Archivi del giorno: 8 dicembre 2017

Edith Dzieduszycka Un poemetto inedito: Traversata – Commento psicofilosofico di Giorgio Linguaglossa: Il discorso illocutorio di Edit Dzieduszycka. C’è il senso ma non c’è il significato. Penso dove non sono e sono dove non penso

Traversata di Edith Dzieduszycka, voce recitante di Pino Censi

Edith cover Haikuore

Roma, Convention Center via Asia, 40 – EUR

Più libri più liberi

Sabato 9 dicembre alle ore 16,30 – Sala Marte

Presentazione del libro di haiku di Edith Dzieduszycka: Haikuore.

Intervengono oltre all’Autrice, Luigi Celi, Roberto Pagan e l’editore, Sandro Gros-Pietro. Letture di Ketty Di Porto

 

Commento psicofilosofico di Giorgio Linguaglossa: Soliloquio di un robot

La poesia ultima di Edith Dzieduszycka è di tipo illocutorio. Per atti illocutivi si intendono quegli enunciati che comportano effetti convenzionali sui destinatari. Direi che il discorso illocutorio della «nuova ontologia estetica» è anche di questo tipo: ha «senso» pur non avendo alcuna significazione. I suoi personaggi «parlano» e, in qualche modo, sembra che indichino un «senso». Purtuttavia, un «senso» non c’è, anzi, il «senso» è barrato, impercorribile.

Scrive Adorno: «Qualora neghino il senso, le opere d’arte divengono, sia pure contro la loro volontà, nessi sensati. Mentre la crisi del senso ha radici in un aspetto problematico di tutta l’arte, nel fallimento dell’arte di fronte alla razionalità[…]

In Beckett domina un’unità parodistica di luogo, tempo e azione, con episodi sapientemente montati ed equilibrati e con la catastrofe che ora consiste in questo: che non avviene. Veramente uno degli enigmi dell’arte e testimonianza della potenza della logicità dell’arte è che qualsiasi conseguenza radicale, anche quella detta assurda, va a finire in qualcosa di affine al senso. Ciò però non è tanto la conferma della sostanzialità metafisica del senso, la quale si impadronirebbe di ogni opera integralmente formata, quanto piuttosto la conferma del carattere di apparenza dell’opera: alla fin fine l’arte è apparenza perché non riesce a sfuggire alla suggestione del senso in mezzo all’insensato. Tuttavia le opere d’arte che negano il senso devono anche essere sconvolte nella loro unità; questa è la funzione del montaggio il quale sconfessa l’unità con la pubblicità della disparatezza delle parti così come, quale principio formale, ha per effetto di nuovo l’unità […]

Tutta l’arte moderna dopo l’impressionismo e certo anche le manifestazioni radicali dell’espressionismo, rinnegano l’apparenza di un “continuum” fondato nell’unità soggettiva di esperienza, nel “flusso di coscienza”».1]

Nei racconti poetici di Edith Dzieduszycka

la catastrofe annunciata non avviene, viene sempre prorogata. Con il che il discorso illocutorio riprende sempre di nuovo, funziona come il ritorno di un fantasma dell’inconscio, giacché è chiaro che i personaggi che qui «parlano», sono Figure dell’inconscio, Ombre dell’Es.

La fabulazione dell’inconscio è onirica, si situa tra la veglia e il sonno, nella scissura tra «senso» e «significato», in quella zona d’ombra in cui si può sviluppare una fabulazione finalmente «libera» sia dal senso che dal significato, libera dal sistema articolatorio dell’io.

«Penso dove non sono e sono dove non penso».

Questo motto lacaniano ci indica allusivamente la zona occupata dall’Es e dall’inconscio.
Una poesia come quella di Edith Dzieduszycka e quella della «nuova ontologia estetica» (in modo generalissimo) non si può comprendere appieno senza tenere nel debito conto il ruolo centrale svolto dall’inconscio e dall’Es nella strutturazione del discorso poetico.

Negli autori della «nuova ontologia estetica» un grandissimo ruolo è giocato dall’Es, dalla sua istanza linguistica; noi sappiamo che l’Es rifugge dai concetti di «bello»-«brutto», accettabile non-accettabile, di buon-gusto non-di-buon-gusto, erotico e/o pornografico, tutte categorie ideologiche proprie dell’Io, che è una istanza eminentemente auto organizzatoria, dedita alla organizzazione dell’auto conservazione e del regolare usufrutto delle categorie grammaticali.

L’Es è quanto resta della struttura dell’io penso – È l’insieme del discorso meno (con il segno -); «io non penso» ergo «io non sono», qui si ha il ribaltamento dell’assunto cartesiano che rappresenta la verità dell’alienazione, il «resto» dell’operazione di divisione del soggetto, ossia tutto ciò che è «non-io».

Non a caso, una volta arrivato a individuare il luogo dell’Es, Lacan introduce la questione del «fantasma».

Quando la parola da rappresentativa diventa enunciativa? Lo diventa, ci dice Lacan, quando giura, promette, indica, asserisce, quando utilizziamo un linguaggio suasorio, per eccellenza il linguaggio politico. Il discorso suasorio sarebbe così quella parola che in un certo modo vuole ricucire la frattura tra enunciato ed enunciazione, l’atto illocutorio di Austin, la parola che dice e allo stesso tempo dice di dire: «Tu sei mia moglie», «Tu sei il mio maestro», «Tu sei colui che mi seguirà», «Tu sei questo», «tu sei quello»: tutti esempi di parola piena, rivelatrice, suasoria; la parola che dice la verità del soggetto sullo sfondo di finzione inaugurato dal linguaggio.

Il discorso illocutorio di Edit Dzieduszycka

assume il discorso suasorio assertorio del discorso politico e lo mette in bocca ai suoi personaggi che erogano il discorso illocutorio. In questo tipo di operazione siamo «fuori» del linguaggio poetico come noi lo abbiamo conosciuto nel novecento, ed entriamo propriamente in un post-linguaggio, illocutorio appunto, che vuole fare chiarezza denotativa con tutte le proprie forze. Questo tipo di linguaggio è proprio dei paranoici, di coloro che vogliono fare chiarezza a tutti i costi. Ma è possibile un tale estremo tentativo?  In realtà, il discorso illocutorio dei personaggi della Dzieduszycka ruota intorno  ad un vortice linguistico al cui centro c’è il «nulla» del «senso». Alla fine,  di tutto questo universo di parole del discorso poetico dzieduszyckiano non rimane che cenere, un nulla di nulla, nulla di «senso» e nulla di «significato». Un «buco». Un «vuoto». Un «nulla».

Quanto il linguaggio ha in serbo è un abisso ben più profondo di quello che un concetto rappresentazionale e pacificatorio vorrebbe consegnarci: è l’abisso di quel nulla, dell’ex nihilo. Il discorso illocutorio della Dzieduszycka punta tutto sulla roulette della funzione inaugurale della parola piena, per scoprire poi, con rammarico e stupefazione, che non si dà alcuna parola che non sia «vuota», piena di «nulla».

È questo «vuoto» che si presenta come nihil, come  «nulla» al centro della significazione, o come quel nulla del reale da cui proviene l’ordine della Vorstellung, il luogo in cui Lacan colloca il godimento, ovvero l’al di là del principio di piacere. È il vuoto del linguaggio. L’istanza discorsiva del soggetto viene articolata dalla catena significante, così come l’articolazione piacere-realtà introduce il rapporto del linguaggio con il mondo. La Cosa cioè, in quanto sita fuori del sistema articolatorio del significante e, allo stesso tempo, condizione di esso, resta la Cosa del linguaggio, quel punto di gravitazione che apre l’universo del nominabile, apertura che gli dà un limite, lo circoscrive come universo della significazione di fronte a cui, o meglio, al cui centro essa Cosa resta esterna, muta, innominabile.

Non si dà un significante che possa significare la Cosa. Tale impossibilità configura la condizione stessa della Parola, l’essere luogo di una lacerazione che pone il rapporto soggetto-Altro come inaugurale. Certo, il significante ambirà l’occupazione del posto della Cosa, ma sarà un tentativo condannato ad andare a vuoto, appunto perché esso non è dotato di quella compiutezza in sé che sarebbe necessaria per ricoprire il «vuoto».

Non si dà parola pontificante che non sia al contempo parola nullificante, auto nullificatoria

L’«Altro», verso il quale sono rivolti i soliloqui allo specchio della Dzieduszycka, è strutturalmente mancante, la sua mancanza è ciò che ricaviamo dall’esperienza stessa della psicosi. Le varie forme di nevrosi o psicosi non sono altro che una risposta che il soggetto dà a questa mancanza, una strategia per eluderla, come nella nevrosi, o di negarla, come nella psicosi. Ma torniamo alla Cosa, das Ding, a quel «vuoto causativo» in cui Lacan situa l’essere stesso del soggetto.  In tale prospettiva, la promozione dell’oggetto-a costituirà la via attraverso cui Lacan sostituirà la nozione fenomenologico-esistenziale della Cosa con una nozione psicologica. I soliloqui della Dzieduszycka funzionano all’interno del complesso di un’algebra psichica dove lo sguardo assume una valenza centrale; lo sguardo dei suoi personaggi è uno sguardo psicotico, per il quale non si dà distinzione tra il visibile e l’invisibile. Per Sartre, nella sua magistrale lezione sulla distinzione tra occhio e sguardo, lo sguardo, in quanto sguardo di «altri», non può essere considerato alla stregua dell’occhio, organo della visione. Lo sguardo non può «vedersi», tra occhio e sguardo si apre una «schisi». L’occhio infatti si mostra come oggetto, come qualcosa di reperibile nel campo degli oggetti che osservo. Ma allorché sono io stesso oggetto di uno sguardo, cosa vedo? Vedo l’occhio, certo, vedo che sono visto dall’occhio dell’altro, vedo l’altra persona X, il suo volto, mi sento colto dal suo sguardo; ma alla fin fine, cosa ne è dello sguardo? Lo sguardo è qualcosa che resta separato dall’occhio, che non converge con l’oggetto-occhio che io vedo, sia che io guardi un altro, sia che io mi veda riflesso in uno specchio. «Non posso vedermi da dove (mi) guardo», è la formula con cui Lacan sintetizza il paradosso del «mi vedo vedermi» di Paul Valéry. Lo sguardo è sempre panoramico, coinvolge gli oggetti i quali a loro volta sembrano guardarci. È questa labirintite dello sguardo che emerge dai soliloqui della Dzieduszycka, questa incapacità di distinguere lo sguardo degli altri dallo sguardo degli oggetti che ci guardano, che sembrano parlarci.

1] T.W. Adorno, Teoria estetica, trad it. a cura di Enrico De Angelis, 1975 Einaudi pp. 220,21

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Edith Dzieduszycka

TRAVERSATA

Avevano corso,
di giorno e di notte,
poi di nuovo di giorno,
e ancora di notte.
Avevano corso
come bestie assetate,
in cerca del ruscello al quale abbeverarsi.

Avevano corso,
come prede inseguite in mezzo alla foresta,
cani sulle loro tracce, trombe per eccitarli.
I rovi laceravano le loro carni nude.
Dietro di loro scie,
sangue, sperma, orina,
sulle quali scivolavano quelli ancora dietro.
S’erano addentrati in buie gallerie.
Crepitavano, ritmati, i loro passi,
come pallottole contro duri bersagli.

Correvano, mani strette alla testa
per non sentirsi più,
vestiti a brandelli svolazzando nel vento.
Contavano le ore.
Contavano le stelle.
Affamati, mangiavano erba e croissant di luna.
Sferzati dalle liane dai rami dai rovi,
scalavano montagne e ghiacciai bollenti,
vulcani incandescenti, oceani furenti. Continua a leggere

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