poeta. Lo stesso Contini, che meglio di tutti aveva individuato la chiave della poesia montaliana fino alla Bufera nella potenzialità infinita innescata dalla somma degli oggetti inventariati dal reale, non si era sentito di chiudere il cerchio dell’interpretazione, firmando il risvolto di copertina di Diario del ’71 e del ’72, preso nel viluppo non ancora dipanato del Montale vecchio/nuovo, primo/secondo, uno/due.

Altri critici, nel rispetto di quella etichetta ermetica-postermetica, avevano imboccato la strada della “diversità”, della “seconda stagione”. Ma la convinzione di un presunto rinnovamento radicale della poesia di Montale, a partire da Satura, ha inquinato la valutazione che della produzione successiva la critica ha dato, chiudendola in equivoci di salti e ribaltamenti.

Tra gli addetti ai lavori delle nuove generazioni, presso i quali Montale non aveva mai riscosso grandi simpatie (divisi com’erano, anche se di formazione ermetica e specificamente montaliana, tra l’impegno di un risorto canto civile e l’esperimento linguistico delle prove di avanguardia e, comunque, contro la scelta del poeta, legati più o meno direttamente alla concezione dell’intellettuale “professionale”) Satura suscitò allora più che perplessità, diffidenza e sospetto, per i territori apparentemente più avanzati nei quali l’autore sembrava avventurarsi persistendo sulla pista di un’assoluta e limpidissima tradizione.

Ricordo, per avervi partecipato polemicamente, alcuni seminari presso la facoltà di lettere dell’università di Bologna e della Statale di Milano nel 1972, dedicati alla poesia. Il Montale di Satura era uno dei bersagli ricorrenti. Da parte di molti, nella deviante prospettiva di quei momenti della “globalità” del politico, gli veniva l’accusa, in sé ingenua e addirittura assurda, di “riformismo letterario”, di “tattica dell’aggiornamento”. E del resto, a fare lo spoglio della bibliografia critica di allora, si possono rintracciare le stesse prese di posizione da parte dei recensori, giovani e meno giovani, della pubblicistica di sinistra.
Quanto poi ai fedeli lettori di Montale (tra i lettori di poesia, nel 1971, gli appassionati montaliani avevano superato tutti i quarant’anni d’età), Satura fu per loro, pur nell’adesione immediata, incertezza di valutazione complessiva e sospensione del giudizio.

Eppure c’era da aspettarsi che, insieme con le successive prove di Montale dal Diario del ’71 e del ’72 del 1973 a Quaderno di quattro anni del 1977, arrivasse l’aggiustamento di tiro da parte della critica: l’attenuazione delle pretese “novità” e il riconoscimento dei molti legami, anzi dell’assoluta corrispondenza con la precedente produzione. Si sarebbe dovuto chiarire, all’esame dei testi, che non si trattava di un “secondo” Montale, nella frettolosa definizione del momento, ma che Montale era sempre quello e che la sua stagione poetica non era ancora tramontata, solo aveva avuto naturale evoluzione e si era compiuta in modi e tempi più distesi. Invece la critica militante perseverò, nella maggioranza dei casi, nella contrapposizione di un “prima” e di un “dopo”, giungendo a consolidare una divaricazione di cui si mise a cercare le motivazioni profonde con le tecniche più raffinate e sofisticate.

La verità era un’altra. Valeva ancora una volta la constatazione che lo scrittore di qualità, varianti comprese, riscrive sempre lo stesso libro. E il “libro” di Montale si ispirava alla stessa idea di poesia, continuava ad essere il vagheggiamento di una “poesia pura”, e basterebbe leggere a questo proposito il discorso “È ancora possibile la poesia” tenuto da Montale all’Accademia di Svezia il 12 dicembre 1975, in occasione del conferimento del Premio Nobel. Una “poesia pura”, perseguita per vie più traverse e indirette (a causa del complicarsi stesso, sempre più confuso, della vita) e recuperata dall’incontro, dalla lettera, dalla notizia di giornale, da ogni occasione minima e più oscura in cui riconoscere (o tentare di riconoscere) se stessi e il proprio passato.

Eugenio Montale

Milano, 11/12/1960 Nella foto: Eugenio Montale

La convinzione di Montale che a un certo punto si dichiara è che “La storia non è poi / la devastante ruspa che si dice. / Lascia sottopassaggi, cripte, buche / e nascondigli” (da “Soria 2” in Satura). Nella più impensata delle occasioni “s’incontra l’ectoplasma / d’uno scampato” perché “la storia gratta il fondo / come una rete a strascico / con qualche strappo e più di un pesce sfugge”. Ma, nella sostanza, si conferma la stessa situazione poetica montaliana del passato: tra i tanti aspetti e oggetti del reale, ce n’è sempre uno che illumina improvvisamente la scena della vita. Il taglio, la maglia rotta, l’anello che non tiene, da “malchiuse porte” sugli eldoradi, si sono ridotti a semplice “buco della serratura” sulla superficie del quotidiano. L’uomo di un tempo, disperso nell’immanenza perplessa delle cose e come abbagliato da “riflessi metafisici”, è ora “l’ectoplasma d’uno scampato” che ignora di essere fuori eppure sa di se stesso più di quanto possano conoscere di sé quelli che sono rimasti dentro la rete.

Tra le più recenti poesie di La bufera e altro, del 1956, e i primi tra gli Xenia, composti nel 1964, corrono otto anni, durante i quali Montale ha scritto pochi versi, tra i quali è la famosa poesia “Botta e risposta” (1961), pubblicata nel 1962 nella minima plaquette, fuori commercio, Satura, da cui sarebbe stato ripreso nove anni più tardi il titolo del quarto volume montaliano. E, anche nella ripresa dell’ispirazione poetica, Montale restava fedele alla ricerca della stessa “polpa sostanziale” (nella definizione di Debenedetti) di natura esistenziale, su cui fondare la ragione d’essere della sua poesia, e continuava a perseguire l’oggetto come minimo reale (il “minimo” che è sempre più il “reale” della nostra vita), e conservava la forza vitale o “energia intellettuale” del suo scrivere in versi.

Solo che i modi e i tempi più distesi erano l’effetto dell’avvenuto “indolore” passaggio dalla poesia al “discorso poetico”, per un tentativo di sfuggire al cerchio chiuso del narcisismo e del suo cifrario personale e segreto (cioè per un istinto di “sopravvivenza letteraria”), per una scelta di comunicazione che, non rinunciando agli incantamenti lirici e concentrandoli nella parola, continuasse a perseguire l’idea irrinunciabile di “poesia pura”. Il passaggio, generalmente esteso anche ai compagni di strada di Montale, come distensione delle strutture sintattiche e minore rarefazione lessicale nella direzione che dalla visione analogica va alla relazione metaforica, trova un suo itinerario di consapevolezza nella produzione stessa montaliana a partire dal 1969. Basta confrontare le poesie “Il tu”, “La poesia 1”, “La poesia 2”, “Le rime”, in Satura, le successive “A Leone Traverso”, “La mia Musa”, “Asor”, in Diario del ’71 e del ’72, quindi “L’armonia”, “Un poeta”, “La poesia”, in Quaderno di quattro anni. In particolare, la poesia “La mia Musa”, composta in ideale polemica con quanti si interrogavano perplessi a proposito dell’uscita di Satura, abbozza una sorta di giustificativo venato di sdegnosità e di dispetto:

La mia Musa ha lasciato da tempo un ripostiglio / di sartoria teatrale; ed era d’alto bordo / chi di lei si vestiva. Un giorno fu riempita / di me e ne andò fiera. Ora ha ancora una manica / e con quella dirige un suo quartetto / di cannucce. È la sola musica che sopporto”. I rilievi sono, tuttavia, solo quelli della constatazione: “Sventola come può; ha resistito a monsoni / restando ritta, solo un po’ ingobbita”.

Onto Montale

Montale nella grafica di Lucio Mayoor Tosi

Quanto poi alla così detta “energia intellettuale”, a difesa della piena maturità di fronte all’incombente ignoto sempre più indecifrabile, la sua natura si era andata accentuando come ironia. E l’ironia, nel corso delle ultime raccolte di Montale, è andata prendendo campo vistosamente, connotandosi addirittura nei termini del “motto di spirito” che, freudianamente interpretato, si delinea come zona doppiamente marcata di emergenza del simbolico. Un “motto di spirito” trascritto in poesia è l’espressione di pulsioni rimosse in strutture formali ancora più accorte e non comunicabili del tutto. Il ritorno di un rimosso così “istituzionalizzato” cela, a mio parere, quello che resta come l’enigma della poesia montaliana: qualcosa che Montale è stato più volte sul punto di dirci di sé (o che ci ha suggerito “in codice”), soprattutto nelle ultime prove, ma che non ci ha mai detto a chiare lettere: “Chissà se un giorno butteremo le maschere / che portiamo sul volto senza saperlo” (Quaderno di quattro anni). Non per nulla, in più occasioni, Montale si è spinto ironicamente a insinuare che i critici non hanno individuato la vera chiave interpretativa della sua poesia: “Non amo / essere conficcato nella storia / per quattro versi o poco più. Non amo / chi sono, ciò che sembro. È stato tutto / un qui pro quo. E ora chi n’esce fuori?” (sempre in Quaderno di quattro anni).

L’ironia negli ultimissimi tempi si colora di una tinta che ha le sfumature dell’irrisione, nei confronti di quei critici a malpartito con il “qui pro quo” delle loro interpretazioni, attraverso l’operazione delle poesie lasciate in consegna ad Annalisa Cima per un’uscita post mortem e confluite nel Diario postumo, definito espressamente “una beffa ai filologi” per testimonianza diretta di Montale a Maria Corti. Era l’idea di un “gioco parodistico” in qualche modo scaramantico nei propri confronti e destinato a far sopravvivere il poeta come ectoplasma in un arco di tempo, oltre che un’operazione sarcastica nei confronti della critica. Come aveva scritto nella poesia “Secondo testamento” (del 1976): “Ed ora che s’ approssima la fine getto / la mia bottiglia che forse darà luogo / a un vero parapiglia”. E, nel finale: “Lasciate in pace i vivi per rinvivere / i morti: nell’ aldilà mi voglio divertire”.

Sicuramente, nella produzione montaliana, non mancano i testi “in codice” di cui finora è risultata insufficiente qualsiasi interpretazione, anche tecnicamente sofisticata. Mi limiterò a ricordare che il Quaderno di quattro anni, forse perché configuratosi più delle due precedenti raccolte come “ultimo messaggio”, è tutto costellato di enigmatici rimandi. E basta confrontare poesie come “I travestimenti”, “Soliloquio”, “Reti per uccelli”, “Domande senza risposta”, “I pressepapiers”, “Ipotesi”, “Ai tuoi piedi”, “Un sogno, uno dei tanti”, “I ripostigli”. L’impressione che se ne riporta è l’evidente sofferenza, in aria di rimorso, da parte di Montale per aver attestato pubblicamente di sé una condizione non corrispondente alla verità. E questa “falsa testimonianza” sembra avere a che fare con il rapporto che Montale aveva con le donne, con il suo atteggiamento di apparenze messo in atto nei loro confronti e destinato consapevolmente a suscitare depistaggi e inevitabilmente poi interpretazioni sbagliate ed equivoci. A partire dal Montale più giovane, che non dimostra di provare amore e meno che mai passione, nonostante gli sforzi in versi e le lettere private nei confronti di Clizia (Irma Brandeis) o della Volpe (Maria Luisa Spaziani). Non a caso e non senza rimpianto, giunto agli ottant’anni, dice di sé: “sono un uomo che ha vissuto al cinque per cento. Appartengo al limbo dei poeti asessuati.”

Tutte le presenze femminili, nell’opera e nella vita di Montale, si configurano con evidenza come “donne dello schermo”: sono comparse che vengono chiamate sulla scena della poesia a coprire vuoti che l’uomo prima ancora del poeta vuole mantenere coperti e mascherati. E questo accade, qualsiasi sia l’obiettivo di cui ciascuna donna viene a farsi strumento in ciascuna occasione o fase della vita e della carriera letteraria. E serve a coprire intanto il vuoto più grande e alla fine più esulcerante per il Montale degli ultimi anni, quello sentimentale, con il dichiarato rammarico perfino di non aver avuto figli. In questo modo Montale ha continuato a fare nel corso della sua vita, schierando via via le sue donne, nel risvolto magari sottinteso e forzato del cuore, in altri ruoli sempre molto pratici (offrendo loro, comunque, sempre qualcosa in cambio): chi gli apre una strada, chi lo agevola concretamente, chi lo aiuta nel lavoro e gli fa da segretaria, chi traduce per lui, chi gli fa compagnia quotidiana, chi organizza perfino la sua presenza dopo la morte. E a confermare questa impressione, non volendo limitarsi a decifrare le indicazioni in codice disseminate dal poeta, in una lettera a Lucia Morpurgo Rodocanachi c’è una frase indicativa, tutt’altro che in codice, che Montale riserva alla Mosca, Drusilla Tanzi, sposata nel 1962, alla quale ha dedicato alcuni versi intensi degli Xenia (ma le cose, nell’ottica di Montale, non sono in contraddizione o, comunque, è una delle conseguenze di quel rimorso che gli si innesca da un certo momento in poi), ma sulla quale pure fa una dichiarazione che non si può non valutare come cinica considerazione: “Mia moglie è stata una carta da giocare”.

In ogni caso, la freddezza, il cinismo, i risvolti beffardi non condizionano affatto la qualità della poesia, tutt’altro. La singolarità della vicenda di Montale, senza dubbio una delle voci più alte della poesia italiana moderna, è che si è posta come conclusione dell’esperienza letteraria di un’intera generazione. Ossi di seppia pubblicato nel 1923 da Piero Gobetti, Le occasioni uscite nel 1939, Finisterre del 1943 e primo nucleo de La bufera e altro, per le loro radiografie “negative” e per i segni di vuoto e di catastrofe, furono i testi canonici di un’intera generazione tra le due guerre. Anche di quella parte che, cercando di scavalcare le macerie del “disastro esistenziale”, prese la strada della speranza e della rigenerazione. Le raccolte di Montale, dentro questa funzione di viatico (iniziale per taluni e continuativa per altri), si disegnarono come esempio canonico e prova pilota del “fare poesia” secondo tradizione.

Ma il fatto certo è che l’esperienza di Montale si è posta anche come principio e fondamento del lavoro delle generazioni successive, insieme per adesione e per contrasto, sia per quanti hanno continuato sulla strada del “discorso poetico” in prove che sono state definite del neolirismo, sia per quanti hanno scelto la sperimentazione più o meno radicale delle neoavanguardie. Per tutti il confronto con Montale è stato importante. E, questo, nella consapevolezza che Montale, nel panorama della poesia italiana del Novecento, non è la cattedrale nel deserto. Anche se poi, tra lui e gli altri, il salto c’è e in molti casi è grande.

eugenio montale

La carica rivoluzionaria della poesia di Montale, ai due livelli del significante e del significato, neppure immaginano le dichiarazioni moderate e, tutt’altro che raramente, reazionarie dell’autore. Il fatto sorprendente è la continuazione, fine al limite di rottura, della tradizione metrico-linguistica italiana. L’allentamento dei nessi poetici, la discorsività della produzione montaliana più recente, l’intenzione più generale della comunicazione, non hanno sottratto alla parola le virtù fantastiche, evocative, magiche, tipiche della “poesia”, anzi le hanno come concentrate e mescolate potenziandole, in un tracciato verbale che è l’ultimo possibile rispetto a una certa idea di poesia.

La traiettoria del percorso montaliano è il punto di arrivo di un certo modo di intendere la letteratura: la concezione del letterato come del “dilettante di gran classe” e del suo lavoro come della più sublime delle inutilità, nel rifiuto dell’idea dell’intellettuale “professionale” e della sua presunta funzione nell’ambito della società. Nella poesia “Pasquetta”, in Quaderno di quattro anni, si legge l’ulteriore ripresa ironica del tema montaliano del “dilettante di gran classe”, indicato come terza scelta possibile tra impegno e disimpegno.

L’esperienza poetica di Montale si definisce, con tutta l’ampiezza della sua “negatività”, nei termini della crisi della civiltà borghese occidentale. Ma la prospettiva di questa crisi è a tal punto individualizzata che le cose appaiono senza possibilità di soluzione e di futuro. Non ci sono, agli occhi di Montale, altre possibili società e altre possibili culture. Il crollo dei valori borghesi è, per Montale, il crollo dei “Valori”, di tutti i valori possibili. Parlano in questo senso poesie come “La primavera hitleriana” o “Il sogno del prigioniero”, in La bufera e altro, raccolta in cui l’unica reazione possibile per l’uomo di fronte al crollo si rivela nella denuncia morale di tale condizione. E, da Satura in poi, le cose cambiano poco e solo per il fatto che il buio si rischiara un po’, con la scoperta di Montale preso tra la sorpresa e la risposta in chiave di umorismo che non si perde la carica vitale neppure nel disastro e che si riesce a soppravvivere perfino tra le macerie.

Appunto di Giorgio Linguaglossa

Scrive Asor Rosa in Sintesi di storia della letteratura italiana (La Nuova Italia, Firenze, 1972, p. 459 a proposito di un gruppo di ermetici fra cui venivano indicati anche Montale e Ungaretti:

«Tuttavia, questa produzione non testimonia molto di più che l’accanita fedeltà […] ad un modulo letterario garantito dall’esperienza. In casi come questi la poesia rarefà il proprio contenuto storico fino a rientrare quasi completamente nella sfera del “privato” (come le recentissime esperienze di Montale confermano). Questo, beninteso, non è un giudizio di valore […] Vogliamo soltanto dire che in casi come questi divengono sempre meno definibili la funzione e la necessità della poesia: in altri termini, il poeta ha a tal punto perduto il proprio rapporto con il mondo che per lui l’operazione di mettere delle parole secondo un ordine rappresenta sempre più un gioco o uno sfogo, comunque sempre un rischio affrontato consapevolmente nell’incertezza assoluta riguardante sia i fini sia i moventi sia i destinatari della poesia».

Ecco la poesia titolata “Asor”.

Asor, nome gentile (il suo retrogrado
è il più bel fiore),
non ama il privatismo in poesia.
Ne ha ben donde o ne avrebbe se la storia
producesse un quid simile o un’affine
sostanza, il che purtroppo non accade.
la poesia non è fatta per nessuno,
non per altri e nemmeno per chi la scrive.
Perché nasce? Non nasce affatto e dunque
non è mai nata. Sta come una pietra
o un granello di sabbia. Finirà
con tutto il resto. Se sia tardi o presto
lo dirà l’escatologo, il funesto
mistagogo che è nato a un solo parto
col tempo – e lo detesta.

La poesia di Montale è una risposta diretta ad Asor Rosa e a tutti quei critici che lo avevano accusato di essere un retrogrado, quanto invece il carattere «retrogrado» è racchiuso, afferma ironicamente Montale, nel palindromo di «rosa» che lo vorrebbe più addentro al «proprio contenuto storico», accusa da dirimpettatio e fuorviante del critico a Montale e agli ermetici tardi. Montale dichiarerà nel discorso al Premio Nobel che «la poesia è un oggetto fatto di parole» (Montale ama, ironicamente ed istrionescamente, i paradossi tautologici) che esiste a prescindere dalla presenza degli uomini e financo dell’autore e che non ha alcun fine o finalità teologica e o filosofica che «Finirà con tutto il resto» e che «la repubblica non avrà bisogno di poeti e che un giorno l’arte finirà».

In queste e in innumerevoli altre affermazioni consimili Montale adopera il suo scetticismo olimpico e ultroneo per dire, in fin dei conti, nient’altro che truismi: che l’arte finirà, che la repubblica non avrà bisogno di poeti etcetera, etcetera. Giunto a questo pessimismo ultroneo Montale giunge anche alla sua fine di poeta. Quello che resta è un raffinatissimo e calibratissimo motteggiare in «sfoghi» letterariamente farciti e decorativi. Il Quaderno dei quattro anni (1977) è un continuo discorso di picche e ripicche contro tutti coloro che avevano avuto qualcosa da dire e da ridire, a torto e a ragione, sul suo conto e sul conto della sua poesia.

Certo, l’accusa di Asor Rosa rivolta a Montale di aver abdicato al «proprio contenuto storico», è dal punto di vista critico, inconsistente ed ingenuo; il «contenuto storico» non lo si trova al mercato né nelle aule delle università… quel «contenuto storico» era già scomparso da tempo. Il problema era ed è molto più vasto e profondo e complesso: il «contenuto storico» non è un fatto o atto o un darsi, non è un in sé, non si dà in alcuna forma bell’e fatto e bello e accudito, nel tardo Montale quello che viene a mancare (e che mancherà alla poesia italiana negli anni a seguire) è l’idea di un Progetto o un Grande Progetto dal quale ripartire… quel Progetto (con la maiuscola o la minuscola, lo scelgano i lettori) senza il quale la poesia non può che scadere in «privatismo» e nelle questioni attinenti la stanza ammobiliata del poeta con le sue scaffalature.

In questa sede, mi permetto di indicare la poesia di Gino Rago nella quale questo Grande Progetto è evidente, qui la poesia diventa il dialogo stesso con interlocutori esistenti e o inesistenti, dialogo che crea un ponte di parole che unisce le due sponde di quella gigantesca illusione che è il discorso poetico o poesia, come alcuni la chiamano ancora oggi, con un termine un po’ fuori moda…

Le vie verso la verità sono sentieri interrotti

(Friedrich Nietzsche)

C’è oggi una poesia come quella della nuova ontologia estetica che «vuole» parlare in poesia tramite un linguaggio non-poetico, «poroso», un linguaggio da carta assorbente, che annette i linguaggi stracci del mediatico, i robivecchi, i vintage, i rottami, i frantumi, ciò che resta del riciclo continuo dei materiali semantici esausti e combusti. Parlare in arte con un linguaggio artistico «rotondo» oggi è una rimembranza del mondo antico. Ma anche il linguaggio «poroso» di per sé non garantisce alcun risultato. I linguaggi artistici sono costretti a sopravvivere in un sottilissimo limen: di qua la comunicazione, di là la incomunicazione. È come se un filosofo volesse parlare in filosofia con un linguaggio non filosofico, contaminato dalle scorie e dai resti del linguaggio della comunicazione. Dobbiamo accettare l’idea che oggi il linguaggio poetico è diventato un «luogo» aporetico per eccellenza, che in esso trovano luogo come non mai le antinomie del Dopo il Moderno.

Vero è che un certo linguaggio poetico, mettiamo quello di Andrea Zanzotto e di Edoardo Sanguineti, entra in crisi di identità quando il marxfreudismo di Sanguineti e lo sperimentalismo del significante di Zanzotto vengono superati e fatti collassare dal ’68. Sono i sommovimenti sociali epocali che fanno collassare i linguaggi poetici e filosofici.
Oggi che alla crisi è succeduta la post-crisi, è avvenuto che al minimalismo sia succeduto il post-minimalismo. È paradossale dirlo, ma oggi la crisi si è stabilizzata, la crisi governa se stessa; i linguaggi artistici, e quelli poetici in particolare, sono diventati tanto «deboli» da essere invisibili e quindi invulnerabili in quanto marginali; questi connotati, tipici del nostro tempo non devono affatto meravigliare, sono i connotati dello Zeit-Raum che è diventato un contenitore vuoto, contenitore di altro vuoto. I linguaggi poetici contengono un linguaggio invisibile, poroso, adiposo, inseguono la comunicazione e così si scavano veramente la fossa quindi. È come se la legge di gravità che tiene insieme le parole fosse diminuita e le parole esondassero. In queste condizioni dobbiamo accettare una arte «debole», che accetti di fondarsi su una «ontologia debole», che respinga al mittente le categorie «forti» proprie di un concetto «rotondo» del fare arte; forse dovremmo accostumarci all’idea della «debolezza ontologica dei frammenti».

Ed è quello che tenta di fare la ««nuova ontologia estetica» », che sorge quando i linguaggi epigonici collassano sotto il peso della propria insostenibilità, della propria leggerezza e gassosità; quando evaporano non per un sommovimento sociale e politico come accadde nel ’68 ma per un sommovimento epocale, dal fatto che la crisi è diventata ormai una istituzione utile a governare i processi sociali, politici e artistici. La conseguenza è la messa in liquidazione dei linguaggi poetici «rotondi» del lontano novecento. Con tutta probabilità oggi i linguaggi artistici possono sopravvivere soltanto se diventano «porosi».

24 commenti

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24 risposte a “PAOLO RUFFILLI, MONTALE UNO E DUE? – La crisi della civiltà borghese occidentale

  1. Eccellente studio sulla poesia di Montale e non solo. Lo paragonerei a una tesi universitaria dove ogni “ripostiglio” psicologico sembra svuotato dei suoi oggetti e cose.

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  2. Questo articolo di Paolo Ruffilli ripropone il vero (ed eterno) dilemma della poesia italiana del tardo novecento e di questi ultimi lustri, l’uscita dal linguaggio post-Satura della poesia italiana: è questo l’interrogativo che l’Ombra delle Parole si è posto a più riprese:

    PAOLO RUFFILLI, MONTALE UNO E DUE? – La crisi della civiltà borghese occidentale


    – è la poesia italiana dal 1971, data di pubblicazione di Satura di Montale mai uscita veramente dal solco tracciato dalla poesia del secondo Montale?

    La nostra (mia) risposta è: No, la poesia italiana non è mai più riuscita ad esondare dal solco tracciato dalla poesia di Satura e da quella del Quaderno dei quattro anni (1977) – Diario del ’71 e del ’72. Se accettiamo per vera questa tesi, dovremmo anche essere in grado di spiegare perché mai la poesia italiana post-Satura non è mai fuoriuscita da solco montaliano.
    Ancora oggi la domanda è senza risposta. La risposta la stiamo tentando di abbozzare noi dell’Ombra delle Parole ed è nelle cose che abbiamo scritto a profusione in questi ultimi anni.

    A questo proposito, riprendo qui ciò che scrivevo a proposito del libro di poesia di Sabino Caronia, La ferita del possibile (2017):

    Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa

    Si può partire, credo, da un fatto banale. Il quindicennio + 1 si è concluso in Italia nella peggiore delle confusioni. È caduto il governo Renzi non per voto elettorale ma per voto referendario, si è svolta una gran partita di calcio tra l’Ammucchiata destra e sinistra contro la squadra di Renzi. Ha vinto l’Ammucchiata e le riforme costituzionali sono andate a farsi benedire. E meno male. Così, per almeno 30 anni non se ne parlerà più. Il nuovo governo si limita a galleggiare, come nella lunghissima tradizione democristiana. Trump ha preso il potere negli Stati Uniti e promette di cancellare le riforme fatte da Obama. Fortunatamente, da noi questo problema non si pone perché in Italia non è mai stata fatta alcuna riforma. La letteratura (i cosiddetti romanzi) è ormai ridotta ad un lungo inseguimento del best seller, le case editrici hanno un pallino fisso in testa: che si può agguantare, prima o poi, un long seller se non un best seller. La poesia, non so. La ventilata chiusura dello Specchio Mondadori (l’unica bella notizia di questo ultimo sedicennio) non è avvenuta, e continua a sfornare libri di poesia inutili e inesistenti. All’orizzonte, per il dopo elezioni, si profila una alleanza di governo Lega-5Stelle, a scorno della rivoluzione gridata dagli strilloni di Grillo. Il paese Italia ha alle spalle un sedicennio infernale di immobilismo e di opportunismo, gli intellettuali sono diventati dei salariati a rischio di disoccupazione e sotto occupazione, la competitività tra i presunti scrittori è nel frattempo salita alle stelle, ci si sgomita senza alcun riguardo in pubblico e in privato, intanto, il pessimo gusto è salito alle stelle, non ci si parla più, ci si insulta, le pernacchie hanno sostituito le parole, e le parole sono diventate pernacchie.

    In questo contesto che cosa deve fare uno scrittore poeta colto e gentile come Sabino Caronia? Che cosa deve scrivere? Ed ecco le poesie “A una stronza” e “A uno stronzo”, è preferibile fare poesie sul campionato di eupalla, è meglio rannicchiarsi sulla propria scrivania e sognare i tempi in cui era ancora possibile amarsi tra un uomo e una donna, guardarsi con desiderio. Al quarantennio dei «poeti di professione» e dei «poeti di fede» (definizioni di Alfonso Berardinelli), a coloro che si sono auto dichiarati poeti , sono subentrate persone che scrivono poesia senza illusioni e senza disillusioni. Sabino è uno di questi, lui fa poesia senza pensare di entrare nel Parnaso dei poeti di rango, fa poesia tradizionale, lirica e intima, alternando ironia a sarcasmo carnascialesco e belliano, sapendo che a questa Roma cinica e sorniona non gliene frega assolutamente nulla della poesia, in primis ai cosiddetti poeti di professione e agli aspiranti poeti di professione.

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  3. Ecco la Lettera a Malvolio di Montale indirizzata a Pasolini. Leggiamola con attenzione.

    Eugenio Montale

    “Lettera a Malvolio”, ovvero, P.P. Pasolini

    Scrive Francesco Gherardini:

    PAOLO RUFFILLI, MONTALE UNO E DUE? – La crisi della civiltà borghese occidentale


    «Pasolini sulla rivista “Nuovi argomenti” aveva sostanzialmente attaccato Montale perché “pessimista metafisico”, negatore dell’idea di progresso, portatore dell’ideologia liberista che in fondo fissava il potere borghese come fatto naturale e non modificabile, falso moralista o moralista in malafede anche perché ad esempio aveva edulcorato l’immagine di Leopardi (nei fatti narcisista, egocentrico, megalomane, impotente, maniaco, pieno di allergie) dando l’idea di una straordinaria perfezione morale, con ciò disconoscendo di proposito la complessità della realtà umana. In definitiva non un uomo che si confrontava con i temi veri del suo tempo, ma un conservatore, fors’anche un reazionario; un personaggio pubblico – forse suo malgrado – che non prendeva partito rispetto alla realtà di quel periodo (le stragi, la guerra del Vietnam ecc.).

    La Lettera a Malvolio è la risposta. Per quattro strofe Montale si attribuisce un merito: quello di tenersi alla larga, di aver sempre preso le distanze dal mondo dei potenti di turno prima e dopo, durante il Fascismo e con l’avvento della Repubblica; chiarisce per quattro strofe che questo atteggiamento non era da tutti e non era stato di tutti; forse era stato più facile quando le separazioni tra bene e male erano nette, ma dopo si era creato un “ossimoro permanente”, una “focomelia concettuale”, con l’onore e l’indecenza stretti insieme; chi teneva le distanze e badava a mantenere alta la propria moralità finiva per essere semplicemente deriso o confinato nel più profondo silenzio. Nella quinta strofa, la più lunga, esce il ritratto del suo antagonista; un quadretto terribile: Pasolini sarebbe quello che ha furbescamente mescolato marxismo e cristianesimo, traendone grandi vantaggi e guadagni personali proprio mentre, apparentemente, ostentava la nausea per questo tipo di relazioni umane e di società..

    Montale si dice orgoglioso del suo modo di essere: non ha mai voluto fuggire dalla realtà, piuttosto la sua è stata una “fuga immobile” (bell’ ossimoro ironico) e neppure ha avuto mai un fiuto particolare (quello che invece attribuisce al suo avversario) per tenersi vicino ai potenti. Il suo atteggiamento è stato esattamente il contrario di quella furbizia che – a suo dire – esercita il suo oppositore, quell’ arte cortigiana/servile che gli impedisce di vedere e tenere le giuste distanze; un’astuzia, che comunque in un auspicabile e diverso domani non sarà più esercitabile. Parole molto grosse, tanto più se indirizzate ad uno spirito libero, fortemente critico e senza paure come fu Pasolini.2

    La conclusione di Montale in fondo però appare perfino ottimistica: è vero che ora, hic et nunc, a mala pena si può cercare la speranza nel negativo (cfr. Non chiederci la parola), ma questo atteggiamento di fermezza morale può essere stimolo per tanti e comunque “la partita resta aperta”.

    Non tardò la replica di Pasolini con una poesia intitolata “L’impuro al puro”.

    Non ho banda, Montale, sono solo.//Non ti rimprovero di aver avuto //Paura, ti rimprovero di averla giustificata.//Male forse ne voglio, ma il mio.//Ti ha ottenebrato la tua un po’ troppo //Musa oscura.//Astuto poi non lo sono://di solito è astuto chi ha paura.

    Da questi otto versi emerge un chiaro riferimento biografico, un’insinuazione relativa all’argomento della “Paura”: il poeta ligure era sempre stato antifascista, vedeva nel fascismo un’offesa all’intelligenza e alla moralità; aveva firmato nel 1925 il Manifesto degli Intellettuali antifascisti, ma nel 1938 per timore di perdere il suo posto di lavoro al Gabinetto Vieusseux, si “costrinse” a chiedere l’iscrizione al Partito Fascista, iscrizione subito negata con conseguente licenziamento a Dicembre. Da qui il rimprovero di Pasolini a Montale: per aver tentato di giustificare questo gesto, non tanto per averlo fatto, come purtroppo tanti altri uomini semplici erano stati costretti dalle circostanze a fare».1]

    1] https://ilsillabario2013.wordpress.com

    Lettera a Malvolio*

    Non s’è trattato mai d’una mia fuga, Malvolio,
    e neanche di un mio flair che annusi il peggio
    a mille miglia. Questa è una virtù
    che tu possiedi e non t’invidio anche
    perché non potrei trarne vantaggio.
    No,
    non si trattò mai d’una fuga
    ma solo di un rispettabile
    prendere le distanze.
    Non fu molto difficile dapprima,
    quando le separazioni erano nette,
    l’orrore da una parte e la decenza,
    oh solo una decenza infinitesima
    dall’altra parte. No, non fu difficile,
    bastava scantonare scolorire,
    rendersi invisibili,
    forse esserlo. Ma dopo.
    Ma dopo che le stalle si vuotarono
    l’onore e l’indecenza stretti in un solo patto
    fondarono l’ossimoro permanente
    e non fu più questione
    di fughe e di ripari. Era l’ora
    della focomelia concettuale
    e il distorto era il dritto, su ogni altro
    derisione e silenzio.
    Fu la tua ora e non è finita.
    Con quale agilità rimescolavi
    materialismo storico e pauperismo evangelico,
    pornografia e riscatto, nausea per l’odore
    di trifola, il denaro che ti giungeva.
    No, non hai torto Malvolio, la scienza del cuore
    non è ancora nata, ciascuno la inventa come vuole.
    Ma lascia andare le fughe ora che appena si può
    cercare la speranza nel suo negativo.
    Lascia che la mia fuga immobile possa dire
    forza a qualcuno o a me stesso che la partita è aperta,
    che la partita è chiusa per chi rifiuta
    le distanze e s’affretta come tu fai, Malvolio,
    perché sai che domani sarà impossibile anche
    alla tua astuzia.

    * Malvolio è un personaggio shakespeariano (La dodicesima notte ndr. quella dell’ Epifania), un maggiordomo serioso e compassato, untuoso, segretamente innamorato della padrona, involontariamente comico, puritano, ipocrita, che disprezza il divertimento, il gioco; insomma, un presuntuoso arrogante che alla fine viene beffato.

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  4. gino rago

    Condivido la nota di Mario Gabriele. Questa di Ruffilli su buona parte della biografia e della poesia montaliane è una convincente prova di critica letteraria, degna di essere inscritta nel meglio [davvero poco, invero, tranne poche eccezioni fra cui segnalerei la coppia Berardinelli-Linguaglossa per rimanere agli ultimi 25/30 anni di interpretazione della nostra poesia] degli studi montaliani. Solo avrei gradito, ma riguarda il mio gusto, da parte di Ruffilli un rilievo critico più adeguato all’importanza dei “Mottetti” nella vicenda poetica montaliana pre-Satura [sotto questo specifico aspetto notevole è lo studio sui ‘Mottetti’ di Giorgio Ficara]. Ma i guai e i guasti poetici nostrani sono del ‘dopoMontale’ in fatto di abbassamento dell’asticella linguistica, ripeto del ‘dopoMontale’ perché dell’ ‘oltreMontale’, lo affermo con orgoglio di appartenenza, si può parlare soltanto a partire dalle esperienze poetiche che si stanno agglutinando intorno a ciò che in tanti già chiamano
    NOE, soprattutto a proposito di “poesia totale” in forma di missiva, o di lettere, spedite a destinatari/destinatarie reali o frutti della immaginazione del poeta [di cui per esempio Ewa Lipska è attualmente fulgido, alto esempio] in grado di entrare dalla porta principale oserei dire della sensibilità e vitalità linguistiche della Nuova Ontologia Estetica.

    Gino Rago – Lettere da Cracovia
    [Sul Destino]

    Cara Signora Schubert,
    (p.c. Caro Amico-poeta di Roma)

    “La nostra comune amica di Vienna mi parla spesso di Lei.
    Mi dice che Lei, Signora Schubert, non sta affatto bene.
    Mi perdoni se La affatico ma ho bisogno di scriverLe
    [come pochi conosce il fluire del tempo che distrugge
    i moti dell’animo umano].
    Con Lei potrei parlare delle ostilità dell’esistenza,
    degli enigmi della vita, dei suoi labirinti
    [per esempio, alla fiera degli stracci un rabbino parla di Lilith.
    E tanti intorno fanno finta di credergli.
    Una suora più in là vende calendari di frate Indovino].
    […]
    Cara Signora Schubert
    (p.c. Caro Amico-poeta di Roma)
    Ieri ho fermato quell’uomo che mi tormenta. Passa da qui ogni mercoledì
    [mi fissa negli occhi e prosegue]:«Chi sei? Cosa porti nella borsa?»
    «Sono un poeta. Nella borsa porto il mio destino
    per indirizzi ignoti, letti d’alberghi, strade spaventate.
    Anch’io avevo un nome ma non lo ricordo più,
    il destino ha lasciato quel nome sull’acqua del fiume.
    Nei caffè di Varsava ora tutti mi chiamano
    “il-poeta-santo-bevitore”.
    È questo nome ora è il mio destino».
    […]
    Caro Amico-poeta di Roma,
    Lei scrive in un Suo verso che la protagonista del Suo romanzo
    « È andata in giro per l’Europa per inseguire il suo amore ».
    Se non a Lei [e alla Signora Schubert] a chi potrei dire
    che le città che lasciammo ci inseguono?”
    [lo vede bene anche Lei
    Caro Amico-poeta di Roma,
    le lettere che Le scrivo sollevano domande,
    non attendono risposte]
    GR

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  5. INTERVISTA DI DONATELLA COSTANTINA GIANCASPERO A GIORGIO LINGUAGLOSSA A PROPOSITO DELLA RIFORMA DELLA FORMA-POESIA EREDITATA DA SATURA (1971) DI MONTALE

    l’enigma non può essere sciolto con un atto di padronanza categoriale
    ma può solo essere percorso

    (Pier Aldo Rovatti, 1992)

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/23/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-giorgio-linguaglossa-sulla-sua-monografia-critica-la-poesia-di-alfredo-de-palchi-quando-la-biografia-diventa-mito-edizioni-progetto-cultura-r/comment-page-1/#comment-18846

    Domanda: Ritieni che sia giunto il momento di dichiarare a chiare lettere l’esigenza di una rottura con la tradizionale forma-poesia del recente minimalismo poetico?

    Risposta: Giunti al punto in cui è giunta oggi la poesia maggioritaria, ritengo che una semplice Riforma della forma-poesia egemone, ovvero, il minimalismo romano-lombardo, sia del tutto insufficiente. Quello che c’è da fare è una rottura netta e consapevole con la tradizione recente del secondo Novecento (le timidità di Claudio Borghi non sono accettabili), per semplificare, indico quell’area che va dalla Antologia di Berardinelli e Franco Cordelli Il pubblico della poesia (1975) ai giorni nostri. Una vera riforma linguistica e stilistica della poesia italiana comporta anche una rottura del modello maggioritario entro il quale è stata edificata negli ultimi decenni un certo tipo di poesia dotata di immediata riconoscibilità. È un dato di fatto che una operazione di rottura determina necessariamente una solitudine e diversità stilistica e linguistica per chi si avventuri in lidi così perigliosi e fitti di ostilità. Ma, giunti allo stadio zero della scrittura poetica dove è giunta la poesia italiana di oggi, una rottura è non solo auspicabile ma necessaria.

    Il mio libro monografico sulla poesia di Alfredo de Palchi si situa in questa linea di pensiero: la necessità di aprire dei varchi nella ottusità degli studi accademici sulla poesia del secondo Novecento, correggere le macroscopiche omissioni, le dimenticanze,e, fatto ancor più grave, le distorsioni dei valori poetici del secondo Novecento, dimostrare che è possibile e auspicabile disegnare un diverso Novecento. Occorre soltanto un po’ di coraggio intellettuale.

    Domanda: Tu parli di «rottura» della poesia italiana così come si è costituita dagli anni Settanta ad oggi, ne prendo atto. È un compito gigantesco quello di riscrivere la storia della poesia italiana del secondo Novecento, da Satura (1971) di Montale fino ai giorni nostri, non credi? Ritieni che i tempi siano maturi?

    Risposta: Scrivevo in un post del 13 ottobre 2015:

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/03/23/intervista-di-donatella-costantina-giancaspero-a-giorgio-linguaglossa-sulla-sua-monografia-critica-la-poesia-di-alfredo-de-palchi-quando-la-biografia-diventa-mito-edizioni-progetto-cultura-r/comment-page-1/#comment-18847

    INVITO ALLA RILETTURA DEL SECONDO NOVECENTO POETICO

    «Nel postletterario, tutto risiede nella postura, vale a dire nell’ignoranza della tradizione e nella fede nei poteri di immediatezza espressiva del linguaggio», o anche «postletteratura come confutazione dell’albero genealogico». L’autenticità data dall’immediatezza sarebbe quindi l’obiettivo dello scrittore post-letterario e prova della sua validità: «L’ignoranza della lingua in quanto prova di autenticità: ecco un elemento dell’estetica postletteraria»; «il romanziere postletterario scrive addossato non alle rovine di un’estetica obsoleta ma nell’amnesia volontaria che fa di lui un agente del nichilismo, con l’immediatezza dell’autentico per unico argomento».

    Con le dovute differenze, credo che possiamo estendere la categoria dell’immediatezza dell’estetica post-letteraria anche alla poesia contemporanea. Anch’io ho parlato spesso di «post-contemporaneo» e di «post-poesia», intendendo sostanzialmente un concetto molto simile a quello di Millet, ma nella mia analisi della poesia italiana ritengo di aver indicato anche la debolezza delle direzioni di ricerca di quello che ho definito «minimalismo». Lo ammetto, meglio sarebbe stato aggiornare tale definizione con quella di «post-minimalismo» delle scritture poetiche di massa, nel senso che oggi in tutto ciò che accade sembra d’obbligo far precedere l’etichetta «post»: post-sperimentalismo quindi, post-esistenzialismo, post-chatpoetry, post-del-post. Tutto ciò che avviene nella pseudo-letteratura del tempo mediatico sembra presentizzato in un post-presente, il presente diventerebbe la dimensione unica, una dimensione superficiaria unidimensionale, ciò che sembrerebbe confermato anche dalle tendenze del romanzo di intrattenimento che dal fantasy e dalla fantascienza sembra spostarsi verso le forme ibride di intrattenimento di post-fantasy e di super-post-fantascienza. Quello che tento di dire agli spiriti illuminati è che tutte queste diramazioni di ricerca sono impegnate in una forma-scrittura dell’immediatezza, quasi che l’autenticità del romanzo e della scrittura poetica la si possa agganciare, appunto, con l’esca dell’immediatezza espressiva.

    Nulla di più errato e fuorviante! Per quanto riguarda la mia tesi del paradigma moderato entro il quale la quasi totalità delle scritture poetiche contemporanee rischia di periclitare, detto in breve, volevo alludere non al concetto di «egemonia», fuorviante e inappropriato quando si parla di poesia contemporanea, ma al paradigma della riconoscibilità secondo il quale certe tematiche (della cronaca, del diario e del quotidiano) sarebbero perfettamente digeribili dalla lettura della post-massa acculturata del Medio Ceto Mediatico. Certo «professionismo dell’a capo», come stigmatizza il critico Sabino Caronia diventa l’arbitrio di un a capo che può avvenire in tutti i modi, con le preposizioni, con le particelle avversative, con i pronomi personali, e chi più ne ha più ne metta. Vorrei però prendere le distanze da una facile tendenza a voler stigmatizzare la «dittatura del Medio Evo Mediatico» in quanto questa posizione sottintenderebbe un approccio moralistico al problema del paradigma moderato e unidimensionale che sembra aver preso piede negli uffici stampa degli editori necessariamente impegnati in una difesa delle residue quote di mercato editoriale dei libri.

    La situazione descritta sembra essere ancora più grave per la poesia, che vanta però i suoi illustri antenati e precise responsabilità anche ai piani alti della cultura poetica italiana, voglio dire di quei poeti che negli anni Sessanta e Settanta non hanno più creduto possibile una difesa della forma-poesia: Montale, Pasolini, Sanguineti e altri di seguito. Da questo punto di vista, paradossalmente, una difesa della forma poesia è più evidente nei Quanti del suicidio (1972) di Helle Busacca, il più drastico atto d’accusa del «sistema Italia», che non ne La vita in versi (1965) di Giovanni Giudici, il quale si appoggia ad una struttura strofica e timbrica ancora tradizionale, ma è una difesa della tradizione che va in direzione di retroguardia e non di apertura all’orizzonte dei linguaggi poetici del futuro. È un po’ tutto l’establishment culturale che abdica dinanzi alla invasione della cultura di massa, credendo che una sorta di neutralismo o di prudente e ironica apertura nei confronti dei linguaggi telemediatici costituisse un argine sufficiente, una misura di sicurezza verso una forma-poesia aggiornata, con il risultato indiretto, invece, di rendere la forma-poesia recettizia della aproblematicità dei linguaggi telemediatici.
    Quel neutralismo ha finito per consegnare alla generazione dei più giovani una forma-poesia sostanzialmente debole, minata al suo interno dalle spinte populistiche e demotiche provenienti dalla società della massa telemediatica. La storia della poesia degli anni Ottanta e Novanta sta lì a dimostrare la scarsa consapevolezza di questa problematica da parte della poesia italiana.

    Domanda: A questo punto?

    Risposta: A questo punto, ritengo che una vera poesia di livello europeo e internazionale la si potrà fare in Italia soltanto quando qualcuno sarà capace di sciogliere quel «nodo». Diversamente, la poesia italiana si accontenterà di vivacchiare nelle periferie delle diramazioni epigoniche della poesia del Novecento. Non escludo che ci possano essere nel prossimo futuro dei poeti di valore (e ce ne sono), quello che escludo è che finora nessun poeta italiano degli ultimi quarantacinque anni, cioè dalla data di pubblicazione di Satura (1971) di Montale, è stato capace di fare quella Riforma del discorso poetico nelle dimensioni richieste dal presente stato delle cose. Certo, ci sono stati l’ultimo Franco Fortini di Composita solvantur (1995), Angelo Maria Ripellino, Helle Busacca (I quanti del suicidio del 1972), Alfredo de Palchi con Sessioni con l’analista (1967), fino all’ultimo libro edito, Nihil (2016), e poi Maria Rosaria Madonna (con Stige, 1992), Giorgia Stecher con Altre foto per album (1996), Fernanda Romagnoli con il libro pubblicato da Garzanti nel 1980, Anna Ventura (Antologia Tu quoque 1978-2013), Roberto Bertoldo (Pergamena dei ribelli, 2011 – Il popolo che sono, 2016), ed altri ancora che non è il caso di nominare, poeti di indiscutibile talento che si sono mossi nella direzione di una fuoriuscita dal novecentismo aproblematico, ma resta ancora da scalare la salita più ripida, c’è ancora da sudare le sette fatidiche camicie. In una parola, c’è da porre mano alla Riforma di quel discorso poetico ereditato dalla impostazione in diminuendo che ne ha dato Eugenio Montale.

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    • PAOLO RUFFILLI, MONTALE UNO E DUE? – La crisi della civiltà borghese occidentale


      il linguaggio è rappresentativo, instaura l’ordine del senso in luogo di quello dell’essere, inteso come pienezza chiusa, assoluta presenza. Ma allora, che sorta di rappresentazione è mai quella istituita da un significante così inteso?

      Semplicemente, risponde Lacan, il significante (non) rappresenta nulla. O meglio, il significante rappresenta quel niente che il soggetto patisce una volta sottomesso alle leggi della parola. Un significante, in sé, non vuole nulla, cioè, non vuol dire nulla. E ancora: non esiste un in sé del significante, perché la significazione agisce nel coordinamento dei significanti tra loro.

      L’unica differenza è che Lacan accorda al «soggetto» il posto evanescente del «significato», gli assegna il posto reso vacante oltre la barra, una volta introdotta cioè la scissione all’interno del segno linguistico. Ma se così stanno le cose allora il «soggetto» non è altro che quel nulla che il significante può rappresentare di volta in volta, quel significato che risulta, senza consistervi, dall’operazione differenziale della significazione.

      La normalizzazione ha imposto in tutto l’Occidente un’arte, un romanzo e una poesia fattizia e fittizia, in una parola ideologica. Sappiamo benissimo che c’è una ideologia del bel verso, una ideologia della bellezza, una ideologia per ogni cosa fungibile, e anche che una interiorità che si pretenda pura ha pure il suo loculo al banco dei pegni e il suo luogo nel mercato delle rigatterie; ecco perché, per esempio, Sabino Caronia impiega gli stessi stilemi e gli stessi mezzi dell’arte plebea, cafona e cafonesca di un Belli, ne risuscita il linguaggio feroce e imbelle, lo riaggiorna e lo reinventa. Incredibile ma vero, ormai i linguaggi si danno allo stato di frammenti significanti, sono dei corpi essiccati conservati in frigorifero che possono essere rivitalizzati con un buon magistero stilistico e un corredo stereofonico. È quello che fa Caronia. È quello che ad esempio ha fatto Patrizia Valduga con le sue quartine erotiche riutilizzando le quartine del linguaggio poetico dell’Arcadia seicentesca e immettendovi il lessico erotico boccaccesco dei nostri giorni post-montaliani.

      Molto probabilmente, con la fine del Novecento è finita anche la letteratura, sostituita con l’intrattenimento mediatico e il narcisismo di massa, con prodotti di secondarietà, filmografie e scenografie, cose già viste, già udite. Ciò che resta, sono i rottami, i frammenti e i relitti stilistici di una antica tradizione che si è dissolta.

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  6. PAOLO RUFFILLI, MONTALE UNO E DUE? – La crisi della civiltà borghese occidentale


    Forse sono in preda a un buonismo nonnesco, ma mi pare che il quadro della poesia italiana, oggi, non sia del tutto coperto dalla tenebra; mi pare di leggere spesso belle poesie, anche a tener conto solamente del recinto dell'”Ombra”. L’aggettivo “boccaccesco”non si addice alla Valduga, ai suoi falsi brillanti. Boccaccio rispettava l’amore, ne conosceva le vie più segrete; la novella più bella di tutti i tempi, quella del falcone, andrebbe letta e commentata alle giovani generazioni; e così quella di Alatiel, la sposa spedita al re del Garbo che fu rapita dai pirati e sottoposta a ogni più cruda esperienza,e tuttavia fu consegnata allo sposo come pulzella. Perchè l'”omnia munda mundis” di Fra Cristoforo ancora si può spendere. Anche se non lo capisce più quasi nessuno.

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  7. gino rago

    Da una intervista immaginaria

    Ezra Pound chiede a Mario Lunetta:
    – Qual è per te lo scopo della Letteratura?

    Risponde Mario Lunetta?
    – Lo scopo della letteratura?
    Quale se non quello di creare contraddizioni all’interno del senso comune egemone, di produrre enzimi fantastici indigeribili, di creare sconcerto nei confronti dell’universale obbedienza.
    Uno scrittore che non sia scomodo e non procuri fastidi alla digestione del dominio delle menti, non è uno scrittore, è un addetto al servizio delle pulizie.

    Mario Lunetta incalza Ezra Pound:
    – A proposito dello stile in poesia qual è il tuo pensiero?

    Risponde Ezra Pound:
    – Nessuna buona poesia è stata mai scritta nello stile di venti anni prima[…]

    Caro Giorgio,
    hai fatto bene a dedicare a Mario Lunetta quella ricca pagina nell’estate del 2017 in occasione della sua scomparsa…
    GR

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  8. Rossana Levati

    PAOLO RUFFILLI, MONTALE UNO E DUE? – La crisi della civiltà borghese occidentale


    Quando in Satura I (“Intercettazione telefonica”) Montale dichiara di poter vivere “in qualsiasi paese / ma fuori della storia / e in abito borghese” è già evidente la sua collocazione all’interno dell’unica classe sociale che realmente lo rappresenti; ma in testi successivi chiarirà che il supremo fastidio, il “grattacapo inevitabile – e anche orrendo” è il fatto stesso di vivere; la vita è un “tragico pasticcio” (“Ruit hora”, in “Quaderno di quattro anni”) privo di senso: “Ma l’ora è come un fulmine per chi vorrebbe /restare sulla terra a piedi fermi/ e non già su una palla rotolante/ in uno spazio che non avendo fine/ non può nemmeno avere un senso”.
    Ecco, dover trascorrere la vita su “una palla rotolante”, in attesa che giunga anche per lui un “benservito forse in carta da bollo da presentare chissà a quale burocrate”, mentre “il peggio è già passato” e anche “il meglio è superfluo” (“In negativo”, in “Quaderno di quattro anni”) è già la principale condanna. La vita umana è una farsa da cui ripetutamente dichiara di prender le distanze, perché “non è affar mio. Pertanto /mi sono rifugiato nella zona intermedia /che può chiamarsi inedia accidia o altro./ Si dirà: sei colui che cadde dal predellino /e disse poco male tanto dovevo scendere. / Ma non è così facile distinguere /discesa da caduta, cattiva sorte o mala”: queste auto-accuse di “inedia, accidia o altro” sono in effetti sufficientemente esplicite ed esibite per sembrare, come dice Paolo Ruffilli, un modo per tutelarsi dietro una maschera e nascondere ciò che Montale non vuole dire di se stesso.
    Certamente in un globo in cui è già un fastidio soggiornare, in cui “la caccia all’uomo è lo sport in cui tutti sono d’accordo”, mentre nella valle di Armageddon “Iddio e il diavolo conversano/ pacificamente dei loro affari. / Nessuno dei due ha interesse a uno scontro decisivo” (“Ipotesi”), e la “parte giusta” è a due palmi dai nostri occhi ma “non fu mai veduta” perché altrimenti sarebbe impossibile l’esistenza stessa degli uomini, cosa rimane al poeta se non la parola come estremo scudo o appiglio?
    “Non ho avuto purtroppo che la parola, / qualche cosa che approssima ma non tocca” (“Domande senza risposta”) e ad essa ricorre il poeta per prendere ancora una volta le distanze da un mondo e per prendersi gioco di chi lo intende troppo sul serio. Da un lato gioco, dall’altro depistaggio perché, come dichiara, non possiede un liuto per accompagnare “un trobar meno chiuso” (“Domande senza risposta”) e tra calembour e immagini ironicamente capovolte uno dei suoi ultimi testi nel “Quaderno di quattro anni”, “Proteggetemi/custodi miei silenziosi”, allusivamente rievoca
    Annetta-Dafne tramite “l’ultima foglia dell’alloro” che ormai polverosa “non servì nemmeno per la casseruola/ dell’arrosto” e sbeffeggia, come estremo inghippo da cui allontanarsi, la “fama-farsa/ che mi ha introdotto nel Larousse illustrato/ per scancellarmi poi/ dalla nuova edizione”: la dimenticanza può ancora essere l’ultimo schermo, l’ultimo luogo dove nascondersi…

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  9. Scrive Asor Rosa in Sintesi di storia della letteratura italiana (La Nuova Italia, Firenze, 1972, p. 459 a proposito di un gruppo di ermetici fra cui venivano indicati anche Montale e Ungaretti:

    PAOLO RUFFILLI, MONTALE UNO E DUE? – La crisi della civiltà borghese occidentale


    «Tuttavia, questa produzione non testimonia molto di più che l’accanita fedeltà […] ad un modulo letterario garantito dall’esperienza In casi come questi la poesia rarefà il proprio contenuto storico fino a rientrare quasi completamente nella sfera del “privato” (come le recentissime esperienze di Montale confermano). Questo, beninteso, non è un giudizio di valore […] Vogliamo soltanto dire che in casi come questi divengono sempre meno definibili la funzione e la necessità della poesia: in altri termini, il poeta ha a tal punto perduto il proprio rapporto con il mondo che per lui l’operazione di mettere delle parole secondo un ordine rappresenta sempre più un gioco o uno sfogo, comunque sempre un rischio affrontato consapevolmente nell’incertezza assoluta riguardante sia i fini sia i moventi sia i destinatari della poesia».

    Ecco la poesia titolata “Asor”.

    Asor, nome gentile (il suo retrogrado
    è il più bel fiore),
    non ama il privatismo in poesia.
    Ne ha ben donde o ne avrebbe se la storia
    producesse un quid simile o un’affine
    sostanza, il che purtroppo non accade.
    la poesia non è fatta per nessuno,
    non per altri e nemmeno per chi la scrive.
    Perché nasce? Non nasce affatto e dunque
    non è mai nata. Sta come una pietra
    o un granello di sabbia. Finirà
    con tutto il resto. Se sia tardi o presto
    lo dirà l’escatologo, il funesto
    mistagogo che è nato a un solo parto
    col tempo – e lo detesta.

    La poesia di Montale è una risposta diretta ad Asor Rosa e a tutti quei critici che lo avevano accusato di essere un retrogrado, quanto invece il carattere «retrogrado» è racchiuso, afferma ironicamente Montale, nel palindromo di «rosa» che lo vorrebbe più addentro al «proprio contenuto storico», accusa da dirimpettatio e fuorviante del critico a Montale e agli ermetici tardi. Montale dichiarerà nel discorso al Premio Nobel che «la poesia è un oggetto fatto di parole» (Montale ama, ironicamente ed istrionescamente, i paradossi tautologici) che esiste a prescindere dalla presenza degli uomini e financo dell’autore e che non ha alcun fine o finalità teologica e o filosofica che «Finirà con tutto il resto» e che «la repubblica non avrà bisogno di poeti e che un giorno l’arte finirà».

    In queste e in innumerevoli altre affermazioni consimili Montale adopera il suo scetticismo olimpico e ultroneo per dire, in fin dei conti, nient’altro che truismi: che l’arte finirà, che la repubblica non avrà bisogno di poeti etcetera, etcetera. Giunto a questo pessimismo ultroneo Montale giunge anche alla sua fine di poeta. Quello che resta è un raffinatissimo e calibratissimo motteggiare in «sfoghi» letterariamente farciti e decorativi. Il Quaderno dei quattro anni (1977) è un continuo discorso di picche e ripicche contro tutti coloro che avevano avuto qualcosa da dire e da ridire, a torto e a ragione, sul suo conto e sul conto della sua poesia.

    Certo, l’accusa di Asor Rosa rivolta a Montale di aver abdicato al «proprio contenuto storico», è dal punto di vista critico, inconsistente ed ingenuo; il «contenuto storico» non lo si trova al mercato né nelle aule delle università… quel «contenuto storico» era già scomparso da tempo. Il problema era ed è molto più vasto e profondo e complesso: il «contenuto storico» non è un fatto o atto o un darsi, non è un in sé, non si dà in alcuna forma bell’e fatto e bello e accudito, nel tardo Montale quello che viene a mancare (e che mancherà alla poesia italiana negli anni a seguire) è l’idea di un Progetto o un Grande Progetto dal quale ripartire… quel Progetto (con la maiuscola o la minuscola, lo scelgano i lettori) senza il quale la poesia non può che scadere in «privatismo» e nelle questioni attinenti la stanza ammobiliata del poeta con le sue scaffalature.

    In questa sede, mi permetto di indicare la poesia di Gino Rago postata poco sopra nella quale questo Grande Progetto è evidente, qui la poesia diventa il dialogo stesso con interlocutori esistenti e o inesistenti, dialogo che crea un ponte di parole che unisce le due sponde di quella gigantesca illusione che è il discorso poetico o poesia, come alcuni la chiamano ancora oggi, con un termine un po’ fuori moda…

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  10. Le vie verso la verità sono sentieri interrotti

    (Friedrich Nietzsche)

    PAOLO RUFFILLI, MONTALE UNO E DUE? – La crisi della civiltà borghese occidentale


    C’è oggi una poesia come quella della nuova ontologia estetica che «vuole» parlare in poesia tramite un linguaggio non-poetico, «poroso», un linguaggio da carta assorbente, che annette i linguaggi stracci del mediatico, i robivecchi, i vintage, i rottami, i frantumi, ciò che resta del riciclo continuo dei materiali semantici esausti e combusti. Parlare in arte con un linguaggio artistico «rotondo» oggi è una rimembranza del mondo antico. Ma anche il linguaggio «poroso» di per sé non garantisce alcun risultato. I linguaggi artistici sono costretti a sopravvivere in un sottilissimo limen: di qua la comunicazione, di là la incomunicazione. È come se un filosofo volesse parlare in filosofia con un linguaggio non filosofico, contaminato dalle scorie e dai resti del linguaggio della comunicazione. Dobbiamo accettare l’idea che oggi il linguaggio poetico è diventato un «luogo» aporetico per eccellenza, che in esso trovano luogo come non mai le antinomie del Dopo il Moderno.

    Vero è che un certo linguaggio poetico, mettiamo quello di Andrea Zanzotto e di Edoardo Sanguineti, entra in crisi di identità quando il marxfreudismo di Sanguineti e lo sperimentalismo del significante di Zanzotto vengono superati e fatti collassare dal ’68. Sono i sommovimenti sociali epocali che fanno collassare i linguaggi poetici e filosofici.
    Oggi che alla crisi è succeduta la post-crisi, è avvenuto che al minimalismo sia succeduto il post-minimalismo. È paradossale dirlo, ma oggi la crisi si è stabilizzata, la crisi governa se stessa; i linguaggi artistici, e quelli poetici in particolare, sono diventati tanto «deboli» da essere invisibili e quindi invulnerabili in quanto marginali; questi connotati, tipici del nostro tempo non devono affatto meravigliare, sono i connotati dello Zeit-Raum che è diventato un contenitore vuoto, contenitore di altro vuoto. I linguaggi poetici contengono un linguaggio invisibile, poroso, adiposo, inseguono la comunicazione e così si scavano veramente la fossa quindi. È come se la legge di gravità che tiene insieme le parole fosse diminuita e le parole esondassero. In queste condizioni dobbiamo accettare una arte «debole», che accetti di fondarsi su una «ontologia debole», che respinga al mittente le categorie «forti» proprie di un concetto «rotondo» del fare arte; forse dovremmo accostumarci all’idea della «debolezza ontologica dei frammenti».

    Ed è quello che tenta di fare la ««nuova ontologia estetica» », che sorge quando i linguaggi epigonici collassano sotto il peso della propria insostenibilità, della propria leggerezza e gassosità; quando evaporano non per un sommovimento sociale e politico come accadde nel ’68 ma per un sommovimento epocale, dal fatto che la crisi è diventata ormai una istituzione utile a governare i processi sociali, politici e artistici. La conseguenza è la messa in liquidazione dei linguaggi poetici «rotondi» del lontano novecento. Con tutta probabilità oggi i linguaggi artistici possono sopravvivere soltanto se diventano «porosi».

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  11. PAOLO RUFFILLI, MONTALE UNO E DUE? – La crisi della civiltà borghese occidentale


    Capisco benissimo che si tratta di pensieri che vengono facilmente equivocati e che forse sono anche oggettivamente equivocabili, in specie dopo il sonno lunghissimo che ha avuto la poesia italiana che possiamo datare dal 1971, anno di pubblicazione di Satura di Montale. L’intendimento è quello di rimettere in moto il pensiero sulla poesia… resuscitare un morto…

    Quando io scrivo che dobbiamo «entrare» in una «nuova patria metafisica» dove ci sono le «parole», questo non è un pensiero facile, è un pensiero complesso. Innanzitutto, come si fa ad «entrare» in una «nuova patria delle parole»? – Il primo ostacolo alla comprensione è: quale atteggiamento prendere? Come vestirsi? E poi: dov’è mai questa «nuova patria»? Dove si trova? Dobbiamo aspettare in anticamera? (come diceva Adorno: «la poesia che non fa anticamera non è vera poesia», cito a memoria). Oppure, possiamo entrare così, di fretta, mangiando un sandwich, come siamo abituati a fare nel disbrigo del quotidiano? – Io penso che dobbiamo entrare in una nuova modalità di pensiero (un pensiero di attesa e di lentezza), quella che Pier Aldo Rovatti chiama «Abitare la distanza», dal titolo di un suo fortunato libro che consiglio a tutti di leggere con attenzione.
    C’è un «evento», lì, che ha ripercussione su di me che sto qui. Ecco, poniamo che questo «evento» ci guardi. Capovolgiamo per un momento il nostro modo di pensare (dall’io al tu, all’evento), e pensiamo la direzione contraria. L’«evento» che accade nel mentre che accade. Pensiamo alla poesia di Kikuo Takano. Lì ci sono degli «eventi» che accadono in modo inspiegabile a prescindere dall’io e da noi. Accadono e basta. Allora possiamo capire come sia sufficiente nominare l’«evento» perché esso accada. E nient’altro.
    Ecco cosa scrive Rovatti:

    «Se diciamo “abitare la distanza”, diciamo e sappiamo dire una contraddizione. Cerchiamo la maggiore condensazione che il linguaggio sembra permetterci per dire che non possiamo localizzarci definitivamente in alcuna parola e che neppure possiamo sfuggire la localizzazione della lettera immaginando un nostro nomadico essere sempre in movimento, sempre altrove. Se diciamo “abitare” perché non vogliamo dire “conoscere” o “cogitare”, in tale importante trasferimento del senso del nostro luogo abbiamo comunque realizzato un transfert, ci siamo trasferiti in quella parola, abbiamo comunque preso casa nella lettera, e da lì ci sentiamo di dire “io”. Se diciamo “distanza”, intendendo l’esigenza di stare discosti da noi stessi, di prendere tempo e spazio nel nostro narcisismo, comunque ci ritroveremo in un’amicizia, in un patto con una parola amica. Cosa può mai essere, quindi, l’effetto “metaforico”, se vogliamo continuare a chiamarlo così, se non un tentativo di obbedire a due voci contemporaneamente, il riconoscersi in un rilancio, in un giro retorico in cui l’alterità è già sempre truccata?

    Se il linguaggio è un gioco di rimpatri nella lettera, per il quale “abitare” e “distanza” hanno già ripristinato un senso da cui dobbiamo riconoscere di essere padroneggiati, non è meno importante per noi riconoscere la doppia e contraddittoria identificazione: il tentativo di assumere la dimensione soggettiva del rimpatrio, il nostro incessante voler tornare a casa, giocandolo contro se stesso nello scarto delusorio che il linguaggio ci permette. “Simbolizzare l’immaginario e immaginare il simbolico”, ha detto una volta Lacan: continuo rimpatrio nel “simbolo” che la parola è, continuo rimpatrio nell’immaginario da parte del soggetto. Doppio movimento o vincolo, che noi possiamo soltanto – con le nostre parole – cercare di immaginare.

    L’illusione che si ripresenta a ogni frase è che il nome e la cosa coincidano e che il soggetto parlante sparisca: sparisca non come enunciante della frase ma perché vi ha preso completamente dimora. L’unico modo che abbiamo di maneggiare questa illusione non è farla sparire, ma – al contrario – riconoscerla, farla pesare sulla frase: attraverso il margine di paradossalità che resta praticabile, in un gioco inevitabilmente in perdita e che deve sapere di esserlo».1

    1 Pier Aldo Rovatti Abitare la distanza Raffaello Cortina Editore, 2007 pp.
    XXVIII-XXIX

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    • Riguardo a Pier Vincenzo Mengaldo

      PAOLO RUFFILLI, MONTALE UNO E DUE? – La crisi della civiltà borghese occidentale


      Riguardo alla affermazione di Mengaldo secondo il quale Montale si avvicina «alla teologia esistenziale negativa, in particolare protestante» e che smarrimento e mancanza sarebbero una metafora di Dio, mi permetto di prendere le distanze. «Dio» non c’entra affatto con la poesia di Montale, per fortuna. Il problema è un altro, e precisamente, quello della Metafisica negativa. Il ripiegamento su di sé della metafisica (del primo Montale e della lettura della poesia che ne aveva dato Heidegger) è l’ammissione (indiretta) di uno scacco discorsivo che condurrà, alla lunga, alla rinuncia e allo scetticismo. Metafisica negativa, dunque nichilismo. Sarà questa appunto l’altra via assunta dalla riflessione filosofica e poetica del secondo Novecento che è confluita nel positivismo. Il positivismo sarà stato anche un pensiero della «crisi», crisi interna alla filosofia e crisi interna alla poesia. Di qui la positivizzazione del filosofico e del poetico. Di qui la difficoltà del filosofare e del fare «poesia». La poesia del secondo Montale si muoverà in questa orbita: sarà una modalizzazione del «vuoto» e della rinuncia a parlare, la «balbuzie» e il «mezzo parlare» saranno gli stilemi di base della poesia da Satura in poi. Montale prende atto della fine dei Fondamenti (in questo segna un vantaggio rispetto a Fortini il quale invece ai Fondamenti ci crede eccome!) e prosegue attraverso una poesia «debole», prosaica, diaristica, cronachistica, occasionale. Montale è anche lui corresponsabile della parabola discendente in chiave epigonica della poesia italiana del secondo Novecento, si ferma ad un agnosticismo-scetticismo mediante i quali vuole porsi al riparo dalle intemperie della Storia e dei suoi conflitti (anche stilistici), adotta una «positivizzazione stilistica» che lo porterà ad una poesia sempre più «debole» e scettica, a quel mezzo parlare dell’età tarda. Montale non apre, chiude. E chi non l’ha capito ha continuato a fare una poesia «debole», a, come dice Mengaldo, continuare a «de-metaforizzare» il proprio linguaggio poetico.

      Quello che Mengaldo apprezza della poesia di Montale: «il processo di de-metaforizzazione, di razionalizzazione e scioglimento analitico della metafora», è proprio il motivo della mia presa di distanze da Montale. Montale, non diversamente dal Pasolini di Trasumanar e organizzar (1971), da Giovanni Giudici con La vita in versi e da Vittorio Sereni con Gli strumenti umani (1965), era il più rappresentativo poeta dell’epoca ma non possedeva la caratura del teorico. Critico raffinatissimo, privo però di copertura filosofica, Montale aveva terrore della cultura di massa del Ceto Mediatico. Montale ha in orrore la massificazione della comunicazione. Vicino in ciò ad alcuni filosofi esistenzialisti o di estrazione esistenzialista (come Heidegger o Husserl) i quali sostenevano che l’uomo moderno vive nella ciarla, nel mondo del «si» ed quindi confinato nella inautenticità, sommerso dalla straordinaria quantità di messaggi che lo bersagliano, il poeta ligure vede in questa condizione il dissolvimento ultimo del linguaggio (e del linguaggio poetico) come strumento della comunicazione. L’idea è quella che ogni tipo di rapporto linguistico sia costretto a realizzarsi in presenza di un fortissimo rumore di fondo, che sovrasta la parola, la distorce e la rende infine un segno non più idoneo alla comunicazione. La poesia è un atto linguistico, storicamente determinato, nel senso che risente, come qualsiasi atto umano, delle condizioni di civiltà nelle quali si manifesta. Di qui il pericolo incombente che la perdita di senso afferisca anche al linguaggio della poesia.

      La de-fondamentalizzazione del discorso poetico

      Montale compie il gesto decisivo, pur con tutte le cautele del caso apre le porte della poesia italiana a quel processo che porterà alla de-fondamentalizzazione del discorso poetico. Con questo atto non solo compie una legittimazione indiretta e inconsapevole dei linguaggi dell’impero mediatico che erano alle porte, ma legittima una forma-poesia che ingloba la ciarla, la chiacchiera, il lapsus, la parola interrotta, la cultura dello scetticismo, la disillusione elevata a sistema, a ideologia. Autorizza il rompete le righe e il si salvi chi può. La forma-poesia andrà progressivamente a pezzi. E gli esiti ultimi di questo comportamento agnostico sono ormai sotto i nostri occhi.

      positivizzazione del discorso poetico

      Il problema principale che Montale si guardò bene dall’affrontare ma che anzi con la sua autorità approvò, era quello della positivizzazione del discorso poetico e della sua modellizzazione in chiave diaristica e occasionale. La poesia in forma di elettrodomestico, la poesia in sotto tono, quasi nascosta, in sordina. Qui sì che Montale ha fatto scuola!, ma la interminabile schiera di epigoni creata da quell’atto di lavarsi le mani era (ed è) un prodotto, in definitiva, di quella resa alla «rivoluzione» del Ceto Medio Mediatico come poi si è configurata in Italia.

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  12. Carlo Livia

    La polemica Montale-Pasolini riproduce la generale dicotomia ancora in atto fra pensiero simbolista e antisimbolista, che implica divergenti prospettive assiologiche, formali, noetiche, e soprattutto opposte visioni sulla risultanza etico-politica della poesia. Non si tratta di impegno o disimpegno, come voleva Pasolini, ma di illustrare nell’espressione e nelle scelte formali l’invalicabile confine, l’incolmabile eteronomia ontologica fra parola-scrittura-pensiero ed essere-verità, paragonabile alla distanza che separa, ad esempio, la nota musicale scritta sul pentagramma, dal suono prodotto dallo strumento, la realtà virtuale da quella vera ( ma quale, se res sunt nomina? ).
    Fra l’ermetismo, l’agnosticismo e la teologia apofatica di Montale, erede delle più profonde e consapevoli riflessioni post-idealistiche, da Nietzsche a Lacan, e delle rivoluzioni estetiche pre e post-avanguardistiche da un lato, e il pervicace e obsoleto tentativo di impegno civile di Pasolini dall’altro, in un contesto culturale completamente diverso e refrattario alla tensione nornativa di Dante ( peraltro virulento sperimentalista, ai suoi tempi ) che finisce per riprodurre i modelli reazionari del cauto e annacquato simbolismo pascoliano, personalmente preferisco il primo.
    Del resto, di scarso credito nelle capacità riformatrici della poesia in campo etico-politico, ne dà prova lo stesso Pasolini, che presto abbandona quasi del tutto la poesia per rivolgersi alla narrativa e al cinema, linguaggio più efficace alla mimesi e alla denuncia sociale.
    Certo non si può ridimensionare l’importanza della sua tenace ed ignita polemica contro la desublimazione, il degrado, l’intolleranza e la violenza del capitalismo consumista, purtroppo inascoltata, visto il panorama attuale, come non si può ammirare, ad esempio, l’opera di Roberto Saviano.
    Ma la funzione dell’arte è questa? La questione si complica quando ci si chiede quale prospettiva abbia la consapevole esplicitazione dell’inafferenza ontologica fra pensiero ed essere tematizzata dalla poesia erede del primo Montale. Del resto i poeti che meglio hanno espresso questa dimensione di esilio ed alienazione noetica e spirituale, come Paul Celan o Amelia Rosselli, sono stati motivati più da necessità interiori, esistenziali, che da ragioni di coerenza teorica, costretti ad “abitare la distanza” dalla realtà da intrascendibili conflitti ed insanabili ferite interiori.
    Personalmente ritengo che la decomposizione delle strutture morfo-sintattiche, la trasgressione logico-prospettica, la polivalenza-inafferrabilità metaforico-simbolica siano necessarie e inevitabili per ricomporre quelle fratture della relazione con l’essere dovute al prevalere del razionalismo aristotelico-cartesiano. Reintegrare logos e pathos, mito ed elegia, dionisiaco ed apollineo sono percorsi liberatori e soteriologici che, più o meno consapevolmente, tutta l’arte contemporanea ha intrapreso, basti pensare a poeti come Bob Dylan o Fabrizio De Andrè, che concretamente hanno proposto una nuova ontologia attraverso l’estetica del suono musicale, molto più emotivamente ed eroticamente aggressiva rispetto alla poesia scritta, e così hanno alimentato desideri e rapito sogni di intere generazioni, trasformandole e rigenerandole.

    Ecco un testo in cui ho cercato di dare concretezza a queste istanze espressive.

    La malattia immortale dorme in un veliero di lampi e sogna una domenica ferita da un pugnale di vento

    Il sogno nasce da una feritoia del tempo in un giardino di peccati e rossori con una danza senza corpi che lascia piangendo la luce del mattino dopo

    Quando la malattia immortale si accosta all’altare le statue sospirano ricordando una città di pensieri di flauto e anime purpuree e ragazze dallo sguardo d’ostia e carezze di brezza marina

    L‘addio è una dolcissima arpa folle che appare a chi crede alla madrina degli Dei quando sfiora le onde per mutarle in alabastri gravidi d’imbrunire

    L’anima vaga in una tristezza di garofani cercando il corpo che non esiste nel sogno del Signore scomparso nel sesso della mezzanotte quando tutte le macchine proibite s’inginocchiano ai piedi della fontana di nostalgia turchina

    Ma credetemi la malattia immortale è la menzogna che rinchiude l’universo nell’ultimo pensiero d’un angelo perduto in un corridoio di spavento sigillato in uno specchio del vestibolo dell’aldilà

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    • Se Carlo Livia lo permette, facciamo un esercizio, Io preferirei scrivere così. Oso alcune contrazioni:

      Il sogno nasce da una feritoia del tempo
      in un giardino di peccati e rossori,
      una danza senza corpi che lascia
      piangendo la luce del mattino dopo

      *

      Quando la malattia immortale si accosta all’altare le statue sospirano ricordano una città di pensieri di flauto e anime purpuree e ragazze dallo sguardo d’ostia e carezze di brezza marina

      *

      L’anima vaga in una tristezza di garofani,
      cerca il corpo che non esiste nel sogno del Signore
      scomparso alla mezzanotte quando tutte le macchine proibite s’inginocchiano ai piedi della fontana della nostalgia

      *

      La malattia immortale è la menzogna che rinchiude l’universo.
      L’ultimo pensiero d’un angelo perduto in un corridoio,
      sigillato in uno specchio del vestibolo dell’aldilà

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  13. Montale scrisse per la prima volta la parola “telescrivente”, ora non ricordo in quale sua poesia. Forse all’inizio degli anni ’60. Fu poeta molto attivo e sensibile nell’eterno conflitto tra lingua e linguaggio. Se letto avendo in testa questo pensiero, “Satura” è forse uno dei suoi libri migliori.
    La debolezza di Montale secondo me sta nel suo pensiero filosofico, in quel pessimismo superficiale, perché decadente e forse anche manierato, che ha finito con l’inficiare qualitativamente i contenuti che qui vengono detti del Minimalismo, i quali sarebbero da collegarsi alla poesia di Montale; a cominciare dall’equivoco dell'”io”, sintomo fastidioso, come soffrire di labirintite. Non c’è farmaco. Ecco, la debolezza di Montale sta nel non essersi mai spinto oltre gli Appennini. Nemmeno in Grecia. Figurarsi se nella fin troppo fantasiosa cosmogonia induista. Dunque il suo limite è prettamente ontologico. Si prenda il buono che questo finissimo ricercatore ha saputo comunque offrire.

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  14. Un discorso sulla”fortuna”(intesa come esito dell’attività critica relativa ad uno scrittore) di Montale porterebbe a esiti sterminati; perchè a tutti(criitici di chiara fama o modesti lettori di provincia )è sembrato ( e ancora sembra)di poter “leggere”,in qualche modo, Montale.E’ il massimo a cui un poeta possa aspirare,una specie di Lectura Dantis riferita ad un moderno,un omaggio popolare a un poeta che, sotto il carapace dell’Ermetismo,nascondeva un’anima desiderosa di comunicare.

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  15. gino rago

    Dai contributi critici di questa pagina montaliana, i contributi in forma di commenti che sono entrati nella esperienza poetica montaliana in modo succulento (Giorgio Linguaglossa, Rossana Levati, Carlo Livia e Asor Rosa, Mengaldo e Pasolini attraverso di loro), due verità sono per mio conto decisive sia come verità in sé, sia come verità in grado di influenzare condizionandole tutte le esperienze poetiche postmontaliane:

    -” […] l’uomo moderno vive nella ciarla, nel mondo del «sì» ed è quindi confinato nella inautenticità, sommerso dalla straordinaria quantità di messaggi che lo bersagliano;[…] il poeta ligure vede in questa condizione il dissolvimento ultimo del linguaggio (e del linguaggio poetico) e la poesia come atto linguistico storicamente determinato risente, come qualsiasi atto umano, delle condizioni di civiltà nelle quali si manifesta. Di qui il pericolo incombente che la perdita di senso afferisca anche al linguaggio della poesia.
    – già con il dopo Satura il poeta non esprime un Grande Progetto perché ha smarrito fini, moventi e destinatari del suo gesto poetico ed è fuori dalla storia…
    [ciò che ne deriva in poesia è ben rintracciabile nei due lavori psicofilosofici
    DOPO IL NOVECENTO Monitoraggio della poesia contemporanea e CRITICA DELLA RAGIONE SUFFICIENTE di Giorgio Linguaglossa, senza mettere a tacere i segnali ben distinti che giungevano agli studiosi da APPUNTI CRITICI dello stesso Linguaglossa]

    Per questa strettoia,fra le tante strade poetiche intraprese forse si è giunti anche al Tommaso Landolfi di Idolina

    “Idolina, ti conceda la sorte
    Di tralignare sempre,
    Di non perdere le tempre
    A corteggiare la morte,
    A vagheggiare le forme
    Compite, cui fosse affidato
    L’estremo compenso, il riscatto
    Da tutte le infamie. Lo vedi:
    Sono sorelle perfezione e morte
    (O son la stessa cosa forse)
    Ed ambedue deludono. E tu, vivi
    Lungo aleatorie, provvisorie orme,
    Libera, casuale ed imperfetta,
    Sposa a tutti i cammini e a tutti i trivii…
    Fa’, dico, tutto quanto è in tuo potere
    Per non trovarti un dì tradita,
    Anzi negletta dalla morte, quale
    Il tuo misero padre(37).

    […] Ella infine,
    Oh Dio, conoscerà le poche
    Parole pure che avrò scritte, e in esse
    Conoscerà se stessa?
    Ebbene,
    Quel giorno forse, o mio deluso amore,
    Avrai riscatto tu e vendetta.”

    in cui Landolfi pare dirci dicendolo alla figlia che realtà e irrealtà sono fatte per predarsi a vicenda, che “Sono sorelle perfezione e morte/
    (O son la stessa cosa forse)/ Ed ambedue deludono. “, che al poeta che ha smarrito fini-moventi-destinatari al suo gesto rimane un fiore nel deserto nel canto di un assiuolo che mai imiterà nessuna voce umana.

    GR

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  16. donatellacostantina

    A conclusione di questo articolo di Paolo Ruffilli e di tutti i commenti presenti (e passati) sulla questione del Dopo Montale, dell’eredità stilistica montaliana e delle poetiche epigoniche di fine novecento e di questi anni, mi sembra di poter mettere un punto fermo: la nuova ontologia estetica intende mettere in campo un pensiero poetico che volti pagina e si assuma l’onere e la responsabilità di creare in Italia una poesia di livello europeo.

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  17. PAOLO RUFFILLI, MONTALE UNO E DUE? – La crisi della civiltà borghese occidentale


    È interessante notare ad esempio come la forma predicativa identificante («è») nella poesia di Montale svolga un ruolo sovrano. Montale non nutre nessunissimo dubbio sulla bontà e universalità di questa struttura della significazione, il suo scetticismo non arriva ad intaccare questa struttura immodificabile. Il primo e il secondo Montale si basano sulla assunzione a nomos di questa struttura della significazione. Tutta la poesia di derivazione post-montaliana si basa sulla eternità di questo assunto dato per inconcusso.

    La nuova ontologia estetica si basa invece proprio sulla caduta della fiducia in una struttura della significazione basata sulla razionalità della sintassi. Mi spiego:

    La forma predicativa per eccellenza del pensiero identificante nella poesia di Mauro Pierno o di Donatella Costantina Giancaspero, ma anche nella poesia di Mario Gabriele, di Steven Grieco Rathgeb e di Lucio Mayoor Tosi che si rinviene nella copula «è», è rarissima in quanto la loro poesia è il prodotto di una predicazione non identificante: ovvero, «è» equivale a «non-è». Quando e nella misura in cui ciò riesce, nella poesia scatta la molla del Fattore S. (Sorpresa), del fattore spaesamento. La poesia di Pierno si ciba di questo continuo spaesamento sbalordimento e stupefazione delle forme espressive. È il suo punto di forza.

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  18. Donatella Costantina Giancaspero, Giorgio Linguaglossa e Plinio Perilli presentano il libro di Sabino Caronia La ferita del possibile (Rubettino, 2017), Roma, Biblioteca Mandela via la Spezia, 21 5 aprile, 2018

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  19. da mondodomani.org

    Adalberto Coltelluccio

    1. Il pensiero dell’assenza di senso ^

    PAOLO RUFFILLI, MONTALE UNO E DUE? – La crisi della civiltà borghese occidentale


    Tentare un confronto con i testi di Andrea Emo è estremamente arduo, non solo per la profondità abissale dei temi affrontati nel suo ‘solitario’ meditare, ma soprattutto perché tali temi sono resi in una forma non sempre chiara, spesso ‘ellittica’, talvolta addirittura ‘criptica’. Tuttavia, è una prova che merita di essere affrontata per l’interesse che la meditazione di Emo suscita, soprattutto in merito alla questione del paradosso all’interno dello stesso Principio ontologico. I curatori dell’edizione dei suoi scritti teoretici che vanno dal 1925 al 1981, intitolati emblematicamente Il Dio negativo,[1] Massimo Donà e Romano Gasparotti, nel loro Saggio introduttivo, avvertono subito il lettore che ci si trova di fronte ad un pensiero che «sfida i limiti del Logos, e azzarda un dire di cui la contraddizione, l’assurdo, è il nucleo portante».[2] In Emo, pensatore formatosi peraltro anche sotto l’influenza dell’attualismo gentiliano, troviamo un pensiero certamente dialettico, ma si tratta di una dialettica in cui è assente qualsiasi soluzione ‘conciliativa’ delle opposizioni tragiche dell’esistenza, e dunque in cui è improponibile qualsiasi superamento della contraddizione. Anzi, nel suo pensiero vi è un «senso radicalmente contraddittorio e nullificante del ‘dialettico’»,[3] che naufraga inesorabilmente nel paradosso e nell’assenza di senso. Paradosso che mostra, in tutta la sua insolubilità, la radicale nullità della realtà e dello stesso Assoluto, perché la realtà «non è che il risultato dell’autonegarsi dell’Assoluto»;[4] il quale, poi, a considerarlo più profondamente, si scopre anch’esso come un auto-negarsi nel suo stesso porsi, e come un porsi nel suo stesso negarsi. Ciò vuol dire che ha la medesima struttura, riscontrabile in altre ontologie e mistiche della storia del pensiero, del tipo: qualcosa che è posto se e soltanto se non è posto, µ ↔ ¬ µ.

    In effetti, come spiegano Donà e Gasparotti evidenziando una sintonia di fondo di alcune nozioni emiane con le concezioni neoplatoniche, l’Assoluto «analogamente all’Uno di plotiniana memoria, è al di là dell’essere e del nulla (e quindi della loro stessa contrapposizione), nel senso che in esso questi ultimi sono ‘lo stesso’».[5] Questo perché costitutivamente la realtà è «presenza del Nulla originario; eppure ‘è’».[6] Detto in altri termini: l’atto originario stesso contiene in sé sia l’Essere che il Nulla, è pertanto coincidenza dei contraddittori.[7] Affermare l’identità di essere e nulla non può non significare l’accettazione incondizionata della contraddizione, vale a dire la consapevole trasgressione del principio di non-contraddizione aristotelico. Questo perché l’identificazione non è da parte di due termini identici, bensì da parte di termini assolutamente non-identici, cioè è l’identità di veri opposti contraddittori (il Nulla oggetto delle meditazioni di Emo, puntualizzano Donà e Gasparotti, è il nulla come «assoluta mancanza d’essere, alterità assoluta»,[8] non relativa, rispetto all’essere). D’altra parte, i termini della contraddizione sono tali non solo perché si oppongono radicalmente, ma anche e soprattutto perché nella contraddizione vengono ‘identificati’.[9] In tal modo, l’Assoluto è perfetta coincidenza di essere e nulla, a tal punto che l’essere è, in quanto essere, nulla, e il nulla è, in quanto nulla, essere.[10] Così qui la contraddizione in gioco nel pensiero emiano è tale da opporre radicalmente essere e nulla e simultaneamente identificarli.

    Ma proprio questo è il senso proprio della contraddizione: identificare due cose che sono totalmente opposte (da un punto di vista logico, in verità, si parla di ‘congiunzione’ dell’affermazione e della negazione di uno stesso asserto). Ed essa è la struttura fondamentale della realtà e dell’Assoluto in Emo. Donà e Gasparotti rilevano che l’accettazione della contraddizione, nel pensiero emiano, ha anzi la funzione di essere «rivelazione di Dio». Se Dio è il senso dell’esistere, questo Dio è intrinsecamente ‘contraddizione’, l’incoglibilità di qualsiasi senso, e dunque l’assurdo. Non può esserci, dunque, nell’istituirsi originario dell’Assoluto, un Uno, un Medesimo, che non sia immediatamente Non-Uno o Non-Medesimo, così come questo Non-Uno o Non-Medesimo non può non essere costitutivamente Uno e Medesimo. Donà e Gasparotti sottolineano la necessità di un originario «autonegarsi dell’indivisibile Uno, in realtà sempre identico a se stesso».[11]

    La meditazione di Emo, si è già detto, si esprime, come in molti pensatori dalla profondità abissale, attraverso un linguaggio aforistico. Cogliere l’unitarietà del suo discorso, perciò, può sfuggire ad un primo esame. Tuttavia, essa è sicuramente presente è si potrebbe individuarla in una affermazione che pare avere quasi un’aria ‘programmatica’, contenuta nell’aforisma 30 del 1954, in cui è scritto: «nessun principio è definibile e oggettivabile».[12] Qualsiasi pensiero che voglia cogliere il principio finisce sempre per porlo come non-posto, cioè per dissolverlo in una infinità di mediazioni altre, che lo conducono fuori dall’immediatezza dell’Inizio. In tal senso, la dialettica paradossale e aporetica di Emo ha non solo la funzione di mostrare l’inafferrabilità dell’Assoluto tramite le categorie logico-ontologiche non-contraddittorie, ma anche quella di «chiave» che permette l’accesso ad un pensiero metafisico «Altro», in grado di cogliere nel modo autentico l’Assoluto, e cioè appunto attraverso il paradosso. L’Assoluto non è oggettivabile perché qualsiasi ‘oggettivazione’ di esso lo inverte immediatamente nel suo altro, secondo una dialettica contraddittoria che può avere un antecedente significativo nella peritropè («capovolgimento» o «inversione») damasciana.[13] Nel Principio (che Emo denomina anche ‘atto’, o ‘attualità’) tutto è identico, ma proprio per questo tutto è Nulla: «nell’attualità l’essere e il nulla coincidono assolutamente»,[14] nel senso che sono non soltanto simultaneamente uno, ma anche simultaneamente non-uno; si identificano, eppure in questo stesso atto al medesimo tempo si oppongono radicalmente….

    Note
    Cfr. A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, a cura di Massimo Donà e Romano Gasparotti, Marsilio Editori, Venezia 1989. <

    2. M. Donà e R. Gasparotti, Gli «scritti teoretici» di Andrea Emo, in A. Emo, Il Dio negativo ecc., cit., p. XXI. <

    3. Donà e Gasparotti, Gli «scritti teoretici» di Andrea Emo, cit., p. XV. <

    4. Ibid. <

    5. Ivi, p. XV. <

    6. Ivi, p. XVII. <

    7. Donà e Gasparotti parlano esplicitamente dell'Origine, nel pensiero di Emo, come «identità degli opposti (identità di 'essere' e 'nulla')» (Ibid.). <

    8. Ibid. <

    9. Ove il senso della reale contraddizione non fosse ancora chiaro, vorrei riportare questo passo di Donà e Gasparotti: «l'Identità assoluta, l'Origine, deve essere identificazione di quei diversi assoluti che sono appunto l'Essere e il Nulla» (ivi, p. XVIII, il corsivo è mio). <

    10. Ancora una precisazione, da parte di Donà e Gasparotti, servirà a fugare ogni dubbio sulla effettiva contraddittorietà qui messa in gioco: «la presenza di tutto ciò che è presente è in realtà la presenza dello stesso Nulla originario […]. L'essere, cioè, non è al posto del nulla — non c'è l'essere invece del nulla. Bensì l'essere è la stessa presenza del nulla (il nulla non è presente se non come essere)» (Ibid.). <

    11. Ibid. <

    12. Cfr. A. Emo, Il Dio negativo ecc., cit., p. 18. <

    13. Il neoplatonico Damascio, nell'opera Dubitationes et solutiones de primis principiis, Paris 1899, sostiene che il Principio Ineffabile (tò apòrretos) del tutto non coincide con l'Uno e si trova epékeina tou henòs, al di là dell'Uno (quest'ultimo denominato da lui, talvolta, «indicibile», arrètos, ma mai «ineffabile»). Il Meta-Principio, insomma, non è identificabile con niente, e non è definibile in nessun modo, neanche come indefinibile: «Infatti, noi non lo [l'Ineffabile] diciamo neppure 'totalmente inconoscibile', in modo che esso, essendo qualcos'altra cosa, possieda per natura l'inconoscibilità; ma non lo diciamo né 'ente', né 'uno', né 'tutto', né 'principio del tutto', né 'al di là del tutto'; noi riteniamo di non predicare di esso assolutamente nulla. Dunque, neppure questi predicati costituiscono la natura di esso e neppure 'il nulla'» (cfr. Damascio, De Princ. I, p. 13.17-21). In tal modo, il paradosso auto-referenziale è lo sbocco aporetico necessario di qualsiasi discorso sull'Assoluto, del quale si può parlare soltanto attraverso continui «capovolgimenti» o «inversioni» del logos; infatti, afferma Damascio, «se invece è necessario dare qualche indicazione [del Principio], bisogna allora servirsi delle negazioni di questi predicati; dire che non è né uno né molti, né generatore né non generatore, né causa né non causa. Bisogna per l'appunto servirsi di queste negazioni che, non so come, si capovolgono [peritrépesthai] totalmente all'infinito» (cfr. Damascio, De Princ. I 22, 15-19 e I 26, 3-5, corsivo mio). <

    14. Cfr. A. Emo, Il Dio negativo ecc., cit., p. 52 (corsivo mio). <

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