
Francesca Dono, fotografia
Eraldo Garello è nato a Ceva (Cn) nel 1953. Dopo aver compiuto gli studi classici si è laureato e specializzato in Medicina e Chirurgia presso l’Università degli Studi di Torino. Della sua esperienza poetica è testimonianza la trilogia di drammi in versi: “Attis e Agdistis” (Genesi, 1989, prefazione di Domenico Romano), “Polemotrofia” (Edizioni del Leone, 1993, prefazione di Alida Cresti), e “Lo sguardo di Orione” (Bastogi, 1997, prefazione di Maria Grazia Lenisa). Si tratta di un trittico nel quale l’autore ha sperimentato una sua originale visione di “poesia filosofica”, attingendo a piene mani tematiche e suggestioni dal ricco repertorio mitologico greco, innervandolo, sostanziandolo, contaminandolo con problematiche di grande attualità. Nel campo della saggistica ha pubblicato: “Mitofanie” (1987, prefazione di Giuseppe Addamo e postfazione di G. Barberi Squarotti), sulla connessione esistente tra mitologia greca e poesia filosofica; “L’arco di Apollo” (2000 e 2001, prefazione di Riccardo De Benedetti), rivisitazione e reinterpretazione dei rapporti tra il mito e la ratio filosofica; “La caverna di Ganimede” (2008, prefazione di Stefano Zecchi), sul pensiero dei maggiori pensatori di lingua del primo Ottocento (in primis, Hölderlin) alla ricerca dell’Ursprache, ossia del linguaggio originario, della lingua primigenia ed adamitica.
Quarta di copertina del romanzo Nel regno della talpa di E. Garello
Vienna, Maggio 1981. Alain Renoir, ultimo discendente d’una ricca famiglia parigina ha alle sue spalle un passato ingombrante e violento: ex Ufficiale della Legione Straniera durante la Guerra d’Algeria, ex giornalista d’estrema destra, ex infiltrato dei Servizi Segreti francesi. Malato terminale per via di un cancro ai polmoni che lo sta devastando, medita di concludere la propria esistenza con un ultimo atto di violenza: l’uccisione di F.C., uomo politico di risonanza internazionale ed incarnazione di tutto quanto egli ha odiato nella sua vita.
Il romanzo racconta l’ultima settimana del protagonista, un lucido psicopatico, secondo una schema narrativo che mescola il vissuto contingente con ampi flashback che illuminano un passato sanguinoso, lacerante, problematico. Fino all’inprevedibile finale.
Nel regno della talpa è un originale e intrigante noir filosofico di grande attualità, che propone al lettore una forte riflessione sulla violenza e sulla follia dei singoli individui e della Storia in generale.
*
Una scrittura tesa, nitida, riflessiva, un racconto apocalittico, violento, tenuto su un registro basso, un soliloquio del protagonista, ex ufficiale della legione straniera che ormai non ha nulla da perdere, che diventa colloquio e anche colloquio con le proprie ombre, con i fantasmi del nemico e quelli dell’inconscio. Una personalità abitata dall’inconscio, il delirio di uno psicotico. Una storia dei nostri giorni efferati.
(Giorgio Linguaglossa)
Alcuni stralci del romanzo
La talpa ha un corpo tozzo, cilindrico, ricoperto da un manto vellutato di colore nerastro, fittissimo, corto e morbido. Gli arti anteriori, molto brevi, sono larghi e foggiati a guisa di mani, rivolti all’esterno, come una pala. Le dita sono armate di unghioni taglienti ed ottusi, collegate tra loro da membrane interdigitali. Gli occhi sono piccoli, ricoperti dai peli della testa e da una pelle sottile e trasparente.
La talpa vive quasi sempre sprofondata nel terreno. Scava la terra con una facilità impressionante: punta con il muso aguzzo le zolle e, raspando con le zampe anteriori, butta il terreno dietro di sè con velocità incredibile. Scava gallerie, cunicoli, camere sotterranee, condotti, tane di residenza, percorsi e campi di caccia che ispeziona più volte al giorno solcandoli molto rapidamente.
La sua fame è insaziabile: deve mangiare ogni giorno una quantità di cibo equivalente al peso del suo corpo. Abbandona la sua tana solo di notte, e si nutre di topi, uccelli, bisce, orbettini, piccoli anfibi; qualche volta può non disdegnare la carne dei suoi simili. ‘E un predatore formidabile, intelligente, feroce, sanguinario, vendicativo. Non tollera nessun animale e si rifiuta di condividere la tana con animali della sua stessa specie.
Ucciderò F. C., sabato alle 10,30, al Rathaus.
Sono arrivato a Vienna stamane da Parigi, in treno. Ho preso alloggio in un buon albergo sulla WähringërStrasse, appena fuori del circolo del Ring. Non ho mai amato le posizioni centrali, nè tantomeno trovarmi nel bel mezzo d’ una qualsivoglia situazione. Mi sento accerchiato, tutti ti possono osservare a loro piacimento, sei un bersaglio facile, sicuro. Dall’esterno, ma non eccessivamente per non correre il rischio di venire esclusi, risulta più agevole e comodo ogni tipo di controllo, come se ci si posizionasse un pò prima della linea dell’orizzonte: non ha più ragione di esistere la paura dell’ “oltre”.
Non ho prenotato per non dare nell’occhio, per non lasciare tracce; tanto un albergo vale l’altro. Una sistemazione per una persona sola la si trova sempre. L’albergo si presenta bene, ha una facciata più che decente, ottocentesca piena di stucchi, di fregi, di finte colonne di marmo, architettonicamente anonima e di maniera, ma forse proprio per questo confortevole e rassicurante. Decisamente meglio delle moderne costruzioni a cubi di vetro e cemento, segmentate da putrelle d’acciaio che affondano in grigi ventri di calcestruzzo, arnie di malta dove ognuno fila il miele d’un adempimento che va noiosamente portato a termine.
Un compito in verità anch’io so di averlo, un compito la cui importanza e le cui conseguenze sono tutt’altro che trascurabili. Ma non voglio lasciarmene condizionare all’eccesso, in quanto sono conscio di avere già programmato ogni fase, ogni sviluppo, nei minimi particolari. Tra le altre cose, questa vuole essere per me anche una vacanza, forse l’ultima. Non so. Anche se Vienna la conosco ormai da tanti anni. Forse proprio per questo la città non mi mette più a disagio, non la devo scoprire ogni giorno diversa: è un po’ come essere a casa propria.
Mi piace la ragazza della reception! Parla un ottimo francese, ha un accento delizioso, per nulla artefatto. Io conosco da molti anni il tedesco, mi esprimo in modo più che corretto, ma preferisco far la figura del turista alla sua prima venuta. Conviene sempre sembrare ingenui, sprovveduti, disarmati; se si convincono che sei una persona inerme, anche un po’ confusa, non riescono a dubitare di te. Si sospetta sempre di chi si mostra troppo sicuro di sé: la sicurezza dà sempre fastidio, dietro vi si vuol scorgere ad ogni costo la malafede, l’inganno, la presa in giro.
Compilo il modulo con i miei dati personali con pignoleria e lentezza esasperante. Nel mentre, la osservo muoversi con la coda dell’occhio. Facendo un gran baccano sono arrivati altri turisti: a maggio Vienna ne è invasa. La osservo con attenzione, adesso che si deve occupare di altre persone, sempre con grande professionalità. ‘E molto alta, quasi quanto me, slanciata e formosa e si intravede un accenno di seno dalla camicetta trasparente che le si apre sul davanti. Anche il viso è decisamente interessante, affilato e un po’ scavato, i capelli sono lunghi e neri, quasi scolpiti da un preciso taglio di rasoio, gli occhi nascosti da un paio d’occhiali che le scivolano sul naso, costringendola a rimetterli al loro posto con un gesto secco ed abitudinario.
Il bancone mi impedisce di osservarla meglio: le nasconde il bacino e le gambe. Mi riprometto comunque di invitarla a cena uno di questi giorni, forse anche già oggi o al massimo domani.
Salgo in camera. È un piccolo appartamento ben arredato: un soggiorno confortevole con poltrone in velluto, una scrivania stile Biedermaier, altri mobili sistemati con grazia, la televisione, il frigo-bar. Un pesante tendone separa il salotto dalla camera da letto. Due ampie finestre disposte perpendicolarmente tra di loro si riuniscono a formare una piccola veranda ovoidale dalla quale si può osservare il Corso che, sotto, s’interseca con una strada secondaria. Una sorta di vedetta per turisti curiosi.
Disfo rapidamente i bagagli e mi metto a mio agio su un’ampia poltrona. Avverto il bisogno di riposarmi un po’ dopo aver assaporato la morbida carezza d’una calda doccia. Nel frattempo si incunea nelle mie ossa la stanchezza del lungo viaggio in treno.
«Le piace lo sferragliare ritmico delle ruote del treno sulle rotaie?».
«Non saprei, non ci ho mai pensato, credo che la cosa mi sia del tutto indifferente. E poi con queste locomotrici moderne più che altro si avverte un rumore frusciante, come un sibilo metallico ovattato e persistente. Alle volte ho come l’impressione di essere aspirato in un cono d’aria, come se ci fosse una pressione negativa esterna che risucchia il treno in una voragine infinita. Mi viene da guardare fuori per tranquillizzarmi, per avere la conferma che il mio corpo è sempre aderente al suolo in ogni suo punto. Chissà, forse il retaggio d’una arcana paura cosmica: di smarrire il baricentro, di trovarsi sbalestrati, di perdere il contatto con le piccole cose che conferiscono un senso di fisicità alla mia persona.»
*
Il signore in bianco osserva il paesaggio che si srotola al di là dei vetri, come se non fosse interessato a quanto gli sto raccontando. Appare distante, una lontananza che pare ingigantirsi quando mi rivolge lo sguardo, con quegli assurdi occhiali scuri che mi impediscono di capire cosa pensa di me, dei miei vissuti psichici più intimi, che mi pento di avergli svelato un po’ ingenuamente. Estrae da una tasca quel che rimane di un sigaro lungo ed affilato, e se lo tormenta in bocca con divertita avidità. Improvvisamente è ritornato affabile e partecipe, la sua voce è secca ma amabile:
*
Una giornata nebbiosa, autunnale. Foglie color ocra intrise d’umidità, venate di striature rosso carminio, mi si parano davanti come minuscoli agguati, mi ungono il volto con la bava che spurga dalle nervature attorte del loro palmo. Cammino con gli occhi bassi, attento a non infradiciare troppo le scarpe estive con il fogliame che s’è fatto lettiera ai piedi degli alberi.
Vorrei sapere che ora è, guardo con avidità l’orologio da polso ma al suo posto c’è solo una striscia di pelle chiara su un’abbronzatura ancora recente. Mi disturba. Forse sono le prime ore del mattino, ma potrebbe anche essere più tardi, nella nebbia la nozione del tempo si fa incerta, si insegue vanamente uno spazio che la delimiti, almeno a grandi linee.
Come ho fatto ad arrivare in questa campagna opprimente, da dove vengo, e cosa ci faccio vestito da sera con la seta dello smoking che moltiplica la sensazione sgradevole di umidità? Mi ricordo solo la frase stereotipata d’un elegante invito: “’E gradita la cravatta nera”. Ma non mi rinvia a nient’altro. Alzo il bavero della giacca per proteggermi la nuca. Cerco di afferrare in qualche modo un qualsivoglia indizio che mi ricongiunga ad un passato che non può essere che estremamente prossimo. A poco a poco mi si staglia davanti, sia pure in modo ancora troppo confuso, un sorriso ghignante che scivola dalle labbra carnose di una donna dal volto incoglibile, marezzato dal fumo bluastro d’una probabile fumeria d’oppio.
Forse anch’io ho fumato, ed ora pago con l’ignoranza dei luoghi l’oblio che ho volutamente cercato. La testa mi martella all’impazzata, vorrei fermarmi per dar tregua agli affondi del cuore, ma temo di perdermi ancora di più. Non ci sono campagne attorno a Soho. Ma chi ha detto che mi trovo in aperta campagna? Potrei essere in un parco, anzi, a ben pensarci, di sicuro sono in un parco, forse il parco di una villa signorile. Una sensazione indefinibile di fluttuamento, di nausea, di mal di terra. Mi fermo contro un albero dal largo fusto, forse un platano, e mi appoggio per un attimo, sento lo scabro sostegno della corteccia umidiccia.
Improvvisamente un corno da caccia lacera l’aria, la percuote con uno scudiscio sonoro, la nebbia ondeggia sulla marea delle voci alte che mi aggrediscono da ogni lato. Una canea incredibile. Voci di cacciatori che si chiamano l’un l’altro, che incitano i cani alla presa, voci gutturali, tedesche, inconfondibili, con l’accento bavarese che ben conosco. Ma allora da dove arrivo? E quel sorriso di donna che si stempera e mi richiama negli spazi vuoti della bruma, e le fumerie di Soho?
Un calore accecante al volto, come se mi avessero ustionato con una torcia di fuoco, ma non c’è l’inconfondibile odore di resina di pino. Sono stato colpito da una rosa di pallini da caccia. Cado a terra, o meglio, mi butto a terra perché mi sembra che la posizione orizzontale, del tutto sdraiato sullo strame delle foglie, sia la più consona ad un ferito. Ma potevo anche rimanere in piedi, cosa cambiava?…un condizionamento che non si possa morire stando in piedi. Eppure le bestie alle volte lo fanno.
Gocce di sangue quasi raggrumato toccano le foglie e si adagiano sul loro palmo, si insinuano come olio tra le loro nervature. Non provo dolore, solo la bocca è calda di sangue, non riesco più a contenerlo, lo vomito a grossi getti sul terreno che acquisisce una fosca erubescenza . Mi sento venir meno, una debolezza estrema liquefa le mie membra, solo l’udito pare si sia avvivato. Avverto il calpestio d’un uomo, ma potrebbe anche essere quello d’una donna robusta, un incedere sordo e pesante come se ogni passo possedesse un significato ben preciso. Ritengo che sia molto vicino a me, non avverto più alcun rumore. La vista si sta sbiadendo sempre di più, un velo d’acqua sporca si distende tra le mie pupille e l’oggetto della mia percezione. Alzo lo sguardo verso l’alto, e rivedo il sorriso ghignante che prima m’accompagnava, ed il fumo bluastro che le nasconde il viso. Una presenza amica, forse. La lama biancastra d’un’accetta che taglia lo spessore della nebbia e si ottunde sul mio collo. Un affloscio cupo come su un pupazzo di stoffa, e poi uno zampillo di sangue scuro mi ricopre tutto il viso e gli occhi con la sua bava urticante. Il tempo d’un grido strozzato prima che la lama tenti un altro affondo…
*
Mi siedo sul letto con un sobbalzo e mi porto le mani al collo per tastare la ferita. Mi ritornano bagnate e calde, viscose ed appiccicaticce, come di sangue vivo. Mi prende il panico. Cerco con frenesia l’interruttore della luce, e il filo mi scivola dalle mani come un serpentello untuoso. Alla fine vengo investito dal bagliore artificiale delle lampade al neon. Mi guardo le mani con apprensione: non c’è sangue, solo un sudore denso e maleodorante. Mi butto sfinito sul cuscino, afferro la bottiglietta della morfina che tengo sopra le coperte e ne ingollo compulsivamente una bella sorsata , accendo una sigaretta e ne aspiro con voluttà delle ampie boccate. Mi viene una crisi di tosse, scatarro…e macchio di sangue frammisto a minute bollicine d’aria il lenzuolo bianco del letto.
Ho di nuovo girato tutta la notte per Vienna come un animale braccato, con il respiro ansante di chi sa che prima o poi sarà raggiunto dal cane sguinzagliato dalla morte. Eppure, mille volte meglio questo vagabondare per strade e vicolo sconosciuti, piuttosto che rimanere rinchiuso nella mia camera d’albergo.
Ero a conoscenza del fatto che erano in molti ad aspettarmi, decine e decine di persone, l’una stretta all’altra come in certe fotografie che ritraggono accalcate comitive di turisti. Mi seguono da molti anni in ogni mio spostamento, e me li ritrovo ovunque, nei posti più impensabili, nell’alberghetto di paese fuori mano, nella stanza più angusta e buia. D’altronde, hanno dalla loro parte tutto il tempo che vogliono, ed un’infinita pazienza: sono sempre gli stessi e si ignorano regolarmente l’un l’altro, come se vivessero in spazi ed in scivolamenti temporali lontanissimi tra di loro, incongiungibili come due rette parallele. E pensare che alcuni di loro si conoscevano anche personalmente, di quella conoscenza atroce ed intensissima di chi si trova accomunato dal dolore e dall’attesa della morte.
Ma ora si ignorano, penso volutamente. Non posseggono più un corpo, riesco a scorgere solo i loro volti contusi, emaciati, deformati da smorfie di sorpresa e di sofferenza, volti stereotipati in espressione ripetitive, proprie di chi ha perso ogni peculiare mimica facciale. Si potrebbero quasi scambiare per delle statue di cera, se non fosse per l’animazione e la vivacità incredibile dei loro occhi. Sono come dei folli cristallizzati in un atteggiamento fisso –figé, come lo definivano i vecchi psichiatri- quasi uno stupore catatonico, da cui emerge lo spirito della loro esistenza che si è condensata tutta in uno sguardo insostenibile.
Il fatto è che non si tratta né di fotografie né di quadri; i loro occhi scrutano ogni angolo della stanza e si fissano poi inquieti su di me, e sono tanti quegli occhi ed ognuno esprime un sentimento od una rivalsa diversa. Non li posso più sostenere e, anche a voler serrare con grande intensità le palpebre, continuo a vederli come prima, perché loro non mi fissano solo negli occhi ma direttamente nel cervello. Deve essere per questo motivo che mi sento così a disagio quando mi vengono a trovare: so che si impossesseranno della mia mente, che suggeranno la mia materia grigia con gli aculei dei loro pensieri. Io non sarò più del tutto me stesso, ma la somma arruffata e inconcludente della sintesi delle loro personalità.
Alle volte ho l’impressione che la mia psiche si sciolga in centinaia di grumi, e che questi si disperdano nell’aria in tutte le direzioni. All’inizio ho provato a parlarci -con loro, ovviamente- ma non serviva a nulla; mai nessuno mi ha risposto, continuavano a scrutarmi con lo sguardo di sempre, come se volessero penetrare oltre lo spessore del mio corpo. Venivo preso da una rabbia incontenibile, mi spostavo freneticamente da un lato all’altro della stanza per convincerli a lasciarmi in pace, ma ho poi capito che non mi potevano sentire, poiché nessuno di loro viveva nel mio tempo, nel tempo di quel particolare momento. E tuttavia la mia stanza si era trasformata nel crocevia, nell’incontro di determinazioni temporali diverse, per originare un nuovo tempo puro, incontaminato, libero dall’ingombro del passato e dalle credenziali del futuro: il tempo della mia follia. In questo si sostanziava l’essenza della loro vendetta.
Non potevo combattere contro di loro, sarebbe stata una battaglia persa a priori, non mi restava altro da fare che fuggire. E così, quando me li ritrovavo in casa, me ne dovevo uscire subito e camminare per tutta la notte senza una meta precisa. Al mio rientro, alle prime luci dell’alba, non c’erano più, si erano come dissolti nel nulla, forse perché la luce del giorno, che si stava inesorabilmente infiltrando tra le fessure degli infissi, li costringeva a spazializzare il loro tempo, e in tal modo avrei avuto tra le mani un’arma in più per poterli combattere.
Ormai è da diversi anni che vivo in questo modo. Alle volte non ritorno neanche più a casa, tanto so già in anticipo che sono tutti lì ad attendermi. Mi sono sovente chiesto cosa faranno mai nella mia stanza quando io non ci sono. Forse vegliano, si guardano tra di loro, di sicuro non se ne vanno via anche perché presentono che potrei tornare da un momento all’altro e, non trovandoli più, per loro si tratterebbe di una cocente sconfitta. Una volta ho provato ad ingannarli. Sono arrivato quando meno se lo aspettavano, secondo i miei calcoli, ed erano davvero tutti lì, come se la loro pazienza non conoscesse alcun limite. Ebbi l’impressione che mi guardassero in modo diverso rispetto ad altre occasioni, come se volessero farmi capire chiaramente che con loro certi atteggiamenti, certe furberie era meglio evitarli. Uscii subito di casa, ed ora rispetto le loro regole.
*
Il signore in bianco mi fissa a lungo con i suoi occhi di ghiaccio, che in certi momenti paiono trascolorare in un verde profondo di mare sommerso. Mi sento a disagio per quanto ho detto, per quel che può pensare di me; vorrei banalmente accendere una sigaretta per illudermi di vincere l’imbarazzo, ma so che mi renderei ancora più ridicolo. Esco dallo scompartimento, abbasso il finestrino nella speranza di farmi schiaffeggiare dall’aria che scivola sui vagoni ferroviari, come se fossi ubriaco. Ma entrano solo flussi conici di sole, ed il paesaggio monotono e piatto mi procura un senso di nausea e di vertigine. Mi trovo costretto a tenermi saldo ad un puntello metallico, per evitare di cadere, di precipitare nella spirale risucchiante dell’inconsistenza dei sensi. Rientro dopo un buon quarto d’ora, e mi lascio letteralmente cadere sulla mia poltrona, con gli occhi chiusi. Un brivido mi scuote le carni, come se fossi febbricitante, ma fortunatamente fuoriesce dal mio corpo con la stessa velocità con cui è entrato. Sto quasi per addormentarmi, quando la voce spessa ed avvolgente del mio interlocutore mi ridesta.
«Mi sembra piuttosto teso, o sbaglio? Che ne direbbe di una partita a scacchi?».
Ho come un soprassalto, lo guardo in tralice e mi pare di scorgere nelle sue parole un che di canzonatorio, mentre sul suo volto intuisco la perfidia d’una scommessa diabolica. L’uomo vestito di bianco esplode in una risata metallica, secca e ruvida, che mi sorprende ancor di più perché prima non gli avevo mai visto accennare neanche l’intenzione di un sorriso. Ha un atteggiamento scherzoso che mi mette a disagio, e per di più mi sento terribilmente ridicolo perché non so cosa rispondergli. Ma è ancora lui che continua il filo del discorso appena abbozzato.
«Mi scusi se mi sono permesso di ridere un po’ alle sue spalle, non se ne abbia a male, mi creda, capisco i pensieri che devono aver attraversato la sua mente. Non si spaventi, comunque. Sono perfettamente conscio di questa mia somiglianza con Bengt Ekerot, i cinefili l’afferrano subito e si sentono a disagio, come se venissero catapultati nel film di Bergman, e si trovassero di fronte alla personificazione della morte. Quando poi chiedo loro di fare una partita a scacchi non hanno più dubbi, e trovano subito una scusa per eclissarsi quanto prima. Mi stupisco che non sia uscito di corsa dallo scompartimento del treno. Forse Lei non ha paura della morte».
«Già. Glielo posso anche dire: la morte mi ha già dato un appuntamento a breve termine. Forse mi sono solo spaventato all’idea che mi cogliesse prima del compimento dell’ultimo compito, che mi sono promesso di portare a termine. O che me la dovessi giocare a scacchi. Mi scusi, devo aver avuto una reazione infantile».
Senza degnarmi di una risposta, tira fuori da una piccola valigia di pelle un gioco di scacchi portatile, lo apre e ne ricava una scacchiera completa, ovviamente corredata da tanti pezzi, non dozzinali ma d’avorio chiaro e scuro, che denotano un fine lavoro d’intaglio, che mette in evidenza l’espressività delle varie figure. Ci mettiamo a giocare. Mi innervosisce la calma olimpica del mio compagno, il fare distratto proprio di chi conosce in largo anticipo le mosse dell’avversario. Muove i pezzi come un automa, quasi senza guardarne la disposizione sulla scacchiera, come se la leggesse prima in me, nei miei occhi. Ma forse gioca solo per farmi parlare; almeno questa è la mia convinzione: sta continuando il gioco di prima inserendo una nuova variante. Come se vivesse già nel futuro, e rimanesse abbarbicato agli attimi di questo presente solo quel tanto che gli basta per seguire la progressione dei miei pensieri. L’ho capito da un pezzo: mi conosce in anticipo, sa perfettamente cosa dirò tra mezz’ora, tra un’ora, tra un giorno, anche quando io sarò convinto di essere lontano da lui mille miglia.
Mi sento assediato, in trappola, imprigionato. Ma se nel suo cervello sono già contenute, come larve incellofanate, le parole che di lì a poco mi verrà di esprimere, allora significa che necessariamente le dovrò pronunciare. ‘E diventato lui il proprietario del mio discorso, non potrò più fuggire di fronte ad una certa determinazione espressiva.
*
Quando l’hanno arrestata il volto era coperto dall’haik. Non se lo voleva togliere a nessun costo, come se temesse di perdere la sua identità, o forse voleva rimanere impenetrabile come era stata in tutta la sua vita, anche per i suoi stessi familiari.
L’attentato era previsto per la mattina, verso le 11,30, davanti ad un bar del centro. Sapevano che a quell’ora ci sarebbe stato P.P., giunto appositamente da Parigi per coordinare i servizi segreti ad Algeri. Doveva incontrarsi con uno dei nostri Ufficiali. Come abbiano potuto avere quest’informazione strettamente riservata rimane un mistero che dovremo chiarire, anzi che io in prima persona dovrò chiarire, durante un’amichevole conversazione con la donna che partecipava alla missione.
Hanno anche arrestato un fidaì, ma so già in anticipo che non parlerà: quando scelgono di portare a termine una missione tengono già la morte nel loro animo. Il guaio per noi –con “noi” intendo chi deve occuparsi degli interrogatori degli attentatori – è che, contrariamente a quel che si può pensare, non si tratta di esaltati, di malati di mente, ma di persone straordinariamente lucide e a loro modo razionali, mosse però da un odio smisurato nei nostri confronti.
Pare che siano stati traditi dal loro comportamento poco professionale. La ragazza precedeva a piedi il fedaì di un centinaio di metri, e ritmava con il passo l’eventuale avvicinarsi di un pericolo, di modo che il compagno avesse la possibilità di fuggire: fermata-partenza-fermata-partenza. ‘E stata proprio questa camminata inusuale a tradirla, e a consentire ai nostri di individuarla prima che potesse diventare pericolosa. Dava troppo nell’occhio e noi, ormai, conosciamo quasi tutti i loro trucchi.
Pare che portasse nella borsa della spesa alcune bombe ed una pistola, che il fidaì avrebbe prelevato all’ultimo momento. E lei se ne sarebbe tranquillamente ritornata al suo quartiere, come se nulla fosse accaduto. A casa sua avrebbe pranzato come sempre, i suoi familiari non avrebbero intuito nulla di quello che poteva essere accaduto, e non si sarebbero accorti della paura e del pallore mortale occultati dalla schermatura dell’haik.
Me l’hanno portata giù, spintonandola per le scale. La “camera delle confessioni” è una piccola stanza interrata, non ci sono finestre, e questo contribuisce ad aumentare il tasso di umidità già alto per conto suo. Dalle pareti intonacate di bianco gocciola lentamente l’acqua che si infiltra tra lo spessore dei muri: delle macchie mostruose e grigie pendono dagli alti spigoli dei muri, con la parvenza di incubi appesi ad asciugare. La luce artificiale è particolarmente intensa e fastidiosa per chi viene dalle scale malamente illuminate, e una volta che si è dentro la si tollera a fatica, specie per chi è stanco e vorrebbe solo chiudere gli occhi per poter dormire.
*
‘E svenuta. Le buttiamo addosso alcuni secchi d’acqua gelata. Si riprende con un tremito diffuso, lanciando un urlo squassante. Ma non confessa né i nomi dei complici né i particolari dell’attentato. Sarà pure uno strumento di altri, ma qualcosa deve pur sapere. Mi osserva con odio e disgusto sopra il filo del suo haik , che adesso è completamente intriso d’acqua e di sudore: si è come incollato sul suo volto, e ne ridisegna ogni espressione, ogni smorfia, ogni contrattura.
*

Ghada Abdel Razek arab actress
Per fortuna qui c’è poca luce, solo pareti grigie e lisce, uniformi e squadrate. Faccio fatica a distinguere il colore delle piastrelle, anch’esse lucide come tutto il resto, d’un marrone scuro che qua e là pare digradare in una sorta di marezzatura verde-oltremare. Si prova la sensazione d’essere sospesi nel vuoto, con un sostrato di buio indecifrabile ma denso, che mi tiene a galla con la forza d’un’oscura tensione superficiale. In alto, quasi rasente il soffitto d’un grigio slavato e tutto chiazze informi che si seghettano in orlature più cupe e sporche, si staglia una piccola apertura quadrata: una sorta di finestrucola con il vetro opacato, non si capisce se per un disegno particolare dei silicati, o solo per un’offuscatura dovuta alla sporcizia. Qua e là filtra dei pigri raggi di sole che vanno a morire, senza impennate di luce, in un’area romboidale del soffitto, un po’ più chiara dell’intonaco che la delimita, e che si diparte subito sghemba dagli infissi metallici dell’apertura.
Il tutto accade ben sopra la mia testa, motivo per cui non ne vengo disturbato: in definitiva, qui dentro non si sta neanche troppo male. Non ero mai stato in prigione, né tantomeno in una cella d’isolamento; la situazione, a cui da sempre ero abituato, si è capovolta, ma non avverto quella gran differenza che tutti dicono, e che io stesso credevo ci fosse: rispetto all’essere fuori, intendo dire. Bisogna anche confessare che ho trascorso gran parte della mia vita nei sotterranei delle caserme, o in stanze d’albergo penombrate che, per mia personale scelta, dovevano sempre dirimpettare un muro. No, non avverto uno scarto significativo rispetto a prima. Anzi, c’è più calma.
Quando mi hanno fatto salire sul cellulare ero privo di coscienza. Mi sono ripreso solo più tardi, ho guardato l’orologio –erano circa le undici, per essere precisi- poi abbiamo viaggiato ancora per un’altra ora buona. Penso che mi abbiano trasferito in una cittadina di periferia, ma non so dove, anche perché non glielo ho chiesto. Tra l’altro, non vedo mai nessuno: mi passano il cibo attraverso un cilindro d’acciaio che ruota su un perno centrale: una sorta di versione aggiornata di quelli dei vecchi monasteri.
Oggi dovrebbe essere giovedì. Mi piacerebbe leggere qualche giornale, per sapere di preciso cosa è successo sabato scorso, dopo che ho perso conoscenza. Credo nulla, avranno messo e metteranno tutto a tacere. I servizi segreti! Non è escluso che mi liberino tra qualche giorno, come se nulla fosse successo; anzi, a loro potrebbe anche far comodo che un giorno o l’altro io davvero uccida F.C..
*

Donne con il velo-Arabia-Saudita
Sento aprire una piccola grata che fa rettangolo in alto, nel bel mezzo della porta. La sento scricchiolare con lo squittio d’un topo. ‘E evidente che vogliono comunicare con me. Una voce di uomo, pastosa e un po’ strascicata, che fatica a staccarsi dall’oscurità che intuisco ispessirsi nel corridoio, dietro il lastrone metallico della porta. Dice che c’è una visita per me, come se in questa cella, adesso che sto contrattando con la mia fine, fossero ancora possibili visite ed incontri. Sono quattro giorni che non vedo nessuno. Chi potrà mai essere? Un giudice, un carceriere, un torturatore…un prete, sono sempre i primi ad accorrere quando sentono puzza di morte. Per un attimo realizzo un pensiero impossibile, folle e vivido al tempo stesso: che sia Barbara l’imprevisto visitatore. Risento la sua voce, rivedo l’incrocio delle gambe, riannuso i suoi profumi, ma è come se tutto fosse diventato più grande, fuori posto, dilatabile come una bolla di sapone. E poi lo scoppio!
Hanno aperto la porta, avverto un passo quasi impercettibile, che intuisco più che sentirlo davvero. Due sottili rettangoli di bianco che spiccano sul giallo-canarino della luce artificiale, che si immette di sghimbescio nella penombra della cella. Non poteva essere nessun altro a ben pensarci e, tutto sommato, avrei voluto vedere solo lui.
Si siede su una sedia di lato alla mia branda, sembra più diafano ed inconsistente del solito, se non fosse per quel gran bianco che si ostina a non voler scomparire nel buio che fa ressa attorno a noi. Fosforescente come una statuina, ricerco i suoi occhi, la bava di laser, i tizzoni di legno affocato, ma intuisco appena il suo volto, come se li avesse spenti per non disturbare il silenzio che fa da barriera d’ovatta.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/12/17/eraldo-garello-romanzo-nel-regno-della-talpa-giuliano-ladolfi-editore-2017-pp-264-e-16-stralci-del-romanzo/comment-page-1/#comment-28695
È consolante constatare che,oggi, qualcuno ancora scriva romanzi; e romanzi immersi nella nostra cupa attualità, segnati dall’incubo di una società senza gioia. Lo scrittore sa scrivere (cosa sempre meno richiesta),e ciò mi fa sperare che non abbandoni l’ardua via del romanzo, magari trasportandoci in atmosfere meno tetre.E’ un chiedere troppo?
Un ondeggiare tra incubi, fantasmagorie da morfinomane, presagi di morte imminente in scenari scivolosi, reali o no, albergo, treno, prigione e tutt’intorno LORO, sempre quelli… li ho riconosciuto !
La talpa,rievoca percorre gallerie nei microtubuli del cervello,in profondità oltre l’abitudine meccanica del protagonista rivede o meglio risente le azioni lentamente … da talpa non so,ho letto solo questo pezzetto
Il bellissimo romanzo di Eraldo Garello è da analizzare su tre livelli: la scrittura, la trama e i temi.
1) La scrittura è fluida e coinvolgente, risulta immediata, nonostante la complessità dei temi e della trama.
2) La trama o, forse, dovremmo dire “le” trame visto che sono certamente più d’una. Possiamo trovarvi infatti qualche spunto di teoretica, un racconto giallo e, come se non bastasse, un racconto storico.
3) La scelta dei temi è stata sicuramente molto ardita. Certamente non è facile “portare” su carta argomenti quali la violenza, le pulsioni sessuali e le nevrosi senza che risultino volgari o banali. L’autore ci è riuscito mirabilmente. “Nel Regno della talpa” trasforma queste materie spinise in spunti di riflessione.
L’uomo resterà, dunque, sempre “incurvato su se stesso” – per citare Lutero? La risposta dell’Autore la scoprirete leggendo. Compito del lettore è “mettersi in mezzo” per riflettere.