Franco Fortini (1917-1994) POESIE da L’ospite ingrato 1986 e una poesia da Composita solvantur (1994) – Dall’impegno alla fine della poesia impegnata: dagli anni Sessanta agli Ottanta – Commento di Giorgio Linguaglossa

FOTO POETI POLITTICO

 Franco Fortini pseudonimo dello scrittore Franco Lattes (Firenze1917 – Milano 1994); rifugiatosi durante la guerra, per ragioni razziali, in Svizzera, partecipò alla Resistenza in Val d’Ossola. La sua opera poetica, nata all’insegna dell’ermetismo, riuscì negli anni a conferire alla scontrosa severità di una ispirazione civile e politica una classica misura: Foglio di via e altri versi (1946); Una facile allegoria (1954); la raccolta complessiva Poesia ed errore, 1937-1957 (1959); Una volta per sempre (1963); Questo muro (1973); l’altra complessiva Una volta per sempre. Poesie 1938-1973 (1978); Paesaggio con serpente. Versi 1973-1983 (1984). Rare le sue prove narrative: Agonia di Natale (1948; col tit. Giovanni e le mani, 1972); Sere in Valdossola (1963); La cena delle ceneri (1988). Nel ruolo di coscienza inquieta degli intellettuali di sinistra, dai tempi del Politecnico di Vittorini, del quale fu redattore, fino ai Quaderni piacentini, F. costituì un sicuro punto di riferimento per le giovani generazioni, applicando l’intelligenza penetrante del saggista a temi non soltanto letterarî ma anche politici e culturali: Dieci inverni: 1947-1957 (1959); Verifica dei poteri (1965); I cani del Sinai (1967); Ventiquattro voci (1969); Saggi italiani (1974); Questioni di frontiera (1977); Insistenze (1985); Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine (1990). Tradusse Proust, Éluard, Brecht e Goethe; una sua raccolta di traduzioni apparve con il titolo Il ladro di ciliege e altre versioni di poesia (1982). Del 1990 è l’ampia silloge di Versi scelti: 1939-1989, in cui F. riunì il meglio della sua produzione poetica. Si devono inoltre ricordare la raccolta degli scritti in versi e in prosa di carattere epigrammatico e satirico (L’ospite ingrato: primo e secondo, 1985), il recupero di due racconti rimasti a lungo inediti (La cena delle ceneri & Racconto fiorentino, 1988) e alcune raccolte di saggi (Nuovi saggi italiani, 1987; Non solo oggi: cinquantanove voci, a cura di P. Jachia, 1991; Attraverso Pasolini, 1993). Nel 1994 apparve il suo ultimo libro di poesie, Composita solvantur. Numerose le pubblicazioni postume, a partire dal volumetto di Poesie inedite (1997, già apparso in edizione fuori commercio nel 1995), curato da P. V. Mengaldo. Sono seguiti: Breve secondo Novecento (1996; nuova ed. 1998); i due volumi di Disobbedienze (1º vol. Gli anni dei movimenti: scritti sul Manifesto, 1972-1985, 1997; 2º vol., Gli anni della sconfitta: scritti sul Manifesto, 1985-1994, 1998); i quattro studi raccolti in Dialoghi col Tasso (a cura di P. V. Mengaldo e D. Santarone, 1999); Il dolore della Verità: Maggiani incontra Fortini (a cura di E. Risso, 2000), un’intervista del 1983 allo scrittore M. Maggiani; le conversazioni radiofoniche del 1991 pubblicate col titolo Le rose dell’abisso: dialoghi sui classici italiani (a cura di D. Santarone, 2000).

Onto Fortini

Franco Fortini, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Una lettera di Montale a Franco Fortini del 1951

Nel 1985, in occasione del conferimento a Franco Fortini del premio Montale-Guggenheim,   il poeta narra questo aneddoto:

«Trentaquattro anni fa, il 6 ottobre 1951, Montale mi scriveva per darmi un giudizio assai severo e, a ben considerare, assai giusto ed equilibrato, di un fascicolo di una cinquantina di poesie manoscritte che gli avevo mandato. Avevo allora 34 anni, il mio primo libretto di versi era del 1946 e mi pareva lontanissimo; e andavo cercando confusamente e senza neanche sapere di cercare, dopo qualche plaquette, i versi per la mia seconda raccolta, che venne dodici anni dopo la prima. Montale, fra l’altro, mi scriveva:

«L’ispirazione che ti muove è una ispirazione religiosa, non però, beninteso, della religione che corre oggi nelle strade e nelle chiese. Dei due fili che vi si intrecciano (l’umiltà e l’orgoglio, la dedizione e la rivolta) molto più tuo mi sembra il primo… Ammetto, insomma, che la tua mira è alta e che una certa tua non-forma nasce dal miraggio di una forma più nuova, più impalpabile, più vera. In complesso, credo che la cosiddetta “arte” ti ripugni soprattutto per ragioni morali. Qui però entra in gioco anche l’orgoglio di cui t’ho parlato. Ti rassegneresti poi a dire (a sentirti dire): tu arrivi sin qui e basta? Ti adatteresti a sentirti stimar meno di quanto tu potenzialmente sei? Ti piacerebbe sentire che c’è in te una parte inutilizzata e forse inutilizzabile? E una parte che in un certo senso è la migliore di te? Tali sono i guai, le umiliazioni, le sofferenze che toccano agli artisti. Più volte ho avuto (non dico oggi, leggendo i tuoi versi) l’impressione che tu sottovaluti il travaglio degli uomini della tua generazione e di quella che t’ha preceduto, nel senso che molti problemi che ti preoccupano sono stati sentiti e parzialmente espressi anche da altri; da altri che apparentemente non pensano o pensano meno di te».

I miei ascoltatori non hanno bisogno di essere avvertiti: qui Montale parla anche – e quanto – di se stesso. E questo spieghi perché la lettera fu per me tanto sconvolgente quanto deprimente. I rilievi negativi erano inconfutabili, ma la via indicata m’era impercorribile proprio a causa di quel nesso di dedizione e di rivolta che Montale mi aveva diagnosticato. Quella lettera faceva mancare il respiro. Quando mi ripresi mi mossi, come un ragazzo protervo, in direzione opposta. Valgano gli eventi di quegli anni. Fu erranza, errore e, almeno in parte, poesia. Altri e quali anni ci sarebbero voluti perché acquisissi la certezza o la pretesa testamentaria di aver veduto e detto alcunché «una volta e per sempre».

Montale aggiungeva: «Qua e là troverai segnato a lapis qualche luogo che mi è particolarmente piaciuto». Scorsi il dattiloscritto. Un segno accompagnava una breve poesia intitolata Parabola. Vi paragonavo la mia sorte a quella del grappolo trovato immaturo e non colto (ero già sulle tracce di un mio Manzoni!) e, non giunto a dolcezza, l’inverno lo avrebbe macerato. Con una leggera scrittura a lapis, Montale aveva aggiunto: «Speriamo di no».

Ho sperato anch’io, ecco tutto.

Parabola

Se tu vorrai sapere
chi nei miei giorni sono stato, questo
di me ti potrò dire.
A una sorte mi posso assomigliar
che ho veduta nei campi:
l’uva che ai ricchi giorni di vendemmia
fu trovata immatura
ed i vendemmiatori non la colsero
e che poi nella vigna
smagrita dalle pene dell’inverno
non giunta alla dolcezza
non compiuta la macerano i venti.

Onto Pasolini

Franco Fortini. L’intellettuale isolato e il conflitto su tre fronti

Nell’ottobre 1958, per una relazione interna alla rivista «Officina», Franco Fortini scrive:

«Questo problema dell’eredità è di grandissimo momento perché molto probabilmente può condurci a riconoscere l’inesistenza di una eredità propriamente italiana, in seguito alle fratture storiche subite dal nostro paese; ovvero al riconoscimento di antenati quasi simbolici, appartenenti di fatto a tutte le eredità europee». «Nell’odierna situazione, credo che le postulazioni fondamentali di “Officina” – agire per un rinnovamento della poesia sulla base di un rinnovamento dei contenuti, il quale a sua volta non può essere se non un rinnovamento della cultura – con i suoi corollari di civile costume letterario, di polemica contro la purezza come contro l’engagement primario ecc. – siano insufficienti e persino auto consolatorie. Rappresentano il “minimo vitale”, cioè  un minimo di dignità mentale, di fronte alla vecchia letteratura evasivo-ermetizzante e alle nuove estreme-destre letterarie ma sono anche, di fatto, assolutamente prive di forza e di prospettiva di fronte alla letteratura e alla critica nuove.1

Gli appunti di Fortini illustrano come fosse ben chiara, in lui più che nei redattori della rivista «Officina», l’idea che la vera questione sulla quale ruotavano le scelte strategiche del gruppo era la cosiddetta «ontologia letteraria del Novecento»; un «piccolo mito» creato «a favore d’una definita cerchia di autori e critici degli Anni Trenta». «Alcuni di noi – continua Fortini – ed io fra questi, ebbero in sorte di far coincidere l’inizio della propria attività letteraria con la critica a quel mito e al gusto di quel decennio».2

«L’idea poi che la letteratura e soprattutto la poesia del nostro Novecento si sia sviluppata secondo criteri e caratteristiche speciali e assolutamente innovatrici rispetto all’epoca precedente, tanto da rendere possibile la redazione di un “canone”, è stata lungamente vulgata da critici come Bo, Ferrata, Anceschi e da molti altri. Ma chi più la prende sul serio? Attaccata da tutti i lati, nell’ultimo quindicennio i suoi stessi settatori l’hanno ampiamente corretta. L’inizio del gusto novecentesco silenziosamente si è venuto spostando dai fiorentini a Gozzano, Campana prendeva il posto (modesto) che era il suo, accanto a Jahier si poteva ormai leggere anche Michelstaedter, Rebora diventava una figura centrale, un Tessa o un Clemente non erano più soltanto scialbe figure di periferia e di provincia. Si veniva a sapere, seppure di malavoglia, che negli Anni Trenta aveva operato un poeta della statura di Noventa e che Pavese aveva pur scritto Lavorare stanca. Lo schema “novecentesco” è andato anche troppo in pezzi… Oggi, comunque, la categoria del Novecento letterario, il suo “ontologismo”, il suo “assolutismo” mi paiono formule polemiche inutilizzabili, fantocci di comodo».3

Franco Fortini da un lato addita gli errori della rivista «Officina»:

«non vedere quanto il nostro “Novecento letterario” fosse appena un episodio della cultura letteraria europea tardo-simbolista e avanguardistica (…) La sua polemica contro la destra novecentesca era in ritardo di dieci anni; quello che la faceva parer nuova era la simultanea polemica contro l’impegno e il social realismo. Non a caso teneva a suggerire una poetica “civica” bensì ma di “disimpegno” dalle parti politiche»;4 dall’altro, invita a riflettere sul fatto che «L’idea che la letteratura del ventennio, o meglio la letteratura della prosa d’arte e della lirica, novecentesca prima ermetizzante poi, sia stata la “via italiana” dell’antifascismo culturale non nasce con la restaurazione successiva al 1948. È invece l’idea centrale, il mito scrupolosamente predisposto prima ancora che il fascismo cadesse, fondato sull’equivoco stesso dell’antifascismo cioè sul suo frontismo, che vedeva schierati da una medesima parte un A. Gide e un B. Brecht. In forma non scritta quell’idea circolava durante la guerra nella fascia di autori e scrittori che erano contigui all’antifascismo liberale o liberalsocialista. La formulazione più autorevole e più abile, anche per la sede ed il momento, è in uno scritto di G. Contini che nel 1944, sulla rivista svizzera “Lettres” introdusse una antologia letteraria italiana da Campana a Vittorini. Vi si sosteneva esplicitamente che la “resistenza” culturale italiana andava identificata col rifiuto dei nostri scrittori migliori ad imboccare la tromba sociale e tirteica. Nell’Italia del dopoguerra quella tesi divenne poi pressoché ufficiale. Nessuna forza o gruppo organizzato sorse a confutarla: nessuno rovesciò apertamente la tesi per affermare che al di là del fascismo di Mussolini c’era una classe ed una ideologia generalizzata e che proprio la letteratura della astensione e dell’ascesi, del “reame interiore” o das Innere Reich era la fedele voce, lo specchio devoto della classe che i fascismi creava e disfaceva».5

In un articolo del 1960 Fortini individua con lucidità le modificazioni che l’industria culturale ha introdotto nelle istituzioni della letteratura in Italia. È una analisi oggettiva, che coglie la crisi di legittimità e di rappresentatività dell’intellettuale, i legami di dipendenza tra l’attività del critico e del poeta e l’apparato dell’industria culturale: da una parte, la nascita di un nuovo tipo di critico «contemporaneista», un «misto di cinismo, moralismo e intuizionismo», dall’altra, l’industria culturale, afferma Fortini, «ha bisogno di questo tipo di eclettismo, almeno quanto ha bisogno di fabbricare le nuove avanguardie». Rispetto alla generazione precedente, i contemporaneisti di nuovo conio «sono più informati, hanno forse più studi e letture. Ma la loro posizione all’interno della società italiana è proporzionalmente la medesima… dei Serra, dei Cecchi, dei Pancrazi, e dei De Robertis: l’umanesimo zoppo».6 E concludeva:

«Oggi una parte essenziale dell’attività critica è invisibile. Le scelte fondamentali si compiono nelle direzioni editoriali, dove confluiscono quei giudizi dal cui equilibrio o squilibrio scaturisce l’atto di politica culturale e commerciale (e insieme di indicazione critica) che è la pubblicazione d’una o di più opere letterarie. Non voglio dire, con questo, che la vera critica sia quella esercitata dai lettori delle case editrici o dai critici e letterati che esse impiegano; e che la verità critica sia quella depositata negli archivi degli editori. Non voglio dirlo, perché il carattere cerimoniale e convenzionale dell’articolo e del saggio ha pur una sua ragione critica, proprio per l’ossequio formale preteso dalla sua pubblicità, quale non può esistere nella schiettezza del giudizio privato. Ma non c’è dubbio che oggi il critico svolga, se non sempre almeno spesso, una indispensabile funzione tecnica nei confronti di un apparato industriale e commerciale e che, per di più, nell’atto di esercitarla, si faccia latore di tendenze ideologiche e politiche in misura infinitamente più responsabile di quanto non facciano il narratore o il poeta».6

L’intento di Fortini è quello di indicare un diverso identikit del «critico», che sfugga agli specialismi e al di là della sua funzione di mero «intermediario», presente «in tutte le fasi della produzione e circolazione culturale: dalla fase della conversazione, della cerchia letteraria o mondana, di élite o semipolitica, o della rivista per pochi, dove si elaborano determinate tendenze… dalla consulenza editoriale al quotidiano, al periodico, alla radio TV, ecc».7 Il «critico» «è tenuto a situarsi al livello del discorso comune»; «svolgere il discorso critico vuol dire allora poter parlare di tutto a proposito di una concreta e determinata occasione. Il critico allora è esattamente il diverso dallo specialista, dal filologo e dallo studioso di “scienza della letteratura”; è la voce del senso comune, un lettore qualsiasi che si pone come mediatore non già fra le opere e il pubblico di lettori ma fra le specializzazioni e le attività particolari, le “scienze” particolari, da un lato, e l’autore e il suo pubblico dall’altro».8

1 Franco Fortini Verifica dei poteri Milano, Il Saggiatore, 1965 p. 64

2 Ibidem, p. 58
3 Ibidem, p. 59
4 Ibidem, p. 59
5 Ibidem, p. 46
6 Ibidem, p.44
7 Ibidem, p. 47
8 Ibidem, p. 50

Onto Montale

Montale, grafica di Lucio Mayoor Tosi

Franco Fortini e la poetica della irriconoscibilità

Se c’è un autore che ha fatto della propria poesia un qualcosa di «irriconoscibile», questo è senza dubbio Franco Fortini. Il suo particolare marxismo: un mix della lezione di Gramsci, Adorno e di Lukács, e la mirabile traduzione delle poesie di Bertold Brecht, lo portavano naturalmente in direzione di una poesia di impianto denotativo, didascalica, aforistica, in direzione di una costruzione oggettiva plasmata da una severa ipotassi; peraltro, il suo stesso marxismo lo portava verso il piano inclinato dell’aggressione formale e stilistica, verso spunti espressionistici, eccessi concettuali, una costruzione a scarti e a strati, in attrito statico e dinamico; una costruzione tettonica, in una parola, verso una ipotassi, una rigidissima organizzazione architetturale della composizione poetica, una vera e propria gabbia all’interno della quale fossero bandite, e tenute a rigorosa distanza di sicurezza, gli espressionismi e i lirismi del Novecento «irrazionalistico», gli stili irrazionalistici e misticheggianti fin troppo compromessi con una tradizione tutta da sottoporre ad attentissima critica. Da questa volontà di ordinamento dall’alto della propria poesia Fortini tenderà istintivamente di trovare una soluzione stilistica tentando una resistenza ad oltranza alle linee di forza diametrali e tangenziali che attraversano la forma-poesia degli anni Sessanta. Pasolini in un articolo del 1958 parla di un Fortini «lacerato da forze che lo trascinano in due direzioni opposte, egli ruota un po’ disperato su se stesso, si impoverisce e affabula accanitamente… (riconoscendo) che egli, nel fondo, voglia proprio questo. Essere cioè dimostrazione vissuta – “martire” nel senso etimologico della parola – di una nuova cultura e di una nuova ideologia letteraria, che escludono, per definizione, sia l’umanesimo che l’irrazionalismo della  poesia».

Il concetto di «irriconoscibilità» che guida la poesia di Fortini gli derivava anche dalla sua naturale diffidenza per l’espressione linguistica immediata (tanto più per quella mediata ma viziata dalle versioni dell’irrazionalismo novecentesco), fermamente convinto che la tradizione andasse capovolta e rivoltata, filtrata dal fittissimo reticolato del pensiero critico, dove «esercizio della ragione e sentimento / sono due cose e vivacemente si legano», scriverà in La poesia delle rose (1962).

Un secondo ordine di ragionamenti deve essere fatto a proposito forse di una poesia che ha tentato un percorso di resistenza verso la poesia novecentesca di matrice post-ermetica e l’incipiente sperimentalismo. Un tentativo così drastico di negazione e resistenza come quello messo in atto da Fortini, non poteva che condurre ad una poesia «abnorme», stilisticamente «estranea», alla continua ricerca di un assestamento o adeguamento di linguaggio, non ad un modello anteriore o anteguerra ma ad una riorganizzazione dei rapporti di produzione della società capitalistica; (Fortini rifiuterà tenacemente qualsiasi impiego di un linguaggio pacificato, qualsiasi soluzione indolore di problemi extraestetici). Per Fortini la soluzione di un problema estetico non può essere affidata soltanto al fatto poetico, visto sempre come soluzione provvisoria, parziale, di compromesso, se non viene accompagnata da un cambiamento reale dei rapporti di produzione del mondo produttivo.

Onto Giuseppe Ungaretti

La poesia di Fortini fin da Foglio di via ed altri versi (1946) rimarrà fedele a questo assunto, e si muoverà, dapprima timidamente, con qualche «tentazione regressiva», come la definisce Pasolini, con sporadici slittamenti in chiave lirica e, susseguentemente, da Poesia e errore (1959) a Una volta per sempre (1963), fino a Questo muro (1973), in chiave discorsivo-narrativa, in direzione di una tentazione estensiva, dove l’accento tonico viene giustapposto su un verso prosastico in funzione di ammicco e allusione ad una civiltà stilistica del  passato remoto e il verso viene raggruppato in strofe nutrite e fittamente assemblate per corroborare una situazione stilistica e semantica di pienezza di dettato e, quindi, indirettamente, di senso.

Una via così singolare e personale come quella seguita da Fortini non poteva che condurre ad un isolamento (che non significa vicolo cieco) e ad una diversità rispetto alla griglia della poesia del secondo Novecento. Fortini è l’unico grande poeta del Novecento che non ha avuto adepti, seguaci, sostenitori, epigoni. La spiegazione è molto semplice: per il fatto che il suo percorso non era né imitabile né replicabile. È condivisibile la tesi di coloro i quali affermano che la sua poesia sia un corpo estraneo dentro la poesia del Novecento? Un percorso interrotto, solitario e senza apparente via di uscita? È questo uno dei nodi principali della poesia degli anni Sessanta, e va sciolto subito. Va subito detto che nella contesa Fortini-Sereni, il perdente è certamente il primo. Di fatto, la via sereniana di riforma del linguaggio poetico era una strada in discesa, quella invece di Fortini era una strada tutta in salita e presupponeva la formazione di una generazione di poeti-critici che poi è venuta a mancare. La generazione degli anni Settanta e Ottanta sceglierà il fiancheggiamento dello sperimentalismo o il fiancheggiamento di coloro che teorizzeranno una poesia del ritorno ad uno stadio pre-industriale, ad una poesia adamitica. Certamente, la poesia fortiniana si sottrae, per la sua stessa ragione d’essere e la sua ragione fondante, ad una utilizzazione o retrospezione in funzione di scuole e/o affiliazioni, e si sottrae anche a qualsiasi utilizzazione strumentale. Dovevano trascorrere quaranta anni perché la poesia fortiniana tornasse a parlarci e a presentarsi come uno dei capisaldi dell’«antipoesia» del secondo Novecento.

A proposito di Destini generali (1957) Pasolini nella recensione del 1958 indica la giusta chiave per entrare nella poesia fortiniana:

Va cercata una chiave: a spiegare le privazioni stilistiche o i pastiches stilistici raggiunti attraverso l’operazione… che abbiamo detto della “modificazione ossessiva”. L’impressione che si ha… leggendo questi versi è che mai una parola o un modo stilistico vengano accettati come si presentano – per ispirazione o calcolo, non importa: non è di una lotta per l’espressione che qui si tratta – ma vengano continuamente “corretti”, o attraverso una sinonimia, o attraverso una depauperazione o riduzione, o attraverso un contatto con parole e modi stilistici d’altro tipo».3 Ma nel prosieguo dell’articolo il recensore sintetizza mirabilmente le due linee di forza lungo le quali si enuclea la poesia di Fortini: «1) Linea della resistenza contro la “poeticità”, prodotto della apoliticità letteraria e della conoscenza pseudo religiosa e carismatica della cultura italiana del Novecento. 2) Linea della tentazione di quella “poeticità” come residuo più alto di un privilegio borghese di squisitezza espressiva, volontariamente respinto.4

Nei Versi a un destinatario (1951-1969), Fortini mette in versi la definizione del comunismo: «I presupposti da cui moviamo non sono arbitrari. / La sola cosa che importa è / il movimento reale che abolisce / lo stato di cose presente. // Tutto è divenuto gravemente oscuro. / Nulla che prima non sia perduto ci serve. / La verità cade fuori della coscienza». La verità, dunque, cade fuori della coscienza. Sono i sintomi della crisi ineluttabile. La primavera di Praga del 1968 è stata schiacciata dalla invasione dei carri armati sovietici. La prospettiva di un rivolgimento sociale appare sempre più lontana e problematica. I rapporti con i poeti un tempo amici di Milano si fanno sempre più problematici. È di questi anni la poesia «A Vittorio Sereni», una dolorosa e oggettiva presa d’atto della distanza incolmabile che diventa ogni giorno più vistosa tra lui e il poeta più rappresentativo della via milanese al riformismo del «modello istituzionale»:

Come ci siamo allontanati.
Che cosa tetra e bella.
Una volta mi dicesti che ero un destino.
Ma siamo due destini.
Uno condanna l’altro.
Uno giustifica l’altro.
Ma chi sarà a condannare
o a giustificare
noi due?

 
1 F. Fortini «Astuti come colombe» in Verifica dei poteri p. 85 Milano, Il Saggiatore 1965

2 Ibidem

* da Giorgio Linguaglossa Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010) EdiLet, Roma, 2011 pp. 390 € 16

d

Onto Busacca

Helle Busacca, grafica di Lucio Mayoor Tosi

a L’ospite ingrato De Donato editore, 1966

Sereni esile mito

Sereni esile mito
filo di fedeltà
non sempre giovinezza è verità
un’altra gioventù giunge con gli anni
c’è un seguito alla tua perplessa musica…

Chiedi perdono alle «schiere dei bruti»
se vuoi uscirne. Lascia il giuoco stanco
e sanguinoso, di modestia e orgoglio.
Rischia l’anima. Strappalo, quel foglio
bianco che tieni in mano.

(1954)

Forse il tempo del sangue ritornerà.
Uomini ci sono che debbono essere uccisi.
Padri che debbono essere derisi.
Luoghi da profanare bestemmie da proferire
incendi da fissare delitti da benedire.
Ma piú c’è da tornare ad un’altra pazienza
alla feroce scienza degli oggetti alla coerenza
nei dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare.
Al partito che bisogna prendere e fare.
Cercare i nostri eguali osare riconoscerli
lasciare che ci giudichino guidarli esser guidati
con loro volere il bene fare con loro il male
e il bene la realtà servire negare mutare.

[1958]

 

  1. [L’Anno Sessantaquattro. Poesia altrui.]

1.

Correvo in auto la luminosissima Brianza
e foglie rotolavano pulite nella danza
d’aceri e tigli brune e gialle precipitose
ma cementi d’officine piccole e stecchi di rose
robinie color volpe campings semidivelti
i tavoli dei bar ristoranti capovolti
le piume d’un coniglio nella palta
di sangue impresso e fisso sull’asfalto
le operaiette dei turni affollate allo spaccio
e lassú nel turchino prealpino di ghiaccio
la notizia che l’anno finiva.

2.

Va’ via, getrübtes Jahr, va’ via mit deinen Schmerzen.
Stanotte affili Bòrea le trombe delle feste.
Battano gli impiantiti di dancings e di casolari
le impiegate tenui e le dure comari.
E anche la ubriaca magra dei muratori
che tra spini di siepe scuote a sfida i colori
del viso decorato di nero bianco e rosso
e la gonna che striano erba e creta di fosso
anche lei calchi e stritoli l’annata sotto il tacco
quando dai poli sibili di radio la distacchino
e dormire nel grigio che viene.

(1964)

  1. [Autostrada del sole]

Tutto era cosí semplice, averlo saputo,
Che l’accurato labirinto delicato
la patria immaginaria
in questo vento dovevano sparire
e noi scagliati sulla luce
dei rettilinei…
Ora a noi tardi liberi
in quest’aria di nulla
pianure monti umiliati
altri spazi e doveri
dilatano e già veri
da morirne. E di vista
si perde il cuore
come dopo il sorpasso
l’altro nel retrovisore.

(1960)

  1. [Per un riformista]

Il mondo perché cambiarlo,
ami le donne come sono,
credi ai tuoi soli morti,
hai sempre nuove abitudini.

Ma il mondo cambia e t’ammazza.
I baci, i baci grandi
non sono tuoi mai più.
A chi somigli nella foto?

E vivo ti seppelliscono.

Diario linguistico

Non imiterò che me stesso, Pasolini.
Più morta di un inno sacro
la sublime lingua borghese è la mia lingua.
Non conoscerò che me stesso
ma tutti in me stesso. La mia prigione
vede più della tua libertà

(1965)

La realtà

La città di cui sto parlando non esiste,
è un’idea della ragione e della volontà.
Nella speranza di essere compreso
la chiamo con un nome sconosciuto.
I suoi viali si aprono nel vuoto.
Le sue posterie sono aperte fino a tardi.

Anche i nomi degli amici sono finzione.
Chi è vivo, di loro, chi è morto? Probabilmente
sono scarabei di lapislazzulo
nei musei o voci di repertori,
fotografie, carta, propine di esami.
O, col pianto in gola, dormono nel pomeriggio.

Sì, sono stato a Gela una volta.
Un’altra volta persino a Roubaix.
Sono vissuto alcuni mesi a Roma.
Tutto questo significa ben poco.
Accorgersi che nella mia mente affaticata
l’idealismo trionfa, è impressionante.

Le dattilografe mettono la copertina sulla contabile.
I gatti si occupano dei fatti loro.
Nel garage puliscono i carburatori. Questa
è la realtà. Se lasci cadere un giornale
esso volteggia e raggiunge le ortensie.
Non vuoi abbandonare la sintassi.
La finzione è l’ultima speranza.
Qualcuno telefona, hai l’ansia nella voce.

La storia – torni a spiegargli – è tutta la realtà.
E invece non è vero.
Parli per farti coraggio.
Hai difficoltà a leggere.
I rumori familiari
avvertono che viene cena
e così sarai liberato.
Al Cinema Cristallo una pellicola di guerra,
alla televisione un dibattito animato.

Il dovere di Schiller è di resistere.
Dante si ostina su di una rima difficile.
Ecco perché gli amici sono divenuti nomi.
Ecco perché nei sogni vedi solo carri di morti.
Ecco perché puoi dire «Torino» ma non esiste
nessuna città con questo nome
e anche esistesse non te ne importa.
Parli al plurale solo per ammonire
e figli a non inciampare nei gradini. Tutto è
tremendo ma non ancora irrimediabile.

(1984)

da Composita solvantur Einaudi, Torino 1994

ITALIA 1977-1993  Hanno portato le tempie al colpo di martello la vena all’ago la mente al niente. Per le nostre vie ancora rispondevano a pugno su gli elmetti. O imparavano nelle cantine come il polso può resistere allo scatto  dello sparo. Compagni. Non andate così. Ma voi senza parlare mi rispondete: “Non ricordi quel ragazzo sfregiato la sera dell’undici marzo 1971 che correva gridando “Cercate di capire questa sera ci ammazzano cercate di capire!” La gente alle finestre applaudiva la polizia e urlava: “Ammazzateli tutti!” Non ti ricordi?” Sì, mi ricordo.

 

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30 risposte a “ Franco Fortini (1917-1994) POESIE da L’ospite ingrato 1986 e una poesia da Composita solvantur (1994) – Dall’impegno alla fine della poesia impegnata: dagli anni Sessanta agli Ottanta – Commento di Giorgio Linguaglossa

  1. https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/18/franco-fortini-1917-1994-poesie-da-lospite-ingrato-1986-e-una-poesia-da-composita-solvantur-1994-dallimpegno-alla-fine-della-poesia-impegnata-dagli-anni-sessanta-agli-ottanta-commento-di/comment-page-1/#comment-28768
    La poesia di Fortini vuole essere,come avverte Linguaglossa,”testimonianza”, e tale è,indubbiamente; io, però, me ne sono andata fuori strada col mio retino acchiappafarfalle, per scoprire un poeta affascinante,che incanta con la bellezza della parola,la parola poetica che sfugge a ogni sollecitazione ideologica, e tuttavia “dice”più di quello che il suo stesso creatore vuol farle dire: perchè ha la forza segreta del vaticinio, celato dietro la finzione dei versi.Gli antichi lo sapevano,tanto da considerare il poeta una specie di mago.”Poeta e mago”, si diceva di Lucrezio.E anche di Dante fu detto,anche se con qualche malizia.

  2. Posto qui una poesia inedita di Laura Canciani.

    a a.s.
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/18/franco-fortini-1917-1994-poesie-da-lospite-ingrato-1986-e-una-poesia-da-composita-solvantur-1994-dallimpegno-alla-fine-della-poesia-impegnata-dagli-anni-sessanta-agli-ottanta-commento-di/comment-page-1/#comment-28770
    Questa volta saliamo sul ring.
    Tu, con le tue vesti lunghe rosse fruscianti
    – eresiarca di un fuoco baro –
    io, con vestaglietta da cucina
    e un occhio già ferito
    da lama spinta:
    potrei indossarle tutte le scarpette rosse
    che girano vive tra luci e pareti
    disattente.

    Round primo:
    quale arbitrocritico non esulta per il colpo
    “Orfeo e Euridice”?

    Round secondo:
    creami adesso, qui, il più piccolo
    fiore rosso…

    Un colpo basso, a testa bassa, feroce
    contro le regole
    non viene perdonato.

    La folla, a tentoni, monta le corde impoetiche
    in un ridere di onda d’urto
    che disfa persino l’invisibilità.

    Provo dolore consapevole nel prodigio
    del silenzio
    ma sono viva e da viva mi giunge una voce
    strana, anglosassone, elegante, come crudele.
    «Liberati»
    «Liberarmi, da che cosa?»
    «Tu lo sai»
    «Sì, liberarmi da tutta la zavorra
    che impedisce la santità».

  3. https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/18/franco-fortini-1917-1994-poesie-da-lospite-ingrato-1986-e-una-poesia-da-composita-solvantur-1994-dallimpegno-alla-fine-della-poesia-impegnata-dagli-anni-sessanta-agli-ottanta-commento-di/comment-page-1/#comment-28771
    Come si può notare, qui siamo in presenza di un tipo di discorso poetico che adotta il verso «spezzato»; ripeto: «spezzato». Questo è appunto il procedimento in uso nella poesia più aggiornata che si fa oggi dove il verso cosiddetto libero è stato sostituito con il verso «spezzato», singhiozzato…
    E questo è il modus più proprio del poeta moderno erede della tradizione di un Franco Fortini, lui sì ancora addossato alla linea umanistica del novecento… ma Laura Canciani è una poetessa che non può più scrivere «a ridosso del novecento», semmai, oserei dire che può sopravvivere «nonostante» il novecento…
    Oggi al poeta di rango può essere concessa solo una chance: il verso e il metro «spezzato»… che è come dire di una creatura alla quale abbiano spezzata la colonna vertebrale…

  4. gino rago

    Dopo Lilith
    (Dio presenta Eva ad Adamo)

    “(…) Ti sento solo. Ecco l’altra compagna.
    Ingoia l’acqua delle tue ghiandole
    ma non superare la soglia.
    Stai molto attento a non far piangere questa donna.
    Io conto una ad una le sue lacrime.

    Questa donna esce
    dalla costola dell’uomo non dai tuoi piedi
    per essere pestata
    (né dalla tua testa
    per sentirsi superiore).

    Questa volta la donna esce dal tuo fianco per essere uguale.
    Un po’ più in basso del braccio per essere difesa.
    Ma dal lato del tuo cuore.
    Per essere amata. Questo ti comando.(…)”

    Adamo le sfiora le spalle. La distanza nel buio si assottiglia.
    Un sibilo invade il giardino di gigli.

    (a cura di) Gino Rago

  5. https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/18/franco-fortini-1917-1994-poesie-da-lospite-ingrato-1986-e-una-poesia-da-composita-solvantur-1994-dallimpegno-alla-fine-della-poesia-impegnata-dagli-anni-sessanta-agli-ottanta-commento-di/comment-page-1/#comment-28775
    Recentemente un poeta italiano di cui taccio il nome mi ha accusato di parteggiare per il nichilismo e di osteggiare i «credenti» in modo offensivo per questi ultimi (tra l’altro non è mia intenzione offendere nessuno né cattolico né mussulmano né buddista, non mi interessano le offese) e ci ha definiti «commilitoni» di una nuova «avanguardia»… Io gli ho risposto che all’interno e all’esterno della redazione ci sono molti «credenti» e anche cattolici i quali non si sono sentiti tirati per la giacca né offesi dalle considerazioni da me espresse (che in realtà riprendevo da Heidegger…) sul nichilismo inteso come macro categoria epocale… qui il problema diventa purtroppo inevitabilmente terreno di scontro tra «credenti» e «non credenti», ponendo implicitamente questi ultimi in una categoria di «commilitoni» forieri di una ideologia di «avanguardia» etc etc.

    Già ponendo la categoria-etichetta di «non-credenti» facciamo fare un salto all’indietro di due o tre secoli al dibattito.
    Qui non è questione di «credenti» e di «non-credenti» i quali ultimi si prendono la briga di brigare in pro del nichilismo, il nichilismo si è mostrato in Europa da almeno 180 anni, da quando Turgenev nel romanzo Padri e figli ha affrontato di petto per primo l’argomento… non si tratta certo di una nostra scoperta…

    Siamo ancora in mezzo al guado, il nichilismo è ancora una categoria senza la quale non potremmo comprendere la storia europea degli ultimi due secoli a cominciare dalla rivoluzione francese, Bonaparte per passare alla restaurazione dopo il Consesso di Vienna, le guerre d’indipendenza, la prima, la seconda guerra mondiale e la terza, quella fredda e qualla che si sta combattendo in questi anni «a pezzi» come ha detto papa Francesco il quale è senza ombra di dubbio al di sopra delle parti belligeranti.

    Detto in breve, io penso che la poesia italiana oggi, na fine 2017, non può rinunciare a prendere di petto le questioni scottanti della sua storia e della storia dell’Europa se vuole diventare veramente adulta. Tutto qui.

    Per tornare alla questione poesia, penso che questo articolo sul rapporto Montale Fortini sia di estremo interesse perché mostra la grandissima acutezza del Montale nel mettere a fuoco il problema che affliggeva la poesia di Fortini. Montale mette il dito nella piaga, e Fortini lo riconosce. Siamo nel 1951, già allora la poesia italiana era immobilizzata da tendenze «religiose» (un eufemismo di Montale per non dire “ideologiche”) che avrebbero frenato l’evoluzione poetica della poesia di Fortini… quelle tendenze che in seguito, negli anni ottanta, sarebbero diventate a-ideologiche, ovvero si sarebbero invertite di segno, per poi assumere, durante gli anni novanta e negli anni dieci del nuovo secolo, forme di disarmo intellettuale e di disillusione, forme istrioniche…

    In quella lettera di Montale si può leggere, in filigrana e in miniatura, l’ulteriore cammino che farà nei decenni successivi la claudicante poesia italiana del tardo novecento, con la sua incapacità di rinnovarsi su un piano «alto». Insomma, diciamolo netto e crudo, nessun poeta italiano interverrà più, dalla metà degli anni settanta ad oggi, a mettere il dito nella piaga purulenta… ci si accontenterà di salvare il salvabile, di pronunciare campagne di acquisizione sul libero mercato di frange di epigoni, campagne auto pubblicitarie, si lanceranno petizioni di poetica e di anti-poetica a scopi pubblicitari e auto commemorativi…
    E arriviamo ai giorni nostri…

    • Caro Giorgio, ignoro chi si il lettore/critico che ci ha definiti “commilitoni”.La parola potrebbe assumere valenze fuorvianti verso Destre sempre più vivaci,se non fosse evidente che non intendiamo appoggiare nessuna ideologia particolare,e ognuno di noi si attiene ,più o meno,al sereno incitamento di Pascal:il cielo stellato sopra di me, la coscienza morale dentro di me.Questo, almeno, per quanto riguarda il blog; è ovvio che, nel proprio privato, ognuno fa le scelte che preferisce.

  6. gino rago

    “(…)
    A una sorte mi posso assomigliar
    che ho veduta nei campi:
    l’uva che ai ricchi giorni di vendemmia
    fu trovata immatura
    ed i vendemmiatori non la colsero
    e che poi nella vigna
    smagrita dalle pene dell’inverno
    non giunta alla dolcezza
    non compiuta la macerano i venti.”

    In questi versi forse si impone un Franco Fortini che va oltre la deprecazione
    anche rabbiosa di occasioni perdute, di sogni d’un possibile rivolgimento
    che non ci fu e anzi si acquietò nel conformismo del dopo 1945, e che si fa
    invece il poeta che traccia per sé e per i suoi lettori una parabola, mesta, senza morale. Un poeta interprete cosciente di una feroce delusione storica.
    Così, rileggendoli in questo mio particolare stato d’animo attuale, sento
    questi versi di Fortini, pur nelle istanze d’una piena vocazione neorealistica antiermetica.
    Gino Rago

  7. Rossana Levati

    Franco Fortini
    La salita (da “Composita solvantur”, Einaudi, 1994)
    (…)
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/18/franco-fortini-1917-1994-poesie-da-lospite-ingrato-1986-e-una-poesia-da-composita-solvantur-1994-dallimpegno-alla-fine-della-poesia-impegnata-dagli-anni-sessanta-agli-ottanta-commento-di/comment-page-1/#comment-28779
    Con molta fatica salivo
    Non erano nuovi i pensieri, non erano tristi
    né lieti. “Com’è – mi chiedevo-
    che solo da vecchio, che solo all’estremo
    e senza saggezza né pace
    m’aggiro così per i poggi?”
    E m’ingombrava un fastidio la mente
    per gli apparati eterni, i padiglioni del mondo,
    alberi monti nuvoli
    che solo in sogno paiono infiniti
    o in tele di pitture cavernose
    e stanno invece circoscritti e nulli,
    con qualche crollo di pioggia, ogni tanto, o di tuoni
    impotenti o di fulmini…
    “Non già perché una strada accerchia il monte
    e, stupore alle bestie del bosco,
    corrono incontro al temporale
    infelici le auto dei miei simili!
    Che vorrei anzi con quelli parlare, godere
    dei loro volti squamosi, delle mani servili,
    della lingua plebea che ci fa vili”.
    Paradiso non c’è e tu non crederci.
    resta nel bosco senza parlare con gli alberi.
    Scansa con la mazza le grinfie dei pruni. Lassù
    inumano vento d’ira e rombo
    tutto vorrà svelarsi il mare.
    Tu non guardarlo più. Sotto i passi ultimi
    calca la pietra fiacca che si sgretola,
    la bieca che ancora recalcitra. Intendi
    l’ansimo e i tonfi del serbatoio
    nella garitta dove è la casa dell’acqua
    che celata e cieca sale il monte
    per defluire nella utilità.
    Pensa al ritorno per cena.

    La lettura della pagina odierna dell’Ombra mi ha spinta a rileggere Fortini (di cui di norma non c’è traccia alcuna nelle antologie scolastiche), cercando di seguire non solo le preziose indicazioni sui rapporti con Montale ma anche i giudizi espressi da Pasolini sulle due “direzioni opposte” tra cui si muove la poesia di questo autore, “martire di una nuova cultura e ideologia letteraria che escludono sia l’umanesimo che l’irrazionalismo della poesia”.
    Guidata da questo giudizio e approfondendo, in modo assolutamente provvisorio, la mia lettura di Fortini, sono stata colpita dalla poesia “La salita”, dedicata a Remo Bodei, della quale ho riportato una parte.
    Ciò che mi ha sorpreso è stato infatti trovare una citazione da Leopardi, vistosa e riconoscibile, quasi esibita nella descrizione di questa salita lungo un bosco seguendo il percorso di una condotta d’acqua. Tra gli oggetti da lavoro ( “plastiche, pece, tondino, lattine”) lasciati da operai che credevano di ritornare “e invece non sono tornati” improvvisamente compare il verso del “Canto notturno” leopardiano: “e m’ingombrava un fastidio la mente”, ma non più motivato dal desiderio di conoscere il segreto degli spazi eterni e sovrumani, di quella luna immortale a cui si chiede spiegazione del vivere umano e del suo senso.
    I padiglioni del mondo non ci rivelano nulla, sono infiniti solo in sogno, non c’è più da cercare alcunchè di metafisico: “Paradiso non c’è e tu non crederci” né ha alcun senso ormai interrogare gli alberi, il mare, una natura che di leopardiano conserva solo la forza primitiva e distruttiva di un moto inesorabile e meccanico, ben presente in altri testi di Fortini come, per esempio, ne “Il mulino della Foresta Nera”, dove la ruota del mulino dismesso gira inesorabile, testimone silenziosa di un passaggio di generazioni che si sono consumate senza senso
    (“Vecchiaia caduta in infanzia, /vita che torna a miniera, /la ruota morta non sa/ che è verità necessaria
    qui dove i cuori fermi nell’aria /secolare domandano pietà/e senso a schegge di crani di servi,/a capi molli di fantolini”).
    Questo verso leopardiano sembra essere ancora traccia vistosa di quella “tentazione di poeticità” di cui parla Pasolini, nella linea di una tradizione espressiva nobile e borghese cui cede la poesia di Fortini.
    Ma al tempo stesso mi sembra ben rappresentata in questi versi l’altra linea evidenziata da Pasolini in conflitto con la precedente, quella della “resistenza contro la poeticità”, testimoniata dalla presenza di versi variamente combinati ma irregolari, spesso basati sulla compresenza di senari, settenari, novenari o endecasillabi che si alternano irregolarmente e che creano versi lunghi, inconsueti proprio perché spesso accostati a formare misure nuove; ed anche, su questa linea, la presenza di numerosi termini sdruccioli che chiudono il componimento, a rifiuto di quell’indulgere alla regolarità e musicalità leopardiana appena affiorata e subito respinta: “ultimi”, “sgretola”, “recalcitra”, “ansimo”, o, per concludere, la parola tronca “utilità”.
    E questa “utilità” è ancora l’ultima spinta all’unico gesto che può suggellare questo rifiuto della suggestione musicale e dell’indagine sul mondo “alla maniera di” Leopardi: prosaicamente, ironicamente, l’autoinvito del poeta a se stesso: “pensa al ritorno per cena” che conclude il testo.

    Ancora una volta la pagina de l’Ombra ha fornito spunti preziosi e arricchimenti alla mia comprensione e conoscenza della poesia italiana.

  8. gino rago

    Ripesco dal mio archivio questo contributo, a suo tempo concordato con Giorgio Linguaglossa agli esordi de L’Ombra delle Parole, su una possibile ri-lettura del Novecento poetico italiano, sollecitato a farlo sia dalle riflessioni di Giorgio stesso su Fortini, sia dalla lettera montaliana, sia e soprattutto direi
    dal dotto e competente commento di Rossana Levati.

    La poesia italiana del ‘900 – Da rileggere?
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/18/franco-fortini-1917-1994-poesie-da-lospite-ingrato-1986-e-una-poesia-da-composita-solvantur-1994-dallimpegno-alla-fine-della-poesia-impegnata-dagli-anni-sessanta-agli-ottanta-commento-di/comment-page-1/#comment-28781
    a cura di Gino Rago

    Siamo abbondantemente oltre i tre lustri del XXI Secolo. Per chi è nel regno
    della poesia come autore di versi, come critico letterario, come interprete,
    o anche semplicemente come lettore/amante della lirica contemporanea,
    è inevitabile che si ponga alcune domande, tutt’altro che oziose.
    – Cosa davvero sappiamo, che pensiamo ormai della poesia italiana del ‘900?
    – Le polemiche, i dibattiti, perfino gli scontri degli anni sessanta e settanta
    del secolo scorso sono ancora vivi o appartengono a un’epoca remota?
    – Nei nostri giorni sono immaginabili o appaiono impossibili?
    – La lingua degli ideologi (Sanguineti – Fortini – Pasolini) di quelle stagioni
    letterarie oggi è ancora traducibile?
    – Nelle Università italiane “ sulla poesia “ si tengono corsi, si assegnano
    tesi di laurea, si organizzano convegni?
    Forse sì. Ma se avviene, si tratta di eventi rari, di eccezioni.

    Eppure, alla presenza di alcuni critici letterari (Galaverni, Ferroni, Luperini,
    Berardinelli) e di alcuni poeti ( Valduga, Carpi, Anedda , Cavalli )
    a Berlino, all’Istituto Italiano di Cultura, tre giorni ( di conferenze, seminari
    e letture di testi critici e poetici ) sono stati dedicati alla nostra poesia
    dagl’inizi del Novecento a oggi.

    I risultati più importanti? Eccoli, in breve sintesi:
    La poesia italiana di tutto il Novecento andrebbe riletta; ( anche sulla poesia
    di questi anni non sono mancati e non mancano disaccordi).
    Dell’ermetismo, sia di quello eminentemente legato alla “poetica
    della parola” (Bigongiari-Luzi- Parronchi), sia di quello “mediterraneo”
    (Gatto, Bodini, Quasimodo, De Libero, Sinisgalli) non si parla più. Ungaretti
    vale soprattutto per la sua prima stagione lirica. Luzi resta interessante
    ma soltanto se letto accanto ai suoi coetanei Bertolucci – Caproni – Sereni .
    I quali, secondo alcuni, (e qui il giudizio si lega alle metodologie critiche),
    superano in valori poetici i leggermente più giovani Zanzotto e Pasolini.

    Il primato di Saba e Montale resta indiscusso.
    Sperimentalismo, impegno, avanguardia, formalismo sono esperienze
    e termini fuori corso. Giovanni Giudici, considerato il vero erede di
    Gozzano ( e Saba ) sembra quasi dimenticato. La neoavanguardia degli
    Anni ’60 è considerata come una costruzione soprattutto ideologica.
    Sandro Penna con Amelia Rosselli hanno più di altri influenzato le nuove
    generazioni.
    Non Marinetti (poeta-vate elettrizzato) ma Campana – Rebora – Sbarbaro
    sono stati i veri poeti moderni della poesia italiana del Novecento.
    Il “Postmoderno”? Su proposta di Alfonso Berardinelli, tutti l’hanno
    definito e adottato come <>.

    Un sentito ringraziamento da parte di tutti è da rivolgere ad Angelo Bolaffi
    (direttore dell’Ist. Cultura Italiana di Berlino) e alla Literaturwerkstatt berlinese.

    (a cura di ) Gino Rago

    • Rossana Levati

      Ringrazio Gino Rago per le preziose riflessioni sulla poesia italiana del Novecento e per l’ampiezza delle questioni che propone.
      La mia esperienza all’Università è ormai piuttosto lontana e non aggiornata; sono quasi passati trent’anni da quando in due corsi universitari ebbi la fortuna (grazie agli ottimi docenti dell’Università di Torino, Gian Luigi Beccaria e Angelo Jacomuzzi) di apprendere Caproni e il Montale del dopo-Satura; questi per altro furono gli unici due corsi destinati alla poesia italiana del Novecento nella durata quadriennale del mio corso di laurea.
      Più ricca e non ancora conclusa la mia esperienza di docente nelle scuole superiori italiane. Appena uscita dall’Università, nella mia prima classe ginnasiale affrontai subito Caproni: ero l’unica in quegli anni, ma nonostante il trascorrere dei decenni sono rimasta la sola. E benchè a volte il ministero spinga verso questi autori più recenti e rappresentativi del Novecento, nelle aule italiane ancora ci si accanisce nel presentare Carducci; troppo spesso molti docenti ripropongono i modelli di un insegnamento ricevuto trenta – quarant’anni fa; si arriva a proporre Montale, Saba e pochi altri poeti del Novecento quasi sempre a Maggio.
      Che Caproni fosse soggetto di una delle tracce dell’esame di maturità dello scorso anno sembra ai più una bizzarrìa ministeriale, o peggio uno spiacevole incidente, che molti si augurano non venga ripetuto. Caproni rimane nelle scuole italiane quasi sempre uno sconosciuto anche per la maggior parte di chi avrebbe il compito di spiegarlo agli alunni.
      Del resto le antologie scolastiche non aiutano granchè nella scelta o nella proposta di nuovi testi : tutte uguali, con gli stessi testi che si rincorrono da una all’altra: di Caproni per esempio sono entrate in quasi tutti i testi del biennio alcune poesie dedicate alla madre tratte da “Il seme del piangere”; ma non pensiamo di poter mai trovare la splendida “Ad portam Inferi”, su nessuna antologia scolastica. Né alcun testo da altre successive raccolte, tranne due: “Le stanze della funicolare” e “Il congedo del viaggiatore cerimonioso”.
      Lo stesso discorso vale per Saba: sempre i soliti testi, mai nessuna antologia che proponga per esempio una scelta da “Il piccolo Berto”.
      Così, se si vuole proporre qualche testo nuovo agli studenti, che esca dal circuito dei testi più noti (sempre quelli) bisogna “farcire” gli alunni di fotocopie o postare sul sito d’Istituto e sulle pagine dedicate alla didattica i propri percorsi; raramente questi testi tuttavia verranno richiesti dai commissari d’esame che spesso li ignorano.
      Quasi nessuno dei nomi proposti dall’ampia riflessione di Gino Rago è presente nelle scuole italiane, e men che mai nessuna delle linee critiche e delle questioni interpretative da lui proposte è affrontata.
      Purtroppo molto c’è da fare, a tutti i livelli, per un aggiornamento significativo della conoscenza della poesia italiana. Sarebbe già tanto poter contare su qualche libro non scopiazzato pedestremente ma veramente organizzato con buon senso critico e con scelte nuove, coraggiose e complete degli autori e dei movimenti più significativi del Novecento, ma onestamente non ne vedo tra le pur numerose e ormai incessanti proposte che invadono le nostre scuole, anzi presentate dagli editori come “l’ultima novità”, la “più aggiornata e completa antologia” curata da ottimi intenditori e invece, alla prima apertura di pagina, sempre ingloriosamente tutte uguali…

      • gentile Rossana Levati

        Le sarei grato se volesse darci lei una selezione di testi di Giorgio Caproni per l’Ombra con una sua presentazione critica, la potremmo pubblicare.

        Per quanto riguarda le “linee” della poesia italiana che, come ci informa Gino Rago, sono venute fuori nel Convegno di berlino a cura di Angelo Bolaffi, e cioè la
        https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/18/franco-fortini-1917-1994-poesie-da-lospite-ingrato-1986-e-una-poesia-da-composita-solvantur-1994-dallimpegno-alla-fine-della-poesia-impegnata-dagli-anni-sessanta-agli-ottanta-commento-di/comment-page-1/#comment-28806
        «“poetica della parola” (Bigongiari-Luzi- Parronchi), sia di quello “mediterraneo” (Gatto, Bodini, Quasimodo, De Libero, Sinisgalli) non si parla più. Ungaretti vale soprattutto per la sua prima stagione lirica. Luzi resta interessante ma soltanto se letto accanto ai suoi coetanei Bertolucci – Caproni – Sereni»

        credo che queste riproposizioni abbiamo il sapore un po’ retrò di una variante tattica all’interno, mi chiedo, di quale Canone? (se è ancora lecito usare questa parola). Mi chiedo: esiste un Canone del Novecento? La mia sensazione è che rimaniamo ancora fermi alla formula delle linee dicotomiche di Gianfranco Contini: «linea innica» (Campana) e «linea elegiaca» (Montale).

        Credo che bisognerebbe utilizzare altre categorie (estranee alla critica accademica italiana) quelle del discorso poetico e della forma-poesia. Alla luce di queste nuove e diverse categorie cambierebbe la mappa della poesia italiana del novecento (primo e secondo), si potrebbe tracciare una Linea che va da Gli aborti di Govoni (1905) passando per L’incendiario (1907) di Palazzeschi per giungere, nel dopo guerra, a Ennio Flaiano. A.M. Ripellino, Helle Busacca, Maria Rosaria Madonna fino a giungere ai poeti della «nuova ontologia estetica», saltando di netto i poeti della tradizione centrista, diciamo così. Ma, mi chiedo, è poi mai esistita una tradizione «centrista»? E ha senso parlare di una tradizione «centrista» senza fare riferimento alle «Ali» che stanno a destra e a sinistra del «Centro»? E mi chiedo: che cosa hanno in comune poeti come Pasolini e Zanzotto? La mia risposta è nulla di nulla, Le ceneri di Gramsci (1956) non hanno nulla in comune con Trasumanar e organizzar (1971), e Pasolini non ha nulla in comune con Zanzotto. Vogliamo dirlo? Vogliamo dire che la visione «centrista» della poesia italiana non è mai esistita? Che è una invenzione di critici miopi e timidi? Che occorrono altre categorie ermeneutiche per comprendere la migliore poesia di queste ultime decadi?

        • Rossana Levati

          Ringrazio Giorgio Linguaglossa per la proposta di fornire una selezione e un commento di testi di Caproni che accetto volentieri; tuttavia non potrò fornirla nell’immediato ma avrò bisogno di un po’ di tempo…

  9. cari amici e interlocutori,
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/18/franco-fortini-1917-1994-poesie-da-lospite-ingrato-1986-e-una-poesia-da-composita-solvantur-1994-dallimpegno-alla-fine-della-poesia-impegnata-dagli-anni-sessanta-agli-ottanta-commento-di/comment-page-1/#comment-28782
    io proporrei di chiedere ai poeti invitati di scrivere una dichiarazione di intenti (tralasciamo la parola poetica, ormai usurata e fuorviante…) così apparirà chiaro ai lettori della rivista il livello intellettuale degli autori invitati.

    Anche moltiplicando per 100 gli incontri e i seminari sullo stato della critica della poesia, vorrei dire ad Angelo Bolaffi direttore dell’Ist. Cultura Italiana di Berlino e della Literaturwerkstatt berlinese, che non si verrebbe a capo di nulla, ormai quelle che si veicolano oggi sono scritture che hanno solo una apparenza di “critica”, in realtà sono mere considerazioni augurali nel migliore dei casi o di accompagnamento dell’autore… nulla di serio, anzi direi che lo spettacolo è piuttosto faceto per non dire di drammatica ipocrisia generale. Per avere una idea della critica che va oggi di moda, basta gettare un’occhiata a quelle schedine che si stilano negli uffici stampa degli editori a maggiore diffusione che profumano d’incenso e di mirra…

  10. Pingback: Franco Fortini (1917-1994) POESIE da L’ospite ingrato 1986 e una poesia da Composita solvantur (1994) – Dall’impegno alla fine della poesia impegnata: dagli anni Sessanta agli Ottanta – Commento di Giorgio Linguaglossa | SESTOSENSO

  11. Ho saputo per caso che nel 2017 il vincitore del premio Raiziss/de Palchi di 25,000 dollari per la traduzione inedita di un poeta italiano e indetto dalla Acdademy of American Poets, è il traduttore, a me ignoto perfino di nome e cognome, delle poesie di Franco Fortini.

    ad

  12. Prendiamo una poesia di nuovo genere, diciamo una poesia della «nuova ontologia estetica», una poesia di Mario Gabriele, tratta dal suo ultimo libro, In viaggio con Godot (Roma, Progetto Cultura, 2017).

    Propongo delle considerazioni che improvviso qui che non vogliono avere il carattere di una critica esaustiva ma di offrire indizi per una lettura. Analizzo i primi quattro versi.
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/18/franco-fortini-1917-1994-poesie-da-lospite-ingrato-1986-e-una-poesia-da-composita-solvantur-1994-dallimpegno-alla-fine-della-poesia-impegnata-dagli-anni-sessanta-agli-ottanta-commento-di/comment-page-1/#comment-28803

    Gli enunciati della poesia hanno una informazione cognitiva ma sono privi di nesso referenziale, hanno però una rifrazione emotiva pur essendo del tutto privi di alone simbolico. Ci emozionano senza darci alcuna informazione completa. Ci chiediamo: come è possibile ciò? Analizziamo alcune frasi. Nel verso di apertura si dice che «il tempo mise in allarme le allodole». Qui Gabriele impiega una procedura antifrastica, le «allodole» sono in allarme non per qualche evento definito ma per un evento indefinito e impalpabile, è «Il tempo» qui l’agente principale che mette in moto il procedimento frastico, infatti il secondo verso ci informa che «Caddero èmbrici e foglie», il che è un paradosso linguistico perché non c’è alcuna connessione logica tra «embrici» e «foglie», e non c’è neanche alcuna connessione razionale, si tratta evidentemente di un enunciato meramente connotativo che ha risonanza emotiva ma non simbolica, anzi, l’enunciato ha lo scopo di evitare del tutto qualsiasi risonanza simbolica, lascia il lettore, diciamo, freddo, distaccato e sorpreso. Nella poesia di Mario Gabriele gli enunciati sono sempre posti in un modo tale da sconvolgere le aspettative di attesa del lettore. È questa la sua grande novità stilistica e procedurale. Il lettore viene sviato e sopreso ad ogni verso. Una procedura che presenta difficoltà ingentissime che farebbero scivolare qualsiasi altro poeta ma non Mario Gabriele.

    Infatti, il terzo verso introduce subito una deviazione: «Più volte suonò il postino a casa di Hendrius», il che ci meraviglia per l’assenza di colluttorio con i due versi precedenti: non c’entra nulla «il postino» con la questione delle «allodole» «in allarme». Però, in verità, un nesso ci deve essere se il poeta mette quell’enunciato proprio nel terzo verso e non nel quarto o quinto o sesto. Nella poesia di Gabriele nulla è dovuto al caso, perché nulla lui deve al lettore: il suo tema è atematico, il suo è un tema libero che adotta dei frammenti e delle citazioni vuote, svuotate di contenuto, sia di significato sia di verità. non si dà nessun contenuto di verità negli enunciati di Mario Gabriele, al contrario dei poeti che si rifanno ad una ontologia stilistica che presuppone un contenuto di verità purchessia e comunque. Nella sua ontologia estetica non si dà alcun contenuto di verità ma soltanto un contenuto ideativo. la traccia psichica che lasciano gli enunciati di una poesia di Mario Gabriele è una mera abreazione, libera una energia psichica senza confezionare alcuna energia simbolica (diciamo e ripetiamo: come nella vecchia ontologia estetica che ha dominato il secondo novecento italiano).

    L’enunciato che occupa il quarto verso recita: «senza la sirena e il cane Wolf». Qui siamo, ancora una volta dinanzi ad una deviazione, ad uno shifter. Anche qui si danno due simboli de-simbolizzati: «la sirena» e il «cane Wolf», tra questi due lemmi non c’è alcun legame inferenziale ma soltanto sintattico stilistico e sono messi al posto numero 4 della composizione proprio per distrarre il lettore e distoglierlo dal vero fulcro della composizione. Ma, chiediamoci, c’è davvero un fulcro della composizione? La risposta è semplice: nella poesia di Mario Gabriele non si dà MAI alcun centro (simbolico), la poesia è SEMPRE scentrata, eccentrica, ultronea, abnormata.

    43

    Il tempo mise in allarme le allodole.
    Caddero èmbrici e foglie.
    Più volte suonò il postino a casa di Hendrius
    senza la sirena e il cane Wolf.

    Un Giudice si fece largo tra la folla,
    lesse i Codici, pronunciando la sentenza.
    – Non c’è salvezza per nessuno,
    né per la rosa, né per la viola -,
    concluse il dicitore alla fine del processo.

    Matius oltrepassò il fiume Joaquin
    mantenendo la promessa,
    poi salì sul monte Annapurna
    a guardare la tempesta.

    Un concertista si fece avanti
    suonando l’Inverno di Vivaldi,
    spandendo l’ombra sopra i girasoli.

    Appassì il campo germinato.
    Tornarono mattino e sera
    sulle città dell’anima.
    Suor Angelina rese omaggio ad Aprile
    tornato con le rondini sul davanzale.
    Restare a casa la sera,
    calda o fresca che sia la stanza,
    è trascorrere le ore in un battito d’ala.

    Si spopolò il borgo.
    Pianse il geranio la fine dei suoi giorni.
    Fummo un solo pensiero e un’unica radice.
    Chi andò oltre l’arcobaleno
    portò via l’anima imperfetta.

    Nostra fu la sera discesa dal monte
    a zittire il fischio delle serpi,
    il canto dei balestrucci.

    Chiamammo Virginia
    perché allontanasse i cani
    dagli ulivi impauriti.

    Robert non lesse più Genesi 2 Samuele,
    e a durare ora sono le cuspidi al mattino,
    la frusta che schiocca e s’attorciglia.

    • Caro Giorgio,
      https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/18/franco-fortini-1917-1994-poesie-da-lospite-ingrato-1986-e-una-poesia-da-composita-solvantur-1994-dallimpegno-alla-fine-della-poesia-impegnata-dagli-anni-sessanta-agli-ottanta-commento-di/comment-page-1/#comment-28805
      leggo con piacere la tua esegesi su un mio testo poetico nel quale esamini con il bisturi di un anatomopatologo, la cellula endogena che dà corpo alla parola. Nessun critico si è mai avvicinato così alla mia poesia, che ebbi modo di esternare, (se ricordi bene) nella tua intervista con la quale si centralizzavano tematiche a vasto raggio sullo statuto del frammento in poesia, ma anche su alcuni temi poetici e filosofici, non sempre recepiti dai lettori. come colloquio culturale, e per questo bisognoso di più attenzione. In una delle tue domande riconosci che i personaggi delle mie poesie sono “gli equivalenti dei quasi.morti, immersi, gli uni e gli altri, in una contestura dove il casuale e l’effimero sono le categorie dello spirito”.Altrove, e sempre sulle pagine di questo Blog, ho sintetizzato il mio modo di fare poesia. Ricordo un pensiero di Claudio Magris su un lavoro di Barbara Spinelli, quando disse che era arrivato il tempo per il poeta di togliere la scala sulle spalle per salire tutte le volte al cielo, affrontando invece le “cose” terrene. Indagine questa che ho nel mio lavoro accentrato sempre di più, avvicinandomi al pensiero di Eliot nella concezione della poesia come “una unità vivente di tutte le poesie che sono state scritte, e cioè la voce dei vivi nell’espressione dei morti”. E qui mi sembra di non essere un caso isolato, se anche Melanie Klein, famosa psicoanalista, preleva la matrice luttuosa nella rimemorazione di persone e cose perdute per sempre. Se ci distacchiamo da questa realtà effimera, se cerchiamo l’hobby o la movida non riusciamo più ad essere e a riconoscerci soggetti-oggetti di una realtà in continua frammentazione.Ecco quindi la giustificazione di una poesia che racchiude in se stessa le caratteristiche di tipo “scentrato” “eccentrico” “atetico” non “apofantico” “plruritonico” e “varioritmico: termini che riprendo dalla tua versione introduttiva da “In viaggio con Godot”. Spiegare al lettore il sottofondo di una poesia, credo che sia il miglior dono che gli si possa fare, senza cadere, tutte le volte che appare un tuo commento sui miei testi, come un surplus critico. La tua è la ragione stessa di essere interprete o guida estetica, cosa, che a dire il vero, si è nebulizzata da tempo da parte della vecchia guardia critica. Con un sincero ringraziamento e cordialità.

  13. E’ una bella risposta ,questa del Poeta, alle domande che scaturiscono dalla lettura dei suoi versi. Alla luce di queste motivazioni anche il lettore meno impegnato riesce a respirare l’alito nuovo seppure inusuale di questo fare versi.
    Edda Conte

  14. https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/18/franco-fortini-1917-1994-poesie-da-lospite-ingrato-1986-e-una-poesia-da-composita-solvantur-1994-dallimpegno-alla-fine-della-poesia-impegnata-dagli-anni-sessanta-agli-ottanta-commento-di/comment-page-1/#comment-28808
    la nuova ontologia estetica ha sempre a che fare con un nuovo modo di intendere la «cosa», essendo la «cosa» abitata da una aporia originaria che noi esperiamo nell’arte come «cosa» rivissuta ma non facente parte del presente come figura del tempo. È un nuovo modo, con una nuova sensibilità, di intendere l’arte di oggi. Ecco perché per analizzare una poesia della nuova ontologia estetica bisogna fare uso di un diverso apparato categoriale rispetto a quello che usavamo, che so, per spiegare una poesia di Montale o di Caproni… di qui l’oggettiva difficoltà dei letterati abituati alla vecchia ontologia, essi, educati a quella antica ontologia non riescono a percepire che è cambiata l’atmosfera del pianeta «parola»…
    In fin dei conti l’aporia della cosa ha a che fare con l’aporia della comunicazione estetica…

  15. gino rago

    1) “Povero colui, che solo a metà vivo / l’elemosina chiede alla sua ombra.”
    O. E. MANDEL’ŠTAM

    2) “Sappiate che non mi portate via da nessun luogo, che sono già portata via da tutti i luoghi – e da me stessa – verso uno solo al quale non arriverò
    mai (…) sono nata portata (…)”
    Marina Cvetaeva

    3) “Il marinaio” di Pessoa. Il protagonista di questo dramma forse non abbastanza noto è un marinaio, un marinaio che all’improvviso naufraga su un’isola sperduta. Il marinaio di Pessoa sa che non ha alcuna possibilità
    di fare ritorno in patria. Ma egli ne ha un disperato bisogno e allora…

    4) “I Deva mi danno una risposta/ (…) mi spiegano che lo spirito è sempre/
    anche nella materia./ Perfino nei sassi/ e nei metalli…”
    Giacinto Scelsi

    Ecco le grandi 4 coordinate dei miei versi recenti, dal ciclo troiano a Lilith,
    passando per gli stracci, i cascami, gli scampoli, le intelaiature della Storia.

    Gino Rago

  16. gino rago

    Brano tratto da “Il marinaio” di Fernando Pessoa

    ” (…) Poiché non aveva modo di tornare in patria, e soffriva troppo ogni volta che il ricordo di essa lo assaliva, si mise a sognare una patria che non aveva mai avuto, si mise a creare un’altra patria come fosse stata sua.
    (…) Ora per ora egli costruiva in sogno questa falsa patria, e non smetteva mai di sognare (…)
    (…) sdraiato sulla spiaggia, senza badare alle stelle. […]

    GR

  17. caro Gino,
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/18/franco-fortini-1917-1994-poesie-da-lospite-ingrato-1986-e-una-poesia-da-composita-solvantur-1994-dallimpegno-alla-fine-della-poesia-impegnata-dagli-anni-sessanta-agli-ottanta-commento-di/comment-page-1/#comment-28827
    questa idea di una poesia fatta con gli scampoli, gli stracci, i rottami, i frantumi etc. è una idea, mi sembra, nuova per la poesia italiana, penso che bisogna lavorare su questo, impegnarsi. Con gli stracci si può confezionare un’ottima poesia. E’ una idea della nuova ontologia estetica, una delle tante messe in campo. A mio parere, in questo tipo di poesia ci rientra benissimo la poesia di Lucio Mayoor Tosi, lui è un capofila, un capotreno.

    Per tornare alla lettera “interna” che Fortini indirizza alla redazione di “Officina” di Pasolini, Leonetti e Roversi, a mio avviso qui Fortini dimostra una grande lucidità intellettuale nell’individuare il “lato debole” della posizione della rivista. Leggiamolo:

    «Questo problema dell’eredità è di grandissimo momento perché molto probabilmente può condurci a riconoscere l’inesistenza di una eredità propriamente italiana, in seguito alle fratture storiche subite dal nostro paese; ovvero al riconoscimento di antenati quasi simbolici, appartenenti di fatto a tutte le eredità europee». «Nell’odierna situazione, credo che le postulazioni fondamentali di “Officina” – agire per un rinnovamento della poesia sulla base di un rinnovamento dei contenuti, il quale a sua volta non può essere se non un rinnovamento della cultura – con i suoi corollari di civile costume letterario, di polemica contro la purezza come contro l’engagement primario ecc. – siano insufficienti e persino auto consolatorie. Rappresentano il “minimo vitale”, cioè un minimo di dignità mentale, di fronte alla vecchia letteratura –

    E adesso pongo una domanda ai lettori e alla redazione: qual è a vostro parere il “lato debole” (uno ce ne sarà, penso) della rivista L’Ombra delle Parole?

    • Cara Donatella,
      https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/18/franco-fortini-1917-1994-poesie-da-lospite-ingrato-1986-e-una-poesia-da-composita-solvantur-1994-dallimpegno-alla-fine-della-poesia-impegnata-dagli-anni-sessanta-agli-ottanta-commento-di/comment-page-1/#comment-28840
      sempre se ho interpretato bene, e il lato debole non si configuri in un deficit limitato della Rivista come impianto organizzativo, mi soffermerei sul “pensiero debole” di Vattimo, come proposizione alternativa alla metafisica e ai Soggetti Forti quali Dio e L’Essere.Qui vorrei soffermarmi sul pensiero debole della Rivista,che cerca e tenta di tornare a un concetto di poesia, funzionale ad una nuova ontologia estetica, rispetto al vecchio clichè poetico del Novecento, sostituendolo con un nuovo cambio di pagina, attraverso il pensiero poetante. Uscire dalla poesia istituzionale e omologata, significa, proporsi come soggetto nuovo, proprio come si formalizza oggi la NOE, abbandonati gli schemi e le fluttuazioni estetiche del secolo scorso. Una volta depotenziata questa categoria, inattuale di fronte al mondo che cambia in biotecnologie e scienze varie, l’essere-parola o lingua, ricostruttiva e risanatrice, diventa una urgenza non prorogabile, come l’unico modo per superare il postmoderno e il postmetafisico. Qui converrà articolarsi su ciò che da tempo va affermando Giorgio Linguaglossa su l’Ombra delle parole, che solo istituendo una poesia fondante su un nuovo Essere, verbale e stilistico, depotenziando il pensiero forte, si possa istituire un nuovo valore linguistico, inattivando le succursali poetiche e linguistiche resistenti sul nostro territorio, attaccando le categorie su cui si sono consolidate le modalità più resistenti della Tradizione, al fine di progettare un nuovo percorso che sia di indebolimento dei fondamenti poetici del passato.

    • Copio dal Gruppo La scialuppa di Pegaso la risposta di Gabriele Pepe alla mia domanda:
      Qual è, a vostro avviso, il “lato debole” della rivista L’Ombra delle Parole?

      La rivista soffre degli stessi problemi di cui soffrono tutte (quelle serie) riviste, blog et simili sulla rete. La velocità. Tutto scorre velocemente, troppo velocemente. Ogni cosa alla finne annega nel mare infinito del web. Mi permetto dei piccoli consigli:
      1) Lasciare i post il tempo necessario per poter essere “compresi” e dibattuti in modo esauriente, o quasi. Quindi postare meno, postare più a lungo.
      2) Lasciare traccia visibile di tutti gli autori ospitati, dibattuti, approfonditi, magari con un database in ordine alfabetico. Stessa cosa per argomenti, critiche, storia ecc. Mettere un motore di ricerca interno.
      Aggiungo che, a volte, ma è assolutamente normale e ampiamente comprensibile, pecca un po’ di troppa autoreferenzialità, soprattutto quando vorrebbe far intendere che oggi l’unico modo di scrivere poesie deve essere alla NOE, tutto il resto è fuori dalcontemporaneo. Ovviamente, per quel che conta, non sono d’accordo, anzi… 🙂 Cmq, non per fare il cerchiobottista, non finirò mai di ringraziare tutta la “cricca” 🙂 dell’Ombra per l’enorme lavoro, il coraggio di certe proposte, l’incredibile varietà di autori ed argomenti trattati sempre di livello superiore.
      Vi ringrazio infinitamente. Seguendo, per quel che posso, la rivista, credo di aver accresciuto i miei orizzonti non solo poetici.
      Grazie!

  18. Il lato debole della nuova ontologia estetica

    Credo che la domanda di Donatella Costantina Giancaspero sia una domanda centrale alla quale bisognerà rispondere. Cercherò di essere semplice e diretto e di mettere il dito nella piaga.
    Vado subito al punto centrale.
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/18/franco-fortini-1917-1994-poesie-da-lospite-ingrato-1986-e-una-poesia-da-composita-solvantur-1994-dallimpegno-alla-fine-della-poesia-impegnata-dagli-anni-sessanta-agli-ottanta-commento-di/comment-page-1/#comment-28842
    A mio avviso, il punto centrale è che dagli anni settanta del novecento ad oggi la poesia italiana del novecento è stata una poesia della «comunicazione». Tutta la poesia che è venuta dopo la generazione dei Fortini, dei Pasolini, dei Caproni è fondata sull’appiattimento della forma-poesia sul livello della «comunicazione»; si è pensato e scritto una poesia della comunicazione dell’immediato, si è pensato ingenuamente che la poesia fosse un immediato, e quindi avesse un quantum di comunicabile in sé, che la poesia fosse «l’impronta digitale» (dizione rivelatrice di Magrelli) di chi la scrive. Il risultato è che i poeti venuti dopo quella generazione d’argento, la generazione di bronzo: i Dario Bellezza, i Cucchi, Le Lamarque, i Giuseppe Conte… fino agli ultimissimi esponenti della poesia «corporale»: Livia Chandra Candiani, Mariangela Gualtieri e ai minimalisti romani: Zeichen e Magrelli (ed epigoni), tutta questa «poesia» è fondata sulla presupposizione della comunicabilità e comprensibilità della poesia al più grande numero di persone del «quantum» di comunicabile.

    È chiaro che la posizione dell’Ombra delle Parole si muove in una direzione diametralmente opposta a quella seguita dalla poesia italiana del tardo novecento e di quella del nuovo secolo. Da questo punto di vista non ci possono essere vie di mezzo, o si sta dalla parte di una poesia della «comunicazione» o si sta dalla parte di una «nuova ontologia estetica» che contempla al primo punto il concetto di una poesia che non ha niente a che vedere con la «comunicazione».

    È questo, sicuramente, un elemento oggettivo di debolezza della nuova ontologia estetica perché abbiamo di fronte un Leviathano di circa cinquanta anni di stallo, per cinquanta anni si è scritta una poesia della comunicazione, forse nella convinzione di recuperare in questo modo la perdita dei lettori che in questi decenni ha colpito la poesia italiana. Il risultato è stato invece il progressivo impoverimento della poesia italiana. Credo che su questo non ci possano essere dubbi.

    Penso che al di là di singole teorizzazioni e di singoli brillanti risultati poetici raggiunti dagli autori che si riconoscono nella nuova ontologia estetica, questo sia il vero «lato debole» della nostra «piattaforma», un’oggettiva debolezza che scaturisce dai rapporti di forze in campo: da una parte la stragrande maggioranza della poesia istituzionale (che detiene le sedi delle maggiori case editrici, i quotidiani, le emittenti televisive, i premi letterari etc.), dall’altra la nostra proposta (che non può fare riferimento a grandi case editrici e all’aiuto dei mezzi di comunicazione di massa). Anche perché il successo delle proposte di poetica nuove passa sempre per la sconfitta della poesia tradizionale, la storia letteraria la determinano i rapporti di forza, non certo le capacità letterarie dei singoli.

    Per tornare alla questione poesia, penso che questo articolo sul rapporto Montale Fortini sia di estremo interesse perché mostra la grandissima acutezza del Montale nel mettere a fuoco il problema che affliggeva la poesia di Fortini. Montale mette il dito nella piaga, e Fortini lo riconosce. Siamo nel 1951, già allora la poesia italiana era immobilizzata da tendenze «religiose» (un eufemismo di Montale per non dire “ideologiche”) che avrebbero frenato l’evoluzione poetica della poesia di Fortini… quelle tendenze che in seguito, negli anni ottanta, sarebbero diventate a-ideologiche, ovvero si sarebbero invertite di segno, per poi assumere, durante gli anni novanta e negli anni dieci del nuovo secolo, forme di disarmo intellettuale e di disillusione, forme istrioniche…

    In quella lettera di Montale si può leggere, in filigrana e in miniatura, l’ulteriore cammino che farà nei decenni successivi la claudicante poesia italiana del tardo novecento, con la sua incapacità di rinnovarsi su un piano «alto». Insomma, diciamolo netto e crudo, nessun poeta italiano interverrà più, dalla metà degli anni settanta ad oggi, a mettere il dito nella piaga purulenta… ci si accontenterà di salvare il salvabile, di pronunciare campagne di acquisizione sul libero mercato di frange di epigoni, campagne auto pubblicitarie, si lanceranno petizioni di poetica e di anti-poetica a scopi pubblicitari e auto commemorativi…
    E arriviamo ai giorni nostri…

  19. Caro Giorgio,
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/18/franco-fortini-1917-1994-poesie-da-lospite-ingrato-1986-e-una-poesia-da-composita-solvantur-1994-dallimpegno-alla-fine-della-poesia-impegnata-dagli-anni-sessanta-agli-ottanta-commento-di/comment-page-1/#comment-28844
    già mi inorgoglivo nel sentirmi nel ruolo di “commilitone”(parola ganzissima,che non potrò dimenticare),quando il tuo pessimismo che afferma”la storia letteraria la determinano i rapporti di forza,non certo le capacità letterarie dei singoli”mi riporta alla realtà più cruda,che mi rifiuto di accettare.Credo che siano le capacità letterarie dei singoli,se bene organizzate in un gruppo serio, a dare il colpo d’ala ad ogni stagnazione.Saluti dalle truppe cammellate,pronte a uscire dalle oasi più remote,a difesa delle patrie lettere.

  20. Estrapolo un pensiero di Steven Grieco Rathgeb da un suo saggio che posterò nei prossimi giorni:
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/18/franco-fortini-1917-1994-poesie-da-lospite-ingrato-1986-e-una-poesia-da-composita-solvantur-1994-dallimpegno-alla-fine-della-poesia-impegnata-dagli-anni-sessanta-agli-ottanta-commento-di/comment-page-1/#comment-28845
    (Sia detto di passaggio che dopo il grande crollo della poesia e della letteratura avvenuto nel secondo Novecento, l’unica analisi di un testo ’letterario’ che oggi riesce pienamente a soddisfare il lettore è quella di un nuovo, inesplorato metodo critico-creativo: quello che non fa una parafrasi del testo, né l’analizza con gli strumenti critici del passato ormai inservibili, ma invece si serve del testo (e anche rende servizio al testo!) per aprire nuove prospettive, nuove ardite immaginazioni, quasi fosse un testo creativo già di per sé. Un metodo spesso adottato da Giorgio Linguaglossa, ad es.)

  21. Estrapolo un pensiero di Paolo Valesio da un suo saggio apparso in questa rivista sulla poesia di Emilio Villa
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/18/franco-fortini-1917-1994-poesie-da-lospite-ingrato-1986-e-una-poesia-da-composita-solvantur-1994-dallimpegno-alla-fine-della-poesia-impegnata-dagli-anni-sessanta-agli-ottanta-commento-di/comment-page-1/#comment-28847
    Parrebbe un’ovvietà, che ogni convegno o libro collettivo o simili (si tratti di critici letterari o di, per esempio, uomini politici) sia fondato sull’idea di un confronto critico fra valutazioni e posizioni diverse. E invece questa ovvietà – come tante altre – è tutt’altro che ovvia. In effetti, la difficoltà di trovare un‘autentica divergenza di posizioni tra i critici letterari che si occupano di un dato autore – la difficoltà di trovare dentro il coro almeno un critico o una critica a cui quell’autore “non piace” (uso quest’espressione semplicistica come abbreviazione approssimativa) – è solo uno dei tanti indizi (ma non è il minore) dello statuto ancora precario del costume democratico in Italia, al di là dei superficiali effetti di democrazia (penso all’ effet de réel di cui parlava Barthes) creati dall’ideologia, che comunque in Italia è generalmente a senso unico.

  22. Crisi della poesia italiana post-montaliana. Il «Grande Progetto»

    Tracciando sinteticamente un quadro concettuale sulla situazione di Crisi della poesia italiana non intendevo riferirmi alla evoluzione stilistica del poeta Montale come personalità singola dopo Satura (1971).
    https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/18/franco-fortini-1917-1994-poesie-da-lospite-ingrato-1986-e-una-poesia-da-composita-solvantur-1994-dallimpegno-alla-fine-della-poesia-impegnata-dagli-anni-sessanta-agli-ottanta-commento-di/comment-page-1/#comment-28857
    Di fatto, la crisi della poesia italiana esplode alla metà degli anni Sessanta. oggi occorre capire perché la Crisi esploda in quegli anni e capire che cosa hanno fatto i più grandi poeti dell’epoca per combattere quella crisi, cioè Montale e Pasolini; per trovare una soluzione a quella crisi. Quello che a me interessa è questo punto, tutto il resto è secondario. Ebbene, la mia
    stigmatizzazione è che i due più grandi poeti dell’epoca, Montale e Pasolini,
    hanno scelto di abbandonare l’idea di un Grande Progetto,
    hanno dichiarato che l’invasione della cultura di massa era inarrestabile
    e ne hanno tratto le conseguenze sul piano del loro impegno poetico e
    sul piano stilistico: hanno confezionato finta poesia, pseudo poesia, anti
    poesia (chiamatela come vi pare) con Satura (1971), ancor più con il
    Diario del 71 e del 72 e con Trasumanar e organizzar (1971).
    Questo dovevo dirlo anche per chiarezza verso i giovani, affinché
    chi voglia capire, capisca. a quel punto, cioè nel 1968, anno della pubblicazione de La Beltà di Zanzotto, si situa la Crisi dello sperimentalismo
    come visione del mondo e concezione delle procedure artistiche.

    Cito Adorno: «Quando la spinta creativa non trova pronto niente di sicuro né in forma né in contenuti, gli artisti produttivi vengono obiettivamente spinti all’esperimento. Intanto il concetto di questo… è interiormente mutato. all’origine esso significava unicamente che la volontà conscia di se stessa fa la prova di procedimenti ignoti o non sanzionati.
    C’era alla base la credenza latentemente tradizionalistica che poi si sarebbe visto se i risultati avrebbero retto al confronto con i codici stabiliti
    e se si sarebbero legittimati. Questa concrezione dell’esperimento artistico è divenuta tanto ovvia quanto problematica per la sua fiducia nella
    continuità. Il gesto sperimentale (…) indica cioè che il soggetto artistico pratica metodi di cui non può prevedere il risultato oggettivo. anche questa
    svolta non è completamente nuova. Il concetto di costruzione, che è fra gli elementi basilari dell’arte moderna, ha sempre implicato il primato
    dei procedimenti costruttivi sull’immaginario».1

    Quello che oggi non si vuole vedere è che nella poesia italiana di quegli anni si è verificato un «sisma» del diciottesimo grado della scala Mercalli: l’invasione della società di massa, la rivoluzione mediatica e la rivoluzione delle emittenti mediatiche…

    Davanti a questa rivoluzione che si è svolta in tre stadi temporali e nella quale siamo oggi immersi fino al collo, la poesia italiana si è rifugiata in discorsi poetici di nicchia, ha scelto di non prendere atto del terribile «sisma» che ha investito la poesia italiana, di fare finta che esso «scisma» non sia avvenuto, che tutto era come prima, che la poesia non è cambiata e che si poteva continuare a perorare e a fare poesia di nicchia e di super nicchia, poesia autoreferenziale, poesia della cronaca e chat-poetry.

    Lo voglio dire con estrema chiarezza: tutto ciò non è affatto poesia ma «ciarla», «chiacchiera», battuta di spirito nel migliore dei casi.
    Qualcuno mi ha chiesto, un po’ ingenuamente, «Cosa fare per uscire da questa situazione?». Ed io ho risposto: «un Grande Progetto».
    A chi mi chiede di che si tratta, dico che il «Grande Progetto» non è una cosa che può essere convocata in una formuletta valida per tutti i luoghi e per tutti i tempi. Per chi sappia leggere, esso c’è già in nuce nel mio articolo sulla «Grande Crisi della Poesia Italiana del Novecento».
    Il problema della crisi dei linguaggi del tardo Novecento post-montaliani, non l’ho inventata io ma è qui, sotto i nostri occhi, chi non è in grado di vederla probabilmente non lo vedrà mai, non ci sono occhiali di rinforzo per questo tipo di miopia. Il problema è quindi vasto, storico e ontologico, si diceva una volta di «ontologia estetica», ma io direi di ontologia tout court. Dobbiamo andare avanti. Ma io non sono pessimista, ci sono in Italia degli elementi che mi fanno ben sperare, dei poeti che si muovono nel solco post-novecentesco in questa direzione.
    Farò solo tre nomi: Mario Gabriele, Steven Grieco-Rathgeb e Roberto Bertoldo, altri poeti si muovono anch’essi in questa direzione. La rivista sta studiando tutte le faglie e gli smottamenti della poesia italiana di oggi, fa quello che può ma si muove anch’essa con decisione nella direzione del «Grande Progetto»: rifondare il linguaggio poetico italiano.

    Certo, non è un compito da poco, non lo può fare un poeta singolo e isolato a meno che non si chiami Giacomo Leopardi, ma mi sembra che ci sono in Italia alcuni poeti che si muovono con decisione in questa direzione.

    Rilke alla fine dell’ottocento scrisse che pensava ad una poesia «fur ewig», che fosse «per sempre». Ecco, io penso a qualcosa di simile, ad una poesia che possa durare non solo per il presente ma anche per i secoli a venire.

    Per tutto ciò che ha residenza nei Nuovi Grandi Musei contemporanei e nelle Gallerie di Tendenza, per il manico di scopa, per le scatolette di birra, insieme a stracci ammucchiati, sacchi di juta per la spazzatura, bidoni squassati, escrementi inscatolati, scarti industriali etichettati, resti di animali imbalsamati e impagliati, per tutti i prodotti battuti per milioni di dollari, nelle aste internazionali, possiamo trovare termini nuovi. Non ci fa difetto la fantasia. Che so, possiamo usare bond d’arte, per esempio, o derivati estetici.

    Attraversare il deserto di ghiaccio del secolo sperimentale

    Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio
    stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del
    modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea,
    credo. Come sistemare nel secondo Novecento pre-sperimentale
    un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come
    Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (1945-1951), che sarà pubblicato negli Stati Uniti nel 1993 e, in Italia nel volume Paradigma (2001) e Sessioni con l’analista (1967) Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento
    del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad
    una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale e post-sperimentale
    (una sorta di terra di nessuno?); ciò che appariva prossimo alla stagione
    manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con
    opere come il Montale di dopo La bufera e altro(1956) – (in verità, con Satura
    – 1971 – Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile narrativo
    intellettuale alto-borghese), vivrà una seconda vita ma come fantasma,
    allo stato larvale, misconosciuta e disconosciuta. Ma se
    consideriamo un grande poeta di stampo modernista, Angelo Maria Ripellino
    degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima
    opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte
    intermedie apparse con Einaudi Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta
    (1972) e Lo splendido violino verde (1976), dovremo ammettere che la
    linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti.
    Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio
    Caproni non abbiano una matrice modernista? La migliore produzione
    della poesia di alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta,
    con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni
    Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi,
    intitolata Paura di Dio con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce
    nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane; nel 1976 il suo capolavoro:
    La Terra Santa. ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di
    una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula
    (1985). La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia
    degli anni Settanta: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma
    (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista.
    Il piemontese roberto Bertoldo si muoverà, invece, in direzione di una poesia che si situi fuori dal post-simbolismo con opere come Il calvario
    delle gru
    (2000) e L’archivio delle bestemmie (2006). Nell’ambito del
    genere della poesia-confessione già dalla metà degli anni ottanta emergono
    Sigillo (1989) di Giovanna Sicari, Stige (1992) di Maria Rosaria
    Madonna; in questi ultimi anni ci sono figure importanti:Mario M. Gabriele,
    Antonio Sagredo, Lucio Mayoor Tosi, Letizia Leone, Ubaldo De
    Robertis, Donatella Costantina Giancaspero; né bisogna dimenticare la
    riproposizione del discorso lirico da parte del lucano Giuseppe Pedota
    (Acronico – 2005, che raccoglie Equazione dell’infinito – 1995 e Einstein:
    i vincoli dello spazio
    – 1999), che sfrigola e stride con l’impossibilità
    di adottare una poesia lirica dopo l’ingresso nell’età post-lirica.
    È noto che nei micrologisti epigonici che verranno, la riforma ottica
    inaugurata dalla poesia di Magrelli, diventerà adeguamento linguistico
    ai movimenti micro-tellurici del «quotidiano». La composizione assume
    la veste di frammento incompiuto, dove il silenzio tra le parole assume
    un valore semantico preponderante. Il questo quadro concettuale è agibile
    intuire come tra il minimalismo romano e quello milanese si istituisca
    una alleanza di fatto, una coincidenza di interessi e di
    orientamenti «filosofici»; il risultato è che la micrologia convive e collima
    qui con il solipsismo più asettico e aproblematico; la poesia come fotomontaggio dei fotogrammi del quotidiano, buca l’utopia del quotidiano rendendo palese l’antinomia di base di una impostazione culturalmente acrilica.

    Lo sperimentalismo ha sempre considerato i linguaggi come neutrali, fungibili e manipolabili; incorrendo così in un macroscopico errore filosofico.
    Inciampando in questo zoccolo filosofico, cade tutta la costruzione estetica della scuola sperimentale, dai suoi maestri: Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto, fino agli ultimi epigoni: Giancarlo Majorino e Luigi Ballerini. Per contro, le poetiche «magiche», ovvero, «orfiche», o comunque tutte quelle posizioni che tradiscono una attesa estatica dell’accadimento del linguaggio, inciampano nello pseudoconcetto di una numinosità quasi magica cui il linguaggio poetico supinamente si offrirebbe. anche questa posizione teologica rivoltata inciampa nella medesima aporia, solo che mentre lo sperimentalismo presuppone un iperattivismo del soggetto, la scuola «magica» ne presuppone invece una «latenza».

    1 T. W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino, 1970, p. 37.

  23. Di Maio.
    di Lucio Mayoor Tosi

    «Solo i versi di un poeta possono cancellare la memoria
    in meno di un un istante».
    Glielo disse ruotando attorno al vassoio
    nel mezzo di una stanza.

    «Per ritrovare la memoria bisogna scendere di un gradino.
    Poi l’altro, poi l’altro».

    «Al massimo tre, da che il vuoto si è avvicinato».

    Luigi Di Maio s’aggiusta la cravatta.
    Entra nell’ascensore.

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