Neither  di Samuel Beckett,  musica di Morton Feldman, traduzione di Gabriele Frasca e  What is the word, musica di György Kurtág, traduzione di Rosangela Barone, a cura di Donatella Costantina Giancaspero

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Morton Feldman e Samuel Beckett

18 luglio 2017 alle 14:27

NEITHER – Nè l’uno né l’altro, 87 parole con 9 a-capo – Testo di Beckett musica di Morton Feldman per Soprano e Orchestra da camera

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/17/samuel-beckett-1906-1989-poesie-scelte-da-einaudi-1999-traduzioni-di-gabriele-frasca-con-un-commento-politico-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21788

Cade a proposito, qui, l’ascolto di Neither, la sola opera di Morton Feldman (1926 – 1987). Scritta nel 1977 su testo di Samuel Beckett, è un atto unico per Soprano e Orchestra da camera.
La partitura si avvale di pochi e semplici segni grafici per comunicare ai musicisti i vari registri (acuto, medio o grave), ma non le altezze precise, né le durate, al fine di configurare uno spazio sonoro capace di dilatarsi nel tempo.
Il fatto che Neither sia la sola opera scritta dal compositore newyorkese testimonia il suo scarso interesse per questo genere musicale. Ancora minore interesse nutriva Beckett. Insomma, riprendendo il titolo del lavoro, Neither, né l’uno, né l’altro erano patiti per l’opera. Come ci riferisce il biografo Knowlson, alla richiesta di Feldman, la risposta dello scrittore fu disarmante: «Signor Feldman, l’opera lirica non mi piace! E non mi piace che le mie parole vengano messe in musica». La replica del musicista fu, se possibile, altrettanto disarmante. Disse che comprendeva benissimo il disinteresse di Beckett e che, dopotutto, non aveva idea di cosa volesse esattamente da lui. A quel punto Beckett prese un pezzo di carta e buttò giù alcune parole. Poi disse che ci avrebbe lavorato un po’ e che forse si sarebbe rifatto vivo.
Alla fine di settembre del 1976, Feldman ricevette una cartolina da Beckett: sul retro un breve testo scritto a mano e intitolato Neither, ovvero ottantasette parole, senza uso di maiuscole, con nove a capo, per un totale di dieci brevi enunciati. La punteggiatura ridotta a due o tre virgole.
La voce parla dell’andirivieni tra due ombre, quella interna e quella esterna, “dall’impenetrabile sé all’impenetrabile non-sé“, finché non si arresta, finalmente disinteressata “all’uno e all’altro“, raggiungendo così “l’inesprimibile meta“.

La prima di Neither andò in scena al Teatro dell’Opera di Roma il 12 giugno del 1977. Dieci anni dopo, Feldman avrebbe di nuovo reso omaggio all’autore irlandese componendo la lunga suite orchestrale For Samuel Beckett e un partitura originale per Parole e musica.

18 luglio 2017 alle 14:42

Testo di Neither (Nè l’uno né l’altro) di Samuel Beckett

Traduzione a cura di Gabriele Frasca

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/17/samuel-beckett-1906-1989-poesie-scelte-da-einaudi-1999-traduzioni-di-gabriele-frasca-con-un-commento-politico-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21789

su e giù nell’ombra da quella interna all’esterna
dall’impenetrabile sé all’impenetrabile non-sé di modo che né l’uno né l’altro
come due rifugi illuminati le cui porte non appena raggiunte [impercettibilmente si chiudano, non appena volte le spalle impercettibilmente di nuovo si schiudano
si accenni l’avanti e indietro e si volga le spalle
noncuranti della strada, compresi dell’uno o dell’altro barlume
unico suono passi inascoltati
finché finalmente arrestarsi una volta per tutte, disattenti una volta per tutte all’uno e all’altro
allora nessun suono
allora impercettibilmente indissolvendosi la luce su tale inosservato né l’uno né l’altro
l’inesprimibile meta

(Samuel Beckett)

back & forth: to & fro

Neither
to and fro in shadow from inner to outer shadow

from impenetrable self to impenetrable unself
by way of neither

as between two lit refuges whose doors once
neared gently close, once away turned from
gently part again

beckoned back and forth and turned away

heedless of the way, intent on the one gleam
or the other

unheard footfalls only sound

till at last halt for good, absent for good
from self and other

then no sound

then gently light unfading on that unheeded
neither

unspeakable home

*

A questo punto, mi pare di particolare interesse ascoltare What is the word Op. 30b (per voce, coro e orchestra) del compositore ungherese György Kurtág (1926).
Il brano fu scritto in due versioni nel 1990 – ’91 sulla poesia omonima di Samuel Beckett, la sua ultima, prima di morire. Già dal 1986 la salute dello scrittore era peggiorata in modo irreversibile. È l’inizio dell’enfisema. Nel luglio del 1988, Beckett cade per un malore mentre si trova a casa, battendo la testa contro un mobile. Viene ricoverato all’ospedale di Courbevoie e, successivamente, alla Maison Tiers Temps, una casa di riposo con trattamento ospedaliero. Sarà durante questa degenza che Beckett butterà giù la prima bozza del suo ultimo componimento, in francese, col titolo “Comment dire”. Il drammaturgo l’aveva dedicata al regista e scrittore americano Joe Chaikin, colpito da afasia parziale in seguito a un’operazione al cuore.
Quasi in analogia con Beckett, Kurtág scrisse il brano per Ildiko Monyok, una cantante che, dopo molti anni di duri sforzi, aveva ritrovato la parola perduta a seguito di un incidente d’auto.
Anche nella versione musicale, What is the word continua a interrogarsi in modo angosciante su cosa sia la parola. Scrive Enzo Restagno: «La incontrollabilità e incomprensibilità della parola, quella “stream of words” della quale non si riesce ad afferrare né la metà né un quarto, quel ronzio che continua a vorticare nel cervello, si incarnano nella piéce di Kurtág come figure sonore di un astrattissimo dramma: da un lato la voce della protagonista che il testo di Beckett bisbiglia, canta e grida in ungherese, mentre tutto all’intorno un ensemble di cinque voci fa mulinare il testo in inglese intrecciandolo ai filamenti sonori degli strumenti che solcano lo spazio. La complessa e sofferta sensibilità spaziale di Kurtág che si era affacciata sul mistero del suono nello spazio interno della cattedrale di Chartres [*una volta, nella cattedrale di Chartres, il musicista aveva avuto una particolarissima e suggestiva percezione dello spazio], trova qui non una risposta ma una formulazione ancora più veemente: What is the word?
Il mistero della parola esce dalla mente dell’uomo per articolarsi nello spazio. Non è una conclusione, ma l’inizio di una vicenda alla quale questo nostro tempo di presunta ubiquità dovrebbe guardare con un sentimento di benefica inquietudine».
Buon ascolto!

(Donatella Costantina Giancaspero) 

https://lombradelleparole.wordpress.com/2017/07/17/samuel-beckett-1906-1989-poesie-scelte-da-einaudi-1999-traduzioni-di-gabriele-frasca-con-un-commento-politico-di-giorgio-linguaglossa/comment-page-1/#comment-21813
20 luglio 2017 alle 16:46


What is the word (Qual è la parola)
di Samuel Beckett

Follia –
follia per verso –
per verso –
qual è la parola –
follia dopo questo –
tutto questo –
follia dopo tutto questo –
dato –
follia dato tutto questo –
vedere –
follia nel vedere tutto questo –
questo –
qual è la parola –
questo questo –
questo questo qua –
tutto questo questo qua –
follia dato tutto questo –
vedere –
follia nel vedere tutto questo questo qua –
per verso –
qual è la parola –
vedere –
intravedere –
parere di intravedere –
bisognare di parere di intravedere –
follia per bisognare di parere di intravedere –
che cosa –
qual è la parola –
e dove –
follia per bisognare di parere di intravedere che cosa dove –
dove –
qual è la parola –
là –
laggiù –
distante laggiù
lontano –
lontano distante laggiù –
dileguante –
dileguante distante lontano laggiù che cosa –
che cosa –
qual è la parola –
vedere tutto questo –
tutto questo questo –
tutto questo questo qua –
follia per vedere che cosa –
intravedere –
parere di intravedere –
bisognare di parere di intravedere –
dileguante distante lontano laggiù che cosa –
follia per bisognare di parere di intravedere dileguante distante lontano laggiù che cosa 
che cosa –
qual è la parola –
qual è la parola

.
(traduzione di Rosangela Barone)

.
What is the word

.
folly –
folly for to –
for to –
what is the word –
folly from this –
all this –
folly from all this –
given –
folly given all this –
seeing –
folly seeing all this –
this –
what is the word –
this this –
this this here –
all this this here –
folly given all this –
seeing –
folly seeing all this this here –
for to –
what is the word –
see –
glimpse –
seem to glimpse –
need to seem to glimpse –
folly for to need to seem to glimpse –
what –
what is the word –
and where –
folly for to need to seem to glimpse what where –
where –
what is the word –
there –
over there –
away over there –
afar –
afar away over there –
afaint –
afaint afar away over there what –
what –
what is the word –
seeing all this –
all this this –
all this this here –
folly for to see what –
glimpse –
seem to glimpse –
need to seem to glimpse –
afaint afar away over there what –
folly for to need to seem to glimpse afaint afar away over there what –
what –
what is the word –

.
what is the word
Comment dire

folie –
folie que de –
que de –
comment dire –
folie que de ce –
depuis –
folie depuis ce –
donné –
folie donné ce que de –
vu —
folie vu ce –
ce –
comment dire –
ceci –
ce ceci —
ceci-ci –
tout ce ceci-ci –
folie donné tout ce –
vu –
folie vu tout ce ceci-ci que de –
que de –
comment dire –
voir –
entrevoir –
croire entrevoir –
vouloir croire entrevoir –
folie que de vouloir croire entrevoir –
quoi –
comment dire –
et où –
que de vouloir croire entrevoir quoi où –
où –
comment dire –
l à –
là-bas –
loin –
loin là là-bas –
à peine –
loin là là-bas à peine quoi –
quoi –
comment dire –
vu tout ceci –
tout ce ceci-ci –
folie que de voir quoi –
entrevoir –
croire entrevoir –
vouloir croire entrevoir —
loin là là-bas à peine quoi –
folie que d’y vouloir croire entrevoir quoi –
quoi –
comment dire –
comment dire

György Kurtág

György Kurtág

Sono sempre le opere concrete che devono spingerci a riflettere, poiché in esse troviamo le ragioni per rimettere tutto in discussione. Da quelle bisogna partire, non da astratti ragionamenti. In tal senso, le opere di Beckett ci forniscono molti spunti utili. Se poi una di queste ha la fortuna di incontrare un compositore del calibro di György Kurtág, allora la riflessione dà luogo a un piccolo grande capolavoro musicale. Sto parlando di “pas à pas… nulle part” op. 36, per baritono, trio d’archi e percussioni, che Kurtág compose negli anni 1993 – ’98 sulla poesia omonima di Samuel Beckett:

pas
à pas
nulle part
nul seul
ne sait comment
petits pas
nulle part pas à pas
obstinément

La poesia fa parte della raccolta Mirlitonnades [* il “mirliton” è uno zufoletto per bambini], scritta in francese negli anni Settanta (solo due poesie, Elles viennent… e Dieppe…, appartengono alla fine degli anni Trenta). Quando compose questi brevi testi, Beckett attraversava un periodo di profonda angoscia. Li appuntava in modo occasionale sui sottobicchieri, nei bar di Parigi, di Tangeri, o dietro le note della spesa; una volta perfino sull’etichetta di un noto whisky… Era forse un modo per esorcizzare il disagio, l’alienazione, l’angoscia, che scaturivano dal vivere quotidiano. Successivamente, trascriveva gli appunti e li elaborava in un piccolo taccuino che portava sempre in tasca. E infatti, come scrive Thomas Bösche [Metamorphosen, Lucerna, Internationale Musikfestwochen Luzern 2000]:
«Queste “rimette”, “rimerie” o anche “versicoli” – questi i vari tentativi di Beckett di dare un nome a questi testi – attestano nondimeno la più grande compiutezza artistica. Non solo l’estrema restrizione dei mezzi linguistici, l’affinamento laconico dell’enunciazione che ne risulta, ma anche la fantastica musicalità nel trattamento – veramente artistico – del linguaggio (si può parlare, senza esagerazione, persino di virtuosismo linguistico) catturano immediatamente il lettore. In particolare l’uso di assonanze, il frequente impiego di rime baciate fanno nascere una musica parlata, dalla quale Beckett – a partire dal Finnegan’s Wake, di James Joyce – è sempre stato affascinato».
Pas à pas – potremmo dire – la voce di Beckett risuona nel brano di György Kurtág. La sonorità straniata prodotta dagli archi insieme alla incisività, a tratti dura, delle percussioni (marimba, timpano, templeblock, tamburelli e tamburi e altre), il carattere frammentato della scrittura, tutto contribuisce a caratterizzare «un’aura inconfondibile, nella quale l’io immaginario delle poesie di Beckett, che cerca orientamento e coraggio, si mette in viaggio in un mondo onirico – che si rivela essere nient’altro che il suo mondo interiore – avvolto nell’oscurità della notte, un viaggio al cui termine c’è la morte» (Thomas Bösche).
La riflessione musicale di Kurtág sul pensiero nichilista di Beckett dà corpo a un insieme sonoro che unisce in sé rabbia e rassegnazione per il cammino senza ritorno a cui tutti siamo destinati.

 

Costantina Donatella Giancaspero Teatro dell'OperaDonatella Costantina Giancaspero vive a Roma, sua città natale. Ha compiuto studi classici e musicali, conseguendo il Diploma di Pianoforte e il Compimento Inferiore di Composizione. Collaboratrice editoriale, organizza e partecipa a eventi poetico-musicali. Suoi testi sono presenti in varie antologie. Nel 1998, esce la sua prima raccolta, Ritagli di carta e cielo, (Edizioni d’arte, Il Bulino, Roma), a cui seguiranno altre pubblicazioni con grafiche d’autore, anche per la Collana Cinquantunosettanta di Enrico Pulsoni, per le Edizioni Pulcinoelefante e le Copertine di M.me Webb. Nel 2013. Di recente pubblicazione è la silloge Ma da un presagio d’ali (La Vita Felice, 2015); fa parte della redazione della Rivista telematica L’Ombra delle Parole.

12 commenti

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12 risposte a “Neither  di Samuel Beckett,  musica di Morton Feldman, traduzione di Gabriele Frasca e  What is the word, musica di György Kurtág, traduzione di Rosangela Barone, a cura di Donatella Costantina Giancaspero

  1. Neither  di Samuel Beckett,  musica di Morton Feldman, traduzione di Gabriele Frasca e  What is the word, musica di György Kurtág, traduzione di Rosangela Barone, a cura di Donatella Costantina Giancaspero


    Per avere una idea dell’opera di Beckett e della radicalità del suo pensiero, dobbiamo fare riferimento alla interpretazione che dell’opera dell’irlandese ne diede il filosofo Adorno, il quale non smetterà mai più di interrogarsi proprio a partire dalla radicalità della posizione di Beckett.
    Credo che la poesia di Beckett vada rivalutata proprio in considerazione dell’idea invalsa in Italia che lui fosse un autore di teatro e di narrativa e che, come poeta, fosse secondario. Sottovalutazione tipica di una letteratura come quella italiana dal dopoguerra ad oggi, che non ha avuto mai il coraggio di andare al fondo delle questioni. E al fondo del fondo c’è un pensiero allarmante e abissale, quello che Adorno scrive qui sotto: che ormai la società borghese ha reso irrisoria e puerile qualsiasi critica letteraria di un testo poetico o artistico. Pensiero che, nella sua radicalità, la «nuova ontologia estetica» intende fare propria.
    È tempo che la poesia italiana cominci a fare i conti con un pensiero radicale.

    Adorno:

    «I pensieri vengono portati avanti e deformati come resti quotidiani […]. Di qui deriva l’incertezza dell’interpretazione dell ‘opera di Beckett, di cui egli rifiuta di occuparsi. Scrolla le spalle all’idea che oggi sia possibile una filosofia, una teoria tout court. L’ irrazionalità della società borghese nella sua fase più tarda è restia a farsi comprendere: erano ancora bei tempi quelli in cui si poteva scrivere una critica dell’economia politica di questa società, cogliendo la pienamente nella ratio a lei propria. Perché la società ha ormai gettata questa ratio tra i ferri vecchi sostituendola virtualmente con una disponibilità immediata su ogni cosa .Ogni tentativo di interpretazione rimane
    inevitabilmente in arretrato rispetto a Beckett: eppure il suo teatro, proprio perché si limita a una realtà empirica infranta, guizza oltre questa, e rimanda a un’interpretazione proprio per la sua natura enigmatica. […]».

    Secondo Adorno, dopo Auschwitz «tutta la cultura (…) compresa l’urgente critica a essa, è spazzatura». E se chi vuole conservarne la funzione diventa «collaborazionista», chi le si sottrae «incrementa direttamente quella barbarie che la cultura ha mostrato di essere». Era desiderio di Adorno dedicare la Teoria estetica a Beckett, ma poi la morte del filosofo impedì questo progetto. Questo per ricordare come l’opera di Beckett avesse profondamente influenzato e stimolato il pensiero del filosofo tedesco.
    Oggi, purtroppo, le premonizioni delle analisi di Beckett e di Adorno sono diventate terribilmente vere: non c’è più neanche un pezzettino di cultura che non sia anche barbarie, anzi, con buona pace delle anime nobili come Claudio Borghi e il filosofo Inchierchia, la cultura oggi è diventata interamente «spazzatura» e «barbarie», non c’è più scampo a questo imbarbarimento e al dilagare della «spazzatura»… oggi che vanno di moda le femminili anime gentili e le molcedini del cuore… e la «natura» e il «bel paesaggio» intonso di zanzottiana memoria sono anch’essi rappresentazioni infingarde della falsa coscienza e dell’irrazionalità del gusto borghese nell’epoca della sua riproducibilità allargata…

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  2. Donatella Costantina Giancaspero

    Sono sempre le opere concrete che devono spingerci a riflettere, poiché in esse troviamo le ragioni per rimettere tutto in discussione. Da quelle bisogna partire, non da astratti ragionamenti. In tal senso, le opere di Beckett ci forniscono molti spunti utili. Se poi una di queste ha la fortuna di incontrare un compositore del calibro di György Kurtág, allora la riflessione dà luogo a un piccolo grande capolavoro musicale. Sto parlando di “pas à pas… nulle part” op. 36, per baritono, trio d’archi e percussioni, che Kurtág compose negli anni 1993 – ’98 sulla poesia omonima di Samuel Beckett:

    pas
    à pas
    nulle part
    nul seul
    ne sait comment
    petits pas
    nulle part pas à pas
    obstinément

    La poesia fa parte della raccolta Mirlitonnades [* il “mirliton” è uno zufoletto per bambini], scritta in francese negli anni Settanta (solo due poesie, Elles viennent… e Dieppe…, appartengono alla fine degli anni Trenta). Quando compose questi brevi testi, Beckett attraversava un periodo di profonda angoscia. Li appuntava in modo occasionale sui sottobicchieri, nei bar di Parigi, di Tangeri, o dietro le note della spesa; una volta perfino sull’etichetta di un noto whisky… Era forse un modo per esorcizzare il disagio, l’alienazione, l’angoscia, che scaturivano dal vivere quotidiano. Successivamente, trascriveva gli appunti e li elaborava in un piccolo taccuino che portava sempre in tasca. E infatti, come scrive Thomas Bösche [Metamorphosen, Lucerna, Internationale Musikfestwochen Luzern 2000]:
    «Queste “rimette”, “rimerie” o anche “versicoli” – questi i vari tentativi di Beckett di dare un nome a questi testi – attestano nondimeno la più grande compiutezza artistica. Non solo l’estrema restrizione dei mezzi linguistici, l’affinamento laconico dell’enunciazione che ne risulta, ma anche la fantastica musicalità nel trattamento – veramente artistico – del linguaggio (si può parlare, senza esagerazione, persino di virtuosismo linguistico) catturano immediatamente il lettore. In particolare l’uso di assonanze, il frequente impiego di rime baciate fanno nascere una musica parlata, dalla quale Beckett – a partire dal Finnegan’s Wake, di James Joyce – è sempre stato affascinato».
    Pas à pas – potremmo dire – la voce di Beckett risuona nel brano di György Kurtág. La sonorità straniata prodotta dagli archi insieme alla incisività, a tratti dura, delle percussioni (marimba, timpano, templeblock, tamburelli e tamburi e altre), il carattere frammentato della scrittura, tutto contribuisce a caratterizzare «un’aura inconfondibile, nella quale l’io immaginario delle poesie di Beckett, che cerca orientamento e coraggio, si mette in viaggio in un mondo onirico – che si rivela essere nient’altro che il suo mondo interiore – avvolto nell’oscurità della notte, un viaggio al cui termine c’è la morte» (Thomas Bösche).
    La riflessione musicale di Kurtág sul pensiero nichilista di Beckett dà corpo a un insieme sonoro che unisce in sé rabbia e rassegnazione per il cammino senza ritorno a cui tutti siamo destinati.

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  3. gino rago

    Costantina, fedele amica, delicata compagna di viaggio, hai proposto un lavoro che in sé compendia garbo, cultura e delicatezza.
    E non è davvero poco. Dirti, dunque, “Grazie” per l’arricchimento che me ne deriva è il meno, se non aggiungere al “grazie” anche un “brava”.
    Gino Rago

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    • Donatella Costantina Giancaspero

      Carissimo Gino,
      sono io a ringraziarti per la stima e l’affetto che mi dedichi in queste tue parole e per l’interesse con cui leggi i miei articoli. Nei limiti delle mie capacità e delle mie conoscenze, cerco di offrire un contributo che possa rendere ancora più interessante e originale la nostra bella rivista.
      Un abbraccio

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  4. Che cosa vuole comunicarci Beckett con la poesia NEITHER?

    Neither  di Samuel Beckett,  musica di Morton Feldman, traduzione di Gabriele Frasca e  What is the word, musica di György Kurtág, traduzione di Rosangela Barone, a cura di Donatella Costantina Giancaspero


    Ecco, questo è il punto. In tutto 87 parole con 9 a-capo.

    Ecco la mia spiegazione. “Neither” significa, come sappiamo, «Né l’uno né l’altro». Quindi, una doppia negazione. Ma negazione di cosa? – Beckett ovviamente non lo dice, siamo noi che dobbiamo capirlo. Ma come facciamo a capirlo se l’autore non ci dà nemmeno una chiave di accesso per il suo significato profondo?
    Credo che sia molto semplice. Neither significa né l’una cosa né l’altra, né io né tu, né noi né loro, né nessuno né nessuno. Con questa doppia negazione Beckett vuole chiudere il discorso e non riaprirlo mai più. Il significato a questo punto mi sembra molto semplice. Ed è spiegato una volta per tutte.
    Beckett ci vuole dire che lui non sta né dalla parte del Sé né dalla parte della civiltà umana che l’io (o Sé) ha costruito. Questo punto mi sembra chiarissimo.
    E qui finisce, non solo la composizione (chiamarla poesia è delittuoso, Beckett non aveva certo in mente di fare una poesia…) ma anche il discorso sul percorso di certezze che necessariamente deve guidare e accompagnare l’homo sapiens nel percorso di edificazione della civiltà.
    Ecco, questa doppia negazione si riconnette a quell’altra duplice negazione espressa da Adorno e Horkeimer in Dialettica dell’illuminismo (opera iniziata nel 1942 e pubblicata nel 1947). I due filosofi tedeschi leggono il mito omerico di Odisseo che si tappa le orecchie con della cera per non sentire il canto sinuoso delle sirene in questo modo: emettendo un giudizio di DUPLICE negazione: non stare né dalla parte di Odisseo né dalla parte dei suoi marinai (la società borghese creatrice dell’ideologia dell’illuminismo).

    Ripropongo qui una sintesi di Carla Maria Fabiani:

    … la formazione e l’autoconservazione del soggetto borghese (del Sé ideologico ma anche della struttura di potere vigente nella società contemporanea). Viene descritta un’allegoria particolarmente suggestiva fra il racconto omerico del dodicesimo canto dell’Odissea (il passaggio di Odisseo davanti alla Sirene) e la nascita della civiltà occidentale, che nella modernità culmina con l’instaurarsi di un controllo e dominio assoluto dell’uomo sulla natura e su una parte del genere umano.

    Odisseo rappresenta l’umanità che “ha dovuto sottoporsi a un trattamento spaventoso, perché nascesse e si consolidasse il Sé, il carattere identico, pratico, virile dell’uomo […].” Il canto delle Sirene cui Odisseo (l’io occidentale-borghese) deve resistere rappresenta il “passato; quel passato in cui l’uomo viveva in simbiosi con la natura, o meglio in cui non distingueva Sé dagli oggetti naturali. Lo sforzo di Odisseo di resistere al richiamo della natura-vita, rappresentata da quel canto, è necessario per conservare l’integrità dell’individualità personale dell’uomo borghese, ma soprattutto per mantenere quei rapporti di dominio dell’uomo sull’uomo, ben rappresentati, secondo gli autori, dal mito omerico.

    Sulla nave di Odisseo i suoi compagni hanno le orecchie tappate con la cera; il loro unico compito è quello di remare. “E’ ciò a cui la società ha provveduto da sempre. Freschi e concentrati, i lavoratori devono guardare in avanti, e lasciar stare tutto ciò che è a lato. […] Essi diventano pratici. […] Odisseo, il signore terriero, che fa lavorare gli altri per sé […] ode, ma impotente, legato all’albero della nave […]. I compagni […] riproducono, con la propria vita, la vita dell’oppressore, che non può più uscire dal suo ruolo sociale”.

    L’analogia istituita da Horkheimer e Adorno fra il mito omerico e la struttura della società borghese è tale per cui la soggettività di chi domina (il proprietario della terra, dei mezzi di produzione), sebbene consapevole di rivestire un ruolo sociale che lo obbliga ad avere un rapporto di dolore ed estraniato con la natura (le Sirene), sa altresì di non poterne fare più a meno, pena la mancata autoconservazione di sé e della sua proprietà (fuori dei rapporti borghesi di produzione non è consentito sopravvivere). D’altra parte il lavoratori (compagni di Odisseo) mancano forzatamente di consapevolezza e coscienza sociale (hanno le orecchie tappate); la loro unica occupazione è materiale, volta alla riproduzione di sé e del padrone stesso. Essi sono quella parte del genere umano asservita (inconsapevolmente) al dominio borghese.

    Questo quadro assolutamente desolante e fortemente critico, viene però, secondo Horkheimer e Adorno, riscattato nella misura in cui la stessa ideologia borghese (l’Illuminismo della società contemporanea) rivela la sua interna paradossalità e inconsistenza teorica.

    “Misure come quelle prese sulla nave di Odisseo al passaggio davanti alle Sirene sono l’allegoria presaga della dialettica dell’Illuminismo”. Ciò che sembrava la realizzazione della libertà, dell’emancipazione dell’uomo (come singolo e come genere), il trionfo della ragione, si presenta al dunque come la realizzazione più cruda e irrazionale di un’oppressione e coercizione dell’uomo su se stesso oltre che sulla natura. Il mito poi (in questo caso quello di Odisseo) è ciò che, paradossalmente, rappresenta meglio la logica interna dell’Illuminismo; di quel pensiero razionale che intendeva invece dal mito liberarsi definitivamente.

    Excursus I. Odisseo, o Mito e Illuminismo (24)

    1- La dialettica dell’Illuminismo è testimoniata esemplarmente dall’Odissea nel suo complesso. Il nucleo originale è mitico, ma, organizzato dallo spirito omerico, si distacca da quella tradizione popolare da cui pure proviene.

    C’è una contraddizione, secondo gli autori, fra ‘mito’ e organizzazione mitologica nell’epos, cioè fra mito tramandato oralmente e mito raccontato, scritto, rielaborato razionalmente: “[…] cantare l’ira di Achille e le peripezie di Odisseo è già una stilizzazione nostalgica di ciò che non si può più cantare, e il soggetto delle avventure si rivela il prototipo dello stesso individuo borghese […].”

    Come sappiamo, c’è un rapporto dialettico fra mito e Illuminismo: da una parte la ragione organizzatrice (rappresentata in questo caso dalla mano di Omero) mette a punto una ricostruzione scritta del mito che emancipa l’uomo (la civiltà occidentale) dalla “preistoria”, dall’assenza di un rapporto razionale fra uomo e natura; d’altra parte però l’inizio dell’Illuminismo risale proprio alla tradizione mitica più remota. Il passaggio dal ‘mito’ all’approccio illuministico segna anche un passaggio a forme di ‘dominio’ dell’uomo sulla natura che – come ha ben compreso Nietzsche – si presentano fortemente ambivalenti: è il progresso umano e civile dell’uomo che distrugge la vitalità del suo rapporto con le forze naturali. E’ un progresso distruttivo quello a cui l’Illuminismo conduce. Non c’è opera che testimoni in modo più eloquente dell’intreccio di mito e Illuminismo di quella omerica, testo originale della civiltà europea.”

    Secondo Horkheimer e Adorno, l’itinerario di Odisseo è lo stesso itinerario del soggetto (del Sé) moderno-borghese, il quale, prima di prendere coscienza della sua razionalità, deve emanciparsi faticosamente da uno stadio di civiltà ancora legato a culti, forme di dominio e di vita mitiche. L’emancipazione dal mito, tuttavia, non annulla il mito in quanto tale, che anzi, proprio nell’Odissea, diventa metafora della struttura borghese della società e dell’individuo come tale.

    2- L’astuzia di Odisseo rappresenta il ‘lume’ della ragione, contrapposto a una brutalità tutta naturale e mitica, comunque originaria, nella quale l’uomo si trova a dover combattere con forze ed istinti caratterizzati negativamente nell’epos omerico (Polifemo, la maga Circe, le Sirene, etc.). “L’organo con cui il Sé sostiene le avventure, e fa getto di sé per conservarsi, è l’astuzia.”

    L’astuzia di Odisseo rappresenta un ‘ordine’ (la patria, la famiglia a cui l’eroe tenta di ritornare attraverso il suo lungo viaggio); quell’ordine borghese che permette la riproduzione e l’autoconservazione dell’uomo entro schemi e rapporti da lui dominati e regolati. “Ecco il segreto del processo tra epos e mito: il Sé non costituisce la rigida antitesi all’avventura, ma si costituisce, nella sua rigidezza, solo in questa antitesi, unità solo nella molteplicità di ciò che quell’unità nega.” Il distacco dal mito, che nell’epos omerico viene descritto, porta l’uomo a irrigidirsi. Assistiamo, in altri termini, a una sorta di razionalizzazione (come irrigidimento) della vita e della coscienza umana, che si presenta come una conquista di civiltà, raggiunta attraverso un’avventura epico-mitica. Una conquista descritta mitologicamente e che al contempo emancipa (o crede di emancipare) definitivamente l’uomo dal mito. L’irrigidimento costitutivo del Sé (della coscienza umana moderno-borghese) sta proprio nella contraddittoria convinzione di essersi per sempre liberato del mito e nel credere che questa liberazione sia anche la realizzazione stessa del progresso. »*

    * http://www.ilgiardinodeipensieri.eu/storiafil/fabiani3.htm

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  5. Adorno e Horkheimer hanno scritto questa frase in Dialettica dell’Illuminismo (1947):

    Neither  di Samuel Beckett,  musica di Morton Feldman, traduzione di Gabriele Frasca e  What is the word, musica di György Kurtág, traduzione di Rosangela Barone, a cura di Donatella Costantina Giancaspero


    “La valanga di informazioni minute e di divertimenti addomesticati scaltrisce e istupidisce nello stesso tempo”.

    Leggendo queste parole mi viene fatto di pensare agli artisti agli scrittori e ai poeti di oggi: loro sono ad un tempo «scaltri» e «stupidi»…

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    • È ODISSEO COLUI CHE USA IL LINGUAGGIO A FINI PROPRI, cioè impiega il linguaggio secondo una «nuova ontologia pratica», e una «nuova ontologia estetica»,

      Neither  di Samuel Beckett,  musica di Morton Feldman, traduzione di Gabriele Frasca e  What is the word, musica di György Kurtág, traduzione di Rosangela Barone, a cura di Donatella Costantina Giancaspero


      chiama se stesso «Udeis» che in greco antico significa «Nessuno». Impiega il linguaggio nel senso che lo «piega» ai propri fini, a proprio vantaggio. Affermando di chiamarsi «Nessuno», Odisseo non fa altro che utilizzare le risorse che già il linguaggio ha in sé, ovvero quello di introdurre uno «iato», una divaricazione tra il «nome» e la «cosa»; Odisseo impiega una «metafora», cioè porta il nome fuori della cosa per designare un’altra cosa. I Ciclopi i quali sono vicini alla natura, non sanno nulla di queste possibilità che il linguaggio cela in sé, non sanno che si può, tramite il «nome», spostare (non la cosa) il significato di una «cosa», e quindi anche la «cosa».

      La poesia di Omero altro non è che l’impiego della téchne sul linguaggio per estrarne le possibilità «interne» per introdurre degli «iati» tra i nomi e le cose, e il mezzo principale con cui si può fare questo è la metafora, cioè il portar fuori una cosa da un’altra mediante lo spostamento di un nome da una cosa ad un’altra. È da qui che nasce il racconto omerico, l’epos e la poesia, dalla capacità che il linguaggio ha di dire delle menzogne.

      Ebbene, che cos’altro fa Beckett in queste poesie se non opporre UN RIFIUTO NETTO E TOTALE a questo impiego del linguaggio? Ecco il grande significato di questi testi poetici di Beckett, caro Claudio Borghi. Beckett con queste poesie rifiuta in toto qualsiasi ontologia estetica, questo è il punto geniale cui giunge l’irlandese!

      Noi della «nuova ontologia estetica» in un certo senso vogliamo limitare l’arbitrio dei poeti di poter dire (almeno così loro credono) tutto quello che gli passa per la testa. Porre degli Alt, degli Stop a questa pessima abitudine, rimettere un po’ di ordine tra il «nome» e la «cosa», costruire una nuova e diversa «ontologia estetica», ricordandoci, però, che ogni «nuova ontologia estetica» passa per l’affondamento della vecchia ontologia estetica» e per un nuovo impiego della «nuova ontologia pratica delle parole». Cioè, una nuova Etica, e quindi una nuova politica.

      Con le parole di Carla Maria Fabiani:

      «L’astuzia di Odisseo si manifesta anche come superamento del “sacrificio” (sacrificio dell’uomo al dio) e come consapevolezza da parte dell’eroe nell’usare il linguaggio. Ma vediamo in che senso.

      Notano gli autori che nell’epos omerico non vi sono descritti veri e propri sacrifici umani; vi è piuttosto la presa di coscienza, da parte di Odisseo, dell’inganno che il sacrificio in quanto tale rappresenta. Rendere, da parte dell’uomo, un sacrificio al dio vuol dire non solo ingraziarselo (e attraverso di lui ingraziarsi la natura), ma in qualche modo dominarlo, comunque controllarlo, sebbene da una posizione di inferiorità, e limitarne il potere. Ma l’uomo, in cuor suo, dicono Horkheimer e Adorno, non può non sapere che la divinità a cui ci si sacrifica in realtà viene in questo modo a far parte di uno scambio tutto umano, il cui valore ultimo certo non va al dio. “Se lo scambio è la secolarizzazione del sacrificio, il sacrificio stesso appare già come il modello magico dello scambio razionale, un espediente degli uomini per dominare gli dèi, che vengono rovesciati proprio dal sistema degli onori che loro si rendono.”

      Che cosa fa allora Odisseo di diverso dal sacrificio-scambio? Che cosa aggiunge a questa forma magico-mitica di inganno reso agli dèi? La vicenda a cui gli autori si riferiscono è quella descritta nell’Odissea a proposito del ‘falso’ sacrificio reso a Posidone; mentre il dio viene accontentato da ingenti sacrifici nella terra degli Etiopi, Odisseo può fuggire indisturbato e mettersi in salvo. L’uso ‘astuto’ e indiretto del sacrificio lo trasfigura e ne rovescia il senso originario; porta alla coscienza dell’uomo la possibilità di falsificare e dissimulare il rapporto con gli dèi, esclusivamente per il suo vantaggio personale. “Ma inganno, astuzia e razionalità non sono semplicemente opposti all’arcaismo del sacrificio. Odisseo non fa che elevare ad autocoscienza il momento dell’inganno nel sacrificio, che è forse la ragione più intima del carattere illusorio del mito.”

      Ecco allora che questa presa di coscienza è un passo oltre la magia del sacrificio, il quale, in questo modo, viene realizzato dall’uomo come consapevole inganno, come scambio moderno-borghese ante litteram, come dominio cosciente sulla natura divinizzata, come rovesciamento infine del rapporto di dominio del dio sull’uomo.

      Questo stacco illuministico dal mito è rappresentato bene anche dal modo in cui Odisseo usa il linguaggio e precisamente il suo nome. Udeis in greco vuol dire nessuno; con questo significato del proprio nome Odisseo si presentò a Polifemo il quale, reso cieco dall’eroe, pur chiedendo aiuto ai Ciclopi venne frainteso quando questi gli chiesero chi l’avesse ridotto a quel modo: “Nessuno!” rispose. “Nasce così la coscienza del significato: nelle sue angustie Odisseo si accorge del dualismo, in quanto apprende che la stessa parola può significare cose diverse.”

      Secondo gli autori, questa ulteriore presa di coscienza, da parte dell’eroe mitico, lo solleva dall’immediatezza del rapporto con le cose, con gli oggetti e la natura. L’immediatezza con cui le parole vengono attribuite alla realtà viene definitivamente rotta e mediata, da quel momento in poi, dal pensiero. La coscienza di Odisseo comincia appositamente a separare le parole dalle cose, a rendere problematico il riconoscimento dell’uomo nel proprio nome. Assistiamo, dicono gli autori, a un duplice sdoppiamento; da una parte il linguaggio si separa dalla cosa designata, potendo di per sé assumere significati anche opposti, che indicano opposte realtà, dall’altra è l’uomo stesso a sdoppiarsi nel proprio nome, ingannando la realtà al fine di autoconservarsi come individuo dotato di ragione e capace di dominare astutamente le circostanze esterne.

      Dall’astuzia di Odisseo “[…] emerge il nominalismo, il prototipo del pensiero borghese. L’astuzia dell’autoconservazione vive di questo processo in atto fra parola e cosa.[…] L’astuto pellegrino è già l’homo oeconomicus a cui somigliano tutti gli uomini dotati di ragione.”

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      • gino rago

        (…) Occorrono parole come stringhe d’energie pluridimensionali.
        In esse soltanto l’immagine si nega e si ricrea.
        (…)
        Adeodato e Dome. Siedono a un tavolino di legno.
        A Roma in un bar di Via Gaspare Gozzi (la linea B della Metro sferraglia).
        A una parete gli occhi e le rughe di Samuel Beckett.
        Un barista si avvicina con due tazze nel fumo. Sorride ai due reziari.
        Il barista è José Saramago:«Vi ammiro. Conoscete la doppiezza delle parole.
        Una parola mente. Ma con la stessa parola si può dire la verità».
        (…)
        Perché noi non siamo ciò che diciamo
        ma siamo il ‘credito’ che le nostre parole ci danno.

        GINO RAGO
        (E’ questa di oggi de L’Ombra delle Parole una pagina da conservare gelosamente per ricchezza di temi e per forza di cultura dispiegata per
        affrontarli. Nella lectio magistralis incentrata su Odisseo, Giorgio Linguaglossa, con dovizia di argomentazioni, rafforza in noi l’idea che fu di Carlo Diano e che è stata divulgata a più riprese su tante pagine de L’Ombra: Odisseo incarna la categoria dell’Evento esattamente come Achille incarna quella della Forma.
        E di certo non sarà nessuno degli ostili
        alla NOE a farci derogare, con idee deboli e fondate sull’epigonismo
        fuori dal tempo e fuori dalla storia, dalle nostre fermissime convinzioni.
        Gino Rago

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  6. Neither  di Samuel Beckett,  musica di Morton Feldman, traduzione di Gabriele Frasca e  What is the word, musica di György Kurtág, traduzione di Rosangela Barone, a cura di Donatella Costantina Giancaspero


    Ho letto con grande interesse la tua analisi, Giorgio. E ti ringrazio di porre in evidenza il rapporto che spesso intercorre tra un visionario contemporaneo e direi classico e un visionario antico e classico: ne deriva, da queste letture comparate, una serie di dati nuovi che illustrano ulteriore comprensione del testo antico che continua a dardeggiare il presente. Ascrivo l’Odissea nel cielo degli archetipi e non a caso, Omero, è portatore di cecità tale da consentire la visione: nell’oscurità si percepisce la presenza ineluttabile di ciò che si muove, porta via e di ciò che argina e perimetra. Tutto questo costituisce la struttura del pensiero e le sue dinamiche che formulano la presenza degli elementi portanti l’individuo e la società come ineluttabili miti dai quali – oggi è evidente – non ci si può affrancare. L’affrancamento non è possibile e ogni tentativo di liberazione dal mito – anch’esso un archetipo – conduce inevitabilmente alla disgregazione, frantumazione, perdita di umanità.
    Ritengo importante proporre letture comparate come quella oggi presentata, arricchita dall’intervento prezioso dell’analisi di Donatella Costantina Giancaspero che pone in evidenza i nessi esistenti con la musica – e che musica quella di G. Kurtag, scoperto non molto tempo fa e con grande soddisfazione di ascolto – poiché consente di porre in dialogo differenti saperi, la loro sinergia, la loro frequenza di penetrazione entro ciò che attende di essere portato alla luce: l’analisi che hai avviato sul mito, sull’impossibilità a eliminarlo, chiarisce che il compito è il suo riconoscimento e l’integrazione poiché nella psiche il mito continua a governare e non sempre democraticamente, talora con veemenza o violenza e incide il soma, poiché il corpo stesso è archetipo.

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  7. credimi, a me dispiace dover emettere dei giudizi liquidatori, ma è che giunti al punto in cui siamo non posso fare a meno di dire quello che penso
    Cara Adriana Gloria Marigo,

    Neither  di Samuel Beckett,  musica di Morton Feldman, traduzione di Gabriele Frasca e  What is the word, musica di György Kurtág, traduzione di Rosangela Barone, a cura di Donatella Costantina Giancaspero


    ti ringrazio per questo tuo giudizio positivo, lo considero un incoraggiamento ad andare avanti. Oggi ho postato un nuovo articolo utilizzando i commenti del giorno innanzi perché considero la riflessione sulla «nuova ontologia estetica» una assoluta necessità per trarre fuori la poesia italiana dal suo lunghissimo sonno letargico che è durato cinquanta anni. Credimi, a volte mi dispiace davvero dover deludere degli interlocutori con i miei giudizi (tipo quello sulla poesia di Bacchini che considero un epigono di Attilio Bertolucci), con grande scoramento di Claudio Borghi. Veramente, credimi, a me dispiace dover emettere dei giudizi liquidatori, ma è che giunti al punto in cui siamo non posso fare a meno di dire quello che penso.
    Un aneddoto.
    Qualche giorno fa all’isola Tiberina, un autore di Roma ha letto le sue poesie. Quando ci siamo salutati io gli ho fatto i complimenti per la sua lettura, e lui, di rimando, mi ha detto: «ti è piaciuta la mia lettura ma delle mie poesie che mi dici?»; e io gli ho risposto: «lo sai che non mi riesce di dire delle bugie».
    Questo per dire dei piccoli poeti che chiedono e vogliono soltanto effusioni e abbracci. Dai, restiamo un poco seri…
    Dai, ricominciamo a leggere Beckett…

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  8. Claudio Borghi

    Nessuno scoramento, caro Giorgio, il fatto é che considerare Bacchini un epigono di Bertolucci significa o non averlo letto o averlo frainteso, così come chiudere la sua poesia in un involucro di stereotipo elegiaco significa rifiutarsi di coglierne la novitá espressiva, che sta nell’interazione vitale tra poesia e scienza. Inutile e quasi patetico che io continui a insistere su questo punto. Quando non si vuole aprire il dibattito e ci si chiude nella presunzione di essere portatori di novità dopo 50 anni di presunto sterile epigonismo non si riesce a riconoscere l’evidenza e la necessità di un dibattito centrato sulla sostanza più che sulla forma. A questo temo davvero di dovermi rassegnare.

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  9. gabriele fratini

    Frasca è un grande poeta ma non è assolutamente un traduttore, semmai uno che piega il testo da tradurre alle sue idee poetiche.
    Bellissima musica.
    Un saluto.

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