Ieri mi è arrivato per posta un libretto di Cesare Viviani, La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che… il melangolo, 2018, pp. 76 € 7 pp. 45 e segg. – Risposta di Alfonso Berardinelli, da Poesia non poesia, Einaudi, 2008 

Si è detto che la poesia è anche, immancabilmente, esperienza del limite, limite che è già inizio dell’estraneità, e quindi illeggibile, insuperabile, non c’è parola, intuizione, simbolo o immaginazione capaci di farlo nostro o di ridurlo. È l’equivalente del limite ultimo della vita: in questo senso la poesia è vita, e non limitazione di essa.

Vorrei che fossero altro questi sedicenti poeti, giovanissimi e giovani, che in qualche occasione pubblica mi guardano storto, loro che non hanno letto niente dei libri che ho scritto, e mi salutano appena, forse per fare contento il loro tutore che non mi ama, o forse perché io non sono mai riuscito a elogiare i loro versi.

La poesia è finita. Prima era essere che aveva le vertigini di fronte ai suoi limiti, era essere e non essere. Oggi è un intruglio bastardo di essere e superessere.

Diranno in coro: sarà finita la tua poesia, ma la nostra no!
Ma non è questione di mia o vostra. Insisto: forse non vi accorgete che la poesia non trova più ascolto. Non c’è più spazio per la poesia. Il troppo pieno, la parola piena, la comunicazione continua hanno sepolto i migliori poeti del secondo Novecento: non si leggono più, non hanno più la considerazione che prima, trenta anni fa, si dava loro. Tra vent’anni nessuno saprà più che erano Saba, Erba, Giudici, Luzi, Zanzotto, Sereni, Raboni, Porta… Solo qualche solitario ricercatore universitario… ma saranno pochissimi studiosi. La poesia sarà irrilevante, sarà scomparsa.

Si è detto: la quantità ha spento la qualità. La quantità di internet, della ipercomunicazione pubblicitaria, dei supermercati, dei centri commerciali e di ogni tipo di esposizione e di vendita. Uno dei tanti effetti di distruzione provocata dall’alluvione continua della quantità è la scomparsa (o quasi) di quella sensibilità che faceva distinguere la poesia dalle composizioni in versi (non poesia). Chiediamoci: come faceva Raboni (tanto per fare il migliore esempio) a scegliere i testi da pubblicare (nelle collane da lui curate) o far pubblicare? Si affidava a quella sensibilità ricca di grande talento, di esperienza finissima di lettore, e di una percezione che riassume in sé smisurata cultura e mirabile intelletto e fa riconoscere l’oro tra tanto similoro.

La poesia non può essere affabile, accattivante, popolare, attraente l’immediata emotività: perché la scrittura che ha queste caratteristiche è cattivo giornalismo in versi.

Questo libretto non sarà bene accolto dai poeti giovani e meno giovani. Guai a toccare il narcisismo dei poeti, e di coloro che li limitano scrivendo versi! […]
Beati coloro che credono che la poesia oggi attraversi un periodo di rigoglio e di espansione, di vigore e di qualità, una rinascita. Beati i giornalisti che scrivono, non sapendo cosa scrivere, che la poesia va. beati i poeti che oggi sono i primi perché domani saranno gli ultimi. […]

Il matrimonio dell’invadenza del linguaggio mediatico, superficiale e utilitaristico, con l’opportunismo delle relazioni personali (scambio di favori, protezione come segno di potere, bisogno di seguaci) annienta la poesia.

Prima i poeti che mostravano notevoli qualità riconosciute erano cinque o sei per generazione. Adesso sono cinquanta, tutti meritevoli della stessa attenzione. Altro che livellamento, altro che appiattimento! Non si vuole più distinguere tra poesia e versificazione. È il sottobosco (così lo si chiamava) che si è costruito fusti e rami alti e spaziosi!

Qualcuno ha creduto che l’abbraccio con la dimensione dello spettacolo o con il mondo della rete non fosse mortale per la poesia. Si è sbagliato. Il principio della selezione guida poesia e poeti, principio che è negato da internet e molto spesso anche dallo spettacolo.

La parola di internet è parola abusata. Internet è il luogo dell’abuso della parola. Per essere ancora più chiari: parola violentata, stuprata.

Ora si parla di «contaminazione» possibile tra poesia e canzoni di musica leggera. ma per carità! Come si fa a discutere di una sciocchezza simile? Le due realtà sono una l’opposto dell’altra. la poesia pone questioni grandi sull’esistenza, sul nostro essere al mondo, sui limiti del nostro percepire e sentire, e dunque si rivolge all’irrappresentabile e davanti a esso di ferma.
Le canzoni sono splendidi conforti alle nostre emozioni tristi e nostalgiche e al tempo stesso sono una spinta alla socializzazione.

Rimane a più osservatori oscuro e inspiegabile il risentimento con cui Berardinelli, a partire dal 1981, ha tante volte parlato della poesia italiana del secondo Novecento. Amarezza, asprezza, delusione? Chissà! Eppure anche lui, per un breve periodo, alla fine degli anni Settanta, ha provato a scrivere poesia.

La poesia è come una tessitura finissima e traforata (penso a un merletto, a un pizzo, a una trina) nella quale non è il pieno (i fili) che sostiene i vuoti (i fiori), ma sono i vuoti che sostengono i fili.

Con il proliferare di scriventi versi tutti bravi, può venire a un poeta la tentazione di guidarne un manipolo, di avere un seguito di ammiratori aspiranti a collocazioni pubbliche più alte, visto che quasi sempre non basta loro l’autodesignazione di poeta. Ma questa corrispondenza costerebbe cara al poeta: diventerebbe un principe, o un re, del sottobosco.

Il critico della poesia deve ogni volta coniugare il proprio pensiero con il testo in questione, matrimonio di volta in volta difficile nelle sue particolarità non generalizzabili, e invece non deve ricorrere per tutti i testi alle stesse definizioni, alle stesse formule.

Allora ricapitoliamo le condizioni sfavorevoli alla poesia di oggi: la prima è la pretesa di numerosi giovani (e di alcuni meno giovani) di diventare poeta per grazia sovrannaturale, per miracolo.

Invece bisogna leggere tanta poesia, finché entri nel sangue. e si tratta di leggere le opere dei poeti.

L’imitazione è assolutamente da evitare, quando è consapevole e furba. Quando è inconsapevole (e può succedere spesso ai giovani scrittori anche promettenti), c’è da augurarsi che ci se ne accorga presto.

C’è poi un altro pericolo, l’invadenza e la suggestione dei linguaggi mediatici e pubblicitari. Al tempo stesso c’è l’ambizione di raggiungere i risultati senza abbandonare la pigrizia, col minimo sforzo, con l’autopromozione e l’autodefinizione di «poeta».

Altra condizione sfavorevole per la poesia dei nostri giorni è la critica militante: sempre più occupata dai libri dei narratori seri o improvvisati, sempre meno interessata alla poesia. del resto la logica mercantile si impone su case editrici e giornali, per cui si privilegia ciò che offre più lettori e più vendite.
Ma il problema della critica è l’incontro con la poesia: si dovrebbe illuminare la specificità di ogni testo poetico e invece, come si è detto, è sempre più frequente (salvo qualche bella eccezione) l’uso delle stesse definizioni e frasi, ormai formule di repertorio, per tutti i libri recensiti.

Altra condizione sfavorevole alla poesia riguarda la pubblicazione (l’editoria è entrata in una strettoia). L’editore gradisce e valorizza il libro di narrativa o di poesia che venda molto (è raro che sia la poesia), che abbia un pubblico di acquirenti e lettori numeroso: in tal caso il libro diventa alimento economico per la casa editrice, reddito. Il suo autore sarà trattato con particolare gentilezza e cura. inconsapevolmente anche le persone più limpide e acute, più colte e sensibili subiscono l’effetto di valore del libro che vende molto.

[…]

Ai miei tempi le cose andavano diversamente: nel 1981 e nel 1990 i miei libri di poesia (Mondadori) vinsero due bei premi, e l’editore fece uscire una pubblicità di notevoli dimensioni su “la repubblica”, riproducendovi la copertina del libro (il secondo fu anche ristampato e fascettato col nome del premio), libri che certamente non vendettero più di 1500 o 2000 copie.

Aspirare a un numero elevato di lettori di poesia è un errore…

Esiste la «nuova» poesia, la poesia del Duemila? Non è mai esistita la «nuova» poesia: la poesia è sempre stata la stessa, se è sempre stato indefinibile il suo nucleo essenziale. È pur vero che ogni volta la poesia è nata dalla tradizione… per poi cercare un’originalità di forme e di espressioni. E questa poesia del Duemila, giovane o meno giovane, ha ignorato la tradizione, ha mancato la nascita, non è nata. Si è riempita di parole, frasi, idiomi, suggestioni circolante e corrive, pubblicitarie ed efficaci, mutuate da ogni emittente. Questa poesia non è poesia.

Oggi, nello scrivere versi, si tenta un’operazione analoga a quella delle installazioni nell’arte: un linguaggio interessante, suggestivo, attraente, ben organizzato con belle apparenze, artefatto.

Cari giovani poeti,
vi mando un caro saluto e una raccomandazione: quella di non adirarvi e non angosciarvi se qualcuno critica le vostre poesie e le considera solo scritture in versi. Pur nella relatività di ogni lettura, le critiche possono essere necessarie e salutari proprio per passare dai versi alla poesia.
E noi anziani dobbiamo scusarci con voi e riconoscere che siamo stati colpevoli di alcune bugie per cosiddetta bontà o viltà.

Chi ama la poesia, prima di scriverla, ne leggerà tanta: prima di amare la propria, amerà quella scritta dai poeti che, nei secoli, hanno fatto conoscere la loro opera. Chi scrive versi senza aver prima smisuratamente amato la poesia è un povero naufrago nel mare del narcisismo.

Il miglior consiglio che si può dare a chi si avvicina alla scrittura della poesia… è quello di evitare gli insegnamenti. e quindi: non frequentare scuole di scrittura o di poesia.

Uno che sa tutto, saccente, non sarà un poeta. Uno che pensa di potere tutto, arrogante, e si compiace della propria abilità non sarà un poeta. La misura di sé non è un rispecchiamento compiaciuto («quanto sono bravo»). Misura di sé è qualcosa che non ha niente a che fare con le tentazioni dell’infinito: è cosa finita, è percezione netta, nuda e cruda, dei limiti (della misura), dei limiti superabili e poi, necessariamente, anche di quelli insuperabili.

Se tutte le frasi pensate, se tutti i pensieri cominciano o contengono il pronome “io”, e se l’interesse personale occupa tutto lo spazio dell’immaginazione e dell’emozione, allora in questo caso siamo lontani dalla poesia… se l’io invade e domina anche lo spazio delle relazioni affettive e dei pensieri rivolti all’umanità e alla società… allora con questo io sovrano sarà impossibile arrivare a scrivere poesia.

( La vita presenta a volte strane coincidenze. e sono davvero strane coincidenze – non c’è malizia. Per esempio, una che mi è capitata: finché si è pensato che potessi avere un qualche potere editoriale o recensorio, il telefono squillava ogni giorno con voci amiche e gentili. Quando si è capito che non ho nessun potere, nessuno più mi ha chiamato né è venuto a farmi visita. Così come un’altra casualità: se ad un giornale collabora un recensore che ha un cattivo rapporto personale con un poeta, possono verificarsi casuali effetti di allineamento degli altri recensori, e va a finire che su quel foglio nessuno scriverà di quel poeta. Ma allora, tutto il mondo è paese?)

Risposta di Alfonso Berardinelli, da Poesia non poesia, Einaudi, 2008 pp. 4 e segg.

https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/06/25/alfonso-berardinelli-in-poesia-si-puo-parlare-di-tutto-cosi-la-poesia-si-e-resa-irrilevante-e-un-nome-vuoto-da-annuario-a-cura-di-giorgio-manacorda-castelvecchi-1994/

Le regole che governano la produzione giornalistica e i media sono ormai piú impegnative di quelle che governano i testi poetici. A un vero poeta una sfida del genere non dovrebbe dispiacere.

Io non credo nella poesia. Credo soltanto in quelle poesie che mi fanno credere in loro. Se convince il lettore, la poesia non ha bisogno di essere difesa. Se non lo convince perché difenderla?
Credo che oggi il piú insidioso e temibile nemico della poesia sia la poesia stessa, o meglio la sua idea, il suo mito, la sua nobiltà tradizionale: un valore che appare tuttora garantito di per sé come eccellente.

Dopo il 1975, a partire da un libro inchiesta che pubblicai con Franco Cordelli, Il pubblico della poesia, il recupero e la “riappropriazione”della poesia da parte di tutti (il Movimento) comportarono  l’oblio di circa il precedente e più che secolare dispiegamento di coscienza autocritica che aveva caratterizzato la poesia moderna. Un’autocritica produttiva se aveva prodotto Schiller, Leopardi, Baudelaire, Eliot, Majakovskij, Montale, Ungaretti, Brecht, i surrealisti e innumerevoli altri classici della modernità.

A metà degli anni Settanta diventò chiaro che si stava ricominciando da un grado zero dell’autocoscienza storica. Cosa che in sé poteva anche significare un nuovo e particolare tipo di interruzione della continuità rispetto al passato prossimo. Niente più né impegno né avanguardia. Cioè niente rapporto dialettico fra poesia e storia, fra evoluzione o mutamento delle forme letterarie e processo storico, comunque lo si intendesse. Il potenziale autocritico precedente, in Italia sintetizzato da poeti ipercritici come Fortini e Sanguineti, veniva disinnescato perché il fardello dei presupposti di autocoscienza storica era diventato troppo pesante per i nuovi poeti. L’autonomia, l’autarchia creativa veniva ora resa possibile dall’eliminazione di quel particolare negativismo ascetico trasmesso dall’Estetica del Silenzio (come la definì Susan Sontag) e dalle ipotesi sulla fine imminente dell’Arte.

Le poesie di Amelia Rosselli, Fortini, Zanzotto, Sanguineti sembravano scritte nel giorno che precede una rivoluzione capace di rendere superflua la creatività specificamente e tradizionalmente artistica. Non a caso nella prefazione al Pubblico della poesia, evocando ironicamente il pathos novecentesco del rapporto poesia-rivoluzione, scrivevo che un poemetto di Gregorio Scalise, un po’ come le poesie di Francis Ponge, sembrava scritto dopo una rivoluzione vittoriosa. Dato che non c’era stata, propriamente parlando, nessuna rivoluzione, quel dopo significava nient’altro che l’idea di rivoluzione aveva cominciato improvvisamente ad appartenere al passato. La poesia era quindi libera di riprodursi in regime di innocenza storica e politica. Non doveva rispondere a nessun tribunale.

La stessa critica letteraria era disarmata e priva di legittimazione “militante”, fondata in precedenza, da circa due secoli, sul conflitto fra tradizione e innovazione, fra rivoluzione e restaurazione, fra progressismo e conservatorismo. Perciò: scrivete pure poesia senza pensarci troppo! Nessuno potrà più giudicarvi in nome di presunte istanze superiori (cioè storico-politiche) né teoriche né pratiche!

Intorno alla metà degli anni Settanta, la poesia di oggi non era più la poesia di ieri. E la poesia di oggi era quella che scrivevano e avrebbero scritto le generazioni nate dopo il 1935. Il salto, il distacco (volendo fare solo qualche nome) è quello che avviene fra Pagliarani e Zeichen, fra Raboni e Cucchi, fra Andrea Zanzotto e Patrizia Cavalli. Cosa era successo in quell’intervallo? Si possono fare diverse ipotesi. Ne faccio due, intanto. La prima è che l’idea ossessiva dell’interruzione della continuità e del balzo da una sponda all’altra della Storia, senza aver prodotto l’avvento di una società liberata e senza classi, aveva prodotto invece la situazione pomoderna – che in verità ha caratterizzato in forme implicite tutto il periodo che segue il 1945 e in forme esplicite il cosiddetto post-Sessantotto.

Eravamo, nel 1975, alle forme esplicite. Il fardello della modernità veniva deposto. La croce dell’autocritica dell’arte veniva abbandonata. Si cominciava, si ricominciava a scrivere in un diverso tipo di presente, un presente senza passato. O meglio: in un presente che non riconosceva più nessun privilegio al passato prossimo, moderno e novecentesco, ma poteva invece compiere vertiginosi, remunerativi o del tutto gratuiti salti all’indietro, in diversi passati remoti. Si poteva scrivere poesia pensando a Lucrezio, a Catullo, a Marziale, a Guido Cavalcanti, e John Donne, a Metastasio, a Shelley. Nel giro di pochi anni la stessa Tradizione del Nuovo, cioè tutta la poesia moderna era visitata non più come un tempio in cui compiere atti di fede, di iniziazione e di sacrificio, ma come un museo dentro cui aggirarsi, un po’ oziosamente, in cerca di evasioni o di modelli da imitare senza impegno e senza neppure crederci troppo. Baudelaire poteva essere riletto come Villon, Whitman come Bukovski o Carver. Tutti ugualmente attuali e archeologici, viventi e sepolti nello stesso tempo. L’eterno ieri (che secondo Max Weber fonda la Tradizione), ormai senza più nessuna autorità e al servizio del presente, si estendeva da Saffo e Li Po fino a Elsa Morante, Penna e Caproni.

Marie Laure Colasson Notturno 9 collage 30x25 cm 2007

Marie Lure Colasson, Collage, 2010

Inebriante libertà! Tutto era possibile: dalle centurie di quartine di Patrizia Valduga, dagli endecasillabi e settenari di Bianca Tarozzi, di Patrizia Cavalli e Riccardo Held, fino ai versi liberi (sempre troppo liberi) e alla prosa poetica senza «a capo» che più recentemente si sta impadronendo dei libri di poesia e  si alterna agli eccessi di metricismo.

Circa quindici anni fa, quello che allora era un giovane critico, Mario Barenghi, scrisse su “Linea d’ombra” un intervento sorprendente che non riesco a dimenticare. Proprio mentre si diffondevano le più convinte e in apparenza inoppugnabili certezze sulla creatività poetica ritrovata, ecco che Barenghi diceva una verità altrettanto e ancora più inoppugnabile. Si chiedeva come mai, alla fine di ogni anno, quando facciamo i nostri personali bilanci di lettori e ci sentiamo in debito per non aver letto quel romanzo o quel saggio, perché fra i libri che sentiamo di aver dovuto leggere non ci sono mai, ma proprio mai, i libri di poesia contemporanea. Chi si sente più in difetto o in colpa per non aver neppure preso in considerazione i trenta o i sessanta volumetti poetici pubblicati nell’ultimo anno? Nessuno si rammarica più, diceva Barenghi, di queste lacune e inadempienze. Neppure i critici, gli studiosi, i docenti di letteratura contemporanea.

Dopo molti anni da quella scoperta di Barenghi le cose non sono cambiate. Escono diverse antologie. Ma bisogna proprio essersi programmati come critici di poesia italiana attuale per leggere queste antologie sempre più pletoriche, per analizzarne i criteri di selezione e valutare le scelte critiche dei curatori. Si fa presto. Basta un’occhiata ai poeti inclusi per controllare quanti e quali sono i poeti esclusi ( si procede per decine, non per unità). Si scorre l’introduzione. Ma chi legge o rilegge davvero le poesie antologizzate? […] Il vincolo con il passato si è allentato fino a diventare inafferrabile per tutta la letteratura, non solo per la poesia. Ma almeno la narrativa e la saggistica hanno il loro pubblico. Il pubblico della poesia resta un fantasma, un pubblico di non lettori, una virtualità che sembra condannata a rimanere tale.

Come si può parlare criticamente, usando il linguaggio della critica letteraria, voglio dire, con il suo carico di cognizioni storiche e tecniche, occupandosi di tanti nuovi poeti? Me lo chiedo da tre decenni. Ma ogni volta è come se fosse la prima volta. La produttività poetica dilaga. Negli ultimi due o tre anni devo essermi distratto (me ne accorgo ora) perché apprendo che sono nate nuove scuole, nuove tendenze, di tonalità prevalentemente sadico-ilare o depresso-sadica. Ci sono in giro e in piena attività almeno venti o trenta poeti di cui so ben poco. Provo a leggere, a informarmi. Ma noto che la cosa più difficile è proprio questa. Già dire leggere è un eufemismo, perché leggere la maggior parte di queste poesie è difficile. Non meno difficile è quindi informarsi perché dai testi antologizzati si ricava poco, non bastano a farsi un’idea degli autori, mentre i libri interi sono ridondanti e fuori misura, perché dopo le prime pagine si sa già tutto.

Leggere i poeti italiani contemporanei è quasi sempre esasperante. non si capisce perché dopo quella frase c’è quell’altra, non si capisce perché il testo finisce a quel punto, non prima, non dopo. È veramente strano che con tante scuole di scrittura creativa, nessuno sia riuscito, in questi ultimi dieci anni, a insegnare il minimo di tecnica utile.

…Il titolo di un libro di Alessandro Carrera: I poeti sono impossibili… il libro possiede un’importante qualità letteraria: la capacità davvero molto poetica di far vedere che oggi come ieri la poesia la fanno i poeti e che quindi finisce inevitabilmente per somigliare a loro.

All’inizio del quarto capitolo, intitolato Siamo tutti grandissimi poeti, Carrera ci ricorda una cosa: Robert Musil «osservò che la decadenza della modernità era iniziata il giorno in cui nella cronaca sportiva di un quotidiano viennese si potè leggere che un certo cavallo, gran vincitore di corse, era geniale».

Orazio lamentava che i poeti fossero innumerevoli. Quevedo scriveva che «Dio aveva mandato un’epidemia di poeti in Spagna per punirci dei nostri peccati; due secoli dopo, Pietro Giordani, si lamentava con Leopardi che ormai chiunque sapesse leggere e scrivere si riteneva in grado di impugnare carta e penna e gettar giù versi a profusione. Osip Mandel’stam constatava con scoramento l’esistenza di un miserabile esercito di poeti che aveva invaso la Mosca rivoluzionaria». Montale scrisse che «se Guglielmo Giannini, invece di fondare il movimento dell’Uomo qualunque, con obbligo dello stato di stampare a proprie spese i versi di ogni cittadino, avrebbe mandato almeno un centinaio di deputati in Parlamento»

55 commenti

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55 risposte a “Ieri mi è arrivato per posta un libretto di Cesare Viviani, La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che… il melangolo, 2018, pp. 76 € 7 pp. 45 e segg. – Risposta di Alfonso Berardinelli, da Poesia non poesia, Einaudi, 2008 

  1. In onore di Alfredo de Palchi, pubblico qui questa mia invettiva:
    LA VOSTRA GENERAZIONE SFORTUNATA

    Ieri mi è arrivato per posta un libretto di Cesare Viviani, La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che… il melangolo, 2018, pp. 76 € 7 pp. 45 e segg. – Risposta di Alfonso Berardinelli, da Poesia non poesia, Einaudi, 2008 


    à la maniére di Trasumanar e organizzar (1971)

    Cara generazione sfortunata dei poetini di vent’anni,
    di trent’anni, di quarant’anni, di cinquant’anni, di sessant’anni…
    Vi scrivo questa lettera.

    Guardatevi intorno:
    dove vi sta portando questo treno di feroce mediocrità,
    di feroce ambiguità, di feroce ipocrisia?
    Guardatevi allo specchio: siete tutti invecchiati, imbruttiti, malvissuti
    vi credevate giovani e invece siete diventati vecchi, conformisti,
    leghisti, sfigati, banali, balneari…

    Che tristezza vedo nelle vostre facce,
    che ambiguità, che feroce vanità, che feroce mediocrità:
    CL, PD, PDL 5Stelle, Casa Pound, destra, sinistra, pseudo destra, pseudo sinistra,
    immigrati, emigrati, referenziati con laurea, senza laurea,
    con diplomi raccattati, rattoppati, infilati nel Sole 24 ore,
    settore cultura, nella Stampa,
    a scrivere le schedine editoriali degli amici e degli amici degli amici,
    nelle case editrici che non contano più nulla…

    Guardatevi allo specchio: siete sordidi, stolidi, non ve ne accorgete?
    Guardatevi allo specchio! Siete dei Buffoni, dei malmostosi!
    Che tristezza questa italia defraudata,
    derubata, ex cattocomunista, leghista, cinquestellista, renzista…
    Voi, Voi, Voi soltanto siete responsabili
    della vostra inaffondabile mediocrità,
    e non chiamate in causa la circostanza della mediocrità altrui,
    della medietà generalizzata,
    la responsabilità è personale ai sensi del codice penale
    e del codice civile…

    Voi, unicamente Voi siete i responsabili
    della vostra insipienza e goffaggine intellettuale…
    Che tristezza: non avete niente da dire, niente da fare,
    disoccupati dello spirito e disoccupati
    della stagnazione universale permanente che vi ha ridotto
    a mostri di banalità con i vostri pensierini
    paludosi e vanitosi alla ricerca di un grammo di visibilità
    nei network, nei social, con il vostro sito di leccaculi e di paraculi,
    svenduti senza compratori…

    Che tristezza vedervi tutti abbottonati, educati e impresentabili
    in fila dinanzi agli uffici stampa degli editori
    a maggior diffusione nazionale!
    Che tristezza nazionale!

    Caro Pier Paolo, quel giorno di novembre del 1975
    io ero a Roma, scendevo alla fermata del bus 36
    (catacombe di Sant’Agnese) per andare a via Lanciani
    al negozio di scarpe di mio padre quando seppi del tuo assassinio…

    Capii allora che un mondo si era definitivamente chiuso,
    che sarebbero arrivati i corvi e i leccapiedi
    e i leccaculo, i mediocri, i portaborse…

    Lo capii allora scendendo dal bus la mattina,
    erano le ore 8 del mattino o giù di lì,
    e capii che era finita per la mia generazione e per quelle a venire…
    Lo ricordo ancora adesso. È un lampo di ricordo.

    (scritta in diretta, su L’Ombra delle Parole)

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  2. donatellacostantina

    La Poésie est morte, vive la Poésie!!

    Alla morente poesia, poi, Facebook ha dato il colpo di grazia; Facebook, insieme a tutte quelle pseudo case editrici mangiasoldi, che danno vita a un mercato parallelo di poeti inesistenti; insieme a tutti quei concorsini e concorsucoli, che risucchiano i partecipanti nelle famigerate Antologie…
    E così via.

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  3. Penso che illustrare con alcuni esempi di quello che è stata la poesia italiana sia doveroso ed inizio con questo video:
    Le ceneri di gramsci di Pier Paolo Pasolini
    nella magistrale interpretazione di Pier Paolo Pasolini, dove il grido interiore del poeta è rivolto alla società italiana includendo anche quella letteraria come un monito, in particolare la II parte:

    – II – da Le ceneri di Gramsci di Pier Paolo Pasolini

    Tra i due mondi, la tregua, in cui non siamo.
    Scelte, dedizioni… altro suono non hanno
    ormai che questo del giardino gramo

    e nobile, in cui caparbio l’inganno
    che attutiva la vita resta nella morte.
    Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno

    che mostrare la superstite sorte
    di gente laica le laiche iscrizioni
    in queste grigie pietre, corte

    e imponenti. Ancora di passioni
    sfrenate senza scandalo son arse
    le ossa dei miliardari di nazioni

    più grandi; ronzano, quasi mai scomparse,
    le ironie dei principi, dei pederasti,
    i cui corpi sono nell’urne sparse

    inceneriti e non ancora casti.
    Qui il silenzio della morte è fede
    di un civile silenzio di uomini rimasti

    uomini, di un tedio che nel tedio
    del Parco, discreto muta: e la città
    che, indifferente, lo confina in mezzo

    a tuguri e a chiese, empia nella pietà,
    vi perde il suo splendore. La sua terra
    grassa di ortiche e di legumi dà

    questi magri cipressi, questa nera
    umidità che chiazza i muri intorno
    a smotti ghirigori di bosso, che la sera

    rasserenando spegne in disadorni
    sentori d’alga… quest’erbetta stenta
    e inodora, dove violetta si sprofonda

    l’atmosfera, con un brivido di menta,
    o fieno marcio, e quieta vi prelude
    con diurna malinconia, la spenta

    trepidazione della notte. Rude
    di clima, dolcissimo di storia, è
    tra questi muri il suolo in cui trasuda

    altro suolo; questo umido che
    ricorda altro umido; e risuonano
    – familiari da latitudini e

    orizzonti dove inglesi selve coronano
    laghi spersi nel cielo, tra praterie
    verdi come fosforici biliardi o come
    smeraldi: “And O ye Fountains…” – le pie
    invocazioni…

    Le ceneri di gramsci di Pier Paolo Pasolini

    Per quanto riguarda i poeti contemporanei bisogna tenere conto dell’ultima strofa di questo capolavoro di Giosuè Carducci che trovo significante come un monito allo studio e la lettura da parte di certi poeti che non leggono mai un libro.

    Canto di marzo
    di Giosuè Carducci

    Quale una incinta, su cui scende languida
    languida l’ombra del sopore e l’occupa,
    disciolta giace e palpita su ‘l talamo,
    sospiri al labbro e rotti accenti vengono
    e súbiti rossor la faccia corrono,

    tale è la terra: l’ombra de le nuvole
    passa a sprazzi su ‘l verde tra il sol pallido:
    umido vento scuote i pèschi e i mandorli
    bianco e rosso fioriti, ed i fior cadono:
    spira da i pori de la glebe un cantico.

    – O salïenti da’ marini pascoli
    vacche del cielo, grigie e bianche nuvole,
    versate il latte da le mamme tumide
    al piano e al colle che sorride e verzica,
    a la selva che mette i primi palpiti -.

    Cosí cantano i fior che si risvegliano:
    cosí cantano i germi che si movono
    e le radici che bramose stendonsi:
    cosí da l’ossa dei sepolti cantano
    i germi de la vita e de gli spiriti.

    Ecco l’acqua che scroscia e il tuon che brontola:
    porge il capo il vitel da la stalla umida,
    la gallina scotendo l’ali strepita,
    profondo nel verzier sospira il cúculo
    ed i bambini sopra l’aia saltano.

    Chinatevi al lavoro, o validi omeri;
    schiudetevi a gli amori, o cuori giovani;
    impennatevi a i sogni, ali de l’anime;
    irrompete a la guerra, o desii torbidi:
    ciò che fu torna e tornerà ne i secoli.

    E se non ha capito bene Giuseppe Ungaretti di come andava ad affossarsi anche la letteratura contemporanea, nessuno lo abbia mai capito.

    Senza più peso
    di Giuseppe Ungaretti

    Per un Iddio che rida come un bimbo,
    tanti gridi di passeri,
    tante danze nei rami,

    un’anima si fa senza più peso,
    i prati hanno una tale tenerezza,
    tale pudore negli occhi rivive,

    le mani come foglie
    s’incantano nell’aria…

    Chi teme più, chi giudica?

    Versi che trovo eloquenti per quanto riguarda certi concorsi letterari, non aggiungo altro.

    Leggendo alcuni dei poeti contemporanei italiani e romeni, e non solo, anche stranieri che sono promossi in questo mondo invaso dal web, non a fin di bene della pregevole poesia, con un metro di misura differente da essere memorabile e rimanere, sento una rivolta dentro e un grido che fa nascere domande: «Chi tra noi legge ancora? Chi apre più un libro di poesia? Suscitiamo curiosità o solo chicchera priva di fondamenti? Se si loro dimenticheranno a breve, di noi chi si ricorderà?»

    L’ennesimo pensiero sulla poesia di Lidia Popa
    (inedita scritta in diretta qui 31 maggio 2018 ore 12:28 cca)

    Amo la poesia con un amore
    che parte dalle viscere,
    si fa carne e sangue,
    nuoto un pesciolino stanco
    tra squali senza denti, senza alcun brivido.

    Anche se sono esile ombra di cipressi,
    apriti Terra e avvolgimi, per diventare come te!

    In questo mondo di chiacchiere, senza futuro,
    manca l’educazione alla fantasia,
    galleggio come un flutto vuoto nell’oceano,
    una balenottera azzurra
    naufragando su una spiaggia qualunquista.

    L’emozione si è suicidata sulle sabbie mobili. [* continuerò]

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    • Errata corrige: * Suscitiamo curiosità o solo chiacchiera priva di fondamenti?

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      • Per chi ama la poesia, meditare a come farla sua, sono un esempio questi versi di Mario Luzi. “In due” o in tanti, un monito a scavare dentro noi stessi, non lasciarsi intimidire, proseguire per riscoprirla e ammirarla.

        In due di Mario Luzi da “Nel magma”

        «Aiutami» e si copre con le mani il viso
        tirato, roso da una gelosia senile,
        che non muove a pietà come vorrebbe ma a sgomento e a orrore.
        «Solo tu puoi farlo» insistono di là da quello schermo
        le sue labbra dure
        e secche, compresse dalle palme, farfugliando.
        Non trovo risposta, la guardo
        offeso dalla mia freddezza vibrare a tratti
        dai gomiti puntati sui ginocchi alla nuca scialba.
        «L’amore snaturato, l’amore infedele al suo principio»
        rifletto, e aduno le potenze della mente
        in un punto solo tra desiderio e ricordo
        e penso non a lei
        ma al viaggio con lei tra cielo e terra
        per una strada d’altipiano che taglia
        la coltre d’erba brucata da pochi armenti.
        «Vedi, non trovi in fondo a te una parola»
        gemono quelle labbra tormentose
        schiacciate contro i denti, mentre taccio
        e cerco sopra la sua testa la centina di fuoco dei monti.
        Lei aspetta e intanto non sfugge alle sue antenne
        quanto le sia lontano in questo momento
        che m’apre le sue piaghe e io la desidero e la penso
        com’era in altri tempi, in altri versanti.
        «Perché difendere un amore distorto dal suo fine,
        quando non è più crescita
        né moltiplicazione gioiosa d’ogni bene,
        ma limite possessivo e basta» vorrei chiedere
        ma non a lei che ora dietro le sue mani piange scossa da un brivido,
        a me che forse indulgo alla menzogna per viltà o per comodo.
        «Anche questo è amore, quando avrai imparato a ravvisarlo
        in questa specie dimessa,
        in questo aspetto avvilito» mi rispondono, e un poco ne ho paura
        e un po’ vergogna, quelle mani ossute
        e tese da cui scende qualche lacrima tra dito e dito spicciando.

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  4. IL GRANDE PROGETTO: USCIRE DAL NOVECENTO

    Ieri mi è arrivato per posta un libretto di Cesare Viviani, La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che… il melangolo, 2018, pp. 76 € 7 pp. 45 e segg. – Risposta di Alfonso Berardinelli, da Poesia non poesia, Einaudi, 2008 


    …quello che rimane da fare è il tragitto più lungo e tortuoso: appunto, uscire dal Novecento. Infrangere ciò che resta della riforma gradualistica del traliccio stilistico e linguistico sereniano ripristinando la linea centrale del modernismo europeo. È proprio questo il problema della poesia contemporanea, credo. Come sistemare nel secondo Novecento pre-sperimentale un poeta urticante e stilisticamente incontrollabile come Alfredo de Palchi con La buia danza di scorpione (1947)? Diciamo che il compito che la poesia contemporanea ha di fronte è: l’attraversamento del deserto di ghiaccio del secolo sperimentale per approdare ad una sorta di poesia sostanzialmente pre-sperimentale e post-sperimentale (una sorta di terra di nessuno?); ciò che appariva prossimo alla stagione manifatturiera dei «moderni» identificabile, grosso modo, con opere come il Montale di dopo La Bufera (1956) – (in verità, con Satura – 1971 – Montale opterà per lo scetticismo alto-borghese e uno stile intellettuale antidemotico, uno stile in diminuendo che avvrà una lunghissima vita ma fantasmatica, uno stile da larva, da «ectoplasma» costretto a nuotare nella volgarità della nuova civiltà dei consumi. Consideriamo adesso un grande poeta di stampo modernista come Angelo Maria Ripellino degli anni Settanta: da Non un giorno ma adesso (1960), all’ultima opera Autunnale barocco (1978), passando per le tre raccolte intermedie apparse con Einaudi Notizie dal diluvio (1969), Sinfonietta (1972) e Lo splendido violino verde (1976), dovremo ammettere che la linea centrale del secondo Novecento è costituita dai poeti modernisti. Come negare che opere come Il conte di Kevenhüller (1985) di Giorgio Caproni non abbiano una matrice modernista? La migliore produzione della poesia di Alda Merini la possiamo situare a metà degli anni Cinquanta, con una lunga interruzione che durerà fino alla metà degli anni Settanta: La presenza di Orfeo è del 1953, la seconda raccolta di versi, intitolata Paura di Dio con le poesie che vanno dal 1947 al 1953, esce nel 1955, alla quale fa seguito Nozze romane e; nel 1976, il suo lavoro più impegnativo: La Terra Santa. Ragionamento analogo dovremo fare per la poesia di una Amelia Rosselli, da Variazioni belliche (1964) fino a La libellula (1985); il suo è un personalissimo itinerario che non rientra né nella tradizione né nell’antitradizione. La poesia di Helle Busacca (1915-1996), con la fulminante trilogia degli anni Settanta: I quanti del suicidio (1972), I quanti del karma (1974), Niente poesia da Babele (1980), è un’operazione di stampo schiettamente modernista.

    Un tirocinio ascetico la cui spia è costituita da uno stile intellettuale-personale con predilezione per gli attanti astratti (la Rosselli), una predilezione per gli attanti concreti (la Merini), e per il vissuto-concreto (la Busacca), spinge questa poesia verso una spiaggia limitrofa e liminare a quella del tardo Novecento sempre più stretta dentro la forbice: sperimentalismo-orfismo. Direi che il punto di forza della linea modernista risiede appunto in quella sua estraneità alla forbice imposta dalla ideologia stilistica dominante.

    La forma della «rappresentazione» di questa poesia, il suo peculiare tratto stilistico, il tragitto eccentrico, a forma di serpente che si morde la coda, è qui un rispecchiamento del legame «desiderante» della relazione che identifica l’oggetto da conoscere e lo definisce in oggetto posseduto. Gli atti «desideranti» (intenzionali) del soggetto esperiente definiscono l’oggetto in quanto conosciuto e, quindi, posseduto. Di fronte al suo «oggetto» questa poesia sta in relazione di «desiderio» e di «possesso», oscilla tra desiderio e possesso; è un sapere dominato dalla nostalgia e dalla rivendicazione per il mondo un tempo posseduto e riconosciuto. È perfino ovvio asserire che soltanto il riconoscibile entra in questa poesia, con il suo statuto e il suo vestito linguistico, mentre l’irriconoscibile è ancora di là da venire, resta irriconosciuto, irrisolto e, quindi, non pronunziato linguisticamente. La formalizzazione linguistica non può che procedere attraverso il «conosciuto», il «noto». Questo complesso procedere rivela l’aspetto stilistico (intimamente antinomico) di una poesia attestata tra il desiderio e la rivendicazione di un mondo «altro», tra la vocazione e la provocazione, tra il lato riflessivo e il lato cognitivo dell’intenzione poetica. Di fatto, non si dà intenzione poetica senza una macchina desiderante dell’oggetto (con il suo statuto linguistico e stilistico). La poesia che si fa strada consolidandosi appresso alla propria ossatura linguistica allude al tragitto percorso dalla contemplazione alla rivendicazione. Sembra una tautologia, la Poesia Modernista degli anni Settanta resta impigliata dentro l’ossatura del paradigma novecentesco: ma non quello maggioritario, eletto a «canone» (attraverso le primarie e le secondarie delle istituzioni stilistiche egemoni), ma quello laterale, e ben più importante, che attraversa la lezione di Franco Fortini passando per la poesia di un Angelo Maria Ripellino, fino a giungere ai giorni nostri.

    La contro rivoluzione al linguaggio poetico sclerotizzato del post-orfismo e del post-sperimentalismo è impersonata dal destino di un poeta scomparso all’età di 36 anni: Salvatore Toma. Il suo Canzoniere della morte (edito con venti anni di ritardo nel 1999), ci consegna il testamento di una diversità irriducibile vergato con il linguaggio più antiletterario immaginabile. Una vera e propria liquidazione di tutti i manierismi e di tutte le oreficerie, le supponenze, le vacuità dei linguaggi letterari maggioritari. Affine al poeta pugliese è il tragitto del lucano Giuseppe Pedota con la riproposizione di un personalissimo discorso lirico (Acronico – 2005, che raccoglie scritti di trenta anni prima) che sfrigola e stride con l’impossibilità di operare per una poesia lirica dopo l’ingresso nell’età post-lirica: propriamente, nella post-poesia.

    Una direzione «in diagonale» è invece quella del piemontese Roberto Bertoldo, il quale si muoverà alla ricerca di una poesia che si situi fuori dal post-simbolismo (salvando di questo il suo contenuto di verità), con opere come Il calvario delle gru (2000) e L’archivio delle bestemmie (2006). Nell’ambito del genere della poesia-confessione, già dalla metà degli anni Ottanta emergono Sigillo (1985) di Giovanna Sicari e, all’inizio degli anni Novanta, Stige (1992) di Maria Rosaria Madonna, una delle maggiori poetesse del novecento della quale Progetto Cultura di Roma ha pubblicato in questi giorni Stige. Tutte le poesie (1990-2002) pp. 150 € 12; ricordo qui anche Altre storie per album di Giorgia Stecher (1996).

    Nella poesia di Roberto Bertoldo vi sono dei cunicoli sotterranei tra i diversi gradi di esperienza che l’oggetto linguistico rivela, v’è un continuum (topologico e metaforico), salti semantici e metaforici, si rinviene una retorizzazione di stampo modernista (né in posizione di punta né in posizione di retroguardia), una «lontananza» dall’oggetto da sedimentare nell’impianto stilistico. L’io percipiente contempla e, contemplando, reclama l’oggetto del suo desiderio. La riproposizione della centralità del soggetto percipiente è qui un passo obbligato: la condanna degli «oggetti» e della «Storia». Bertoldo individua una via di uscita dalla frammentazione dell’«oggetto» e dalla dissoluzione del «soggetto» attraverso la metafora: due discontinuità che si sommano, anzi, si sovrappongono. E si elidono. La continuità della percezione si converte in interferenza, intermittenza, simbiosi anche stilistica che si risolve nella «cicatrice» della metafora. Poesia che tenta la costruzione di un argine al problema del «vedere», anzi, della «cecità» propria del minimalismo (tutto incentrato sulla riproposizione della centralità di un «io ingenuo» e acritico che economizza nell’atto del vedere e travasa il problema nell’atto del commentario agli eventi della cronaca).

    Nell’ambito del «cultismo decorativo» va ascritta una certa poesia, esemplare il caso di Francesco Nappo i cui libri pubblicati nel 2008 sono stati scritti negli anni Novanta: Genere e Requie materna ora in Poesie 1979-2007 edito da Quodlibet (2008); lo sperimentare arcaico di Nappo si incontra con un dettato linguistico culto-ultroneo-intellettuale che ne fa una operazione sopraindividuale e sovrastorica, direi sovra stilistica (un ipercritico idioletto ragguagliabile al parametro piccolo-borghese della poesia italiana maggioritaria).
    Mi soffermo qui sulla poesia del terzo periodo di Cesare Viviani che va dal 2000 ai giorni nostri: troviamo una tensione narrativa, la problematica per eccellenza del nostro tempo post-utopico: la mancanza di radici del soggetto nell’epoca della globalizzazione e della post-massa, la problematica svolta va di pari passo con uno stile de-territorializzato e minimal, quasi didascalico, astratto, o meglio, che si è liberato del «soggetto». Viviani scrive una sorta di auto riflessione in versi che unisce il sotto genere della considerazione con quello dell’espressione aforistica e saggistica, un modo di scrivere che potremmo definire «orale». Nel 2000 esce Silenzio dell’universo, seguiranno Passanti (2002), La forma della vita (2005), Credere all’invisibile (2009).

    Segnalo infine due poeti significativi della Generazione degli anni Dieci: Letizia Leone con L’ora minerale, (2004); Carte Sanitarie, (2008); La disgrazia elementare (2011); Confetti sporchi (2013) e Donatella Costantina Giancaspero con Ma da un presagio d’ali (2016) poetesse che si muovono in direzione di un modernismo che tenta di liberarsi delle ipoteche stilistiche tardo novecentesche alla ricerca di un linguaggio che si mantenga, pur in equilibrio precario e antinomico, in contatto con la lingua di relazione.

    Ciò che emerge da questi brevi cenni è che è necessario che la poesia rompa le righe del politically correct, che occorre deragliare da un certo impiego (ormai consunto) di un certo «quotidiano» e di un certo linguaggio «mitopoietico» divenuto ancillare e tautologico. È venuto il tempo di ripensare la storia della poesia italiana del secondo Novecento, individuare una diversa lettura in diagonale della poesia del Novecento, in mancanza di questa ricerca sarà difficile scrivere la poesia del futuro.

    Emerge subito un problema: che non si dà soluzione stilistica alla de-territorializzazione del linguaggio poetico che si è avuto nel tardo Novecento, il problema è più ampio. In verità, i linguaggi poetici dell’epoca mediatica possono al massimo prendere in prestito la de-territorializzazione (dall’empiria dei linguaggi mediatici) per una infarinatura della modernizzazione linguistica; non riescono a trovare la soluzione stilistica ad un problema che stilistico non è. In altre parole, il linguaggio cosmopolitico con cui la quasi totalità della poesia contemporanea viene scritta, è un linguaggio de-nuclearizzato e de-vitalizzato (a prescindere dal pedale alto o basso che esso impiega, qui non si tratta di andare in bicicletta), un linguaggio che insegue (inconsapevolmente) la brevità e la sintesi dello spot pubblicitario, una sorta di traduzione in linguaggio lineare del linguaggio televisivo-mediatico (questo sì sinestesico!). Al parametro del linguaggio universale indotto dal villaggio mediatico, la poesia contemporanea si ribella (anzi si maschera) adottando una stilizzazione iperletteraria, accentuando gli aspetti pre-sperimentali e pre-critici e una «chiusura» marcatamente «intima», «squisita», «effabile», «affabile» etc..
    Sorge una domanda, apparentemente ingenua: quali sono le esperienze significative (gli oggetti concreti) che la poesia deve prendere in considerazione? Inoltre, la mancanza di un «luogo», di una polis, quali conseguenze hanno (e avranno) sull’avvenire e il presente della poesia? Di qui il bisogno di rispondere a queste domande, di ricostruire delle parentele e dei legami parentali con altri poeti della contemporaneità, quasi che la consanguineità potesse sopperire alla mancanza di sangue. Così, sottratta al «luogo», la migliore poesia contemporanea tenta di ricostruire e riallacciare i rapporti con la grande tradizione del Novecento. È questa la sua problematica mission.

    Quello che rimane oggi, a distanza di quasi cinquanta anni, della poesia con impianto narrativo-autobiografico, una volta caduta l’impalcatura ideologica dell’epoca pre-modernistica, si rivela essere una colloquialità atopica e post-utopica, una intimità autotelica infirmata e riformulata, uno spostamento-spaesamento dell’«io» egolalico. La poesia dialogo con l’interlocutore è diventata problematica, è diventata un rimuginare sulla problematicità di un dialogo interrotto e non più recuperabile. Il ricorso alla metafora è, in questa poesia, un vestito linguistico (che tende a nascondere o rivelare il contenuto di verità?). Ma è ancora possibile rappresentare un «contenuto di verità»?

    Come ha scritto Luigi Reina nel risvolto di copertina del mio libro, La nuova poesia modernista italiana (1980-2010) : «Se il linguaggio della post-avanguardia entrava in rotta di collisione con i linguaggi della scienza e della modernità, la Nuova Poesia Modernista prende atto della crisi irreversibile di ogni linguaggio fondato sulla “differenza”, sullo “scarto”, sullo “statuto ambiguo”; e prende atto della mancanza di un fondamento su cui sia possibile poggiare la costruzione poematica. La Nuova Poesia Modernista è il tipico e più maturo esempio di una poesia sopravvissuta dopo la bancarotta dell’ontologia, tra Heidegger e Wittgenstein. L’ontologia negativa di Heidegger, per il quale «Essere è ciò che non si dice», tendeva a spostare l’asse del logos poetico novecentesco più sul non-detto, sui silenzi tra le parole, ed infine, sul silenzio tout court. Il nichilismo era il precipizio entro il quale precipitava e periclitava tutta l’ontologia heideggeriana. Per contro, il linguaggio poetico novecentesco minacciava di periclitare, sull’orlo del nichilismo, nel compiuto silenzio della poesia post-celaniana. L’impossibilità di approdare ad una conclusione, in Heidegger, è totale: il pensatore è poeta, il silenzio è l’essenza del linguaggio, esso è il luogo atto a esprimere l’essenziale come non-dire».

    (2011)

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  5. Propongo altre mie poesie…

    Memorie della mia realtà
    (dedicata a Pier Paolo Pasolini) – inedita scritta 2017
    di Lidia Popa

    Parole sperperate nel vento
    volano oltre le porte del tempo,
    nuvole che contornano il sole.

    Guardo il passato errato che grida.
    Non posso contestare il valore del nulla
    che apre un varco ad altre voci.

    Ferma sgranocchiando altre foglie
    mi sembra di macinare un tormento
    che non finisce ma ricomincia.

    Abbagliata della nuova luna blu,
    in torno sta solo il cielo d’argento
    Nella cornice di velluto non sei tu!

    Avrei voluto urlare, ma non potevo.
    Far riflettere alla lingua una fantasia.
    Stavo lì come una magra ombra.

    Nel chiarore del quindici maggio
    ero già un cadavere nella sua fossa
    o la sua biondezza mi portava la fine?

    Parole sperperate nel vento
    non tornano più. Mai più dove
    si patteggia per una causa persa.

    In certi luoghi comuni voltare la pagina
    è rispetto per chi non ha mai varcato
    il confine tra l’amore per la vita e la vita.

    L’erba millenaria è così verde
    che anche scalza e vestita di stracci
    mi sentirei più libera che mai.
    A darmi fiato sarà la mia poesia.

    Un diamante tra i sassi
    (ad Alda Merini)
    di Lidia Popa
    (dal libro “Anfora di cielo” testo edito 2017 da
    Edizioni Divinafollia)

    Ho rovesciato i dadi come bicchieri vuoti,
    ho teso lo spago e nell’attesa ho imparato a
    navigare tra due mondi: il mio e il tuo.
    E le scoperte mi hanno aperto nuove strade.
    Viuzze, vialetti che non pensavo di percorrere
    fin quando di fronte mi è comparso un viale.
    Era tutto mio, da costruire da capo in granito,
    una pietra millenaria resistente alle intemperie
    da percorre con carri armati. Non mi importa.
    Quel dubbio diventerà solida certezza
    perché la stabilità crea un’impronta che si
    distingue nella capacità
    di diventare unica, durevole.
    Un diamante tra i sassi.

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  6. Giuseppe Cataldi

    ho letto tutto con la mia solita lettura veloce che mi da un senso della situazione la rileggerò soprattutto per attingere a quella conoscenza storica che non ho e nemmeno quella culturale forse, solo col discernimento razionale che applico a tutto. sono un pervenu alla poesia matura di quelli di cui si parla. Mi chiedo come si faccia a dire non ci sono più autori di madrigali come quelli di una volta, le canzoni sono tutta un’altra cosa ed i loro autori non sono madrigalisti. Mi sembra che il paragone calzi a maggior ragione perchè si è passato da una produzione d’elite destinata a pochi ad una produzione estesa a tutti. Come vogliamo paragonare anche solo la qualità della poesia? E poi come si consideravano Catullo e successivi fino a Montale…dei poeti o solo esponenti di quel Ionismo di cui ho letto e condivido tutto? Quando sono andato in pensione ho comprato una pubblicazione mensile ed ho cominciato a leggere per capire se quel che scrivevo all’ombra del mio lavoro e della mia vita era stata solo una produzione di sfoghi. l’ho letta per tre anni poi ho deciso che erano tutte cazzate ed anche il poeta che la promulga scriveva cazzate, il motivo? la cosa peggiore che potessi dire di una libera espressione: non era sincera, non veniva da dentro e nemmeno il vestito esterno mi piaceva con tutte quelle interruzioni: io purtroppo vengo dalla seconda practica (Monteverdi). Poi mi sono iscritto su FB ed ho letto poesia in tutte le community e li si è aperto il disordine in cui qualche poeta si perde sommerso da quelle libere espressioni di baci dolcezze e svenevolezze o peggio di darkismo a tutti i costi. Nessuno legge la poesia: ma perchè prima la leggeva il fornaio e chi la leggeva era perchè doveva declamarla. Ora il fornaio al pub, declama le poesie al pubblico. Te lo devo dire, la poesia non è roba da elite di acculturati, la poesia è dei peones, i critici hanno la funzione di valorizzarla li serve la cultura. Con ciò non faccio libri almeno per ora. Qui mi sono diverito:

    *Il poeta è un gangster*

    Il poeta è un gangster smanioso, un soggetto instabile, crudo nella lotta contro il senso, nel traspirar dolciastro della ragione, e del buon vivere d’accordo e nell’oasi che spesso cerca, quando s’accorge di non saper cantare, sputa allora il suo verso di guerra o parimenti, amare amare amare

    Chiedergli il conto è una cosa d’altri tempi e se lo porta, ha sempre un altro nome, non è attendibile se mostra buoni sentimenti, poi d’improvviso colpito dalla luna annusa il vento li annulla tutti e tradisce becero e poi fuma e rifuma e finge d’esser vecchio e povero di mente come se una patetica patente potesse dargli l’alienazione!

    Anche quando cincischia colla morale per farsi accattivare, o colla rima che non ama in modo particolare, è sempre un gangster, che spara dritto e senza tema, non è uno scrittore perché non vuole piacere, lui vuole possedere……si possedere, straripare, inondare trascendere supplicare spogliare! intanto mostra il sorriso smagliante, con momenti di purezza ed enorme candore ed altri biechi di morboso piacere

    Non ama il diavolo perché Lui vuol esser sempre prim’attore, agli Angeli che non sono invasivi invece lascia fare e d’altronde a qualche santo si deve votare! Quando si travestono da eruditi o critici d’arte mi fanno vomitare, quando fanno tornare i conti della loro vita o sono satolli e soddisfatti li sento lontani di mille dimensioni ma come possono tornare questi dannati conti, se hai patteggiato non hai più niente da dare!

    Il giorno 31 maggio 2018 07:42, L’Ombra delle Parole Rivista Letteraria Internaziona

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  7. tesoro_ mi è rimasto un solo vestito leggero
    Senza pretese Lo stesso di tutte le volte
    Hai idea della stronzata che abbiamo fatto?
    E’ stato stampato alla meglio_tesoro Un
    metro di stoffa e con le righe discusse
    Potresti almeno lavarlo di vivo? In tintinnio
    un circolo di fili sottili Anche Jessica Park l’ha
    visto cadere dallo stenditoio alla prima aiuola
    smangiata Qualcuno diceva:sorry ed era
    un acerbo grembo di spazio Il momento del tempo
    inabitato Una tasca sospirante.

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  8. Il modo di produzione della cosiddetta «poesia» ha assunto una velocità edittale forsennata, dinanzi alla quale non c’è Musa che tenga, che riesca a stare dietro a questa velocità ultrasonica. La Musa è lenta, ama la lentezza, è gentile, si deposita, giorno dopo giorno, sugli oggetti e le cose come polvere… bisogna far sì che la polvere si sedimenti… soltanto gli oggetti e le cose impolverate possono trovar luogo in poesia, soltanto le cose dimenticate… tutto ciò che ricordiamo, ciò che la dea (un’altra dea!) Mnemosine ci dice è frutto del calcolo e della cupidigia. Alla strategia di Mnemosine dobbiamo opporre una contro_strategia, dobbiamo dimenticare i ricordi, dobbiamo dimenticare i falsi ricordi che l’Inconscio ci pone sotto gli occhi, dobbiamo scavare più a fondo. La Musa è nemica di Mnemosine, ed entrambe sono segretamente alleate con un loro progetto di raggiro e di deviazione della nostra mente… dobbiamo perciò porre in atto delle strategie di contenimento e di inveramento dei ricordi, delle rammemorazioni. Dinanzi alle sciocchezze imbarazzanti che la poesia dei nostri tempi ci propone rimango a volte allibito ed annoiato, ma dobbiamo farci forza e sopportare con tenacia questa montagna di banalità…

    Il fatto è che le parole sono diventate «fragili» e «precarie», si sono «raffreddate», di contro alla volontà della tecnologia dispiegata del mondo di oggi. Il mondo è cambiato, non è più quello di ieri. Anche le parole sono cambiate, hanno mutato colore e tonalità, e la poesia non può non fare altro che adottare le parole che trova, siano esse fragili, precarie, raffreddate o altro ancora…
    Di frequente, davanti a tanta arte contemporanea mi assilla il dubbio che un eccesso di armonia, un sovrappiù di lucidatura del pavimento, dell’argenteria e degli stivali di pelle lasciati in un angolo non comporti anche il sospetto, in chi osserva dal di fuori, che dentro l’appartamento profumato e lindo con deodorante da supermarket non si nasconda, in qualche armadio, il cadavere messo sotto naftalina di qualcuno di famiglia. Insomma, se questo eccesso di deodorante non serva che a nascondere il lezzo ingombrante e intollerabile di un cadavere. E allora mi viene voglia di indagare oltre la cortina di nebbia del deodorante, al di là delle lucidature dell’argenteria per scoprire l’innominabile cadavere che si cela da qualche parte, nascosto in qualche latebra del soggiorno di casa. Allora, apro le finestre, voglio far entrare un po’ di aria fresca. Mi viene il sospetto che tutta quella modanatura, quella lucidatura non sia altro che Kitsch, ottimo, metallico, rassicurante Kitsch. Addirittura, anche e soprattutto là dove si rinviene tanta trasandatezza metrica posta in bella evidenza, proprio là si rivela l’intenzione forzosa di sporcificare la lucidatura posticcia. Il che è anche peggiore del male che vorrebbe travisare.

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  9. Proviamo ad avvicinarci ad una idea inconsueta, alla idea di far ri-diventare gli «oggetti», «cose». Forse siamo diventati troppo adulti, troppo abituati a considerare le «cose» equivalenti degli «oggetti» che non sappiamo più la differenza tra gli «oggetti», e le «cose». Che cos’è un oggetto? Che cos’è una «cosa»? E come si fa ad entrare all’interno della «cosa»? Come si fa ad adoperare una «cosa»? Ma, una «cosa» si può adoperare? Quando è che una «cosa» diventa un evento esteticamente tracciabile? Che rapporto c’è tra un «evento» e una «cosa»? – Ecco, io direi che la poesia italiana ha trascurato da sempre questo piccolo problema: quando gli oggetti cessano di essere «oggetti» e diventano «cose». È soltanto a quel punto che può sorgere una tracciabilità per la poesia. Io la metterei così: la «cosa» è un oggetto simbolico che ha iniziato ad irradiare segnali significativi. Ad un certo punto avviene che un «oggetto» è muto per il linguaggio ordinario ma non per il linguaggio simbolico per eccellenza quale è il linguaggio poetico, e inizia a «parlare». E questo suo «parlare» è il discorso poetico.

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    • giuseppe Cataldi

      Papaveri
      Piccoli fazzoletti rossi buttati a casaccio da un finestrino di treno,
      quante volte ho provato a prenderne uno con le radici e lo stelo,
      quante volte gliel’ho chiesto dolcemente:
      papavero resisti al viaggio vieni sul mio balcone!
      Altre volte poi gli ho detto che la mia ferita,
      mentre sdraiato sopivo nell’erba si sarebbe confusa nel rosso
      come quel papavero sul petto ai bordi d’un fosso
      Ed uno sciamano ballava le sue mistificazioni, diceva
      tutto bene il tempo si fermerà e lo straccetto cambierà colore
      Io nel verde testimone dell’erba di stagione,
      dove i papaveri si piegano al vento
      commuovendosi al mio risentimento,
      e l’ape da vero miracolo in volo
      succhia gli stessi pistilli dolciastri che sfioro,
      capisco che moriranno d’estate
      e nessuno si chiederà ancora:
      perchè ho tanto fiele nel mio corpo?,
      e se lo stacco dalla terra gli faccio un torto?

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  10. gino rago

    Gino Rago
    Due voci importanti e modernissime di Nuova Poesia Contemporanea:
    Francesca Dono ed Ewa Lipska

    Ieri mi è arrivato per posta un libretto di Cesare Viviani, La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che… il melangolo, 2018, pp. 76 € 7 pp. 45 e segg. – Risposta di Alfonso Berardinelli, da Poesia non poesia, Einaudi, 2008 


    Francesca Dono [Fondamenta per lo Specchio, Progetto Cultura, 2017+
    – flash1 –
    “…mi passò sulle scarpe l’uomo col cappuccio. Stava per cedere. – Che ora è? Chiedo ai ragazzi dalle giacche – vitello -. Il fischio del treno. Lui con la valigia strapiena e gli scossoni. Veloce la campagna. Vuole? La signora-grembo nel braccio teso. Appena un drink da asporto. Mi alzo. Qualche sillaba di circostanza. Un buco in galleria. Sono andata in bagno”

    Ewa Lipska [da un’Antologia poetica curata a Trieste da F. Doplicher]

    “Abbiamo preso lo stesso volo
    La stessa ala ci copriva la vista
    mangiato la stessa salsa cinese con le olive
    Indossavi la tua camicia di sempre
    Fumavi la tua solita Winston
    I tuoi occhi fissavano i laghi di nebbia
    Quella tua ruga sulla guancia destra
    La smorfia delle tue labbra
    Era la tua mano che teneva il giornale

    Ma quando ti ho chiamato per nome
    Tu hai risposto: -Sorry, lei mi confonde con qualcun altro
    Lo hai detto con una voce che conosco bene
    E anche se sono passati sette anni
    Dal tuo funerale
    Non sei cambiato affatto

    Solo un po’ troppa morte su di te, forse
    Al polso un orologio vuoto
    E rosea, oltre l’oblò,
    La notte”

    GR

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  11. Alcune poesie di Gabriele Galloni da In che luce cadranno (2018)

    Gabriele Galloni è nato a Roma nel 1995, studia Lettere moderne alla Sapienza di Roma. Ha pubblicato Slittamenti (2017)

    Ieri mi è arrivato per posta un libretto di Cesare Viviani, La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che… il melangolo, 2018, pp. 76 € 7 pp. 45 e segg. – Risposta di Alfonso Berardinelli, da Poesia non poesia, Einaudi, 2008 


    Ho conosciuto un uomo che leggeva
    la mano ai morti. Preferiva quelli
    sotto i vent’anni; tutte le domeniche
    nell’obitorio prediceva loro

    le coordinate per un’altra vita.

    *

    I morti seguono un apprendistato
    severi. Per sei mesi sono semplici
    ematomi; poi superfici lisce.
    e se divengono quel che già sono

    è solo merito loro (non scivolano)

    *

    Il giardino dei morti è come l’Eden.
    Come l’Eden ma non c’è alcun serpente.
    Senza serpenti o voci tentatrici
    tra le fronde degli alberi –
    poiché un albero, lì, è solo radici.

    I giardino dei morti è come l’eden.
    Come l’Eden ma non c’è alcuna regola.
    Nessun frutto inviolabile o cancello
    di uscita; ogni mattina
    vi razzolano il cane con l’agnello.

    *

    la pornografia dei morti
    è un vuoto di finestra, un passo

    tra la veranda e il giardino. È quello
    che noi sogniamo tutto il pomeriggio.

    *
    I morti sognano; certo che sognano.

    Scrivono i loro sogni quando sfuma
    la cartilagine.

    *

    I morti, a notte,
    grattano via l’intonaco;
    lo raccolgono in piatti

    di legno e ciechi lo offrono alla luna
    sempre distratta.

    *

    La musica dei morti è il contrappunto dei passi sulla terra.

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  12. Cambia il soggetto poetante. E’ come se Poesia si stesse liberando da una relazione affettiva priva di senso, divenuta ormai soffocante. Non è lamentandosi che si porrà rimedio all’invasione delle cavallette scriventi.
    A mio avviso sta accadendo questo: che viene reso pubblico il processo di miglioramento degli scriventi, che sono ciechi come neonati e allo sbando.
    E’ vero che per scrivere possono bastare carta e penna ma procedendo, di anno in anno, è inevitabile che si arrivi a conoscere la complessità di quest’arte difficilissima. La poesia fai-da-te è un’azione disperata. Bisogna avere talento. Ma questo vale da sempre, anche per gli universitari.

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    • Sono d’accordo con Lucio Mayoor Tosi. Si inizia ed è un continuo evolvere solo se si ha talento. Altrimenti svanisci dal centro visivo del lettore. Bisogna essere anche consapevole delle proprie capacità. Non bastano le nuvole per riempire l’anfora di cielo, ci vuole la magia dell’incanto quando si scrive della morte.

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  13. gino rago

    Mettendo a frutto la segnalazione a noi fatta da Giorgio Linguaglossa di “Poesia non poesia” di Berardinelli, ho pensato di estrarre il passaggio nel quale
    Berardinelli fa questa chiosa:

    “[…] Su una quantità di testi poetici senza capo né coda né ragioni di esistenza, si possono scrivere puntuali piccoli saggi in punta di penna, che puntualmente mancano l’oggetto di cui dovrebbero parlare e quindi parlano di quell’utopia del linguaggio poetico mai realizzata che giustifica tutto.
    Esistono tuttavia, in questa nebbia di parole poetiche che avvolge il pianeta e intasa Internet, delle vere poesie, che liberano per qualche minuto la mente di chi le legge e che quindi fanno venire la voglia di essere rilette[…]”

    La chiosa di Berardinelli mi ha guidato nella scelta fatta a favore dei versi in prosa d’arte [Francesca Dono] o di poesia [Ewa Lipska] che ho inteso condividere, per me ottime prove poetiche entrambe nella nuvola vacua delle tante parole morte che vagano di qua e di là, senza testa né coda.

    Ma qui si pone, anzi si ripropone la terribile questione della responsabilità e del ruolo della critica nella individuazione e nel riconoscimento di ciò che Berardinelli nella sua chiosa indica come “vere poesie”.
    Forse perciò è utile riportare il suo pensiero, se non altro perché coincide con l’idea autentica e militante di ‘critica’ che soprattutto Giorgio Linguaglossa da interprete della nostra poesia sta praticando in tutte le sue prove:

    “[…] Il primo servizio che i critici dovrebbero rendere agli altri e a se stessi è dire quali poesie esistono e quali hanno solo tentato di esistere, anche senza parlare degli autori che ne sono responsabili.
    Facendo questo, potrebbe capitare loro di non sembrare gentili. Ma essere gentili con tutti i poeti e con i poeti qualunque, manda allo sbaraglio molte brave persone, che non riescono né a leggere né a farsi leggere. È il cattivo pubblico, o il nessun pubblico, che rende la poesia cattiva o nulla[…]”.

    Gino Rago

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  14. Ringrazio Gino per avermi accostato a Ewa, ma ho ancora molta strada da fare e spero fino alla fine.Sono in cammino con un bastone. Quattro stracci.Un ombrello.
    Posso solo ammirare l’operato della poetessa Lipska cercando di imparare qualcosa . Abbracci circolari a tutti. E come dice sempre Mauro Pierno:grazie Ombra!!!

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    • gino rago

      Per Francesca Dono [e per tutti i poeti, come il giovane Gabriele Galloni presentato da Giorgio Linguaglossa, che non vogliono sostare nella “valle senza uscita” della poesia]

      Francesca,
      ti facciano compagnia i miei ‘stracci-scampoli-cenci”, l’ombrello, il bastone e queste parole da mettere negli scarponi e non nello zainetto da viaggio.

      “Ci sono zoppi e diritti – ma l’uomo deve farsi da sé le gambe per camminare – e far cammino dove non c’è strada.
      Per le vie consuete gli uomini vanno in un cerchio che non ha principio e non ha fine; vanno, vengono, gareggiano, s’accalcano affaccendati come le formiche – forse anche si scambiano l’uno con l’altro, – certo, per camminare che facciano, sono sempre là dov’erano, ché un posto vale l’altro nella valle senza uscita.
      L’uomo deve farsi una via per riuscire alla vita e non per muoversi fra gli altri, per trar gli altri con sé e non per chiedere i premi che sono e non sono nelle vie degli uomini.”

      Carlo Michelstaedter da La persuasione e la rettorica

      G R

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  15. gino rago

    La Poesia e il paradigma dello Specchio:

    Sylvia Plath

    “Specchio”

    Sono d’argento e rigoroso. Non ho preconcetti.
    Quello che vedo lo ingoio all’istante
    Così com’è, non velato da amore o da avversione.
    Non sono crudele, sono solo veritiero –
    L’occhio di un piccolo dio, quadrangolare.
    Passo molte ore a meditare sulla parete di fronte.
    È rosa e macchiettata. La guardo da tanto tempo
    Che credo faccia parte del mio cuore. Ma c’è e non c’è.
    Facce e buio ci separano ripetutamente.

    Ora sono un lago. Una donna si china su di me
    cercando nella mia distesa ciò che essa è veramente.
    Poi si volge alle candele o alla luna, quelle bugiarde.
    Vedo la sua schiena e la rifletto fedelmente.
    Lei mi ricompensa con lacrime e un agitare di mani.
    Sono importante per lei. Va e viene.
    Ogni mattina è sua la faccia che prende il posto del buio.
    In me ha annegato una ragazza e in me una vecchia
    Sale verso di lei giorno dopo giorno come un pesce tremendo.”

    [Sylvia Plath 23 ottobre 1961]

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  16. Per contraddire quanto asserito da Cesare Viviani, domani posterò delle poesie di un poeta romano, Gianfranco Palmery, (1940-2013) uno dei pochissimi poeti degno di questo nome di queste ultime decadi, un tipico esempio di poeta di fine novecento, che del novecento ha tratto i valori estetici più utili in direzione di un proseguimento non epigonico della poesia novecentesca. Ci sarà da meditare. Ecco due poesie tratto dal libro Compassioni della mente (Passigli, 2011) apparso due anni prima della sua morte.

    Ieri mi è arrivato per posta un libretto di Cesare Viviani, La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che… il melangolo, 2018, pp. 76 € 7 pp. 45 e segg. – Risposta di Alfonso Berardinelli, da Poesia non poesia, Einaudi, 2008 


    dovunque polvere, polvere, non c’è
    che polvere che pesa e pende
    in lanosi festoni o polvere
    lieve volante per l’aria: chimerica
    polvere dorata che il sole incanta
    e in vorticosi raggi sale
    e discende: vita
    immortale della polvere! il mondo
    è suo: trionfalmente
    lo occupa, lo addobba
    con i suoi veli, le tele, le
    tende: eterno
    in terra plenario niente

    Piombo

    Era un giardino di luce, oro – e ora
    c’è solo piombo, piombo – tende
    tirate, tenebre, e un tenero
    gheriglio ghermito e smozzicato – messo
    a massacro:

    come in un pozzo sepolto, nel vano
    d’osso, nel molle, giù nel nero
    viscere, il locus niger, dove il grigio
    s’aggruma, s’inchiostra, viscido
    stambugio, strapiombo del pensiero:

    io so che là in alto come quaggiù
    la musica stride, s’ingorga – e noi
    già bolliamo, minestrone d’ombre: siamo
    un piatto di lenticchie per l’Orco, la
    brodaglia di Cerbero

    Adesso, questi due volumi editi da Passigli (Compassioni della mente, 2011, e Corpo di scena, 2013) sono dei preziosi strumenti per apprezzare il lavoro svolto dalla musa di Palmery, una musa fatta di stracci un tempo nobili. Un poeta da studiare e da considerare come uno dei più originali di questi ultimi decenni tra la fine del novecento e il nuovo millennio. Senza dubbio, la poesia di Gianfranco Palmery «chiude» una certa ontologia estetica tipicamente novecentesca fondata sulla centralità dell’io e su un progetto di tonosimbolismo prettamente novecentesco. Dopo di lui penso che una «nuova» poesia debba cercare fuori dal tonosimbolismo e fuori della centralità ontologica dell’io. Al pari della poesia del piemontese Roberto Bertoldo, un esempio parallelo di tonosimbolismo e di fonosimbolismo di fine novecento portato alle estreme conseguenze, con uno stile ultroneo e perifrastico.

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  17. gino rago

    Poesia: ll Padadigma dello Specchio

    Wislawa Szymborska

    LO SPECCHIO

    Si, mi ricordo quella parete
    nella nostra città rasa al suolo.
    Si ergeva fin quasi al sesto piano.

    Al quarto c’era uno specchio,
    uno specchio assurdo
    perché intatto, saldamente fissato.

    Non rifletteva più nessuna faccia,
    nessuna mano a riavviare chiome,
    nessuna porta dirimpetto,
    nulla cui possa darsi il nome
    “luogo”.

    Era come durante le vacanze-
    vi si rispecchiava il cielo vivo,
    nubi in corsa nell’aria impetuosa,
    polvere di macerie lavata dalla pioggia
    lucente, e uccelli in volo, le stelle, il sole all’alba.

    E cosi come ogni oggetto fatto bene,
    funzionava in modo inappuntabile,
    con professionale assenza di stupore.”

    Wislawa Szymborska [ (1923 – 2012), Nobel per la letteratura nel 1996].

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  18. Ieri mi è arrivato per posta un libretto di Cesare Viviani, La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che… il melangolo, 2018, pp. 76 € 7 pp. 45 e segg. – Risposta di Alfonso Berardinelli, da Poesia non poesia, Einaudi, 2008 


    “Con professionale assenza di stupore”:

    ecco un verso per il mio retino! L’errore che tutti noi che scriviamo finiamo spesso col commettere è proprio questo: il gusto di destare lo stupore.Invece bisognerebbe approdare a una riva arsa, in cui l’eleganza del deserto si coniuga con la forza del silenzio, delle parole non dette, dell’accettazione di ogni privazione: una cosa da stiliti, da carmelitani scalzi, da contadini avari e parsimoniosi: quelli che, dopo che si è mietuto il grano, tornano di notte al campo per cercare di raccogliere qualche spiga rimasta.
    :

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  19. gino rago

    Poesia: Il Paradigma dello Specchio

    Wislawa Szymborska

    Lo specchio

    Si, mi ricordo quella parete
    nella nostra città rasa al suolo.
    Si ergeva fin quasi al sesto piano.

    Al quarto c’era uno specchio,
    uno specchio assurdo
    perché intatto, saldamente fissato.

    Non rifletteva più nessuna faccia,
    nessuna mano a riavviare chiome,
    nessuna porta dirimpetto,
    nulla cui possa darsi il nome
    “luogo”.

    Era come durante le vacanze-
    vi si rispecchiava il cielo vivo,
    nubi in corsa nell’aria impetuosa,
    polvere di macerie lavata dalla pioggia
    lucente, e uccelli in volo, le stelle, il sole all’alba.

    E cosi come ogni oggetto fatto bene,
    funzionava in modo inappuntabile,
    con professionale assenza di stupore.”

    Gino Rago
    Lo specchio, il poeta

    “Ogni parola che mi giunge
    è addio …”
    Franco Fortini

    Archeologo del presente, raccoglie
    in sé i frammenti dei naufragi
    dell’esistenza finta del suo tempo.

    Forse soltanto i miti dicono dove il poeta possa trovarsi
    questi uteri perennemente gravidi d’umano,

    crepe di luce sulla necessità d’un labirinto,
    [quella reggia di Minosse da Dedalo stampata
    nel cuore d’ogni uomo].
    Il sole a dardeggiare sul mare senza moto
    è specchio d’enigmi
    nell’eco d’un linguaggio adatto all’anima.
    Dall’altro lato il viaggio. La storia di Narciso.
    L’oceano calmo dell’indifferenza …

    Inversioni d’immagini,
    ansia di assoluto, dialogo con la coscienza senza voce,
    incanto della quiete,

    mormorio solitario,
    rivelazioni senza epifanie, verifiche,

    solipsismi fedeli alla poesia

    [la parola della carne scesa ad abitare in mezzo a noi
    o approdi verso antri su spiagge lastricate d’utopie?]

    Sylvia Plath
    “Specchio”

    Sono d’argento e rigoroso. Non ho preconcetti.
    Quello che vedo lo ingoio all’istante
    Così com’è, non velato da amore o da avversione.
    Non sono crudele, sono solo veritiero –
    L’occhio di un piccolo dio, quadrangolare.
    Passo molte ore a meditare sulla parete di fronte.
    È rosa e macchiettata. La guardo da tanto tempo
    Che credo faccia parte del mio cuore. Ma c’è e non c’è.
    Facce e buio ci separano ripetutamente.

    Ora sono un lago. Una donna si china su di me
    cercando nella mia distesa ciò che essa è veramente.
    Poi si volge alle candele o alla luna, quelle bugiarde.
    Vedo la sua schiena e la rifletto fedelmente.
    Lei mi ricompensa con lacrime e un agitare di mani.
    Sono importante per lei. Va e viene.
    Ogni mattina è sua la faccia che prende il posto del buio.
    In me ha annegato una ragazza e in me una vecchia
    Sale verso di lei giorno dopo giorno come un pesce tremendo.”

    GR

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  20. gino rago

    Poesia: Il Paradigma dello Specchio

    Ezra Pound

    SUL SUO VISO ALLO SPECCHIO

    “O strano viso nello specchio!
    O compagnia ribalda, ospite
    sacro, o folle
    sconvolto dal dolore, che risposta?
    O voi moltitudini che lottate,
    giocate e svanite,
    scherzate, sfidate, mentite!
    Io? Io? Io?
    E voi?”

    Nota.
    L’immaginismo di Ezra Pound ha molto influenzato la poesia di Sylvia Plath.
    E “Sul suo viso allo specchio” è uno dei più forti esempi di tale influenza. po Lo suggeriscono i versi poundiani.
    ————————————————————————————————
    GR

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  21. pubblico qui questa poesia, che avevo già pubblicata come una colonna unica. Adesso invece ho suddiviso la composizione in distici, mi sembra che la lettura ne sia agevolata e anche il testo ne abbia guadagnato in efficacia. la poesia è scritta in stile nuova ontologia estetica anche se risale a circa 8 anni fa. Sono curioso di conoscere il parere dei lettori se la poesia abbia guadagnato in espressività con la suddivisione in distici.

    il Signor Posterius

    Ieri mi è arrivato per posta un libretto di Cesare Viviani, La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che… il melangolo, 2018, pp. 76 € 7 pp. 45 e segg. – Risposta di Alfonso Berardinelli, da Poesia non poesia, Einaudi, 2008 


    sulla sinistra, c’è un vuoto; metto una mano nel vuoto,
    faccio un passo in avanti:

    di fronte ad uno specchio con la cornice bianca
    c’è un altro specchio.

    i due specchi si specchiano nel vuoto,
    illuminano il vuoto, specchiano il vuoto che è nel loro interno.

    sul fondale, c’è una porta,
    dietro la porta, una Figura maschile con la giubba nera

    e bottoni di madreperla
    da cui risalta una gorgiera bianchissima

    bacia sulla gota una dama bellissima
    in crinolina bianca.

    l’uomo sembra di passaggio, forse è lì per caso;
    è immobile sulla soglia [dietro la soglia una vampa

    di luce lo investe alle spalle] forse emersa da un’altra stanza,
    o da un corridoio attiguo al bianco del nulla.

    sta lì, in attesa.
    assume una posa, forse osa un passo che non accade,

    il suo sguardo occupa la scena, e la scena
    respinge il suo sguardo.

    la figura accenna un movimento, che non c’è.
    la bellissima dama accenna un inchino, che non c’è.

    adesso, la Figura è un osservatore distratto
    che sta curiosando nelle suppellettili del nostro vuoto

    semipieno, o pieno semivuoto.
    sulla sinistra,

    c’è un vuoto che abita uno specchio bianco,
    dietro lo specchio con la cornice bianca

    c’è un altro specchio…

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    • donatellacostantina

      Indubbiamente sì: per me la poesia così suddivisa assume tutto un altro respiro. I distici ne sottolineano il ritmo, quello creata dalla frantumazione del discorso poetico. Io sento qui, in questa successione di frammenti, un qualcosa che mi ricorda l’improvvisazione armonica e ritmica impiegata nella musica jazz.

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      • Grazie Costantina,
        il tuo giudizio per me è importante perché mi incoraggia a procedere nel mio lavoro di suddivisione della intera raccolta in distici. E pensare che per più di otto anni non mi ero mai accorto che questo tipo di poesia doveva essere scritto in distici! La nuova riscrittura coglie nel segno di dar maggiore ariosità e instabilità (non soltanto visiva) al dettato poetico perché inserisce degli spazi bianchi tra i due versi che ne accentuano la instabilità e la provvisorietà generale. Tu dici del «ritmo jazz», ed io condivido. Ne viene accentuato il carattere sincopato e interrotto del dettato poetico.
        Anzi, rivolgo un invito anche a Mario Gabriele a suddividere in distici o in terzine o in piccole strofe le sue poesie, perché, a mio avviso, ne guadagnerebbero i testi.

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        • Ho già disposto la separazione nei 65 testi inediti di Registro di bordo.Quelli già pubblicati restano così come sono. Attenzione, Giorgio a non spezzare la frase dandole per forza uno spazio. Quest’ultimo diventa più simmetrico quando finisce la punteggiatura. Es.

          Sulla sinistra c’è un vuoto.
          Metto una mano nel vuoto.
          Faccio un passo in avanti.

          Di fronte ad uno specchio con la cornice bianca
          c’è un altro specchio.

          I due specchi si specchiano nel vuoto,
          illuminano il vuoto,
          specchiano il vuoto che è nel loro interno.

          (ho tolto le virgole, sostituendole con il punto. (Da qui puoi creare lo spazio. Cominciando) :
          I due specchi si specchiano nel vuoto.
          Illuminano il vuoto.
          Specchiano il vuoto che è nel loro interno (fai seguire lo spazio)

          Sul fondale c’è una porta.
          Dietro la porta, una Figura maschile con la giubba nera,
          e bottoni di madreperla
          da cui risulta una gorgiera bianchissima.
          Se la strofa non finisce con il punto, è forzoso creare lo spazio da un rigo a un altro, e il frammento trova più una giustificazione..Non so se sei d’accordo. Comunque, è una mia idea.

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          • Sono interessato a conoscere il parere degli altri lettori. Grazie

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            • gino rago

              Il Signor Posterius riproposto in forma di distici è come una jam session, un libero e improvvisato incontro jazz fra poeta e lettore e martellante com’è non dà tregua e trascina il lettore strappandogli il fiato fino agli ultimi due versi
              “c’è un vuoto che abita uno specchio bianco,
              dietro lo specchio con la cornice bianca”

              e il verso finale

              “c’è un altro specchio…”

              ripropone al lettore la jam session da riattaccare senza dare tregua.

              La proposta di Mario Gabriele formalmente coinvolgente concederebbe troppe pause al lettore il quale invece dev’essere al centro del turbinio poetico, quasi senza scampo fino al verso finale “c’è un altro specchio…” e dimentico del trascinamento nel flusso emotivo dell’autore deve avvertire la spinta al ricominciamento della jam session autore-lettore nella quale jam session il lettore diventa parte attiva…

              Gino Rago

              "Mi piace"

        • Per brevità di memoria e respiro
          Il distico funziona meglio.

          Grazie, Giorgio.

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      • condivido il pensiero di Costantina.

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    • Mi piace la suddivisione, da tempo al lettore di far comparire i quadri. Pare di osservare le pareti di una sala mostra con una unica stanza: lo specchio. Uno specchio quantico che oltrepassando fa avvicinare alle tele.
      In questa stanza “c’è un altro specchio…” che è l’interiorità del poeta.

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  22. errata corrige:

    Arrampicarsi sugli specchi

    Si susseguono figure senza sosta sulla scala mobile.
    Tutti salgono.

    Gli specchi grandi della Serenissima Nuvola
    assorbono attimi che appartengono a noi.

    Piedi che zoppicano per il target
    del primo posto sotto il sole.

    Questo millennio ha vinto alla tombola
    uno specchio dell’ego. Chi rimane più in alto?

    Gli uomini tornano nelle caverne.
    Vogliono scoprire il fuoco.

    * Scusate se torno a correggermi …

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    • gino rago

      Gentile Lidia Popa,

      nei versi di “Arrampicarsi sugli specchi” [versi che invero meriterebbero più approfondita analisi, se le mie condizioni attuali di salute sapessero sostenermi un pò di più non impedendomi di potere star seduto davanti al pc per breve tempo] e specialmente in questi che rimarco

      “[…]Questo millennio ha vinto alla tombola
      uno specchio dell’ego…”

      Lei come Sylvia Plath è la donna-poeta che sa scrutare dal suo presente il luogo-specchio e s’interroga sul senso del viaggio terreno e del tempo passato, oscillando tra sogno e realtà.

      E nella mimesis della morte auspica o teme il ritorno dell’uomo nelle caverne non come regresso ma come occasione per lo stesso uomo di riscoprire il brivido del mistero e della sorpresa [‘scoprire il fuoco’].

      Il tutto con un lessico e una forma-poesia che intercettano lo spirito della NOE. Spero di potere trovare più energie per la sua seria ricerca di poesia.

      Gino Rago

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      • Gentilissimo Gino Rago.

        Ringrazio per l’onore di essere fermato su questa poesia. Il giudizio critico che si ferma ad analizzare è quello che conta per la continua ricerca poetica, ed è molto stimolante, sopratutto quando si rivela ad essere in linea con il senso positivo che il poeta vuole attribuire alla sua poesia, però, il cattivo lettore spesso trova un suo senso o analizza l’estetica di una poesia e non il contenuto. Paragonata ad una grande poetessa come Sylvia Plath mi fa sperare ad essere riconosciuta nel dopo dalla letteratura italiana. Al momento continuo questo cammino raccogliendo esperienza per un futuro avvenire. In quello che ho scritto fino ora sta molta poesia che dovrei riunire in una raccolta nello spirito di Nuova Ontologia Estetica.

        Le auguro di stare meglio.

        Lidia Popa

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    • cara Lidia,

      io mi permetto di fare un esercizio, forse gratuito ma poiché siamo tra amici in una comune officina, pensa che vada bene. Io toglierei i verbi: arrampicarsi, susseguono, assorbono… ed eliminerei gli ultimi due versi (Gli uomini tornano nelle caverne./ Vogliono scoprire il fuoco),
      così:

      Dopo gli specchi […] altri specchi

      ci sono figure sulla scala mobile. Senza sosta.
      Tutti salgono. Tutti scendono.

      Gli specchi grandi della Serenissima Nuvola.
      Gli attimi che appartengono a noi.

      Piedi che zoppicano per il target
      del primo posto sotto il sole.

      Questo millennio ha vinto alla tombola
      uno specchio dell’ego. Chi rimane più in alto?

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      • Caro Giorgio il tuo suggerimento è assai importante come un gran finale, a quale stavo pensando perché non ero pienamente soddisfatta di questa poesia, come non sono di molte mie altre poesie. Onorata di essere letta anche da te, che sai che apprezzo come punto di vista per una vigorosa evoluzione della poesia italiana. Penso che lavorerò per ritornare a lavoro compiuto, mi hai dato un prezioso suggerimento. Grazie.

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  23. Ricevo e pubblico questa email da parte di Alfredo de Palchi concernente il n. Uno del trimestrale di poesia e contemporaneistica Il Mangiaparole che contiene nella cover l’immagine del poeta

    Ieri mi è arrivato per posta un libretto di Cesare Viviani, La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che… il melangolo, 2018, pp. 76 € 7 pp. 45 e segg. – Risposta di Alfonso Berardinelli, da Poesia non poesia, Einaudi, 2008 


    Che il mio ritratto di giovane autore inedito in esilio, apprezzato da donne splendide e di qualsiasi cultura linguistica [ndr. il riferimento è a Letizia Leone e Donatella Costantina Giancaspero presenti alla Presentazione della rivista). . . che il mio viso sia bello come da ragazzino credevo fosse quello d’ogni poeta. . . che da sessantacinque anni la mia poesia generosa si muova con originalità d’intenti sin dai primi versi. . . non mi stupisce che poeti mendaci e di minuta statura mentale, insieme a quelli che forse apprezzo e che forse ho pubblicato, per alleviare la loro milza amara all’esofago, abbiano bisbigliato chissà cosa vedendomi sul primo numero della rivista “Il Mangiaparole”, che tra l’altro include due saggi sulla mia poesia. Comunque, si sappia che non mi sono scelto, ma ho profonda soddisfazione di immaginare quante facce da sberle mi hanno finora ebetemente ammirato. . .

    Per rallegrarmi della noiosa poesia che si scrive anche bene da otto secoli, sempre la stessa, sfiatata, penso di firmarmi con cognomi caserecci per attrarre alcuni poeti a leggere la mia opera. . . se sono onesti, dopo la lettura cambieranno scrittura oppure si scopriranno venditori di brustoline . . .

    un forte abbraccio,
    Alfredo. .

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  24. giuseppetacconelli

    Buonasera a tutti, piccoli contributi…

    Egli non visse gli anni del sangue,
    zampillato alla caduta di incolpevoli fiori,
    recisi nella civiltà della mattanza.

    Era appena un proposito vagante,
    nel violento universo
    amministrato da mortali assurti a Dei.

    Ma la storia non può essere cancellata
    perché il sangue è ancora fresco,
    nei verdi prati dove friniscono le cicale.

    Mai raggrumerà al sole,
    la mano del boia non si ferma,
    altri innocenti cadranno a marcire.

    Memorie giacciono sotto marmorea coltre,
    maldestro sforzo di sopprimere l’evidenza.
    L’uomo è anche demone in pelliccia d’agnello.

    Ma egli può fermare i suoi simili,
    effondendo idee
    per smantellare l’oblio.

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  25. giuseppetacconelli

    Questa la scrissi di getto durante un evento letterario. Un pensiero per mia madre…

    Scivolo su piano di logica sconnessa,
    aspra e dissociata.
    Scalpella su se stessa
    calcificazioni depositate dal dolore
    nell’inseguire l’insensato ragionamento,
    partorito da malattia che corrode legami.
    Realtà ed affetti.
    Cosa fare se non entrare nella gabbia
    per mostrarti raggi di luce.
    Con dolce ma fermo pungolo
    a far uscire lo stilo dal difettato solco
    che intrappola la ragione tra vecchie polveri.
    Incancrenite risultanze di demenza.
    Anche solo per pochi istanti,
    per i giorni che restano al saluto.

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  26. Blow Up, film di Michelangelo Antonioni, 1966 ·
    Thomas, fotografo professionista, non ha visto niente o forse ha visto tutto. L’ingrandimento di alcune foto scattate in segreto a una coppietta nel parco rivelano un omicidio in atto. O forse si tratta solo di un’illusione?

    Ieri mi è arrivato per posta un libretto di Cesare Viviani, La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che… il melangolo, 2018, pp. 76 € 7 pp. 45 e segg. – Risposta di Alfonso Berardinelli, da Poesia non poesia, Einaudi, 2008 


    La nuova poesia deve imparare a mettere «un» reale dentro la cornice di un altro reale, duplicare il reale, moltiplicarlo, utilizzare il frammento, utilizzare lo specchio, gli specchi, mostrare che il possibile forse è già accaduto tante volte, solo che noi non lo sappiamo. La nuova poesia deve mischiare le carte della logica sintattica, quella non è la sola logica, ma ci sono le logiche dell’inconscio, sovranamente libere dalla costrizione unilineare…

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  27. Pret a Porter
    conceso all’inventario della materia.
    Sul limite inverso
    nei patti sottili
    le fasi notturne saltellano il giorno.
    Stupefatta la stasi.
    Vedessi che strano nell’ordine assunto
    gli occhi che ridono spogli di luce.
    Il verso non geme.
    Ha un alito spoglio d’aglio in camicia.

    In strada la gente s

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  28. Franco Campegiani

    Lo spontaneismo è la trappola in cui cade il poeta (ma io direi l’uomo in generale) che rifiuta il peso della cultura in nome di un errato concetto di freschezza e vivacità. C’è l’illusione di potersi liberare dalle sovrastrutture e dai pregiudizi semplicemente ignorandone l’esistenza, mentre in realtà non si fa che dare inconsapevolmente e banalmente la stura a tutti i plagi subiti e possibili. Si pensa di poter essere originali semplicemente marinando la scuola, mentre si è profondamente modellati da quella stessa scuola che si intende rifiutare. Se tuttavia si dovesse pensare che l’intellettualismo possa essere l’antidoto per contrastare tale esplosione di banalità superficiali, si sarebbe in errore, giacché esso non fa che corazzare le incrostazioni mentali rendendole ancor più spocchiose e refrattarie all’autentica libertà creativa. Intellettualismo e spontaneismo sono due facce della stessa medaglia: la saccenteria, poco importa se a buon mercato o a costo di studi severi e plagiari. Quando Viviani scrive che non si diventa poeta “per grazia sovrannaturale, per miracolo” e che “bisogna leggere tanta poesia, finché entri nel sangue”, sembra avallare la tesi intellettualistica. Poi però afferma che “l’imitazione è assolutamente da evitare” e invita a “non frequentare le scuole di scrittura”, ad “evitare gli insegnamenti”, e ciò sembrerebbe avallare la tesi contraria, quella dello spontaneismo. In realtà l’aporia – senza voler coinvolgere Viviani in ciò che sto dicendo – è solo apparente, se si considera la convergenza di cui stiamo parlando: quella dell’intellettualismo e dello spontaneismo sul piano del narcisismo e della superficialità. Si tratta di aspetti complementari di un fenomeno che da sempre appesta l’universo poetico e che oggi – senza voler fare d’ogni erba un fascio – viene facilmente catalizzato da una cultura tardo-nichilista e postmoderna, che apertamente dichiara lo svuotamento dell’Essere, giungendo all’allegro, disinvolto e becero libertinaggio espressivo che conosciamo. Condivido molti passaggi della lettera di Viviani, così come pure della risposta di Berardinelli, dando tuttavia alla “fine della poesia” di cui loro parlano il valore relativo che merita tutto ciò che finisce. Se il “finito” avesse valore assoluto, non sarebbe più tale, per cui bisogna intendere la “fine” come passaggio, avvalorando la tesi della ciclicità altalenante, se non proprio quella della contemporaneità espressiva. In poesia, come in arte, la fiera delle banalità esiste da sempre. Giustamente Berardinelli rammenta che “Orazio lamentava che i poeti fossero innumerevoli”. E aggiunge: “Quevedo scriveva che «Dio aveva mandato un’epidemia di poeti in Spagna per punirci dei nostri peccati; due secoli dopo, Pietro Giordani, si lamentava con Leopardi che ormai chiunque sapesse leggere e scrivere si riteneva in grado di impugnare carta e penna e gettar giù versi a profusione. Osip Mandel’stam constatava con scoramento l’esistenza di un miserabile esercito di poeti che aveva invaso la Mosca rivoluzionaria». Montale scrisse che «se Guglielmo Giannini, invece di fondare il movimento dell’Uomo qualunque, con obbligo dello stato di stampare a proprie spese i versi di ogni cittadino, avrebbe mandato almeno un centinaio di deputati in Parlamento» . Possiamo aggiungere che Platone diceva le stesse cose molto tempo prima, condannando i “filodoxoi”, poeti amanti degli spettacoli, ed esaltando i “filosofi”, amanti del vero. Io non credo in questa divisione e penso, al contrario, che proprio la poesia, nel senso più lato del termine, sia il territorio deputato all’apparizione del vero. Condivido il pensiero di Viviani, laddove scrive che “la poesia pone questioni grandi sull’esistenza, sul nostro essere al mondo, sui limiti del nostro percepire e sentire, e dunque si rivolge all’irrappresentabile”, ma non concordo sulla conclusione del suo discorso: “e davanti a esso (ossia all’irrappresentabile) si ferma”. Questo è il limite della ricerca filosofica che da sempre esclude il mistero dai propri confini, non certo della poesia più autentica, allenata invece da sempre a conversare con il mistero alla pari. Alla domanda di Linguaglossa, se sia “ancora possibile rappresentare un contenuto di verità”, sento pertanto di poter rispondere in modo affermativo, laddove si sia in grado di oltrepassare la presunzione razionalistica che precipita nell’insensatezza, offendendo la vera ragionevolezza ed il buon senso di cui è capace l’intelletto umano. La ragione, indubbiamente, non possiede alcuna verità, ma non meno indubbio è che alla verità sia possibile balenare nei territori di una ragione bonificata. La ragione non può raggiungere la verità, ma la verità può raggiungere la ragione. Nel pensiero prelogico, mitico-sapienziale, che è poi il pensiero più consono alla poesia, tutto questo è assodato. E non si creda che in quel modo di pensare le verità o le certezze si diano per scontate. Non è così. Non c’è nulla di più problematico di un pensiero notoriamente fondato sullo sdoppiamento e sul dialogo interiore. Si pensi al “gioco del perché” del bambino, che non è affatto un ingenuo, come è luogo comune pensare. Il bambino non è malato di intellettualismo, ma non concede nulla allo spontaneismo e alle banalità dell’adulto adulterato.
    Franco Campegiani

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  29. poesia inedita scritta 04 giugno 2018

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  30. Mi ripropongo

    La riscoperta del fuoco divino e la verità
    di Lidia Popa

    C’è un mistero dietro ogni parola
    evanescente, prorompente lampo,
    non per arte né per scienza,
    un’imprevedibile e indefinita forza divina
    che attinge il boschetto delle Muse,
    dicendo della razionalità e delle arte mimetiche:

    «-Malconci e impietosi i poeti
    un delirio attinto per decenni
    innegabile frattura
    un uscir da sé, un saper di non sapere,
    dialogare al pari dell’acqua che scorre
    lungo un filo di Arianna della tazza piena e della tazza vuota.»

    Deliranti illusioni riscuotono i teatri
    facendo credere nel principio del Fedro:
    La chimera è una fantasia,
    un ambito separato dalla serietà del polis.
    I cromosomi di Omero sono valenti interpreti
    di Olimpo o di Tamiri o di Orfeo e Femio di Itaca?

    Se mai esisterà ancora un conoscitore di Omero,
    un Ippia di Elide dovrà giudicare sé stesso come gli altri,
    con stesso metro di misura di vivanda passione,
    mutando di forma le cellule sanguine,
    plasmando il sapere con oggettività, una guida morale
    dove l’Uomo, si interroga sulla verità.

    [La scoperta del fuoco divino] diventerà un bene universale.

    * fuoco divino = poesia
    ** l’Uomo = critico – poeta – artista

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  31. Simone

    Uau, che meraviglia questa pagina!

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