Giorgio Linguaglossa
Sulla scrittura delle Poesie per bambini di Osip Mandel’štam
Osip Ėmil’evič Mandel’štam nasce a Varsavia da una famiglia della media borghesia ebraica. I primi versi Osip li pubblica nel 1910 su «Apollon», la rivista della nuova scuola poetica: l’acmeismo. Nikolaj Gumilëv, l’inventore dell’acmeismo, nel 1913 scriveva: «In cambio del simbolismo sorge una nuova tendenza, comunque la si voglia chiamare: acmeismo (dalla parola acmè, il più alto grado di qualcosa, il fiore, la stagione del rigoglio), oppure adamismo (visione virilmente ferma e chiara della vita), che in ogni caso esige un maggior equilibrio di forze e una più esatta cognizione dei rapporti tra soggetto e oggetto di quanto non sia avvenuto nel simbolismo».
Nel 1912 Mandel’štam entra nella prima “Corporazione dei poeti acmeisti”, si lega con Nikolaj Gumilëv e Anna Achmatova. Nel 1913 pubblica Kamen (Pietra), nel 1922 Tristia. Le poesie per bambini Il fornello a petrolio di cui qui si presentano un congruo numero, sono del 1925. Nel 1923 Mandel’štam viene colpito dal primo «invito» a non pubblicare versi. Di qui in avanti il poeta vivrà unicamente dei magri redditi che gli derivano da traduzioni e da qualche sporadica collaborazione letteraria.
Nella notte tra il 13 il 14 maggio 1934 il poeta viene arrestato dagli agenti della polizia segreta. Durante gli interrogatori gli contestano una sua poesia scritta contro Stalin. Mandel’štam trascorre tre anni di confino a Voronež, durante i quali scrive le grandi poesie della maturità. Scontata la pena il poeta e la moglie tornano a Mosca, dove il 2 maggio 1938 Mandel’štam viene arrestato e deportato. Ufficialmente, la data della morte è il 27 dicembre 1938.
Tutta la poesia della maturità di Mandel’štam, se si fa eccezione di Pietra, che pur rivela una perfetta levigatezza del verso di squisita fattura ellenistica, poggia sulla consapevolezza che la concezione del mondo del poeta si trova sempre in contrasto con il proprio tempo, «contropelo rispetto al mondo». Nel Discorso su Dante egli parla di una capacità visiva affatto speciale e specifica del poeta che gli permette, al pari degli uccelli rapaci e dei defunti della Commedia, di distinguere gli oggetti lontani, di scorgere i particolari a distanze enormi, pagando lo scotto di ciò con la cecità verso il presente. Già in uno dei suoi primi saggi, Sull’Interlocutore, l’allora ventiduenne poeta parlava della «preziosa consapevolezza della verità poetica»; sin da giovane si considerava un «costruttore»: «dalla triste gravezza anch’io un giorno creerò il bello». Nessun disgusto per la materia grezza, la acuta percezione della sua pesantezza, delle sue qualità intrinseche (la solidità, il peso, il colore, l’incastro): di qui l’idea di una poetica non «di tipo normativo», bensì «biologica», basata cioè sulle qualità originarie, fisiologiche, della materia. Mandel’štam non usava mai il termine «creazione», né il verbo «creare», concetti questi che gli erano totalmente estranei; l’acmeista ha bisogno dello spazio tridimensionale, per lui la terra «non è un fardello, non è un caso infausto, bensì il palazzo donatoci da Dio». Se per Mandel’štam si può costruire soltanto nell’ambito della tridimensionalità, ne consegue che muta radicalmente lo sguardo dell’artista verso il mondo degli oggetti: questo mondo può essere ostile all’artista, ovvero al «costruttore», perché gli oggetti ci sono dati per fungere da materiale da costruzione. La pietra ne è un esempio eloquente. È «come se essa agognasse ad una esistenza diversa» e si volesse inserire «nella volta a crociera» di una «cattedrale gotica». E proprio come la cattedrale gotica rappresenta il compimento della pietra, «per l’artista la visione del mondo è un’arma e uno strumento, come il martello nelle mani del muratore; l’unica realtà è l’opera stessa» (Il mattino dell’acmeismo).
Mandel’štam aveva un concetto corporeo della parola, distingueva «la forma interna della parola dalla parola-segno e dalla parola-simbolo» cara ai poeti simbolisti. Accolse freddamente i celebri versi di Gumilëv sulla «parola» ma senza spiegarne mai il motivo; diversamente da Gumilëv intendeva anche l’importanza del numero dei versi e delle strofe di una composizione. Infatti, usava contare il numero delle righe e delle strofe di una poesia ed il numero dei capitoli nella prosa. A Voronež, Mandel’štam assiste meravigliato alla nascita di poesie di sette, nove, dieci, undici versi che entravano in azione gli uni con gli altri fino a comporre poesie più lunghe: stava nascendo una nuova forma. Venivano alla luce di getto, misteriosamente, nuove poesie di una lunghezza inusitata.
Nelle composizioni de Il fornello a petrolio si assiste ad una peculiarissima fusione delle immagini, dei concetti e delle rime dal punto di vista dell’occhio infantile. È il nuovo tipo di sguardo che determina la nuova forma della poesia.
Le poesie qui tradotte fanno parte di un ciclo di composizioni di genere «leggero», da non intendere nel senso di «cose minori», bensì nel senso di «esercitazioni», esercizi tematici con i quali spesso i poeti provano il proprio bagaglio tecnico in relazione ad oggetti «semplici», prima facie, ma che nascondono in sé notevolissime difficoltà di costruzione e di assemblaggio. Di tale natura è per l’appunto il tentativo compiuto con le poesie del ciclo Il fornello a petrolio. Innanzitutto, un oggetto di uso quotidiano (il fornello a petrolio, il ferro da stiro, le galline «parlanti» etc.), per un interlocutore letterariamente non smaliziato: i bambini, per i quali sarebbe superfluo approntare poesie stilisticamente elevate che rimarrebbero del tutto incomprese, meglio puntare sulla semplicità, mediante tecnicismi elementari ed universali che formano la base per la comprensione della poesia «alta», ossia i giochi di parole, i lapsus ed i giochi di immagini, con le parole di Mandel’štam, una struttura «sincipitale». Orbene, non si creda che un poeta del calibro di Mandel’štam voglia unicamente occuparsi di esercizi fonematici o di equilibrismi di immagini. Niente di più alieno dalle sue vere intenzioni. Il poeta russo tenta qui una vera e propria «muscolatura» delle immagini, pone in essere una ricca strumentazione di nervature interne sotto forma di gioco, di sciocchezze, di nugae. Ormai vicino alla morte, Mandel’štam in una lettera a Tynianov ci chiarisce il concetto di certa sua produzione: «È già un quarto di secolo che, mischiando le cose serie alle sciocchezze, io sputo sulla poesia russa, ma presto i miei versi entreranno in lei mutando qualcosa nella sua struttura e nel suo corpo…». C’è in queste poesie una sorta di sospensione del mondo degli adulti, dove le leggi stesse della gravità e della connessione spazio-temporale sembrano saltate. Ma non è Mandel’štam il poeta che aveva scritto: «L’uomo non è più padrone a casa sua… Tutto il vasellame si è ammutinato. La scopa chiede riposo, la pentola non vuole più bollire… Hanno cacciato di casa il padrone ed egli non osa più entrarvi?». Sì, è il poeta russo che si prova qui con il mondo degli oggetti che non obbediscono più alle leggi della fisica degli adulti. Gli oggetti sembrano essersi ammutinati e si comportano in modo bizzarro.
Dunque, «sciocchezze» di tipo superiore, «sciocchezze» per l’educazione estetica dell’umanità futura. L’interesse dei poeti verso l’infanzia lo si può riscontrare, in generale, quando le sorti dell’umanità seguono momenti di criticità, e non è un caso che un poeta come Mandel’štam si rivolga ai bambini russi quale concreto «interlocutore» della poesia a venire, quando la lotta per l’imposizione di un nuovo modello di poesia è divenuta problematica e l’esito stesso, la stessa sopravvivenza della poesia nel «nuovo» mondo appariva problematica. D’altra parte, Mandel’štam non aveva bisogno di un lettore qualsiasi. Non certo che disprezzasse i lettori come detestava gli attori che solevano recitare versi in stile «trombonesco», aveva bisogno di un «interlocutore», di qualcuno che lo ascoltasse quando leggeva i versi appena composti. Ma per questo ufficio era sufficiente la moglie Nadežda. L’educazione estetica dei lettori era un concetto che lo faceva sorridere di scherno; a questo ci pensavano già i simbolisti con la loro aura sacrale, i futuristi e i lefovci con l’estetizzazione della politica. Mandel’štam preferiva parlare degli «uomini», non dei «lettori»: «gli uomini conserveranno le poesie… se ne avranno bisogno, le troveranno da soli, trovano sempre quello di cui hanno bisogno».
Nell’isola di Sevan, Mandel’štam aveva notato che le lenti del binocolo “Zeiss” aumentavano l’intensità del colore, lo rendevano più puro. Mandel’štam non si stancava mai di lodare le capacità di questo binocolo, finché non lo citò in una delle sue poesie più belle.
In un certo senso, l’operazione che il poeta compie in queste Poesie per bambini è di riuscire ad ottenere una poesia più immediata, ingenua, che lo conduca più in prossimità degli oggetti e ne sveli la particolare nobiltà «fisiologica»; tutto ciò senza ricorrere al alcuna nobiltà denominativa. Non per nulla Mandel’štam possedeva un acutissimo senso del tatto, come i bambini, toccare le cose lo aiutava a riconoscerle. Per lui il poeta «tocca» la forma interna degli oggetti ancor prima che questi si materializzino in parole. Il toccare lo aiutava a ricordare, ed il ricordo era lo stadio che immediatamente precedeva il vestito di parola. In queste poesie per bambini, Mandel’štam per prima cosa ricompone per lo sguardo infantile oggetti ad essi familiari, che nella vita quotidiana dell’epoca essi avevano continuamente sotto gli occhi (per esempio, il ferro da stiro incandescente che le nostre nonne ponevano sul davanzale della finestra per farlo raffreddare; il fornello a petrolio con le sue particolarità costruttive, etc.).Questi oggetti vengono animati dall’interno come se fossero delle entità viventi e parlanti: così l’elettricità è paragonata ad un «fuoco freddo» che fa illuminare la lampadina; il latte non bollito si trasforma in yogurt per via di trasmutazione quasi magica, e così via. Ovviamente, nella versione in italiano raramente è stato possibile rendere i parallelismi fonetici che stigmatizzano le trasmutazioni; cionondimeno, non tutta la freschezza e l’agilità di queste composizioni viene perduta; ciò che resta è sufficiente a farci apprezzare l’alta qualità della manifattura poetica che è alla loro base. Ad esempio, nella composizione numero dieci è stato possibile conservare la rima del testo russo con una analoga in italiano. Tanto basta a rendere lo squisito sapore dell’originale, nonché, degno di nota è il raffinatissimo nesso incrociato dei «violinisti» e dei «trombettieri» legati dalla giuntura della rima in «elle» e dall’unità di luogo e di tempo dell’azione: il mercato.
L’interesse per la poesia infantile era comune ai poeti della generazione di Mandel’štam; ricordiamo qui per inciso le poesie della bambina ucraina che Velimir Chlébnikov commentò già prima degli anni ’20, dove la ingenua «trasgressione… solleva il velo dai versi monotonamente rivestiti dal metro». Lo sforzo di Chlébnikov era orientato verso la rottura della struttura sillabico-tonica della versificazione simbolista. La trasgressione consapevole e ingenua era intesa nel senso di un recupero del parlato quotidiano. Se Chlébnikov fu il primo ad introdurre nella poesia russa le rime «marginali», prima di lui repertorio della poesia comica, un grande continuatore di questo indirizzo è rappresentato da Majakovskij e dalla rivista “Novij Satirikon”, nonché dal poeta umoristico Sasa Cërnyj, autore, tra l’altro, di uno splendido racconto lungo, Diario di un cane, pubblicato a Parigi nel 1926, dove il mondo degli adulti è illuminato dal riflettore del punto di vista dello sguardo infantile. Ad esempio, anche nella prosa il punto di vista infantile-ingenuo produrrà i racconti stranianti di Daniil Charms. La teorizzazione di Chlébnikov sulla lingua come di «un gioco alle bambole», così che «la parola è una bambola sonora e il dizionario una raccolta di giocattoli», fu una delle più feconde per la poesia russa. Poiché «la lingua si è naturalmente sviluppata a partire da poche unità basilari dell’alfabeto», compito del poeta per Chlébnikov sarà di riassemblare, sulla base di pochi «straccetti sonori» una lingua transmentale che si sviluppi a partire da pochi radicali con l’aggiunta di suffissi e affissi, in direzione di un linguaggio «stellare», «pentaraggiale», universale, dove i tradizionali nessi semantici e sintattici si affievoliscono per far posto ad un nuovo processo di etimologizzazione e semasiologizzazione dei testi. Se in Chlébnikov è uno sguardo infantile che osserva la lingua, in Mandel’štam lo sguardo infantile costruisce gli oggetti. Mandel’štam invidiava nei bambini quella loro particolare attitudine ottica che permette loro di ricostruire, da oggetti immobili gli oggetti in movimento; impadronirsi di questa facoltà avrebbe significato una grande acquisizione per un poeta. Affinare la facoltà ottica e tattile significava poter padroneggiare in misura eccelsa gli oggetti, riconoscerli in ogni loro istante, riuscire a rappresentarli in modo più icastico, completo. Per Mandel’štam i cinque sensi erano una «finestra sul mondo», in particolare, la vista ed il tatto, i più sublimi; facoltà che nell’uomo moderno erano ormai in declino. Tratti infantili erano presenti anche nella personalità di Mandel’štam, il quale era solito vantarsi, dinanzi all’Achmatova, delle prodigiose capacità della propria vista, e di frequente, per le strade di Pietroburgo, sfidava la amica poetessa a chi leggeva per primo il numero dei tram in arrivo. La moglie di Mandel’štam fungeva da arbitro. Con grande scorno di quest’ultimo, vinceva sempre la Achmatova. Mandel’štam era solito chiamarla la «piccola vespa», si era convinto della suprema acutezza della vista della Achmatova e la ammirava. Nessuno riusciva a capire perché mai Mandel’štam frequentasse assiduamente il museo zoologico di Pietroburgo: per sfogliare libri e studiare la struttura della vista di uccelli, insetti, lucertole, mammiferi. Fu così che «l’occhio sincipitale» degli insetti entrò in una delle sue poesie più alte. Mandel’štam era convinto che i bambini vedessero meglio e più in profondità degli adulti, fu per questo che intraprese a scrivere un ciclo di poesie per bambini, per tentare di impadronirsi di questa suprema capacità visiva. Era convinto che per poter costruire una grande poesia fosse necessario riconoscere gli oggetti in modo sintetico e diacronico, con sguardo plastico ed animistico, con occhio parallattico e sincipitale.
Risposta all’inchiesta “lo scrittore sovietico e l’ottobre” inaugurata dalla rivista “Citatel’ i pisatel’” (Lettore e scrittore) del 1928
La rivoluzione di ottobre non ha potuto fare a meno di esercitare un’influenza sul mio lavoro, poiché mi ha tolto la «biografia», la sensazione di un significato personale.
Le sono grato per aver posto fine una volta per sempre alla sicurezza spirituale e al vivere di rendita culturale… Mi sento debitore della rivoluzione, ma i doni che le offro non le sono, per ora, necessari.
La domanda su come debba essere uno scrittore, mi è del tutto incomprensibile: per rispondere dovrei inventare uno scrittore, il che significherebbe scrivere le sue opere in sua vece.
Sono altresì profondamente convinto che, sebbene gli scrittori dipendano dai rapporti di forza sociali e ne siano condizionati, la scienza moderna non possegga alcun mezzo per evocare la comparsa di questo o quell’autore che ritiene auspicabile. Dato lo stadio embrionale dell’eugeneutica, gli incroci e gli innesti culturali possono dare i risultati più inaspettati. È invece possibile una produzione in massa dei lettori. Per questo esiste un mezzo diretto: la scuola.
Mandel’štam aveva compreso un fatto fondamentale: che per fare poesia occorre ritornare ad avere uno sguardo, in un certo senso, «infantile» (dizione di Mandel’štam), che occorre ripristinare uno «sguardo sincipitale» (dizione di Mandel’štam) delle api e delle lucertole, e «stereometrico» (dizione di Mandel’štam), che occorre vedere la «parola» (del linguaggio poetico) dall’interno e dal di fuori, da destra e da sinistra, dall’alto e dal basso (dizioni di Mandel’štam)… e che questa particolare attitudine del linguaggio umano e di quello poetico è una attitudine naturale… soltanto le stratificazioni culturali ottundono lo sguardo costringendoci ad un VEDERE istituzionalizzato ed nomologato.. La poetica dell’acmeismo, nelle intenzioni del poeta russo mirava a mettere in risalto le cose non solo perché esse sono cose in senso ontologico ma perché le cose nel linguaggio sono altra cosa dalle cose in sé. Mandel’štam diceva che «bisogna considerare la parola come un fascio, ed il significato si stacca da esso in varie direzioni senza però dirigersi verso alcun punto ufficiale».
Straordinaria e acutissima intuizione.
da Il fornello a petrolio di Osip Mandel’štam
I
Le belle gallinelle andarono dalle spocchiose pavonesse:
“Dateci almeno una pennuccia, suvvia, coccodè – coccodè”
“Ci mancherebbe altro!
Che vi siete messe in testa?
Pensate: a cosa vi serve?
Noi non siamo vostre amiche: ma pensa, coccodè – coccodè”
II
Un pan di zucchero
né morto né vivo.
Hanno preparato del tè fresco:
serviteci pure lo zucchero!
III
Per guarire e lavare
Il vecchio dorato fornello a petrolio,
gli tolgono la testolina
e lo riempiono d’acqua.
Il ramaio, dottore del fornello a petrolio,
guarirà il fornello malato:
lo pulisce con l’ago sottile.
IV
Amo molto la biancheria,
sono amico di una camicia;
non appena la vedo –
stiro, ripasso, scivolo:
– Se voi sapeste quanto
mi fa male stare sul fuoco!
V
“Per me che sono non bollito, rozzo,
è facile diventare yogurth!”
diceva a quello bollito
il latte non bollito.
Ma quello bollito
risponde con dolcezza:
“Io non sono un completo rammollito:
ho la pellicina”.
VI
– Nel samovar e nel bicchiere
e nella brocca e nella caraffa
tutta l’acqua è di rubinetto.
– Non rompere il bicchiere!
– Ma l’acquedotto,
dove
prende
l’acqua?
VII
Piange il telefono di casa,
due minuti, tre, quattro.
Tace ed è tutto imbronciato:
ah, nessuno ha risposto.
“Vuol dire che sono del tutto inutile,
sono offeso, sono raffreddato:
i telefono-vecchierelli –
loro sì che capiranno i miei squilli!”
VIII
Se vuoi, tocca!
E’ appena caldo il palmo della mano:
io sono l’elettricità – il fuoco freddo.
Il sottile carboncino
arricciato come un capelluccio:
la lampadina non riscalda, però risplende.
IX
Perché, fotografo, ti nascondi?
Perché hai fatto una cortina con il fazzoletto?
Vieni fuori, scatta al più presto:
ti nasconderai dopo.
Soltanto gli struzzi nel deserto
nascondono la testa sotto l’ala.
Ehi, fotografo! E’ maleducazione
dormire in pieno giorno!
X
Hanno comprato i violinisti
al mercato delle pagnottelle
e nel battibecco sono toccate
ai trombettieri le sole ciambelle.
DUE TRAM: CLIC E TRAM
C’erano in un parco due tram:
Clic e Tram.
Ogni giorno uscivano insieme
sul far del mattino.
La strada-bella bella, madre di tutti i tram,
ama strizzare l’occhiolino allegramente con l’elettricità.
La strada-bella bella, madre di tutti i tram,
ha mandato gli spazzini a spazzare i binari.
Per colpa dello scampanellio e del sobbalzare ad ogni giunto
dei binari a Clic doleva la piattaforma.
*
Di sera gli si chiudevano i fanali,
dimenticò il suo numero; non era il quinto, nemmeno il terzo…
Sghignazzano su Clic il cocchiere e i bambini:
– Che il tram morto di sonno, guarda!
“Dimmi bigliettaio, dimmi autista,
dove sta mio cugino Tram?
Io lo riconosco sempre dagli occhi,
dalla piattaforma e dalla schiena gibbosa!”
La strada cominciava ai cinque angoli
e finiva vicino ai giardini grandi.
Era tutta duramente calpestata dai cavalli,
era tutta annerita dal passare della gente.
Aveva mandato avanti i binari argentei.
Da tempo non si vedeva Clic: perché non viene?
Chi sbircia nell’oscurità coi fanali?
E’ Clic che si è fermato sul ponte
e lacrimano fuochi di vari colori:
– Ehi, autista, sono stanco, portami a casa!
Ma Tram, scricchiolando-scricchiolando, lascia andare fuochi d’artificio;
ma Tram non vuole andare al parco,
tuona più rumorosamente degli altri.
Sulla torre della stazione splende
un orologio dal viso rotondo,
le lancette si muovono lungo il piatto
come baffi neri.
Qui i tram come oche
girano.
Tram insieme agli amici
bighellona.
– Ecco, vola una macchina-autocarro –
Non mi fa paura. Io sono un tram. Ci sono abituato.
Ma dite, dov’è mio fratello? Dov’è il mio Clic?
– Non ne sappiamo niente,
non l’abbiamo visto.
– Dimmi, occhiuta casa di pietra
a sette piani,
con tutte le finestre vedi
tre strade intorno,
non hai sentito parlare di Clic,
del giovane tram?
La strada gli rispose a brutto muso:
– Gente di questo tipo ne è passata tanta qui.
Voi, amiche-macchine,
popolo assai educato
e che sempre, sempre
cede il
il passo ai tram,
parlatemi di Clic,
del tram-poverello,
di mio cugino
dal fuoco rosa-pallido.
– L’abbiamo visto, l’abbiamo visto e non l’abbiamo offeso.
Sta in piazza – come il più stupido di tutti.
Un occhio rosa, l’altro più scuro.
– Prendimi la mano, autista, prendi,
andiamo da lui il prima possibile,
lui parla lì con cavalli sconosciuti,
è il più giovane e il più inesperto di tutti.
Andiamo là da lui e troviamolo.
E Tram trova in piazza Clic.
E il tram disse al tram:
Clic, avevo nostalgia di te
e sono molto felice di sentire
come suonano i tuoi campanelli.
Ma dov’è il tuo occhio rosa? Si è accecato.
Ora ti metterò sul rimorchio:
sei più giovane – fatti rimorchiare!
(1925)
giorgio linguaglossa
10 marzo 2023 alle 17:09
L’aspetto più straordinario di queste “nugae” di Osip Mandel’stam è che lui non tratta le parole come parole ma le parole in quanto immagini, le sue composizioni per bambini si rivolgono direttamente alla mente dei fanciulli i quali sono, è notorio, i meno esposti alle ipomnemata che derivano dall’educazione sociale che normalizza la loro immaginazione e il loro gusto. I bambini per Mandel’stam sono liberi di immaginare, cosa che invece gli adulti non fanno più perché hanno smesso di immaginare, quindi Mandel’stam si rivolge alle capacità che i bambini hanno di immaginare e di vedere con «sguardo sincipitale» a partire da una o più immagini combinate. Le sue poesie per bambini partono dal medesimo concetto delle immagini combinate e dello «sguardo sincipitale». Così il lettore, cioè il bambino, viene assunto e innalzato a vero interprete delle poesiole, i destinatari diventano i bambini e solo i bambini essendo gli adulti ormai irrimediabilmente compromessi nella normologia che richiede la poesia come una colonna sonora con tanto di rime e anti-rime e tanto di colonna sinfonica che finiscono per addormentare il lettore piuttosto che risvegliarlo. Il poeta russo è anche qui impegnato in una battaglia culturale contro la poesia simbolista che privilegiava la colonna sonora e il gioco fonosimbolico. Con queste poesiole per bambini Mandel’stam si situa tra i grandi innovatori del linguaggio poetico del XX secolo e uno dei punti di riferimento per la nuova fenomenologia del poetico che noi stiamo facendo indirizzandola sia agli adulti che ai bambini. Anzi, io consiglierei di leggere ad alta voce stentorea le poesie kitchen ai bambini, vedrete che loro le capiranno, rideranno di gusto alle acrobazie dei non-significati.
antonio sagredo
11 marzo 2023 alle 0:54
poesia di Mandel’stam
Leggere solo libri per bambini,
vezzeggiare soltanto pensieri infantili,
spazzar via lontano tutto ciò che è per i grandi,
sorgere dal profondo dolore.
Io sono stanco mortalmente della vita,
non accetto nulla da essa,
ma io amo la mia povera terra
perché non ne ho vista un’altra.
Io mi dondolavo in un lontano giardino
su una semplice altalena di legno,
e gli alti, cupi abeti
ricordo nel nebbioso delirio
1908
(trad. di A. M. Ripellino)
(mia nota 254, p. 117)
(dal Corso su Mandel’stam di A. M. Ripellino 1974\75)
Forse Mandel’štam allude ai celeberrimi racconti in versi e fiabe per l’infanzia di Kornej Čukovskij, famosi anche perché gli animali erano i veri protagonisti; furono scritti prima della Rivoluzione d’ottobre e questo sembra combaciare con la data 1908, cioè di un Mandel’štam quasi 18enne, ma conoscitore di queste fiabe; che furono proibite negli anni ’30, in pieno regime sovietico.
Fare una poiesis priva di identità.
Fare una poiesis priva di identità. È questo uno dei compiti della «nuova poesia». I poeti italiani del secondo novecento, da Alfredo de Palchi (1926-2020), a Franco Fortini (1917-1994), come tutti i poeti dell’epoca del post-moderno, hanno perseguito una poesia della identità fortemente definita, ma oggi siamo entrati in una nuova epoca, che ci richiede di fare una poesia senza carta di identità, senza indirizzo del mittente e del destinatario.
Forse oportet dire ai poeti di esercitarsi a non essere un poeta, che la poesia è una pratica di vita e nient’altro, una pratica che maneggia le parole, che essa è un’etica proprio in quanto esula dall’etica, non perché l’estetica venga prima dell’etica, in realtà etica ed estetica erano un tempo un tuttuno e lo sono anche oggi. Il poeta del 2023 non ha più a che fare con il «sacro», con il recinto delle parole che abitavano un tempo lontano una patria metafisica, oggi un poeta può al massimo condividere un condominio linguistico, è un condomino, un affittuario di parole. Un poeta non può tradire le sue parole, ma le parole, sì, le parole lo possono tradire.
Oserei dire che la «nuova poesia» è un tentativo radicale di costruire una ontologia priva di identità, ma non perché c’è una sola sostanza per tutti gli attributi, quanto perché non c’è più sostanza alcuna ma solo attributi di un soggetto privo di soggettività e di identità. Fantasia e realtà si dice che dopotutto sono fatti della medesima sostanza, no?, forse, davvero, dobbiamo tornare a pensare che tutto è sostanza e tutto è fantasia. L‘ idea di Agamben della possibilità che la nostra vita plasmi l’archetipo sulla base del quale siamo stati creati, dice con tutta evidenza l’importanza assegnata dal filosofo al principio poietico dell’immaginazione, quella facoltà capace di plasmare le ipomnemata. E dato che non vi è memoria senza immagine e senza immaginazione, come ci ricorda Agamben per il tramite di Aristotele, la storia dell’umanità è sempre stata una storia della lotta tra le immagini e i fantasmi; più precisamente, è vero il contrario di quanto comunemente si crede: è la realtà che viene edificata tramite l’immaginazione poetica e noetica.
Rispondo a 360 gradi al Sig. Presidente del consiglio italiano più ignorante della storia d’Italia.
Complimenti per il suo lessico a 360 gradi.
….ma torniamo a Mandel’štam, di grazia, per i bambini del poeta, che è meglio…
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(dalla mia nota n. 50, p. 19, del Corso monografico sul poeta di A. M. Ripellino):
“Nataša Štempel nei suoi ricordi sull’amico-poeta Mandel’štam degli ultimi anni a Voronež scrive che andarono a vedere insieme i film di Chaplin. Vedi anche nota n. 80, p. 30. ////// Per curiosità: in America, nell’estate del 1930 il regista Ejzenštejn visitò Charlie Chaplin nei paraggi dell’isola di Catalina: vi è una foto dove entrambi sono in compagnia di Eduard Tissé e Giorgia Hayle. Parlando dei bambini Chaplin riferì a Ejzenštejn che odiava i bambini, che non li poteva soffrire! Al che commenta il regista russo: ”L’autore del Monello, che ha fatto piangere cinque sesti del mondo sulle sorti di un bambino abbandonato, non ama i bambini. È forse una belva? – ma chi è che di regola non ama i bambini? – Solamente… gli stessi bambini”; riportato in L’Europa Letteraria, giugno-settembre 1964, p. 126. (articolo di Fabio Carpi)”.
(dal Corso monografico segue commento di A.M. R., p.54:
“ I Mandel’štam cambiarono più volte casa, perseguitati dai proprietari. In fondo essi non avevano mai avuto una casa propria, tranne quel periodo a Mosca, in quell’appartamentino e senza alcun diritto, sempre sotto la minaccia di un nuovo arresto. Il ’35 e il ’36 è un’epoca di estrema povertà per loro. Egli fa piccoli lavori a Voronež; all’inizio fa il direttore letterario del teatro locale, e lavorò anche per la radio locale, facendo delle brevi introduzioni per trasmissioni musicali, in particolare per Orfeo e Euridice di Gluck; tradusse persino canzonette napoletane per una cantante e fece piccole trasmissioni per i bambini; soprattutto lo aiutavano gli artisti locali in gran parte esiliati che avevano dato vita a questo teatro”.
Questa che via è?
La strada di Mandel’štam.
Che diavolo di cognome è!
Comunque tu lo giri,
sempre storto suona, e non diritto.
C’era in esso poco di lineare.
Di costume non era gigliale,
e perciò questa strada
o meglio questa fossa –
così si chiama dal nome
di questo Mandel’štam.
aprile 1935, Voronež
(trad. di A.M. Ripellino).
(dal Corso monografico segue commento di A.M. R. p. 81):
“Questa, oltre ad essere parodistica, è una poesia amara – “Mandel’štam” non è una parola magica per lui, come Ligeja, Solòminka, Seraphita, è una parola collegata con tutta una serie di avvenimenti tragici. Mandel’štam amava gli scherzi in versi, scriveva per bambini, e qui c’è questa ironia su se stesso. La poesia coincide con un passo della Quarta prosa, in cui dice (“come se parlassero i burocrati dell’Unione degli Scrittori o i poliziotti).”
(dal Corso monografico segue commento di A.M. R. p. 150 e p.151):
“Questa poesia è dedicata a Marina Cvetaeva, scritta nel 1916, quando la Cvetaeva condusse per Mosca più volte Mandel’štam facendogliela (come dice lui) conoscere – non perché era lì per la prima volta, ma perché la Cvetaeva lo introdusse in tutte le minuzie storiche e architettoniche di Mosca”.
Su una slitta coperta di paglia,
appena appena coperti da una stuoia fatale,
dalle Montagne dei Passeri alla chiesetta sconosciuta,
noi andammo per l’enorme Mosca”.
Ma a Uglič giocano i bambini a dadi,
e odora il pane lasciato nel forno.
Per le strade mi portano senza berretto
e nella cappella mandano fioca luce tre candele.
1916
(trad. di AMR)
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(da mia nota 297, p. 151):
Il castello di Uglič (città storica vicino a Jaroslav), dove venne rinchiuso e ucciso lo zarevič Dmitrij. – “giocano i bambini a dadi”. Registra – da Ripellino – la slavista Scandura che i dadi (gli astragali) “sono gli ossi del tallone degli agnelli; e che inoltre il primo verso dell’ultima strofa è una “reminescenza di Chlebnikov”.
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Dal poemetto “Armenia”
II°
La rosa di Hafiz tu hai cullato
e bestioline-bambini,
e respirato hai dalle spalle ottogonali
di chiese bovine di campagna.
Di fioca ocra schizzata sii,
intera, lontana al di là del monte:
e qui, sul piattino, unica piccola figura
umana asciugata dall’acqua.
(trad. di A. Sagredo)
(da mia nota 317, p. 168):
Mandel’stam sentì parlare dell’Armenia nel 1916 dal poeta simbolista Valeirj Brjusov al Museo Politecnico di Mosca; conoscerà e tradurrà il poeta armeno Kara Darvish (1872-1932) già nel 1921 a Mosca. Farà un viaggio di pochi mesi in’Armenia nel 1931, se ricordo bene da maggio a settembre; e nel 1931, a Mosca, scriverà due poesie: Su un alto valico di montagna (На высоком перевале) e Come la grandezza\mole\ del popolo (Kak нapoднаиа громада).
(da mia nota 318, p.169):
Hafiz (o Hāfez – 1310/15 -1389/90), pseudonimo di Hams ad-Din Muhammad, poeta persiano e mistico sufi; maestro del Corano, il suo nome significa in arabo “Colui che conosce il Corano a memoria”. Il suo Canzoniere -“Divan” – è composto da 500 componimenti lirici, detti “ghazal”. Cantò l’amore, la gioia e il vino, l’ebbrezza che ne deriva. Tradotto all’inizio dell’800 per la prima volta in lingua tedesca, influenzò Goethe (Divano orientale-occidentale) e il filosofo americano R.W. Emerson (Persian Essays). Questa poesia è presente nel Corso in grafia cirillica russa; mancante è la traduzione e il commento di A.M. Ripellino. La traduzione di questa poesia (II°) è di Antonio Sagredo (ADP). /////// хриплый (-ое) è fioco (-a), roco (-a) ; “di roca ocra” è una sorta di sinestesia! – una figurina, dunque si ottiene asciugata dall’acqua una decalcomania.
Dicono che io sono un poeta a 360 gradi.
A me basta un gradino… ma sulla soglia giusta a 360 gradi…
Artisti poveri ma importanti.
Oggetti natalizi. Kitchen haiku d’esportazione.
Instant poetry.
Nuotatore in vasca tiepida.
Al circolo dei defunti. Vento in poppa.
Uomo in bicicletta sotto la neve.
A capo di nulla.
Antico romano.
È vitello, spero ti piaccia.
LMT
Penso che la prosa abbia questa prerogativa: smuove la fantasia. Prosa e immaginazione sono tutt’uno, non puoi scrivere in prosa se manca l’immaginazione.
In poesia, la cosa che nessuno sa ma che tutti possono riconoscere, non è necessario avere immaginazione. In poesia sono le parole a farti immaginare; le parole creano senso e significato; non lo inseguono, lo generano. Tant’è che spesso il primo a meravigliarsi è proprio l’autore.
In poesia, anche nelle poesie più serie, il piacere che se ne ricava è dovuto al gioco, alla riuscita del gioco.
Il miglior pubblico, alle mostre di arte astratta, sono proprio i bambini. Ma il loro sguardo è assoluto, colori e forme devono essere contrastanti, il risultato lampante.
“Nuotatore in vasca tiepida” è un verso lampante. In Mandel’štam l’umanizzazione degli oggetti, la prosa con la sua carica immaginativa.
i bambini secondo Sagredo
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Ho visto migliaia di bambini girovagare come forzati dèmoni ovunque
con le pistole in mano per le città di Dio – la morte antelucana come compagna –
tutta la terra: dalle marce periferie dei sobborghi pustolosi ai centri spietati
e grassi celebrati dai tre culti mentecatti!
Miliardi di orbite deturpate da miliardi di affilati cavalli di Frisia,
carovane di occhi e d’infanzie devastate, rotule piagate e disossate
dai rostri aguzzini di frustate ferrigne,
come se i loro passi fossero maledetti ad ogni trivio
per aver sbavato dalla pelle lacrime scheletriche!
caro Lucio,
è vero, per scrivere in prosa devi avere immaginazione (ad es. un uomo apre la porta di una stanza. Il lettore non sa che cosa succederà dopo, quindi lo scrittore dovrà sorprenderlo con qualcosa che lui non si aspetta, questa è l’immaginazione. Lo scrittore può scegliere di rinviare l’accadimento, e allora dovrà inventarsi una micro storia che ritardi l’evento principale, che so: un omicidio, un salto mortale, un incontro fortuito che cambia il destino del personaggio etc.). In poesia, purtroppo, non è richesta nessuna immaginazione ma solo delle parole da infilare in un filo di collana. Più parole ci metti tanto più la poesia sembrerà buona e l’autore intelligente. Il che è abnorme. In verità, le parole, nessuna parola fa una poesia, in questo poesia e prosa oggi si sono molto avvicinate. Il lettore non ha tempo da perdere, vuole andare subito al dunque, di qui il successo del ‘giallo’ nel mondo moderno; nel giallo c’è una lotta tra il detetctive e il delinquente, in poesia non c’è un detective, l’autore è solo con se stesso e deve trovare fuori di sé gli espedienti che attirino il lettore alla lettura. La quasi totalità dei libri di poesia (diciamoci la verità) è assolutamente illeggibile, si muore di noia perché sono fatti di parole, parole, parole. Quando invece le parole andrebbero usate cum grano salis e con spartana economia.
Scrivere di bambini non significa che sia adatto a bambini.
Combatto ogni santo giorno della mia vita per costruire speranza per i bambini.
Oggi i bambini sono sempre più tristi e depressi. Rischiano di perdere il bene prezioso dell’infanzia, rischiano di essere anestetizzati al dolore, di diventare cinici e indifferenti.
Ridiamo respiro alle parole per i bambini, non asfissiamoli.
“Alba” di Giorgio Caproni
*
Amore mio, nei vapori d’un bar
all’alba, amore mio che inverno
lungo e che brivido attenderti! Qua
dove il marmo nel sangue è gelo, e sa
di rifresco anche l’occhio, ora nell’ermo
rumore oltre la brina io quale tram
odo, che apre e richiude in eterno
le deserte sue porte?… Amore, io ho fermo
il polso: e se il bicchiere entro il fragore
sottile ha un tremitìo tra i denti, è forse
di tali ruote un’eco. Ma tu, amore,
non dirmi, ora che in vece tua già il sole
sgorga, non dirmi che da quelle porte
qui, col tuo passo, già attendo la morte.
La noesi della poesia elegiaca è una tecnesi, ovvero, un il prodotto eufonico di un campionario organologico che traccia una genealogia organologica. Si tratta ora di mostrare perché e come questa genealogia organologica collima con quella dell’economia libidinale e di una postazione ideologica, più precisamente di una economia libidinale in quanto caratterizzata dalla capacità che ha l’elegia di fissare una tecnesi e una noesi, di cui essa è la rappresentante dell’economia libidica, cioè una attività di trasformazione, di azione e di fissazione su degli oggetti continuamente ritrovati. L’elegia implica sempre un ritrovamento e una noesi rivolta al tempo passato, nonché, una implantologia di strumenti: una organologia non vale l’altra, una organologia elegiaca implica e riflette una economia libidinale sostanzialmente basica e statica, come quella presente nella poesia di Caproni.
Una poesia per bambini invece implica l’adozione di una implantologia organologica ontologicamente «altra» che corrisponde ad una «altra» economia libidinale come quella dei bambini che sostanzialmente è rivolta al tempo futuro e implica una attività per il futuro.
Una nuova forma artistica implica sempre una defunzionalizzazione e una rifunzionalizzazione delle precedenti noesi e tecnesi, in altre parole implica l’invenzione di una nuova economia libidinale assolutamente moderna, perfino ultramoderna. Resta il fatto che questa rivoluzione noetica e tecnesica coinvolge un drastico ricambio della implantologia organologica che corrispondeva allo statu quo ante. Questo fatto è immaginabile, quindi può diventare reale, si tratta soltanto di riuscire a pensare l’immaginabile.
[organologia: elenco degli strumenti musicali di una data epoca]
“Penso che la prosa abbia questa prerogativa: smuove la fantasia. Prosa e immaginazione sono tutt’uno, non puoi scrivere in prosa se manca l’immaginazione”. (Mayoor Tosi)
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Non si tratta di pensare: è così e non può essere altrimenti.
Non appena sarà pubblicato il mio racconto “picaresco” l’ARRABBICO, sentirai e vedrai (si tratta di visioni!) di FANTASIA E IMMAGINAZIONE ne troverai a ufo: creazione lla stato puro… Ti spedirò una copia, una sorta di cornucopia linguistica.
ciao, Antonio
Risposta alla Domanda:
Quale poesia scrivere nell’epoca della Fine della metafisica?
La «nuova poesia» crea le sue «nuove» categorie ermeneutiche. La «nuova poesia» è nient’altro che «una messa in scena» con annesso e connesso la abolizione del simbolico e del sublime. La sublimazione presuppone la rimozione, è per questa ragione che la «nuova poiesis» avendo abolito la sublimazione può fare a meno, correlativamente, anche della rimozione. Una volta libera da questi due estremità la «nuova poiesis» può estendersi sulla superficie della estimità, essenso libera anche della intimità o interiorità che della rimozione ne è storicamente il prodotto alienato e contraffato.
La nuova fenomenologia del poetico, la poetry kitchen, si muove all’interno di una zona di interoperabilità tra gli oggetti e gli attanti, una zona di discretizzazione di tutte le funzioni della trasduzione, essendo la trasduzione nient’altro che il processo di trasformazione (interoperabilità) degli elementi che non esistevano prima che prendesse luogo il rapporto di trasduzione; è solo un gioco di specchi – direbbe il mago Woland – un gioco di scacchi, di fuochi d’artificio, una collezione di figurine bizzarre, una bizarrerie. La «nuova poesia» preferisce la folla e il rumore al silenzio ovattato della poesia elegiaca e del romanzo memoriale, è affollata in modo assordante dalla presenza del «mondo», in essa si assiste al «mondeggiare» del mondo e al «coseggiare» delle cose con tutte le loro acrobazie e follie; heideggerianamente, c’è la presenza della «terra», con tutta la sua pesantezza e voluminosità che ingombra. Le funzioni poetiche diventano così meri espedienti. E gli espedienti diventano meri scambi di interoperabilità degli elementi del rapporto trasduttivo.
Che altro è l’espediente della «pallottola» che nella poesia di Gino Rago attraversa ampi spazi e svariatissimi personaggi di plurimi tempi se non una relazione trasduttiva, un colloquio costante con la morte?, con la sua presenza ingombrante?; che altro sono gli inciampi linguistici e gli shifter, gli scambi di binari semantici di Francesco Paolo Intini se non l’ossessione della pulsione di morte dei significati convalidati dalla pratica sociale?, che cosa sono quei «pendeloques» (ciondoli) di Marie Laure Colasson se non manifestazioni del «mondeggiare» degli oggetti ovunque si volga lo sguardo?, quel «mondeggiare» che avviene in una condizione di assenza di orizzonte?, anche le «descrizioni» di Vincenzo Petronelli in realtà sono espedienti che portano fuori strada il lettore, interpretano una variante di quel «mondeggiare» privo di mondo e di orizzonte che è nient’altro che la nostra epoca glocale. Secondo il filosofo marxista Slavoj Žižek la freudiana pulsione di morte deve essere adottata quale categoria centrale del capitalismo. La pulsione di morte abita il cuore del capitalismo odierno. La poetry kitchen è ossessionata dalla presenza di questa pulsione di morte che tenta di esorcizzare con un caleidoscopio di immagini, di figure, di icone, di avatar e di situazioni ultronee, ma si tratta pur sempre di un esorcismo, in realtà la pulsione di morte è la protagonista assoluta della poesia kitchen che avviene mediante una «messa in scena».
La pop-poesia kitchen può essere letta da chiunque eserciti una professione utile ma non da un impiegato della pseudo cultura: un negoziante, un orologiaio, un barista, un bambino, chiunque tranne che da un letterato.
«Noi figli degli anni più belli», recita la pubblicità di Facebook. È vero, adesso noi, figli degli anni più belli abbiamo tra le mani un linguaggio di rottami, di rifiuti, di remainders, ed è con questo lessico che dobbiamo puntellare le nostre capanne per l’inverno che verrà. In distici, in tristici o in quadristici il kitchen è un discorso sulla tristizia del linguaggio de-politicizzato e privatizzato che usiamo tutti i giorni. Il fatto è che quel linguaggio si era decomposto già da tempo, il fenomeno era già da tempo sotto i nostri occhi, ma non volevamo vederlo. La decostruzione è già avvenuta e avviene continuamente tutti i giorni e tutti i momenti ad opera delle Agenzie emittenti dei media che emettono vomito linguistico profumato in miliardi di esemplari. Ma, gratta gratta, resta vomito. Così, ogni discorso diventa un percorso kitchen ad ostacoli.
Bisognerà chiedersi se la museruola lasciata al bulldog rientri nel silenzio dell’Essere. Andiamo tutti in giro con una museruola, solo che non ce ne accorgiamo; diciamo frasi fatte, frasi obbrobriose e intonse per la loro insignificanza. Tutto ciò «nel silenzio dell’essere». Non è drammatico se non fosse comico? Drammatico e demiurgico e demoscopico con un algoritmo che decide del nostro linguaggio de-politicizzato profumato all’aloe. È che «l’essere svanisce nell’Ereignis», «l’essere svanisce nel valore di scambio», ha scritto più volte Heidegger. Davvero, delle frasi così potrebbe sottoscriverle anche un filosofo marxista, e magari verrebbe tacciato di estremismo infantile. E invece le ha scritte Heidegger.
(Giorgio Linguaglossa e Marie Laure Colasson)
Marie Laure Colasson
Poesia n. 34 della raccolta Les choses de la vie (Progetto Cultura, 2022).
34.
Des pendeloques en or et en cellules d’apocalypse
se dessinent sur le visage de Petr Král
Kandinsky et Klee combat de pensées sous presse
refusent de se fourrer des pois chiches dans le nez
Voltige de mouettes dans la cuisine
se ruent sur les épluchures et la poignée du réfrigérateur
La blanche geisha se parfume à l’acide acétique
ne laissant aucun reflet dans le miroir
Eredia et Kantor poursuivent leur route
contre l’ingérence en construisant des emballages
Král Kandinsky Klee Kantor mettent en scène la blanche geisha et Eredia
créant l’impensable et l’impossible
La débauche terminée les mouettes
laissent des empreintes sur la sable
Des rides sur la mer
des cris et de funestes cercles dans le ciel.
*
Ciondoli in oro e in cellule d’apocalissi
si disegnano sul volto di Petr Král
Kandinsky e Klee combattimento di pensieri sotto la pressa
rifiutano di ficcarsi dei ceci nel naso
Volteggiano dei gabbiani nella cucina
si affollano sulle bucce e la maniglia del frigorifero
La bianca geisha si profuma all’acido acetico
senza lasciare alcun riflesso nello specchio
Eredia e Kantor proseguono la loro strada
contro l’ingerenza mentre costruiscono imballaggi
Král Kandinsky Klee Kantor mettono in scena la bianca geisha e Eredia
creano l’impensabile e l’impossibile
Finita la deboscia i gabbiani
lasciano delle impronte sulla sabbia
Delle rughe sul mare
delle grida e dei cerchi funesti nel cielo
Mimmo Pugliese
Il tango ha i capelli ricci
Hai nascosto le parole dietro i denti della pioggia
le matite accanto ai gatti sugli scafali del metaverso.
La memoria degli aghi di pino
bussa alla catatonia del polonio.
Sulle sbarre di sabbia diventa latte il ritorno
girato l’angolo è magro il fruscio del segnalibro.
Tra virgole d’asfalto si riposano gli elefanti
sorvolano il sudore i citofoni delle banche.
La giacca di flash-back centrifuga bustine di thè
su ponti inesistenti resistono passeri rampanti.
Non ti hanno visto partire
erano spenti i semafori.
Ha capelli ricci il tango uscito dallo specchio
ZZzzz…ZZzzz… video in riconnessione…..
Fuori è pomeriggio
Il pomeriggio che abbaia
si perde dietro all’eco del labirinto
Un rumore di motori scende dai tetti
innervosisce le briciole, scompone il vento
Nella fessura degli armadi
la luce bagna impermeabili nuovi
Quando la collina naviga nella pioggia
sono àsole le canne sulla strada
Alberi che non ti sono mai piaciuti
sciolgono gli intrighi delle onde
Ha dita di sale la botola
che scrosta i muri alla fine del fiume
La traiettoria del sonno si lascia dietro
scarpe e cifre smaltate sulla camicia
Mordono la luna gli storni
mentre parli ai cani della vendemmia
Francesco Paolo Intini
MARLIN
Ci sono missili che fanno la spesa al supermercato
Comprano nature morte senza copyright.
E intanto che nel nervo X si elencano le sinapsi da bloccare
Bartolomeo Colleoni segna un punto nella partita a golf
Ma forse non c’è stato e dunque il fegato chiude il coledoco
dopo la pestilenza , subito dopo Pasqua, oppure prima della Lotteria
Anche ora che la minaccia sembra sepolta
I contromissili di questa parte mostrano grossi sigari dalle ogive.
Ci sarà come trovare aria pura negli intestini
Penetrare da qualche altra parte e respirare nel duodeno.
Nell’attesa che il pancreas blocchi il dotto
Una gru parla in Televisione di una foglia
Che si secca di scendere giù dall’ albero.
Rallegra un Marlin con la testata bionda
Più della moglie appena uscita dal parrucchiere
CARO DESTINO
C’è un destino sul fondo del tegame
Ne parla Tiresia su richiesta di Re Nasone
La condizione umana coperta di teflon
E la Sfinge che torna al suo quiz:
Quale caffè dopo il postmoderno?
Diresti che il pranzo è servito e il ragù galleggia sul Tg
Chi alza la mano per spostare un bicchiere
giura d’aver visto l’angelo ma un bagnino lo convince
che raccogliere bollini è il Bene dell’umanità.
Gazze e corvi continuano a beccarsi.
La peste diffonde le sue idee nell’intestino crasso.
C’è un’appendice che s’infiamma
Un’idea, l’immortalità del moplen
che scuote come un T-rex nell’ano.
La stessa carne esposta ai pesci
E dunque che vale spogliarsi di bianco
Rendere al blu le bare?
E’ un affaccendarsi di notai ed eredi al letto di morte.
Ah ma se facciamo firmare una Guernica
Finisce che la cornice ci fa causa!
La linfa sale alla testa del verde
Quanti giri fanno i sanfedisti?
La vista del mandorlo si annebbia
La lingua ingrandisce l’ascessi a spese del dentista cieco.
Affini! Macchinisti!
Grida Antigone che si sbellica dalle risate
scambiando Creonte per l’onorevole Trombetta.
Lucio Mayoor Tosi
Primo pomeriggio
Un sottopentola, o tovaglietta. Di paglia, un po’ sfrangiata ai bordi.
Per forza di colore bordò. Chiaramente usata.
Anche farsi una sigaretta. Tavolo con casamenti per l’intero universo.
Nessun profilo, tutte le cose messe di fronte.
Quando d’improvviso. / E’ l’ora dei nani, tre quattro mosse
in paradiso di coscienza. E lì scavare, scavare.
Grigio, colore dominante. Acqua di colonia. Blu e nero
il monitor confinante col cimitero.
Un campo di luce più ristretto di quello del sole. Ora
primo pomeriggio. Raggi dal sottosuolo bene attivi.
Fermo come impalcatura ascolto. Se cuore e bellezza
siano confinanti.
«Confina con me. Il sottopentola» dissi. Quindi lei
sbattè la porta. E giurò di non vedermi mai più.
L’importanza di ogni cosa è misurabile scandendo
ogni sillaba del prontuario “Nuovo tempo”. Metodi
per il soccorso giornaliero. Homo sapiens. Prima
del digiuno. Lui e la sua coorte di oggetti.
[Lucio Mayoor Tosi è pittore, art director, poeta, vive a Candia Lomellina, vicino a Milano, sta preparando da almeno dieci anni
la sua prima raccolta di poesie]
Una poesia, quella di Lucio Mayoor Tosi, che sopravvive priva di alcun principio gerarchico, direi anarchica, con un metro polisillabico in distici che sta lì come una sentinella armata; ma armata di che?, di nulla, direi, perché la poesia è costruita senza alcuna costruzione (costrizione), sembra nata già decostruita, già rottamata e buona per la pattumiera del non riciclo. Sembra quasi che l’autore di Candia Lomellina si diverta a produrre scarti non riciclabili, scarti inquinanti ma non tossici, scarti che aggiungono inquinamento a inquinamento, così, giocando spensierato e alleggerito da tutti i pesi, perché l’importanza di ogni cosa (non) è misurabile, e l’homo sapiens se ne sta lì «Lui e la sua coorte di oggetti».
Da queste poesie per bambini – si fa per dire – emerge uno stile originalissimo che trapassa le maglie della semplicità.
Nella poesia’ Due tram ‘ trovo straordinario il contrasto tra un’immaginazione senza tempo e un paesaggio urbano inattuale. Uno contrasto stridente capace di coinvolgere anche i bambini di oggi. Complimenti all’ombra per aver presentato questa prima assoluta in italiano
Penso che conservare e praticare un salutare pensiero laterale sia il viatico per scrivere e soprattutto leggere poesie per bambini e di bambini.
Tiziana Antonilli
Come mai nel Tempo innominabile che stiamo attraversando si torna a parlare di Avanguardia? Se qualcuno avesse voglia di scattare in avanti, qualche altro lo fa per dire che tutto è inutile, siamo impantanati nella postmodernità (categoria senza qualità che indica solo uno sfinimento). È buffo notare che l’espressione «d’avanguardia» o «all’avanguardia», più che secolare, viene ormai usata disinvoltamente quale innocuo luogo comune, con appena una stinta sfumatura del vecchio significato. La si sente ricorrere nelle cronache degli spettacoli e delle sfilate di moda, nell’ambito della tecnica e negli annunci pubblicitari, nelle circostanze più spigliate e negli articoli in lode di illustri defunti.
È diventata un ammicco, e tutti capiscono di coltpo che è un tratto davvero distintivo. Recentemente Alessandro Baricco, giovane e grazioso scrittore che fa lo sciolto per inclinazione naturale e anche penso per teatro, ha detto in un’intervista che non bisogna prendere troppo sul serio i libri, aggiungendo subito dopo che «Il libro è uno strumento come un altro, ma uno strumento che considero ancora d’avanguardia». S’intende, il libro in quanto tale, «come oggetto da tenere in mano, da annusare».
Da questo simpatico punto di vista autopromozionale, gli oggetti e gli atteggiamenti d’avanguardia si sprecano tranquillamente. (Però temo che Baricco abbia in fondo ragione: quando i più godono alla grande del diritto d’ignoranza, anche “annusare” un libro dev’essere una prova di vitalità intellettuale). All’insistere del luogo comune, dell’ammicco e dell’atteggiamento, fa oggi riscontro l’assenza (o chissà la vita sommersa) della vera Avanguardia, ossia della Cosa letteraria e artistica che la parola, piaccia o non piaccia, ha sempre detto da dentro la Tradizione Moderna, e potrebbe anche voler dire nel tempo postmoderno di oggi.
La Cosa è tutt’altro che pacifica e spesso è stata in dissidio con la parola. La quale connotò, prima del 1848, in Francia, il radicalismo politico di sinistra e la tendenza di chi concepiva le arti strumenti d’azione sociale. L’espressione «letterati d’avanguardia» mandava in bestia Charles Baudelaire, che vi leggeva orripilato la metafora militare (una metafora coi baffi). Quei mediocri letteratucoli di sinistra erano «all’avanguardia» del popolo? Lui se ne stava all’inferno, e girandolava da sé solo. Soltanto più tardi, intorno al 1880, la connotazione puramente estetica della parola «avanguardia» acquisterà autonomia.
Ma ciò ai nominalisti non è mai bastato. La ripugnanza bodleriana per la metafora militare è stata ripresa e ripetuta fino alla noia da critici e scrittori di mezzo mondo. Costoro (ce n’è ancora che la scambiano per un argomento) avrebbero dovuto e dovrebbero domandarsi: ma la posizione di Baudelaire, come quella del coetaneo Flaubert, non fu obiettivamente d’avanguardia? Non si dovrebbe concedere che la Cosa agisce indipendentemente dalla parola? Non dobbiamo ammettere che dopo Baudelaire, grazie al suo influsso, sono nati i primi movimenti d’avanguardia moderni: l’italiana Scapigliatura, il simbolismo, il decandentismo? E, per fare un buon salto indietro, i movimenti preromantici e romantici, lo Sturm und Drang, il gruppo della rivista Athenaeum dei fratelli Schlegel, l’anticlassicismo col suo rifiuto dell’imitazione e dell’autorità dei canoni, tanto per ricordare qualche esempio, che cosa furono se non protoavanguardie?
La Cosa che la parola aiuta a dire si definisce dalla tendenza, dal linguaggio, dalla visioni caretterizzanti certe opere che sono state e sono contro la comoda e alienante gestione della Continuità Storica. L’Avanguardia non si definisce soltanto dai proclami e manifesti, non necessariamente dalle opinioni delgi autori, non dalla loro eventuale appartenenza o non appartenenza a gruppi e consorterie di iniziati, anche se tutto questo può avere la sua importanza. L’Avanguardia s’infila nelle fessure e fratture della Storia rendendole visibili, bellamente o sgradevolmente visibili e folgoranti… Qualcuno ha detto che l’Avanguardia è nomade, si sposta di qua e di là, può esplorare, attraversare le frontiere, e può anche fermarsi a lungo in un lavoro solitario. Essa trova posto in una teoria estetica, come nella Lettera del veggente di Arthur Rimbaud e nei Manifesti futuristi, o in un romanzo apico alla rovescia come Ulisse di James Joyce. La Musa esigente dell’Avanguardia è l’assillo bodleriano di trovare il nuovo, sono le invenzioni d’ignoto di Rimbaud. Ed anche il gaio spirito d’irrisione di Alfred Jarry, è la leggerezza maliziosa e «indolore» delle poesie di Palazzeschi.
Inutile insistere su questi punti. Il nuovo a cui aspira l’Avanguardia non è la novità di stagione. Contrariamente a quanto dicono molti, l’Avanguardia mira all’assolutezza del risultato. È contemporanea di se stessa.
Perciò la famosa formula di Rimbaud, – «La Poesia non ritmerà più l’azione; sarà innanzi» – anch’essa ripetuta e citata fio alla noia – se letta nel contesto della Lettera del veggente si palesa per quello che è: non una metafora spazio-temporale, ma un principio ideativo. Innanzi (en avant) sarà la lingua che riassumerà tutto dice Rimbaud…
La poesia kitchen è adatta ai bambini, gli adulti sono del tutto inadatti alla lettura di una poesia kitchen, a meno che non ridiventino bambini.
Ormai siamo usciti fuori dalla forbice concettuale Avanguardia Retroguardia tipica del novecento, la poesia non è più en avant (Innanzi) come asseriva Rimbaud, non è da nessuna parte, il linguaggio poetico non abita più un luogo posto in avanti ma in un luogo che non si trova in nessun-luogo. Il linguaggio poetico se è nuovo è un senza-luogo. La poesia che verrà dopo la fine del novecento, quella rara che resisterà all’oblio, sarà una poesia-fuori-luogo. L’articolo di Alfredo Giuliani in pieno 1996 mi suscita tenerezza, tenta disperatamente di raddrizzare un ferro irrimediabilmente curvo, oggi i Baricco che annusano i libri invece di leggerli, si sono moltiplicati… nel 1996 muore Giorgia Stecher l’ultima poetessa elegiaca del novecento, che scrive un’ultima poesia stilisticamente compiuta, legata al passato, alla tradizione, dopo di lei non sarà più possibile scrivere una poesia elegiaca. E questo qualcosa vorrà pure dire, no?
Occorre pagare le spese condominiali arretrate
La nuova fenomenologia della poiesis ha pagato tutte le spese condominiali arretrate e ha chiuso la contabilità del novecento.
La nuova fenomenologia del poetico, la poetry kitchen è diretta per eccellenza alla mente recettiva dei bambini, ha in sé una forza tellurica dirompente che viene agita e agitata da un pluripolittico di frasari di spuria e allotria provenienza, un mix e un mash up di polinomi frastici, un remix, un blow up, un rewind, un «gioco» di citazioni dei linguaggi del mondo delle Agenzie linguistiche («lo stato di cose esistente» di Marx in versione attuale) che intende sovvertire la lettura normologante del mondo. Una sorta di remix e mash up di linguaggi radiofonici, telefonici, privati e mediatici, di voci interne e di voci esterne, di interferenze, di entanglement. Smash and mash up, potremmo dire riepilogando.
La poetry kitchen contiene in sé una carica di libertà, di vivacità, di allegria e di sedizione veramente rivoluzionaria, incontenibile, imprevedibile; mi fa piacere esperire questa magnifica espressione di libertà e di ilarità che mette all’asta il minimalismo elegiaco svelandone l’arcano: che chi cerca il minimal prima o poi finirà con il trovarlo accontentandosi del minimal. Ma noi non cerchiamo il minimo, semmai, il massimo telluricamente esperibile e compossibile.
La poetry kitchen è una struttura complessificata che vede la convergenza di una simultaneità di spazi, di tempi (reali e immaginari). C’è una corrispondenza biunivoca fra la sintassi e la semantica: la semantica inaugura un movimento di sensi e di significati, costruisce una narrazione, una storia; la sintassi dipana un ordine, definisce uno stato, edifica una tradizione. La fine di una metafisica produce una lontananza, un distacco fra le cose, fra le parole e fra le parole e le cose; telos della poiesis è di stabilire un riavvicinamento, un diverso ordine tra le cose, fra le parole e fra le parole e le cose. La fine della metafisica è anche la fine della tradizione con tutte le sue categorie e si preannuncia con grandi sommovimenti e rivolgimenti dello «stato di cose esistente»; la poiesis non può che riflettere le forze soverchianti della storia che la producono. Così stando «lo stato delle cose esistenti», perorare la continuità della poiesis e della tradizione nello stato di cose esistente, è un atto politicamente regressivo, significa accontentarsi di salvaguardare la funzione ancillare e decorativa della poiesis.
Vincenzo Petronelli
Fragmenta historica
Latte di mandorla con ghiaccio sui tavoli del “Cafè de la guèrre”.
Lamarmora e Mancini decidono la formazione per la trasferta di Magenta.
“Sarà importante mantenere l’equilibrio tattico.
Dal nostro ombrellone vista-mare sapremo guidarvi all’immancabile vittoria”.
“Se avessi previsto il Narodni Dom, non avrei dipinto “Il Bacio””
confidò Hayez alla Signora Päffgen in una camera del Chelsea Hotel.
Il caffellatte nello scaldavivande in un ufficio della Zentralstelle in Wien.
Eichmann arriva di primo mattino canticchiando “Rhapsody in blue”.
“Il grande bulino è già in azione. Non pioveva sabbia da secoli
sul Danubio,
ma abbiamo già fatto saltare in aria il rapido 904 con le rane a bordo”.
Mosè stava ritto sulla cima del colle, con in mano il bastone di Dio.
A Theresienstadt in inverno si sta come in primavera.
“Si sieda rabbino; posso offrirle del latte nero?”
“Who by fire? Who in the night time?”
Sulla soglia della stazione di Rocchetta Sant’Antonio.
Alle spalle, Marcuse gusta dell’uva fragolina sotto un pergolato
in Abbey Road; davanti
il deserto del Negev: dobbiamo affrontarlo per intero
per approdare alla stanza-dimora di Mario Gabriele.
Da tempo ormai, non legge più “Satura”: ascolta heavy metal
e sorseggia Bourbon.
Tra poco, si festeggeranno le idi di marzo.
Il Signor Dobermann all’alba
accompagna i pochi vaccinati che si riuniscono nelle catacombe.
Pompei deflagrò quando chiuse l’ultimo cocktail bar.
“Le campagne sono tetre ed insicure signor generale: ci affidiamo alla Vostra guida”.
Un fax ingiallito del 476 D.C firmato Flavius Odovacer.
“Delenda Roma est”.
pseudolimerick per bambini
di Guido Galdini
c’è una giraffa seduta sul sofà
che ha ordinato una coppa di Campari
a chi le chiede: dimmi, come va
risponde: mica male i miei affari
vieni a sederti un poco qui vicino
che ci facciamo un giro di ramino
ma la giraffa è animale assai ingombrante
per alzarla ci vuole un carro ponte
così il malcapitato che ha subito
l’onore di ricevere l’invito
si è dovuto ridurre alla metà
per non essere invaso e stritolato
da quell’ampia giraffa sul sofà.