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Ieri mi è arrivato per posta un libretto di Cesare Viviani, La poesia è finita. Diamoci pace. A meno che… il melangolo, 2018, pp. 76 € 7 pp. 45 e segg. – Risposta di Alfonso Berardinelli, da Poesia non poesia, Einaudi, 2008 

Si è detto che la poesia è anche, immancabilmente, esperienza del limite, limite che è già inizio dell’estraneità, e quindi illeggibile, insuperabile, non c’è parola, intuizione, simbolo o immaginazione capaci di farlo nostro o di ridurlo. È l’equivalente del limite ultimo della vita: in questo senso la poesia è vita, e non limitazione di essa.

Vorrei che fossero altro questi sedicenti poeti, giovanissimi e giovani, che in qualche occasione pubblica mi guardano storto, loro che non hanno letto niente dei libri che ho scritto, e mi salutano appena, forse per fare contento il loro tutore che non mi ama, o forse perché io non sono mai riuscito a elogiare i loro versi.

La poesia è finita. Prima era essere che aveva le vertigini di fronte ai suoi limiti, era essere e non essere. Oggi è un intruglio bastardo di essere e superessere.

Diranno in coro: sarà finita la tua poesia, ma la nostra no!
Ma non è questione di mia o vostra. Insisto: forse non vi accorgete che la poesia non trova più ascolto. Non c’è più spazio per la poesia. Il troppo pieno, la parola piena, la comunicazione continua hanno sepolto i migliori poeti del secondo Novecento: non si leggono più, non hanno più la considerazione che prima, trenta anni fa, si dava loro. Tra vent’anni nessuno saprà più che erano Saba, Erba, Giudici, Luzi, Zanzotto, Sereni, Raboni, Porta… Solo qualche solitario ricercatore universitario… ma saranno pochissimi studiosi. La poesia sarà irrilevante, sarà scomparsa.

Si è detto: la quantità ha spento la qualità. La quantità di internet, della ipercomunicazione pubblicitaria, dei supermercati, dei centri commerciali e di ogni tipo di esposizione e di vendita. Uno dei tanti effetti di distruzione provocata dall’alluvione continua della quantità è la scomparsa (o quasi) di quella sensibilità che faceva distinguere la poesia dalle composizioni in versi (non poesia). Chiediamoci: come faceva Raboni (tanto per fare il migliore esempio) a scegliere i testi da pubblicare (nelle collane da lui curate) o far pubblicare? Si affidava a quella sensibilità ricca di grande talento, di esperienza finissima di lettore, e di una percezione che riassume in sé smisurata cultura e mirabile intelletto e fa riconoscere l’oro tra tanto similoro.

La poesia non può essere affabile, accattivante, popolare, attraente l’immediata emotività: perché la scrittura che ha queste caratteristiche è cattivo giornalismo in versi.

Questo libretto non sarà bene accolto dai poeti giovani e meno giovani. Guai a toccare il narcisismo dei poeti, e di coloro che li limitano scrivendo versi! […]
Beati coloro che credono che la poesia oggi attraversi un periodo di rigoglio e di espansione, di vigore e di qualità, una rinascita. Beati i giornalisti che scrivono, non sapendo cosa scrivere, che la poesia va. beati i poeti che oggi sono i primi perché domani saranno gli ultimi. […]

Il matrimonio dell’invadenza del linguaggio mediatico, superficiale e utilitaristico, con l’opportunismo delle relazioni personali (scambio di favori, protezione come segno di potere, bisogno di seguaci) annienta la poesia.

Prima i poeti che mostravano notevoli qualità riconosciute erano cinque o sei per generazione. Adesso sono cinquanta, tutti meritevoli della stessa attenzione. Altro che livellamento, altro che appiattimento! Non si vuole più distinguere tra poesia e versificazione. È il sottobosco (così lo si chiamava) che si è costruito fusti e rami alti e spaziosi!

Qualcuno ha creduto che l’abbraccio con la dimensione dello spettacolo o con il mondo della rete non fosse mortale per la poesia. Si è sbagliato. Il principio della selezione guida poesia e poeti, principio che è negato da internet e molto spesso anche dallo spettacolo.

La parola di internet è parola abusata. Internet è il luogo dell’abuso della parola. Per essere ancora più chiari: parola violentata, stuprata.

Ora si parla di «contaminazione» possibile tra poesia e canzoni di musica leggera. ma per carità! Come si fa a discutere di una sciocchezza simile? Le due realtà sono una l’opposto dell’altra. la poesia pone questioni grandi sull’esistenza, sul nostro essere al mondo, sui limiti del nostro percepire e sentire, e dunque si rivolge all’irrappresentabile e davanti a esso di ferma.
Le canzoni sono splendidi conforti alle nostre emozioni tristi e nostalgiche e al tempo stesso sono una spinta alla socializzazione.

Rimane a più osservatori oscuro e inspiegabile il risentimento con cui Berardinelli, a partire dal 1981, ha tante volte parlato della poesia italiana del secondo Novecento. Amarezza, asprezza, delusione? Chissà! Eppure anche lui, per un breve periodo, alla fine degli anni Settanta, ha provato a scrivere poesia.

La poesia è come una tessitura finissima e traforata (penso a un merletto, a un pizzo, a una trina) nella quale non è il pieno (i fili) che sostiene i vuoti (i fiori), ma sono i vuoti che sostengono i fili.

Con il proliferare di scriventi versi tutti bravi, può venire a un poeta la tentazione di guidarne un manipolo, di avere un seguito di ammiratori aspiranti a collocazioni pubbliche più alte, visto che quasi sempre non basta loro l’autodesignazione di poeta. Ma questa corrispondenza costerebbe cara al poeta: diventerebbe un principe, o un re, del sottobosco.

Il critico della poesia deve ogni volta coniugare il proprio pensiero con il testo in questione, matrimonio di volta in volta difficile nelle sue particolarità non generalizzabili, e invece non deve ricorrere per tutti i testi alle stesse definizioni, alle stesse formule.

Allora ricapitoliamo le condizioni sfavorevoli alla poesia di oggi: la prima è la pretesa di numerosi giovani (e di alcuni meno giovani) di diventare poeta per grazia sovrannaturale, per miracolo.

Invece bisogna leggere tanta poesia, finché entri nel sangue. e si tratta di leggere le opere dei poeti.

L’imitazione è assolutamente da evitare, quando è consapevole e furba. Quando è inconsapevole (e può succedere spesso ai giovani scrittori anche promettenti), c’è da augurarsi che ci se ne accorga presto.

C’è poi un altro pericolo, l’invadenza e la suggestione dei linguaggi mediatici e pubblicitari. Al tempo stesso c’è l’ambizione di raggiungere i risultati senza abbandonare la pigrizia, col minimo sforzo, con l’autopromozione e l’autodefinizione di «poeta».

Altra condizione sfavorevole per la poesia dei nostri giorni è la critica militante: sempre più occupata dai libri dei narratori seri o improvvisati, sempre meno interessata alla poesia. del resto la logica mercantile si impone su case editrici e giornali, per cui si privilegia ciò che offre più lettori e più vendite.
Ma il problema della critica è l’incontro con la poesia: si dovrebbe illuminare la specificità di ogni testo poetico e invece, come si è detto, è sempre più frequente (salvo qualche bella eccezione) l’uso delle stesse definizioni e frasi, ormai formule di repertorio, per tutti i libri recensiti.

Altra condizione sfavorevole alla poesia riguarda la pubblicazione (l’editoria è entrata in una strettoia). L’editore gradisce e valorizza il libro di narrativa o di poesia che venda molto (è raro che sia la poesia), che abbia un pubblico di acquirenti e lettori numeroso: in tal caso il libro diventa alimento economico per la casa editrice, reddito. Il suo autore sarà trattato con particolare gentilezza e cura. inconsapevolmente anche le persone più limpide e acute, più colte e sensibili subiscono l’effetto di valore del libro che vende molto.

[…]

Ai miei tempi le cose andavano diversamente: nel 1981 e nel 1990 i miei libri di poesia (Mondadori) vinsero due bei premi, e l’editore fece uscire una pubblicità di notevoli dimensioni su “la repubblica”, riproducendovi la copertina del libro (il secondo fu anche ristampato e fascettato col nome del premio), libri che certamente non vendettero più di 1500 o 2000 copie.

Aspirare a un numero elevato di lettori di poesia è un errore…

Esiste la «nuova» poesia, la poesia del Duemila? Non è mai esistita la «nuova» poesia: la poesia è sempre stata la stessa, se è sempre stato indefinibile il suo nucleo essenziale. È pur vero che ogni volta la poesia è nata dalla tradizione… per poi cercare un’originalità di forme e di espressioni. E questa poesia del Duemila, giovane o meno giovane, ha ignorato la tradizione, ha mancato la nascita, non è nata. Si è riempita di parole, frasi, idiomi, suggestioni circolante e corrive, pubblicitarie ed efficaci, mutuate da ogni emittente. Questa poesia non è poesia.

Oggi, nello scrivere versi, si tenta un’operazione analoga a quella delle installazioni nell’arte: un linguaggio interessante, suggestivo, attraente, ben organizzato con belle apparenze, artefatto.

Cari giovani poeti,
vi mando un caro saluto e una raccomandazione: quella di non adirarvi e non angosciarvi se qualcuno critica le vostre poesie e le considera solo scritture in versi. Pur nella relatività di ogni lettura, le critiche possono essere necessarie e salutari proprio per passare dai versi alla poesia.
E noi anziani dobbiamo scusarci con voi e riconoscere che siamo stati colpevoli di alcune bugie per cosiddetta bontà o viltà.

Chi ama la poesia, prima di scriverla, ne leggerà tanta: prima di amare la propria, amerà quella scritta dai poeti che, nei secoli, hanno fatto conoscere la loro opera. Chi scrive versi senza aver prima smisuratamente amato la poesia è un povero naufrago nel mare del narcisismo.

Il miglior consiglio che si può dare a chi si avvicina alla scrittura della poesia… è quello di evitare gli insegnamenti. e quindi: non frequentare scuole di scrittura o di poesia.

Uno che sa tutto, saccente, non sarà un poeta. Uno che pensa di potere tutto, arrogante, e si compiace della propria abilità non sarà un poeta. La misura di sé non è un rispecchiamento compiaciuto («quanto sono bravo»). Misura di sé è qualcosa che non ha niente a che fare con le tentazioni dell’infinito: è cosa finita, è percezione netta, nuda e cruda, dei limiti (della misura), dei limiti superabili e poi, necessariamente, anche di quelli insuperabili.

Se tutte le frasi pensate, se tutti i pensieri cominciano o contengono il pronome “io”, e se l’interesse personale occupa tutto lo spazio dell’immaginazione e dell’emozione, allora in questo caso siamo lontani dalla poesia… se l’io invade e domina anche lo spazio delle relazioni affettive e dei pensieri rivolti all’umanità e alla società… allora con questo io sovrano sarà impossibile arrivare a scrivere poesia.

( La vita presenta a volte strane coincidenze. e sono davvero strane coincidenze – non c’è malizia. Per esempio, una che mi è capitata: finché si è pensato che potessi avere un qualche potere editoriale o recensorio, il telefono squillava ogni giorno con voci amiche e gentili. Quando si è capito che non ho nessun potere, nessuno più mi ha chiamato né è venuto a farmi visita. Così come un’altra casualità: se ad un giornale collabora un recensore che ha un cattivo rapporto personale con un poeta, possono verificarsi casuali effetti di allineamento degli altri recensori, e va a finire che su quel foglio nessuno scriverà di quel poeta. Ma allora, tutto il mondo è paese?)

Risposta di Alfonso Berardinelli, da Poesia non poesia, Einaudi, 2008 pp. 4 e segg. Continua a leggere

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