Marie Laure Colasson 30×30 acrilico, 2020 – Il discorso poetico abita quel paragrafo dell’ inconscio dove siede il deus absconditus, dove fa ingresso l’Estraneo, l’Innominabile. Giacché, se è inconscio, e quindi segreto, quella è la sua abitazione prediletta. Noi lo sappiamo, l’Estraneo non ama soggiornare nei luoghi illuminati, preferisce l’ombra, in particolare l’ombra delle parole e delle cose, gli angoli bui, i recessi umidi e poco rischiarati.
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caro Gino,
in fin dei conti, che cosa significa «poesia buffet»? Significa che sul tavolo, in soggiorno, c’è una gran quantità di pasticcini, di salatini, sandwich, salamini, formaggini, crosticini, salse piccanti e bibite, vini, acqua gassata in profusione, e che ciascuno degli «invitati» al buffet può consumarli a piacimento. Il «buffet» è dato gratis. Il «buffet» è la festa della pancia e dello spirito.
Analogamente, la «poesia buffet» sa che ci sono delle parole sul tavolo, in soggiorno, in gran quantità, le parole sante e quelle laiche, quelle piene e quelle vuote, brutte e belle etc. e ciascun poeta può cibarsene, cioè usarle a proprio piacimento.
Ma questo è appunto la poesia dei parassiti delle parole! Loro si impegnano con tutte le proprie forze a fare questa poesia del cioccolato e dei pasticcini, magari condita con un po’ di angoscia ad effetto, della suspence, della salsa alla disperazione (finta) per rendere l’eloquio più coinvolgente e convincente.
Ultimamente un autore mi diceva più o meno così: Prendiamo un verso di Francesco Paolo Intini:
Angoli e corvi in lotta per un regno.
Che cosa significa? E si rispondeva: niente! E così continuava: se anche si volesse sostituire «regno» con «ragno», lo si potrebbe fare, tanto il sintagma non significherebbe niente egualmente!
Angoli e corvi in lotta per un ragno.
A questa dotta esposizione dell’autore in questione io ho risposto così. Che la sua concezione della poiesis è appunto quella della «poesia buffet» di corriva memoria oggi molto di moda, dove un salamino equivale all’altro e che basta sostituire un salamino (parola) con un crosticino (altra parola) tanto il risultato non cambia.
Questa concezione della poiesis è fondata su un valore convinzione: che essa sia un gioco nel quale a ciascuno è dato cambiare gli addendi e l’ordine degli addendi tanto niente cambierebbe nell’ordine della significazione.
Ebbene, la «poesia buffet» di Intini è invece fondata su un valore convinzione del tutto diverso: che una parola non sia sostituibile con un’altra, e che chi lo fa compie un misfatto, un atto gratuito e arbitrario. Intini la pensa così: che la parola «regno» non sia sostituibile con la parola «ragno», che lui voleva dire proprio «regno», che il sintagma non è insensato, come crede la ingenua pubblica opinio, ma che è un «fuori-senso» e un «fuori-significato», cioè che la poesia non abita più il «senso», che la sua abitazione, la sua ubicazione è invece il «fuori-senso» e il «fuori-significato».
Questo, propriamente, è la poetry kitchen o poesia buffet. È un discorso che rivela l’esser fuori senso e fuori significato di tutti i discorsi comunicazionali che si fanno oggi più o meno con buona creanza e con profonda ipocrisia. Quello di Intini è un discorso che sta fuori-del-discorso. Il discorso poetico abita quel paragrafo dell’ inconscio dove siede il deus absconditus, dove fa ingresso l’Estraneo, l’Innominabile. Giacché, se è inconscio, e quindi segreto, quella è la sua abitazione prediletta. Noi lo sappiamo, l’Estraneo non ama soggiornare nei luoghi illuminati, preferisce l’ombra, in particolare l’ombra delle parole e delle cose, gli angoli bui, i recessi umidi e poco rischiarati.
(Giorgio Linguaglossa)
«Le parole che si riferiscono a dei valori, si svalutano progressivamente come le monete, come, appunto, i valori»
(Andrea Emo, Quaderno 374, 1976)
«Quando pensiamo troppo profondamente, perdiamo l’uso della parola. La parola si può “usare”, cioè profanare, quando non se ne comprende il significato. Se comprendessimo il significato delle parole, non usciremmo mai più dal silenzio».
(Andrea Emo, Quaderno 374, 1976)
A. Emo, la voce incomparabile del silenzio, Gallucci, 2013, p. 110
Da dove viene l’inconscio?
Marie Laure Colasson, 15×30 acrilico, 2020
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«Con concetti come quello di traccia o di differenza, si traduce lo scollamento del soggetto dall’enunciato, dal discorso stesso, di cui diventa impensabile che possa essere il padrone… La differenza è questo scarto, questo recupero impossibile del soggetto da parte del soggetto, incessantemente differito nel movimento del discorso rispetto a quello originario. Il soggetto sarà parlato e significato in una catena senza fine di significanti, in una rete che lo dispiega e nello stesso tempo lo allontana. Cosa dirà dunque Lacan, se non precisamente che “il significante è ciò che rappresenta il soggetto per un altro significante”, espressione celebre che consacra il fossato e la scissione del soggetto da se stesso… Come potrà il soggetto intercalarsi fra l’”io” del suo discorso e se-stesso? Come in Barthes, dove il soggetto non aderisce più al testo, di cui è solo porta-voce e non autore in senso teologico, Lacan fa del soggetto questa presenza assente, questa rottura che fa sì che l’uomo non sia più che segno, con una significanza che si libera dal rapporto fisso al significato, e si sposta al suo luogo. Dovrà così sorgere l’ermeneutica. Il soggetto, altro da sé, avanzerà solo mascherato, stabilendo la sua identità mediante la rimozione dell’altro da sé che egli è. La sua identità si realizza a questo prezzo, e questo prezzo è dunque l’inconscio. In tal modo risulta rimosso lo scarto retorico rispetto a sé, retorico perché l’identità non è più che figurata e non letterale».1]
1] Michel Meyer Problematologia. Pratiche editrice, 1991, p. 183